RED SHOES MAGAZINE | Aprile/Maggio 2023

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LE PIU’ GRANDI PARTITE IN POST-SEASON DELLA STORIA OLIMPIA SPECIALE PLAYOFF APRILE/MAGGIO 2023

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1989:

1983:

2018:

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2014: The Shot

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2014: La Rimonta

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1982: La Stoppata

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1987: Il Grande Slam

2022:

1985:

1996: Il

1984: L’Espulsione

1986: Il Back To Back

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Il Muro
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Lo Show
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Jumper
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1979: La Banda Bassotti Il Tuffo
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La Mossa
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The Block

25 GIUGNO 2014

Mens Sana Siena-Olimpia Milano 72-75

THE SHOT

Il ricordo delle partite di playoff più importanti nella storia dell’Olimpia non può che cominciare con la grande impresa del 2014, a Siena. In Gara 6. Il giorno in cui Curtis Jerrells diventò un eroe

L’ANTEFATTO - Nel 2014, l’Olimpia era arrivata a 18 anni di digiuno, lo stop di successi più lungo nella storia del club. La squadra, protagonista di una grande stagione, aveva vinto 20 partite consecutive in regular season e raggiunto i playoff di EuroLeague ma aveva bucato l’appuntamento con la Coppa Italia. Nei playoff aveva fatto però più fatica del previsto, battendo Pistoia solo alla quinta partita e Sassari alla sesta dopo aver sprecato in casa il primo match-point. In finale c’era l’avversaria più ostica del decennio precedente. Siena aveva vinto sette titoli consecutivi, era allenata da un ex Olimpia, Marco Crespi, e destinata a scomparire al termine della stagione. Paradossalmente, questa “leggerezza” si era rivelata la sua grande alleata nella corsa allo scudetto. Non solo: l’allenatore dell’Olimpia era Luca Banchi, che la stagione precedente aveva portato Siena al titolo. Anche il playmaker dell’Olimpia, Daniel Hackett, era arrivato da Siena addirittura durante la stagione. E altri ex erano David Moss e Kristjan Kangur. La serie finale, che l’Olimpia aveva dominato nelle prime due partite, aveva subito una svolta clamorosa quando Siena era riuscita a vin-

cere le due gare in casa e poi a violare il Mediolanum Forum in Gara 5 spingendo Milano sull’orlo della sconfitta. Solo vincendo Gara 6 nel catino infuocato di Viale Sclavo, l’Olimpia sarebbe rimasta viva e avrebbe avuto il diritto di giocare Gara 7 in casa due giorni dopo.

LA SQUADRA - L’Olimpia completamente rinnovata rispetto alla stagione precedente utilizzava Hackett in regia e Samardo Samuels nel ruolo di centro in quella che sarebbe stata, insieme alla successiva, la miglior stagione della sua carriera. Nel ruolo di ala forte, CJ Wallace non aveva risposto alle aspettative e il giovane Nicolò Melli, 23 anni, era diventato di fatto il titolare. Gli esterni erano Keith Langford, che era stato incluso nel primo quintetto di EuroLeague, Alessandro Gentile, che nei giorni della finale sarebbe stato scelto da Houston nei draft NBA ed era al top della sua brillantezza, e David Moss come specialista difensivo e del tiro da tre. Curtis Jerrells, partito come titolare, era esploso partendo dalla panchina e occupando potenzialmente due ruoli differenti, playmaker o guardia. Gani Lawal era il centro di riserva.

