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Grazia Roncaglia: il segreto di una vera comunità? Una mente felice!

Il segreto di una vera comunità? Una mente felice e “connessa”

GRAZIA RONCAGLIA, INSEGNANTE E MEDITANTE, CI SPIEGA COS’È “L’EDUCAZIONE RISVEGLIATA”: CONSAPEVOLEZZA E ATTENZIONE AL “NOI”

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La scena si svolge in una classe delle elementari. I bambini hanno una gran voglia di parlare delle loro vacanze. Il rischio, però, è quello di perdersi nel chiacchiericcio, in cui i più vivaci parlano a ruota libera, i timidi si nascondono dietro il banco e nessuno ascolta davvero l’altro. Ma la maestra ha un’idea: perché non trasformare questo momento in un’occasione di ascolto profondo? La classe è entusiasta e tutti si trasferiscono nel “laboratorio del corpo” (ma può essere anche il “laboratorio del cuore”, il nome lo decide la classe). I bambini cominciano a camminare e quando suona il gong di una campana, si fermano vicino al compagno o alla compagna più vicino/a. Uno dei due racconta la sua vacanza, l’altro ascolta, e lo fa con tutta la sua attenzione, ascolta con le orecchie, con gli occhi, con il corpo. Poi le parti si invertono. Alla fine si ricomincia a camminare e l’operazione si ripete per tre o quattro volte. Risultato? Bambini sorridenti, tranquilli, che dicono: “È stato bellissimo! Mi ascoltava davvero!”. Perché non è una cosa che capita spesso, e quando accade, ti accorgi subito della differenza: l’ascolto vero ti fa sentire accolto, compreso, amato.

Ecco un esempio tra i tanti di ciò che accade quando l’insegnante applica gli strumenti dell’educazione risvegliata. Grazia Roncaglia ci ha scritto anche un libro due anni fa (Verso un’educazio-

ne risvegliata, edizioni Lindau), che è utilissimo a chi svolge il delicato ruolo dell’educatore, a scuola o in famiglia. Così come ha scritto, in passato, anche due manuali destinati ai più piccoli (Felice... mente - Un percorso di meditazione per bambini e ragazzi) e agli adolescenti (Connesso - A me stesso, agli altri, al Pianeta), che gli adulti dovrebbero utilizzare insieme a loro. Cosa significa “educazione risvegliata”? Innanzitutto vuol dire ricordarsi che «educhiamo esseri umani in tutti i loro aspetti, non solo cognitivi ma anche corporei, emotivi, relazionali, spirituali. L’educazione “risvegliata” cerca di essere libera dai condizionamenti culturali, si fonda sulla presenza empatica dell’insegnante, genitore, educatore, che non presume di sapere cosa è bene per il bambino/a, ma rimane in ascolto dei suoi bisogni, per orientare la sua azione educativa con saggezza momento per momento, pur avendo ben chiara la direzione in cui andare». È un’educazione che si rivolge non solo agli ambiti più personali, individuali, ma anche a quelli sociali: «Il bambino per stare bene nel gruppo classe e nella società deve sapere e potere stare bene anche con se stesso». Ma soprattutto è un’educazione che, sia individualmente che sul gruppo, «include il continuo lavoro sulla coltivazione della consapevolezza, della gentilezza o compassione, dell’impegno personale». Non pensate a chissà quale metodo rigido e rigoroso, o a una qualche formula magica. Si tratta di avere una certa “visione”, una luce che illumina mente e cuore, «una forma di sapere che non si basa sulla conoscenza intellettuale o su una metodologia particolare, ma scaturisce dall’esperienza diretta del momento educativo, quando, in uno stato di apertura e di presenza mentale, riusciamo a connetterci direttamente ai bisogni dei ragazzi». La meditazione è uno degli strumenti utili a sviluppare «l’auto-conoscenza e la consapevolezza di sé, che è alla base della responsabilità e del comportamento etico».

«Educhiamo esseri umani in tutti i loro aspetti, non solo cognitivi ma anche corporei, emotivi, relazionali, spirituali. Rimaniamo in ascolto dei loro bisogni. Lavoriamo sull’attenzione ma anche sulla coltivazione della gentilezza o compassione, dell’impegno personale»

Grazia Roncaglia organizza anche incontri con educatori, qualcosa a metà strada fra il ritiro e il corso di formazione

Può essere interessante anche prendere in prestito un concetto di derivazione orientale, quello del Sé, scritto in maiuscolo (per distinguerlo dal sé-io che si percepisce separato, isolato, col suo inevitabile egocentrismo): è fondamentale, infatti, riuscire a capire se «stiamo coltivando in loro un genuino senso del Sé, inclusivo e compassionevole, oppure se stiamo nutrendo l’ego, che è figlio della separazione e padre della sofferenza».

