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Oltre ogni soglia, una storia V. Volontè
from Alternativa 02_2022
con delicatezza ci ha accompagnate in questo lavoro. Ci sono paesi nel mondo dove la fotografia è vista come un sortilegio, una magia che intrappola l’anima. Noi invece viviamo immer‐si in una cultura basata sempre più sulle immagini: fotografiamo ciò che facciamo, quello che mangiamo ma con‐cedere a qualcuno una nostra foto ci lusinga e ci imbarazza allo stesso tempo. Siamo degni di apparire? E la mia casa? E allo stesso tempo: la mia storia è davvero interessante e degna di essere raccontata? Ecco che portare interesse, dare valore, far emergere, illumina parti buie, aiuta a dare senso e può essere strumento in un processo di empowerment degli individui e della comunità, in particolar modo dove lo stigma sociale è forte, perché si abita una casa popolare per esempio. Le interviste semistrutturate di tipo narrativo sono state condot‐te attraverso contatti a cascata: l’obiettivo non era quello di ottenere dati su di un campione rappresentativo, ma creare rela‐zioni e legami per aumentare il bacino d’utenza del progetto, incrociando punti di vista sul quartiere nella prospettiva della ricerca-azione. Una sorta di dialogo a distanza, che si è manifestato appieno con la trascrizione integrale delle interviste(25)e ci ha permes‐so di individuare alcuni temi trasversali, diventati poi i 9 pannelli tematici che accompagnavano le fotografie con estratti delle interviste. Ne restituiamo qui alcuni relativi ai temi emer‐si. Possiamo affermare con Kevin Lynch che “una buona imma‐gine ambientale dà a chi la possiede un importante senso di sicurezza emotiva. Gli consente di stabilire tra sé e il mondo circostante una relazione armoniosa. Questa costituisce un sentimento opposto allo smarrimento di chi ha perso l'orienta‐mento.”¹
Dove inizia e dove finisce il mio quartiere? I confini percepiti dello spazio dentro il quale gli abitanti si muovono agilmente aiutano il processo di identificazione a un luogo e il sentimento di appartenenza. Camminando a piedi passiamo per le scalette, è tutto molto comodo per me che non ho la patente: le strade si intrecciano e arrivi ovunque, hai tutti i servizi a disposizione. Io sento di entrare nel mio nel quartiere, alla Sassonia, quando c’è quella specie di posta e giri l'angolo: lì intravedo lo spiraglio di casa, lì vedi proprio quello spiraglio e dici: finalmente sono a casa! (Sofia, 25 anni) In che modo si manifesta il sentimento di appartenenza, su cosa fa leva? Per esempio sugli elementi naturali. Quando arriva la piena del San Bernardino è molto rumorosa e questo crea un’energia, una cosa che accomuna tutti gli abi‐tanti. Lo stesso lago che si alza crea quel pathos: se sei di Intra vai a vedere il porto che si riempie di legna e probabilmente vai a vedere anche il fiume. Non so se gli abitanti che non sono nati a Intra hanno questa abitudine: ci sono cose che vengono tra‐mandate e per entrare a capire certe energie ci impieghi del tempo, non sono così immediate.(Francesco, 44 anni) O sulla possibilità di guardare il proprio luogo di vita da un altrove. Io vado in vacanza in Abruzzo da anni, ho trovato un posto straordinario, in albergo sono come a casa mia, i miei amici sono gli stessi, ci sono grandi compagnie, si canta, si gioca. Ma dopo 10 giorni inizio a capire che c’è qualcosa che non va e siccome posso mentire a tutti meno che a me stesso, mi guardo allo specchio e capisco che mi manca la mia casa, la mia vita. La mia storia è qui in Sassonia, io sono nato qui.(San‐dro, 80 anni) A volte l’appartenenza si gioca sul rifiuto del luogo perché ci sono pregiudizi e rappresentazioni consolidate, uno stig‐ma sociale difficile da sradicare, che può portare all’isolamento. La domanda della casa popolare l’avevo fatta sei anni prima. Io non ci pensavo più quando mi chiamò il Comune. Mi sedetti davanti alla signora e le chiesi: ma dov’è? È in Sassonia, sono le casette della Sassonia. E lì mi sono sentito male. È stato come quando mi è arrivata la cartolina del pre‐cetto militare, mi sono sentito precipitare, sono stato malissimo. Ogni giorno è un adattarsi.(Carlo, 53 anni) Per questo nel nostro lavoro diamo molto valore alle reti informali e cerchiamo di implementarle: un’ancora di sal‐vezza per uscire dall’isolamento non solonella sfera privata perché “creano un clima diffuso di fiducia e cooperazione, promuovono le reti di impegno civico e partecipazione” (F. Piselli)² Tra vicine abbiamo fatto un gruppo, si stava insieme tutti i giorni. Ai tempi, eravamo più giovani, con le figlie piccole era bello ritrovarsi a chiacchierare. Stavamo fuori con i tavoli e le sedie. Era bello, si andava d’accordo tutti! Adesso però c'è da aver paura a stare fuori.(Ines, 65 anni) È fondamentale riconoscersi e sostenersi per coltivare una rete di relazioni informali, vedere volti famigliari, fare due chiacchiere per strada o dal balcone. Durante il lockdown ho conosciuto i miei vicini di casa: non essendoci mai a casa, uscendo al mattino e tornando la sera. Sembra una cosa strana questo riavvicinamento con i vicini: adesso ci conosciamo, per quanto assurdo! Erano 6 anni che vivevo in quella casa e si magari incontravo la signora, le aprivo l’ascensore. Durante il lockdown c’era il signore che andava nell’orto e ci portava l’insalata, la signora che aveva fatto il dolce e ce lo portava. L'incontro tra vicini è stato bel‐lissimo!(Sofia, 25 anni) Ecco che le pratiche quotidiane degli abitanti, nelle relazio‐ni e nell’uso degli spazi, se ben osservate e intercettate, sono il punto dal quale partire per un lavoro di territorio fine, che faciliti le relazioni, crei connessioni, opportunità, reti, incu‐bando progettualità di sviluppo locale. Infatti un processo di sviluppo di comunità si pone l’obiettivo di far crescere senso di responsabilità, potere, competenze e senso di comunità di soggetti definiti, affinché gli stessi possano essere in grado di risolvere i problemi che hanno, così come di aiutarsi reciprocamente, di creare associazioni, di attivare imprese, di divenire più efficaci nel controllare l’operato delle istituzioni. È un percorso ancora lungo che deve essere scritto: dagli abitanti che prendono la parola e dagli operato‐ri sociali che sostengono i processi di attivazione e cambiamento. (i nomi degli intervistati sono di fantasia)
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1) Kevin Lynch, L’immagine della città, Marsilio, 2001 2) Francesca Piselli (a cura di), Reti. L’analisi di network nelle scienze sociali, 1993, Donzelli


Foto di Eleonora Mari