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LA PARTITA - Langford e Gentile, i due giocatori di maggior talento, segnarono i primi 17 punti dell’Olimpia, ma Samuels commise un fallo in attacco e uno in difesa ritrovandosi presto in panchina. Othello Hunter, il centro di Siena che Samuels aveva asfaltato in regular season e destinato ad una grande carriera in EuroLeague, gli aveva preso le misure. Sfruttando velocità, atletismo, agilità, segnò 14 punti nel primo tempo trovando un ostacolo più ostico nell’energia di Gani Lawal. Quando anche Lawal ebbe problemi di falli (tre nel secondo quarto), Banchi riesumò CJ Wallace, che giocò un eccellente spezzone di partita. Lui e David Moss con tagli e giocate intelligenti riacciuffarono Siena quando provò ad andare via di cinque punti esasperando la tensione sulla panchina di Milano. L’Olimpia rispose con un 7-0 e rimise le cose a posto. Alessandro

Gentile si caricò la squadra sulle spalle in un terzo quarto epico. Arrivò a segnare 21 punti portando la squadra avanti di 11, massimo vantaggio. Fece la giocata dell’anno quando andò dentro esplodendo in aria per schiacciare in testa a Hunter e Tomas Ress, due centri. Ma Siena ebbe un Josh Carter in serata di grazia al tiro. Fece 5/6 da tre. Fu lui a guidare la rimonta. Gentile fece un passaggio in panchina. L’Olimpia si bloccò. Nel quarto periodo Banchi chiamò time-out quando Siena si riavvicinò a meno cinque. Ma MarQuez Haynes, che aveva faticato tutta la serie, prese fallo da Hackett su un tiro da tre e mise tre tiri liberi. Poi segnò dall’arco e riportò la Mens

Sana avanti di uno. Le risposte di Milano furono: una tripla di Melli, a spezzare il momento favorevole di Siena, poi un’entrata di Gentile a riportare l’Olimpia sul più uno, il primo canestro di Jerrells da sotto per il 72-70. Ma Siena pareggiò ancora. Tentarono Langford e Gentile di riportare l’Olimpia in vantaggio ma senza successo, poi Samuels fece fallo in attacco. E con 35 secondi da giocare, Siena aveva la palla dello scudetto. L’Olimpia aggredì bene sul perimetro, togliendo tutte le opzioni. Infine, Matt Janning prese il tiro da tre risolutivo. Non facile ma ben eseguito. La palla ebbe una traiettoria beffarda. Come si dice in gergo, fu “in and out”. Melli mise le mani sulla palla, consegnandola a Jerrells. La palla la voleva Gentile. Jerrells decise di ignorarlo. “Visto com’è andata a finire, sono contento l’abbia fatto”, disse Alessandro. Jerrells non aveva segnato da tre, aveva due punti ma una strafottente fiducia in sé stesso. Palleggiò sul posto contro Haynes, palleggio incrociato, un passo avanti, uno indietro, quasi sfiorando la linea laterale. E poi il tiro, con tempismo perfetto, per non lasciare nulla sul cronometro. Avesse sbagliato ci sarebbe stato il supplementare. Ma Jerrells non sbagliò. Il tiro passato alla storia come “The Shot”.

IL SIGNIFICATO - Non fu la partita dello scudetto, ma salvò Milano dalla terza finale persa contro Siena in quattro anni e rinviò il verdetto all’interno dei confini amichevoli del Mediolanum Forum, strapieno, 48 ore dopo.

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LA RIMONTA

L’ANTEFATTO - Cancellata la grande paura di perdere lo scudetto in Gara 6 a Siena, l’Olimpia aveva però un solo modo per dare un senso a quell’impresa: imporsi anche in Gara 7. Aveva di nuovo tutti i pronostici a favore e una grande pressione addosso. Il Mediolanum Forum venne esaurito nel giro di mezz’ora con richieste per almeno 30.000 biglietti. L’ultimo scudetto dell’Olimpia risaliva al 1996. Nell’era Armani non c’era stato ancora alcun successo. Due episodi avvennero alla viglia. Alessandro Gentile, grande protagonista di Gara 6 venne scelto la notte precedente nei draft NBA al numero 51 da Houston. Gani Lawal non si presentò all’allenamento della mattina di Gara 7. Non si era svegliato!

