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Intervista a Claudia Cartini A. Torrielli

INTERVISTA A CLAUDIA CARTINI

Claudia Cartini, coordinatrice del reparto di medicina di Domodossola, ci accompagna in un viaggio dentro due anni di pandemia, tra sofferenza e difficoltà, dandoci il punto di vista di una persona che ha affrontato il virus, giorno dopo giorno, tra le corsie di un reparto ospedaliero Alvi Torrielli

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Avere nella propria famiglia un infermiere è un dono, scrive Roberto Saviano, e mai come durante questi due anni di pandemia Covid, abbiamo imparato a conoscere, ad apprezzare questi professionisti che ci hanno assistito a rischio della loro stessa vita; persone che hanno dimostrato la loro professionalità mentre attorno il mondo precipitava nel caos, prendendosi responsabilità al di sopra di quelle che dovrebbero essere le loro mansioni, spesso sottopagate. Di questi anni porteremo nel cuore tante ferite, tante sofferenze ma anche la consapevolezza di essere in buone mani. Ne parliamo oggi con Claudia Cartini, coordinatrice dal 2018 del reparto di Medicina dell’ospedale San Biagio di Domodossola.

Quale è stata la fase più difficile di questa pandemia e come è stata vissuta da te e dai tuoi collaboratori?

Senza ombra di dubbio i primi mesi sono stati tremendi: il reparto di medicina è stato dedicato all’emergenza Covid, una malattia nuova di cui non sapevamo nulla e che abbia‐mo iniziato ad affrontare in una situazione di grande precarietà. Non si conosceva la patologia e la sua trasmis‐sibilità, non c’erano i protocolli, e la gestione di ogni aspetto del nostro lavoro cambiava in continuazione a seconda degli aggiornamenti che arrivavano dal Comitato Tecnico Scientifico. Come nel resto del paese, mancavano i dispositivi di prote‐zione individuale, lo stesso uso delle mascherine era in continua evoluzione, e dovevamo sopperire a tali mancan‐ze “inventandoci” delle soluzioni che fossero il più adeguate possibili. Molti di noi si sono ammalati e, alle problematiche legate al continuo fluire di pazienti, si è aggiunta anche una obbiettiva carenza di personale con continui salti di turno e orari massacranti; inoltre il supporto che normalmente ci viene fornito dai servizi esterni (pulizia, mensa, ecc.) era completamente assente, vista l’impossibilità di far accede‐re al reparto i loro addetti. Di fronte a queste difficoltà però è uscito il meglio di noi: ognuno ha dato tutto dimostrando professionalità e coesio‐ne, pur sapendo che stavamo rischiando di diventare noi stesse vittime del COVID; è stato necessario “reclutare” infermieri ed Operatori Socio Sanitari da altri settori del‐l’ospedale o che da anni erano lontani dai reparti, ed ognuno ha contribuito ad affrontare il momento, sentendo il dovere di mettere a disposizione le sue competenze.

Una descrizione davvero drammatica! Oggi com'è la situazione? Come vedi il domani?

Oggi è cambiato tutto: conosciamo la patologia, sappiamo come dobbiamo rapportarci con essa, siamo vaccinati e, pur mantenendo la massima attenzione nella gestione dei contatti e nell’uso dei mezzi di protezione, è notevolmente diminuita la paura che per molto tempo ci ha accompagna‐ti. La gestione del degente è cambiata: il paziente positivo senza sintomi resta, previo isolamento, nel reparto di degenza e questo permette di evitare sovrappressioni sulla medicina che ha, ovviamente, la necessità di realizzare le attività di sua specifica competenza. Il futuro è un’incognita e, seppur abbiamo tutti i protocolli e quindi, in caso di una nuova ondata, siamo già preparati, è indubbio che psicologicamente diventa sempre più diffi‐cile ripartire.

Com'è il rapporto con i pazienti? A Domodossola ci sono stati casi di opposizione alle cure da parte di degenti contrari ai vaccini?

Alcuni degenti sono stati ricoverati per mesi e, inevitabil‐mente, si è istaurato un rapporto umano importante anche se, di fatto, di noi vedevano solo gli occhi, visto quanto era‐vamo “bardati”. Le persone hanno affidato a noi le loro vite e, pur nella sofferenza, hanno saputo gratificarci della loro riconoscenza. All’inizio venivano ospedalizzati solo i casi gravi e molti purtroppo non hanno superato la malattia: vedere così tanti decessi, persone la cui vita scivolava via, è stato straziante e, se da una parte ci dava stimoli a lottare con sempre maggior forza, dall’altra ci segnava dentro. L’introduzione della vaccinazione ha modificato radical‐mente il quadro: persone anche anziane e multi patologiche, che un paio di anni fa avrebbero rischiato seriamente la vita, grazie alla vaccinazione hanno superato il contagio più o meno agevolmente. I ricoverati dell’ultimo anno sono per lo più non vaccinati che spesso si sono ricreduti rispetto alla loro scelta; ci sono stati dei casi di rifiuto delle cure, arrivati addirittura alle estreme conseguenze, che noi non possiamo far altro che rispettare curando il paziente con la stessa dedizione che dedichiamo agli altri.

Al di là dei fatti clinici, cosa ti ha colpito positivamente e negativamente in questi due anni?

Un aspetto mai abbastanza sottolineato è stata la vicinanza che i cittadini ci hanno dimostrato: durante il periodo peg‐

giore ci portavano cibo, bevande, sentivamo fortemente la solidarietà della popolazione; la piscina di Domodossola ci ha offerto i calzari, alcuni dentisti i camici, il Comune ci ha permesso di poter parcheggiare gratuitamente, un fisiotera‐pista ci dava un sostegno importantissimo visto il sovraffaticamento a cui eravamo sottoposti. Dura è stata la ripresa dell'attività lavorativa dopo un perio‐do così pesante che ha lasciato strascichi importati, tant'è vero che molti colleghi hanno ancor oggi bisogno di un sostegno psicologico. Il lavoro è ripartito ancor più intensa‐mente, visto che è necessario recuperare quanto non si è potuto fare durante la pandemia.

Cosa credi resterà nel paese e cosa ti porterai dentro di questi due anni?

Credo che si sia ancor più radicata nel paese la consapevo‐lezza di quanto è fondamentale il Servizio Sanitario Nazionale, la Sanità pubblica, e percepisco in maniera evi‐dente come è cambiato il modo di rapportarsi con gli ope‐ratori di tale servizio: quando le persone scoprono cosa faccio, sento la loro empatia, percepisco chiaramente, al di là della gratitudine umana, il riconoscimento per l’impor‐tanza sociale del nostro lavoro. Dentro rimangono un’infinità di storie umane: la gioia per le vite salvate, lo strazio dei parenti dei deceduti durante la prima ondata a cui, senza avere la possibilità di un ultimo saluto, tutto ciò che è restato del loro caro è un sacchetto con i beni personali, la dedizione per il lavoro: penso ad un collega che per tre mesi ha assistito la sua compagna mala‐ta, che purtroppo non ha superato la malattia e nonostante tutto, lui non ha perso un giorno di lavoro… La mia speranza è che tutto questo diventi patrimonio comune per tutto il paese e che contribuisca a renderci migliori.

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