A
contributi
UNA PAZIENTE INSOLITA Storia di Emma. la paziente più vecchia al mondo con 117 anni nel 2017, e del medico curante nei suoi ultimi trent’anni Carlo Bava
E
ravamo una coppia mediatica. Associated, United Press, RAI, Mediaset, la TV Finlandese e anche Radio Mosca: tutti ci cercava‐ no. Volevano lei, ma anche il suo dottore. Qualcuno amava pensare che, per campare oltre ogni limite, occor‐ resse lo zampino di uno stregone. Nel qual caso: io. Era un susseguirsi di pose e scatti fotografici di rito: la mia mano sulla sua spalla e il fonendo ben piantato nelle orecchie, sentinella di quel cuore ultracentenario che mai avrebbe dovuto smettere di battere. Ma anche con due uova nelle mani per confermare una dieta, almeno sui generis, che l’aveva portata a tagliare il tra‐ guardo mondiale dei senza tempo e a consumarne trentatremila dal momento in cui la conobbi. Amici dalla Colombia scrivevano di avermi visto in TV con la abuelita, e a mio figlio, negli States, capitava di dover spiegare la sua parentela col quel medico che in Italia … Succedeva. Eravamo due star. Brillavamo. O meglio, brillava Lei. Io godevo di luce riflessa e della sua ilarità quando, tirandomi appresso, sussurrava sor‐ niona: “Ma la sua moglie non è gelosa che andiamo insieme sui giornali?”. La mia risposta, sempre la soli‐ ta, sortiva ogni volta l’effetto di una divertita sorpresa.: “peccato non esserci conosciuti prima Emma!!”. Il tempo, quello che nonostante tutto ci rendeva famosi, diventava per lei un’entità sfuggente e faticosa da collo‐ care. Giorno dopo giorno. Raccontava di quando era picula picula e viveva a Vil‐ ladossola, bimba gracile e sempre malata. Suo padre “che le voleva tanto bene” e che era preoccupato per lei “chiamò un grande professore”. “Questa bambina è anemica” decretò “dovrà mangiare tante uova e poi cambiare aria!”. Fu così che la famiglia lasciò quel‐ l’ambiente chiuso tra le montagne, per un’atmosfera più salubre e mite: giunse a Verbania dove c’era l’aria fina di lago. Ai giornalisti aggiungeva: “Arrivata qui ho cominciato a mangiare tre uova tutti i giorni e ho trova‐ to questo bravo dottore che mi ha curata bene, da allora fino adesso!”. Inutile dire quante volte tentai di spiegarle che da tempo avrei dovuto essere morto, se fossi stato il suo medico di allora. Nonostante ciò, con innocenza disar‐ mante e per nulla rassegnata, ribadiva il concetto: “Un dottore morto non avrebbe potuto curarmi così bene!”. Giorni, mesi, anni che, in una esistenza fuori da ogni
aspettativa, perdevano il senso comune e diventavano momenti di contemporaneità. Un presente che durava da cent’anni e un passato che…doveva ancora venire. Uno dei tanti segreti svelati nei nostri trent’anni di con‐ vivenza. Non fu, però, una storia semplice. Fiducia incondizio‐ nata e tacita complicità erano gli ingredienti di un rapporto medico paziente assolutamente speciale ed esclusivo. Mi teneva per mano quando le scelte terapeutiche diventavano sfide. Linee guida e protocolli terapeutici svanivano quando, alla sentenza: “Se non va in ospedale, muore”, ricevevo in risposta un sereno e tranquillo: “Si vede che è la mia ora…”. Lo diceva abbassando lo sguardo, per poi rialzarlo len‐ tamente e puntarmi addosso quegli occhi ancora azzurri, nel cui fondo il messaggio era chiaro: “E tu mi lasceresti morire?”. Parole e gesti messi lì con i tempi teatrali di una profes‐ sionista dello spettacolo, quello della vita, di cui fu sempre l’indiscussa regista. Non che i registi le piacessero particolarmente. Ne conoscemmo diversi. Simpatici, meno simpatici, francamente antipatici o non all’altezza della situazione. Esilarante è il ricordo di un personaggio che fece di tutto per incontrarci. A suo dire, saremmo stati gli interpreti ideali di un nuovo docu-film che immaginava di girare. Non giova‐ ne. Si presentò come cineasta straniero affermato. Tutto in nero: calzoni, giacca, camicia e anche la cravatta. Capelli lunghi a caschetto, grigi come i baffi ben colti‐ vati. Parlava e parlava, cercando di essere spassoso senza riuscirci. Con una mestizia devastante, racconta‐ va del grande vuoto lasciato dalla mamma, che troppo presto se ne era andata, e di quanto questa sofferenza avesse segnato il suo lavoro. La tristezza stava aggredendo anche la mobilia quando, alla nostra, ormai sonnecchiante, ebbe il coraggio di chiedere: “Scusi un po’ Emma, lei non pensa mai alla morte?”. Con un movimento lento del capo, di quelli che solo Sergio Leone sapeva chiedere a Clint Eastwood, uscendo di botto dall’apparente torpore la Emma mi si rivolse scandendo un lapidario: “Ma questo qui non va più fuori dalle balle?”.