LA PARTITA - L’Olimpia aggredì la partita con feroce determinazione: tenne Siena a nove punti segnati nel primo quarto ma a sua volta perse qualche opportunità. Langford fece 0/2 dalla lunetta in chiusura di periodo, qualche tiro aperto venne sbagliato, un contropiede tre contro uno generò una palla persa. Andò avanti 19-9 ma senza capitalizzare come avrebbe potuto. All’intervallo il vantaggio era di nove punti ma diventarono 12, 41-29 all’inizio della ripresa. E poi la luce si spense. Hunter completò un gioco da tre punti, Josh Carter trovò la mattonella giusta da cui fare molto male. Banchi chiamò un time-out ma il break di Siena continuò a far male diffondendo panico anche sulle tribune. In un attimo una partita dominata

diventò un incubo. Il terzo periodo fu dominato dalla Mens Sana. Andò avanti, poi allungò ancora. La reazione di Milano fu quella classica della squadra preda della tensione, spaventata. Tiri affrettati, gioco individuale per qualche possesso. Alla fine del terzo periodo Siena era avanti di sei. Poi andò avanti di otto, due volte. E quando tutto sembrava indirizzato verso il disastro, la difesa dell’Olimpia alzò il suo livello di intensità ed efficacia neutralizzando l’attacco avversario. Sul meno otto, Lawal corresse a rimbalzo un errore in entrata di Jerrells; sul meno cinque il secondo tiro libero di Gentile, sbagliato, fu trasformato in due punti ancora da Lawal. Jerrells con una tripla frontale – passaggio hand-off di Hackett – firmò il pareggio. Quello fu il momento in cui Siena si spense e il Forum comprese che l’Olimpia avrebbe vinto il 26° scudetto. Melli in tap-in portò Milano in vantaggio, Hackett con un gioco da tre punti scavò cinque punti di margine e Moss dall’angolo mise la tripla del più otto. Gentile venne nominato MVP della serie. Nicolò Melli con una doppia doppia da 12 punti e 13 rimbalzi fu il grande protagonista del successo che cancellò 18 anni di digiuno.

IL SIGNIFICATO - Fu lo scudetto numero 26, ma soprattutto il primo dell’era Armani, la prima vittoria dell’Olimpia con Giorgio Armani al vertice del club. Di fatto, anche se l’anno seguente non arrivarono vittorie, fu il successo che aprì un ciclo contrassegnato da tante vittorie.

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GIUGNO
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2014 Olimpia Milano-Mens Sana Siena 74-67

Olimpia Milano-Vuelle Pesaro 73-72

LA STOPPATA

Il primo scudetto dell’era Peterson venne vinto dall’Olimpia al Palazzone di San Siro contro una grande Pesaro. La giocata risolutiva fu una stoppata di John Gianelli su Mike Sylvester

L’ANTEFATTO - C’era pressione sull’Olimpia alla vigilia della stagione 1981/82. Coach Dan Peterson era al quarto anno a Milano, ma ancora non aveva vinto nulla. Nel 1979, il Billy era arrivato a sorpresa in finale, ma poi erano seguite due eliminazioni in semifinale e qualcosa si era sgretolato, non solo per le partenze di CJ Kupec e Mike Sylvester. Nel 1981, Milano aveva perso la semifinale con Cantù cedendo in Gara 3 al Palazzone di San Siro dopo due tempi supplementari. Peterson era finito sul banco degli imputati perché a quei tempi era consentito rinunciare a tirare i liberi in situazione di bonus ma lui non l’aveva fatto – non lo faceva mai – e quella scelta era costata la rimonta e infine la vittoria di Cantù. Ma nell’estate del 1981, vennero realizzate due grandi mosse di mercato. Varese, alle prese con una necessaria opera di ricostruzione, aveva deciso di cedere Dino Meneghin. Lo voleva Venezia, ma lo prese l’Olimpia in cambio di Dino Boselli e un conguaglio in denaro non indifferente per un giocatore di 31 anni. Oltre a lui arrivò da Gorizia il bomber Roberto Premier che piaceva a Peterson per lo spirito agonistico non solo per le doti balistiche. Ma la squadra partì male in campionato. Meneghin ebbe un infortunio al ginocchio e dovette fermarsi a