Detto così, magari può suonare astratto o troppo teorico. Ma basterebbe seguire uno degli incontri organizzati da Grazia Roncaglia (vedi www. meditascuola.it) per capire quanto invece sia tutto molto concreto ed efficace. In uno dei video utilizzati in questi “ritiri di formazione” si vede un bambino di 7 anni messo di fronte a una domanda apparentemente complessa (o al contrario banale, se interpretata con le categorie e i condizionamenti di noi adulti): “Dov’è che finisci tu e dove inizia il mondo fuori?”. Lui ci pensa un po’ su e poi dice: “Il confine non c’è mai, maestra, perché io sono un figlio, un bambino, il tuo alunno, il fratello di mia sorella, non ce l’ho un confine!”. Allora la maestra insiste e chiede: “Ma il respiro, dove inizia e dove finisce?”. E lui: “Il respiro comincia dall’albero e finisce dentro di me”. Difficile immaginare una risposta più poetica e insieme più esatta, veritiera, frutto di una percezione di sé come essere connesso con l’ambiente circostante. Altre cose che si imparano con l’educazione risvegliata? Ad esempio il silenzio. Cosa c’è di più lontano dalla normale esperienza dei bambini di oggi? Nella classe di Grazia Roncaglia si è consolidata questa abitudine: quando c’è troppo brusio, spesso su richiesta di qualche alunno, lei suona la campana e i bambini sanno che devono fermarsi e andare con l’attenzione nel corpo. «Fanno due o tre respiri – ci racconta - e poi faccio sempre notare: “Sentite che bello, questo è il nostro silenzio!” Una volta una bambina ha detto: “Ogni silenzio è sempre diverso. Si sentono le voci fuori, ma non entrano nel nostro silenzio, non lo disturbano”. Questi bambini sono dei saggi! Mi sento così fortunata nel poter condividere con loro momenti di presenza e di pratica così profondi! In quei momenti li sento come fossero il mio sangha, perché so che cresciamo insieme in consapevolezza». Sangha è una parola che appartiene al vocabolario tradizionale indiano, ma oggi lo si utilizza anche in Occidente, quando si parla di un gruppo che pratica la meditazione. Potete usare la parola comunità, e il senso è lo stesso, se il gruppo è formato da persone che praticano la consapevolezza, la compassione, la condivisione. E ci si aiuta a vicenda. «Una volta avevo perso le staffe, perché sono umana – racconta Grazia Roncaglia. - I bambini erano molto agitati, ho invitato il silenzio più volte e non arrivava. Ho detto: “Adesso mi avete mandato fuori dalla mia zona ok. Come faccio a spiegarvi la lezione di storia?” Una bambina ha detto: “Maestra, avremmo bisogno di una bella meditazione”. Io non potevo guidarla

in quello stato, ma lei si è offerta di farlo al posto mio. È andata alla cattedra e ha guidato quella che chiamiamo la “meditazione dei 4 sassolini”, rivisitata da lei. Ha condotto tutta la classe e anche me a uno stato di calma bellissimo. Ho un meraviglioso gruppo di pratica di bambini che hanno 6, 7, 9 anni!».

Grazia Roncaglia (che vive e lavora a Torino) è un’insegnante ed è una meditante. Ha saputo unire le sue due vocazioni. Le chiediamo se non ci sia qualche resistenza, nel mondo della scuola, o tra i genitori, rispetto all’uso di questi concetti e queste tecniche. La stessa parola “risveglio” ha una lunga storia nel pensiero orientale (ma non è sconosciuta a quello occidentale): forse desta ancora qualche sospetto, soprattutto in certi ambienti culturali (che siano tradizionalmente religiosi, cattolici, oppure laici/laicisti). La sua risposta è insieme semplice e convincente: «L’educazione religiosa, di qualunque orientamento, secondo me dovrebbe essere a cura della famiglia, perché dipende da scelte culturali e di “sentire” personale. I miei libri sono scritti in un’ottica laica: non voglio imporre i miei condizionamenti al posto di altri. Mi interessa che ciascuno trovi

