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Una paziente insolita C. Bava
from Alternativa 02_2022
UNA PAZIENTE INSOLITA
Storia di Emma. la paziente più vecchia al mondo con 117 anni nel 2017, e del medico curante nei suoi ultimi trent’anni Carlo Bava
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Eravamo una coppia mediatica. Associated, United Press, RAI, Mediaset, la TV Finlandese e anche Radio Mosca: tutti ci cercava‐no. Volevano lei, ma anche il suo dottore. Qualcuno amava pensare che, per campare oltre ogni limite, occor‐resse lo zampino di uno stregone. Nel qual caso: io.
Era un susseguirsi di pose e scatti fotografici di rito: la mia mano sulla sua spalla e il fonendo ben piantato nelle orecchie, sentinella di quel cuore ultracentenario che mai avrebbe dovuto smettere di battere. Ma anche con due uova nelle mani per confermare una dieta, almeno sui generis, che l’aveva portata a tagliare il tra‐guardo mondiale dei senza tempo e a consumarne trentatremila dal momento in cui la conobbi.
Amici dalla Colombia scrivevano di avermi visto in
TV con la abuelita, e a mio figlio, negli States, capitava di dover spiegare la sua parentela col quel medico che in Italia …
Succedeva.
Eravamo due star. Brillavamo.
O meglio, brillava Lei. Io godevo di luce riflessa e della sua ilarità quando, tirandomi appresso, sussurrava sor‐niona: “Ma la sua moglie non è gelosa che andiamo insieme sui giornali?”. La mia risposta, sempre la soli‐ta, sortiva ogni volta l’effetto di una divertita sorpresa.: “peccato non esserci conosciuti prima Emma!!”.
Il tempo, quello che nonostante tutto ci rendeva famosi, diventava per lei un’entità sfuggente e faticosa da collo‐care. Giorno dopo giorno.
Raccontava di quando era picula picula e viveva a Vil‐ladossola, bimba gracile e sempre malata. Suo padre “che le voleva tanto bene” e che era preoccupato per lei “chiamò un grande professore”. “Questa bambina è anemica” decretò “dovrà mangiare tante uova e poi cambiare aria!”. Fu così che la famiglia lasciò quel‐l’ambiente chiuso tra le montagne, per un’atmosfera più salubre e mite: giunse a Verbania dove c’era l’aria fina di lago. Ai giornalisti aggiungeva: “Arrivata qui ho cominciato a mangiare tre uova tutti i giorni e ho trova‐to questo bravo dottore che mi ha curata bene, da allora fino adesso!”.
Inutile dire quante volte tentai di spiegarle che da tempo avrei dovuto essere morto, se fossi stato il suo medico di allora. Nonostante ciò, con innocenza disar‐mante e per nulla rassegnata, ribadiva il concetto: “Un dottore morto non avrebbe potuto curarmi così bene!”.
Giorni, mesi, anni che, in una esistenza fuori da ogni aspettativa, perdevano il senso comune e diventavano momenti di contemporaneità. Un presente che durava da cent’anni e un passato che…doveva ancora venire. Uno dei tanti segreti svelati nei nostri trent’anni di con‐vivenza. Non fu, però, una storia semplice. Fiducia incondizio‐nata e tacita complicità erano gli ingredienti di un rapporto medico paziente assolutamente speciale ed esclusivo. Mi teneva per mano quando le scelte terapeutiche diventavano sfide. Linee guida e protocolli terapeutici svanivano quando, alla sentenza: “Se non va in ospedale, muore”, ricevevo in risposta un sereno e tranquillo: “Si vede che è la mia ora…”. Lo diceva abbassando lo sguardo, per poi rialzarlo len‐tamente e puntarmi addosso quegli occhi ancora azzurri, nel cui fondo il messaggio era chiaro: “E tu mi lasceresti morire?”. Parole e gesti messi lì con i tempi teatrali di una profes‐sionista dello spettacolo, quello della vita, di cui fu sempre l’indiscussa regista. Non che i registi le piacessero particolarmente. Ne conoscemmo diversi. Simpatici, meno simpatici, francamente antipatici o non all’altezza della situazione. Esilarante è il ricordo di un personaggio che fece di tutto per incontrarci. A suo dire, saremmo stati gli interpreti ideali di un nuovo docu-film che immaginava di girare. Non giova‐ne. Si presentò come cineasta straniero affermato. Tutto in nero: calzoni, giacca, camicia e anche la cravatta. Capelli lunghi a caschetto, grigi come i baffi ben colti‐vati. Parlava e parlava, cercando di essere spassoso senza riuscirci. Con una mestizia devastante, racconta‐va del grande vuoto lasciato dalla mamma, che troppo presto se ne era andata, e di quanto questa sofferenza avesse segnato il suo lavoro. La tristezza stava aggredendo anche la mobilia quando, alla nostra, ormai sonnecchiante, ebbe il coraggio di chiedere: “Scusi un po’ Emma, lei non pensa mai alla morte?”. Con un movimento lento del capo, di quelli che solo Sergio Leone sapeva chiedere a Clint Eastwood, uscendo di botto dall’apparente torpore la Emma mi si rivolse scandendo un lapidario: “Ma questo qui non va più fuori dalle balle?”.