lungo. Senza di lui, l’Olimpia andò a Pesaro nel girone di andata e perse 110-65, la più clamorosa sconfitta della sua storia. Pesaro vinse la stagione regolare. Torino arrivò seconda. Ma l’Olimpia gradualmente salì di tono. Nel girone di ritorno vinse 10 partite su 13 risalendo fino al terzo posto davanti a Cantù che in quella stagione avrebbe vinto la Coppa dei Campioni (e venne eliminata nei quarti di finale dalla Virtus, poi sconfitta da Pesaro). Eliminata Brescia nei quarti di finale, trascinata da Franco Boselli vinse Gara 1 a Torino e poi chiuse i conti in Gara 2, in un complicatissimo 66-65. La finale cominciò a Pesaro, nel cosiddetto hangar di Viale dei Partigiani, dove il fattore campo è sempre stato terribile. La Scavolini aveva Dragan Kicanovic come stella, uno dei più forti bomber della storia del basket slavo che aveva vinto nel 1980 l’oro olimpico a Mosca battendo in finale proprio la Nazionale azzurra, e italiani fortissimi e giovani come Ario Costa e Walter Magnifico o veterani al top della parabola come Domenico Zampolini, Mike Sylvester, il tiratore Amos Benevelli. Il secondo straniero era il centro da Syracuse, Roosevelt Bouie. Gara 1 fu comandata dall’Olimpia. Il vantaggio nella ripresa raggiunse i dieci punti, poi Pesaro venne trascinata da Ponzoni e Benevelli,

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infine Dragan Kicanovic, dopo un secondo tempo passivo, ingabbiato da Mike D’Antoni, la riportò fino a meno uno. Ma il Billy chiuse 86-83.

LA SQUADRA - Mike D’Antoni era il playmaker e praticamente non aveva cambi e non usciva quasi mai dal campo. Erano altri tempi rispetto a quelli odierni e quell’anno l’Olimpia non disputò neppure le coppe europee. Quando proprio serviva era Franco Boselli, una guardia, a giocare in regia. Boselli quell’anno diventò il sesto uomo del Billy alle spalle di Roberto Premier. La squadra era stata trasformata in una corazzata fisica in cui Vittorio Ferracini e Vittorio Gallinari giocavano da ali piccole mascherate. I due lunghi erano John Gianelli, al secondo anno a Milano, e Dino Meneghin. Quella di Dan Peterson era di fatto una rotazione di sette uomini.

LA PARTITA - Quattro

giorni dopo Gara 1, a San Siro, l’Olimpia conquistò lo scudetto della stella dopo un’altra battaglia di 40 minuti, con 10.000 spettatori presenti. Con una mossa inattesa e dibattuta per anni il coach di Pesaro, Pero Skansi, tenne in panchina per 16 minuti nel primo tempo proprio Kicanovic. “Dopo Gara 1, Kicanovic avrebbe voluto uccidermi e in spogliatoio a Pesaro successe di tutto. Io ero tranquillo perché a difendermi c’era Meneghin - raccontò in seguito D’Antoni – Di certo, non avrei mai accettato di non giocare il primo tempo di Gara 2”. Quale fosse il senso della mossa di Skansi non è mai stato chiarito. Forse voleva sorprendere Peterson o forse tenersi Kicanovic fresco per la ripresa contando di restare agganciato alla gara. In

ogni caso, Kicanovic segnò 16 punti in metà gara, portando la Scavolini da meno otto a più tre. Nel rocambolesco finale, Mike D’Antoni non sbagliò nulla. Fu suo l’ultimo canestro, 73-72, prima che la difesa del Billy alzasse il suo muro. L’ultimo tentativo praticamente disperato fu di Sylvester, l’ex, ma John Gianelli eseguì la stoppata dello scudetto con la quale coronò una prova da 19 punti che diventò lo specchio della sua crescita rispetto al giocatore discusso nel corso del primo anno, di cui i tifosi chiedevano il taglio per quell’atteggiamento che solo in apparenza era distaccato. Così il Billy vinse lo scudetto dopo dieci anni e conquistò la seconda stella.