se stesso». Pochi dubbi sull’efficacia della meditazione: «La letteratura oggi è piena di studi sugli effetti benefici della meditazione in generale. Forse meno sui benefici in età evolutiva, perché ancora non sono molte le realtà che introducono sistematicamente percorsi introspettivi nella scuola. Ma io che lo faccio da 20 anni, an«L’educazione religiosa deve essere a cura della famiglia. I miei libri sono scritti in un’ottica laica: non voglio imporre i miei condizionamenti al posto di altri»

che se non sono uno scienziato, posso condividere cosa ho osservato nelle mie classi». Con lei si pratica la “meditazione di consapevolezza”, ma in forma ludica, e si conducono “pratiche riflessive” «durante le quali gli studenti imparano a raccogliere l’attenzione dispersa all’esterno per dirigerla all’interno di sé, diventando gli osservatori delle sensazioni corporee, del respiro, dei loro stessi pensieri e delle emozioni. Già dai primi anni della scuola primaria possiamo educare i bambini a volgere l’attenzione al corpo, a viverlo dall’interno e a cogliere i segnali di benessere e malessere che ci offre.

Il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh ha contribuito in modo fondamentale alla diffusione in Occidente della “meditazione di consapevolezza”

Imparare consapevolmente a mantenere l’attenzione durante alcune attività quotidiane come camminare, ascoltare o mangiare si può proporre come un’esperienza giocosa che può facilitare il ritorno alla calma e alla tranquillità, oltreché a sostenere attenzione e presenza mentale in ciò che di solito compiamo distrattamente, senza coscienza». Sono cose di cui ogni adulto avrebbe bisogno e che, imparate da bambini, sono un seme gettato in un terreno fertile, che può portare i frutti della serenità, dell’auto-conoscenza, della responsabilità. Sono questi i temi trattati in forma pratica nel suo ultimo libro, che si propone come un manuale per insegnanti e genitori: Aiutami a stare attento! edito da Lindau e appena uscito. «La competenza dell’ascolto attivo è carente a tutte le età nell’era del multitasking, e i bambini che ne fanno esperienza riconoscono l’importanza di questo tipo di presenza. Imparare ad ascoltare con tutto il corpo, e soprattutto con la mente libera dalle risposte che vorremmo dare e dai nostri pensieri, è un prerequisito su cui è necessario lavorare nell’educazione». Chi non ha mai sentito parlare della meditazione che parte dall’ascolto del respiro? «Il respiro è il ponte che ci conduce alla mente silenziosa, al posto sicuro dentro di noi dove possiamo ritirarci per tornare a casa, in contatto con noi stessi, generando auto-compassione e benessere. Posso assicurare che i bambini che imparano la strada per tornare a sé la intraprendono anche quando non c’è un adulto a ricordargli di farlo». Altro aspetto fondamentale: “osservare la mente con la mente”. Se vogliamo usare una parola difficile, possiamo chiamarla “meta-consapevolezza”. Si tratta di «fare amicizia con il funzionamento dei meccanismi cognitivi, imparando a riconoscerne le tendenze abituali, a gestire l’energia e le informazioni che si manifestano nel corpo e le produzioni mentali che si manifestano nella mente, come pensieri ed emozioni. Queste attività di osservazione allenano i bambini nel diventarne testimoni e osservatori, aiutandoli a creare quello spazio che permette di non restare identificati. Cogliere la transitorietà e l’inconsistenza di pensieri e emozioni ci è d’aiuto nei momenti di difficoltà, in cui ne rimaniamo intrappolati: con l’autoregolazione emotiva impariamo a sentirci al sicuro, e questo ha un impatto positivo nelle relazioni con gli altri e sulle risposte dei comportamenti alle stimolazioni».