L’uomo in nero, comunque un gran signore, non aggiunse nulla. Chiamò l’assistente e, dopo aver posato sul letto quella che doveva essere la scatola di una torta, salutò con garbo. Prese la porta e … non diventammo mai i protagonisti di un suo film. Venuto meno quello dell’attore, in questa avventura durata decenni, mi toccarono i ruoli più disparati e ... disperati. Il curante, lo specialista, il confidente, il consigliere, l’amico e, forsanche, il figlio che non aveva. Non trascurabile fu quello di custode di un patrimonio dell’umanità: ero il medico della donna più vecchia del mondo, unico essere umano superstite del diciannove‐simo secolo. Un monumento, una reliquia vivente. Ammetto che defilarmi da una responsabilità tanto grande mi sembrò qualche volta l’unica cosa ragione‐vole da farsi. Avrei voluto mettermi davanti a una telecamera e fare il mio proclama al mondo: “In qualità di ultimo dottore della mutua di questa terra dichiaro, secondo scienza e coscienza, di avere esaurito tutte le scorte di elisir di lunga vita. Nessuno chieda perché. Non ce n’è più e basta, succeda quel che succeda!”. Ad ogni mio tentennare, tuttavia, il destino decideva di rimettere le carte al loro posto. Lei, strega oltre che centenaria, si inventava alla biso‐gna qualche dramma che, nonostante tutto, finiva per essere iscritto nel registro dei miei successi. Una grave anemizzazione richiedeva con urgenza il ricovero. Non c’era scampo. Glielo comunicai. Tra le lacrime, ebbe la forza di chiedermi di poter morire a casa. Sapeva dove andare a colpire. Mi teneva in pugno. Pensai ai suoi centocinque anni e a quanto mi stesse chiedendo. Esigeva quanto, al suo posto, avrei desiderato anch’io: decidere della propria esistenza. In fondo la maggiore età l’aveva superata da un pezzo. Giocai la carta di tra‐sfonderla a casa. Era inverno, tanta influenza in giro. Un lavoro bestia. Da lei andavo a gior‐nata finita. Affossato nel divanet‐to in camera, tra lei e il gatto, con un libro da scorrere pigramente, attento a controllare l’andamento della tra‐sfusione. Almeno credevo… Per la stanchezza o forse per la temperatura tropicale di quel bilocale, fini‐vo appisolato. Inesorabilmente. Lei vegliava sulla mia indomabile quiete e, al momento giusto, mi svegliava con una carezza sulle mani aggiungendo: “Dutur l’è finida e l’è tütta post”. Era Lei che mi trasfondeva affettuosa tenerezza. Con quattro bistecconi si rimise a nuovo. Felice di sentirsi ancora in forze, raccontava che l’avevo salvata grazie al sangue di una ballerina, giovane e spa‐gnola, mia amica. La cosa le piaceva particolarmente. Regina delle sale da ballo di paese, non aveva voluto seguire le orme della sorella, luccicante soubrette di varietà. Temeva le avances degli impresari che, a suo dire, erano più interessati ad altro che non all’arte. Quando la conobbi non ballava più, anche se, con i suoi ottantasette anni, viveva al terzo piano di una vecchia casa in assoluta autonomia. Il bagno sul balcone e due locali dove stava con un gatto e la TV. Un centinaio di gradini per arrivarci. Scale vecchie e ripide, che salii un sacco di volte accompagnato da una certezza: quella di riportare a casa un sorriso. Ero un giovane medico quando le salii per la prima volta e un vecchio dottore quando le discesi per l’ultima. In mezzo: trent’anni di aria fina di lago.
PERSONAGGI E INTERPRETI: Emma Morano, la donna più “vecchia” del mondo coi suoi 117 anni e 5 mesi nel 2017 Carlo Bava, prescelto dal destino per accompagnarla nei suoi ultimi trent’anni.
Valter Longo, Carlo Bava ed Emma Morano