IL SIGNIFICATO - “Per me fu un sollievo – dice Mike D’Antoni a proposito del suo primo scudetto – perché dopo tante volte in cui ci eravamo andati solo vicino cominciavo ad avvertire la pressione di dover vincere”. Lo stesso concetto valeva per Dino Meneghin, che era stato etichettato come vecchio a inizio stagione, in declino, per Dan Peterson che aveva vinto un titolo a Bologna ma ancora nulla a Milano. Lo scudetto del 1982 aprì un ciclo di otto finali consecutive per l’Olimpia, che avrebbe perso le successive due, ne avrebbe vinte poi tre di seguito prima di perdere nel 1988 quella con Pesaro (affrontata ma in un abbinamento impari anche nel 1985) e chiudere nel 1989 con la leggendaria vittoria di Livorno. D’Antoni, Premier e Meneghin avrebbero percorso insieme tutto quel ciclo, Peterson sarebbe rimasto fino al 1987 come Gallinari e Franco Boselli. Gianelli e Ferracini sarebbero rimasti un altro anno, quello in cui l’Olimpia arrivò seconda sia in campionato che in Coppa dei Campioni.

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Olimpia Milano-Juvecaserta 84-82

IL GRANDE SLAM

Dopo la Coppa Italia e la Coppa dei Campioni, l’Olimpia completò la sua stagione magica vincendo anche il titolo italiano nella prima serie al meglio delle cinque partite di sempre

L’ANTEFATTO - Battendo il Maccabi a Losanna l’Olimpia era tornata sul tetto d’Europa dopo 21 anni. In più aveva anche vinto la Coppa Italia. Non aveva nulla da dimostrare, ma giocò playoff di livello altissimo chiudendo con 7-1 di record. Nei quarti di finale aveva eliminato 2-1 Pesaro, poi aveva liquidato Varese 2-0 vincendo Gara 1 in trasferta e in finale aveva di nuovo vinto Gara 1 a Caserta e Gara 2 nell’impianto di Lampugnano. La finale del 1987 fu la prima nella storia dei playoff italiani al meglio delle cinque partite. Caserta aveva raggiunto la finale anche nel 1986 portando l’Olimpia alla bella. Rispetto alla stagione precedente non aveva più l’uruguagio Tato Lopez ma il centro bulgaro Georgi Glouchkov, il primo europeo dell’est ad aver giocato nella NBA. L’innesto fu reso possibile dall’esplosione del ventenne Nando Gentile. Il secondo straniero era ancora l’incredibile tiratore brasiliano Oscar Schmidt. Ma aveva anche Pietro Generali, Sandro Dell’Agnello, Sergio Donandoni e un diciottenne già competitivo, Enzo Esposito. L’allenatore era Franco Marcelletti, che aveva preso il posto di

Bogdan Tanjevic, partito per Trieste.

LA SQUADRA - L’Olimpia aveva vinto i precedenti due scudetti per cui l’obiettivo reale della stagione era la Coppa dei Campioni. La squadra rispetto alle due stagioni precedenti era cambiata praticamente solo negli stranieri. Partiti Russ Schoene e Cedric Henderson, ambedue in direzione NBA, arrivarono il rookie Ken Barlow e il grande Bob McAdoo. Non c’era più neanche Renzo Bariviera.