Oggi si parla molto di mindfulness, una forma di meditazione che derivata alla tradizione buddhista, che ha al centro il concetto di consapevolezza. «Nelle mie classi ho cominciato

più di quindici anni fa a proporre, quasi di nascosto e in sordina, esperienze di meditazione e presenza mentale. Allora nessuno parlava di mindfulness e la meditazione correva il forte rischio di essere scambiata per una pratica religiosa. In realtà il mio obiettivo è sempre stato quello di proporre pratiche corporee, esercizi per imparare la calma e l’autoregolazione che sono utili a potenziare l’attenzione e la concentrazione priva di sforzo». La tecnica utilizzata non è così importante, così come l’oggetto scelto per ancorare l’attenzione: «Allo scopo possiamo scegliere il respiro, le sensazioni del corpo, un paesaggio, un fiore, una candela o un’immagine, i suoni e i rumori dell’ambiente, e così via. Anche un’azione quotidiana può diventare oggetto della nostra attenzione, ad esempio il camminare o il mangiare, e progressivamente, perché no? Anche leggere, fare un calcolo o studiare. Praticando e allenando l’attenzione focalizzata i bambini fanno esperienza della presenza mentale (sati), che è l’abilità di prestare attenzione al momento presente senza dare giudizi su quanto accade: imparano a dare attenzione a ciò che stanno facendo mentre lo stanno facendo. Potremmo definire questo tipo di attenzione, poeticamente,“fare pace con il momento presente”. Dico sempre ai bambini che ogni azione la possiamo compiere in due modi: distrattamente o consapevolmente, e loro stessi si accorgono che quando siamo presenti a ciò che stiamo facendo impariamo e gustiamo molto di più ogni esperienza». Le chiediamo della sua storia personale, se viene prima il suo essere insegnante o meditante. «Vengono quasi insieme. A partire dalla quinta superiore, quando ho letto Siddharta, sapevo dentro di me che sarei finita su un cuscino a meditare, ma non avevo la più pallida idea di ciò che questo volesse dire. A 20 anni ho fatto un viaggio in India. A 27 mi sono sposata e sono andata in Tibet, e ancora non sapevo nulla di meditazione, ma dentro di me già sapevo che era la mia strada. Intanto lavoravo a scuola e avevo una particolare empatia coi bambini, cercavo la strada per capirli, volevo arrivare al cuore di tutti, creare una relazione significativa con ognuno di loro».

«Noi diciamo continuamente ai bambini di “stare attenti” ma non spieghiamo mai “come”»

Poi c’è stato l’avvicinamento al buddhismo tibetano, studiato e praticato per 12 anni, ma anche la grande delusione di un maestro che non si dimostrò tale. «Mi sono sentita vulnerabile e ho capito quanto avevo affidato a qualcuno all’esterno ciò che invece è da cercare solo dentro di noi. Poi l’incontro con Thich Nhat Hanh ha curato il mio cuore». Il monaco vietnamita, deceduto proprio quest’anno all’età di 94 anni, era ed è considerato uno dei grandi maestri spirituali del nostro tempo, molto al di là dell’ambito solitamente associato a lui, quello del “buddhismo impegnato”. «Ho trovato un maestro che incarna ciò che insegna. Sono stata al Plum Village quando lui c’era ancora, nel 2016. E ho pensato che lui era l’insegnante che io voglio essere in classe: qualcuno che incarna ciò che dice. Se in classe parli di gentilezza devi viverla, manifestarla, esserne espressione, pur rimanendo ferma sulle regole che sono necessarie». Ed ecco la decisione di unire i due percorsi. «Noi diciamo continuamente ai bambini “state attenti” e non gli spieghiamo mai “come”. La meditazione insegna proprio questo. Allora ho cominciato a inventarmi delle attività, dei giochi. Il primo libro è nato nel 2014, inaspettatamente, quando mia figlia di 10 anni mi chiese di spiegarle cosa andavo a imparare in un ritiro di meditazione. Mi disse: “Prendi degli appunti”. Così è venuto al mondo Felice... mente. Quel libro ha avuto una diffusione grandissima e per me inaspettata nel mondo della scuola. Hanno cominciato a chiamarmi per fare dei corsi agli insegnanti».

Oggi queste idee e queste tecniche sono ampiamente conosciute e utilizzate. «Ora sono facilitatrice e coordinatrice a livello nazionale di una sperimentazione che è stata voluta dal Dalai Lama, scritta dalla Emory University di Atlanta, da Daniel Goleman e altri studiosi, un programma che si chiama SEE Learning (Social Emotional Ethical Learning), lanciato nel 2019, che si sta diffondendo in tutto il mondo. Un progetto laico che diversi Stati adattano alle proprie scuole. Stiamo formando tanti insegnanti e presto avremo un riconoscimento dal Miur come ente di formazione. Sono proprio le cose che già facevo e che ho ritrovato nel programma del Dalai Lama». Si tratta però ancora di piccole esperienze, frutto di iniziative personali. «La scuola italiana è fondata sul “cervello cognitivo”, che “va riempito” di conoscenze. Gli insegnanti poi devono occuparsi quasi per forza anche del “cervello limbico”, delle emozioni, perché entrano in modo dirompente a scuola. Ciò che viene dimenticato, invece, è il “cervello rettile”, il corpo. Ma stiamo parlando di bambini, esseri umani che stanno crescendo e vanno aiutati a sviluppare tutti e tre i cervelli in modo armonico e integrato. Esperienze come l’educazione nel bosco o l’educazione attiva sono già tentativi di trovare delle risposte a questa carenza. Anche il teatro – quello non strutturato, improvvisato – ha una valenza formativa incredibile. L’insegnante che ha nella sua esperienza qualcosa del genere ne riconosce l’importanza. L’adulto deve accettare di mettersi in gioco: non basta leggersi un manuale. Bisogna mettere le mani in pasta, fare quelle esperienze». Da dove cominciare? Dai libri di Grazia Roncaglia, ad esempio, che propongono strategie, esempi, esercizi concreti. Quanto ai testi fondamentali, Grazia cita soprattutto «i libri di Thich Nhat Hanh, perché lui scrive in una maniera laica, poetica, che risuona dentro e nutre il bambino interiore, anche dell’adulto. Ci sono libri che mentre li leggi ti trasmettono amore. Il mio cuore è stato curato leggendo la sua Vita di Siddharta, il Buddha. Un altro libro da cui ho ricevuto tantissimo è Cinque inviti di Frank Ostaseski. Sono testi che ci nutrono, come Il silenzio è cosa viva di Chandra Livia Candiani».

Arrivando alla conclusione di questo incontro illuminante, le chiediamo cosa ne pensa del momento che stiamo

vivendo: percepisce un cambiamento, un risveglio, una consapevolezza diffusa? «Ormai non possiamo che guardare le cose come interconnesse tra loro. La globalizzazione cos’è, se non una visione sistemica delle cose? Non possiamo prescindere da questo. Non possiamo avere una visione meccanicistica, pensando che ci sia un vuoto che ci separa dagli altri, e se l’Italia sta bene, è ricca, non ce ne frega niente del resto del mondo. Il Covid (questione gestita malissimo, che forse ha dato una spinta al risveglio delle coscienze, alla necessità di trovare un nuovo paradigma) ci ha mostrato benissimo come sia impossibile isolarsi. Siamo talmente interconnessi e interdipendenti. Per questo voglio educare a una visione sistemica, all’idea di diventare davvero responsabili del tutto, perché impatta anche sulla nostra vita». Ora è fondamentale uscire dall’ossessione del “mio”, dall’idea che ci si salva alle spalle degli altri. «Con i bambini uso un’espressione: dobbiamo guardare le cose con gli occhi del gruppo. Mi ricordo un episodio accaduto di inverno. Di solito porto sempre i bambini a giocare fuori, abbiamo un giardino bellissimo, la natura ha un effetto benefico su di loro. Nei giorni precedenti aveva piovuto e finalmente quel giorno si poteva uscire. Ma arriva un’operatrice e dice: “Più tardi ci sono le riunioni con i genitori, vi chiediamo per favore di non andare in giardino, altrimenti non riusciamo a togliere il fango dalla scuola”. Si è alzato un coro di “no” e di proteste. Allora ho detto ai bambini: “Comprendo la vostra delusione, ma proviamo a guardare le cose con gli occhi del gruppo. Siamo una comunità. Perché la bidella ha fatto questa richiesta? Perché ci sono le riunioni, e vuole accogliere i vostri genitori nel miglior modo possibile”. Ho ribaltato la visione della cosa, e tutti hanno accolto di buon grado. Dobbiamo imparare anche a fare delle rinunce. A un certo punto la decisione di non uscire è diventata una scelta collettiva, ed è stato come fare un dono ai genitori. Ci siamo inventati un bellissimo intervallo alternativo. E ci siamo presi cura del gruppo, siamo andati oltre l’interesse individuale, con una scelta compassionevole. In un certo senso, siamo andati oltre un piacere a breve termine nel nome di un benessere collettivo più alto». La scuola come potrebbe essere.

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