LA PARTITA - “Arrivammo a quella partita fisicamente a pezzi. Sono convinto che se avessimo perso non saremmo più stati in grado di vincerne un’altra –ammise Coach Peterson – Ci salvò Ricky Pittis”. L’Olimpia aveva Meneghin in grande difficoltà. L’infortunio con cui si era presentato a Losanna si era aggravato nei minuti finali della battaglia con il Maccabi. Caserta andò avanti di 18 nel primo tempo dopo un parziale di 19-0 che cambiò completamente la fisionomia della partita, quando Peterson spedì in campo Pittis. Fu lui a ricucire il divario riportando Milano a meno cinque

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all’intervallo. Ma a inizio ripresa, segnarono Donadoni da sotto e Gentile da tre ripristinando dieci punti di vantaggio per Caserta. Nulla sembrava funzionare per l’Olimpia: Premier, che segnò i primi quattro punti della ripresa, commise in successione quarto e quinto fallo, l’ultimo in attacco. Boselli però era infortunato. Fece un tentativo ma dovette tornare in panchina. Nel secondo tempo, con Meneghin menomato e gravato di tre falli, Peterson perse per infortunio anche Bargna. Caserta andò avanti di 12 in due occasioni. Bob McAdoo segnò due volte dalla media. Il primo segnale che qualcosa stava cambiando si ebbe quando Gentile fece 0/2 dalla lunetta. Ma Peterson fu costretto a giocare con quattro lunghi accanto a D’Antoni (Gallinari, Barlow, McAdoo e Meneghin), disponendosi a zona 1-3-1, come peraltro fece a lungo anche Caserta con la 2-3. Quando McAdoo portò Milano a meno sei, la guardia casertana Sergio Donadoni, che giocò la partita della vita, segnò da tre (finì a 26 punti). Gentile, subito dopo, mise un’altra tripla e l’Olimpia precipitò ancora a meno 12. La rimonta sembrava disperata. Ma in una sequenza di tre possessi consecutivi, McAdoo stoppò Glouchkov, Gallinari forzò Gentile ad un errore da sotto e D’Antoni stoppò un tiro da tre dello stesso Gentile. Infine, Meneghin prese sfondamento da Oscar che uscì per falli con cinque minuti da giocare (23 punti). Improvvisamente, si scatenò il rookie Ken

Barlow. Timido fino a quel momento, schiacciò un assist spettacolare di McAdoo (29 punti), poi segnò altri quattro punti tenendo l’Olimpia agganciata nella volta finale, quando D’Antoni chiese il cambio a Peterson, esausto, e il Coach rispose spendendo un time-out. Fu ancora D’Antoni dalla lunetta a ricucire a meno uno. A 1:35, in un possesso confuso, Barlow pescò dal cilindro una tripla allo scadere dei 30 secondi (non c’erano ancora i 24) e finalmente completò la rimonta. A 59 secondi dalla fine, Donadoni gelò il PalaTrussardi con un’altra tripla. Nell’ultimo possesso offensivo, D’Antoni usò un blocco per salire in sospensione, aspettò Gentile che lo stava inseguendo e prese il fallo. Dalla lunetta, non tremò. Fece 3/3 chiudendo a 11 punti. Restavano 14 secondi, la tripla di Gentile uscì di un niente. Milano vinse 8482.

IL SIGNIFICATO - L’Olimpia completò con quel successo al PalaTrussardi una stagione unica. Fu però anche l’ultima vittoria di Dan Peterson come allenatore della squadra. Aveva solo 51 anni ma decise di ritirarsi, ammettendo in seguito l’errore. Dopo quella gara, due giocatori simbolo del club Franco Boselli e Vittorio Gallinari vennero ceduti, a Forlì e Pavia, per tentare di rinfrescare il gruppo con l’iniezione di forze fresche (arrivarono Massimiliano Aldi e Piero Montecchi). Gara 3 fu anche la prima partita decisiva, da protagonista del diciannovenne Riccardo Pittis.

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Emerson Varese-Olimpia Milano 84-87

LA BANDA BASSOTTI

L’ANTEFATTO - La stagione 1978/79 fu quando Mike D’Antoni esplose e diventò Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Successe a Roma, contro la Stella Azzurra di un tecnico emergente di nome Valerio Bianchini: D’Antoni rubando palla dopo palla riportò l’Olimpia in partita e la condusse alla vittoria 94-92 in Gara 1. Poi chiuse i conti in Gara 2. Era nata una leggenda. In semifinale, l’Olimpia trovò Varese nella parte finale della sua incredibile striscia di dieci finali europee consecutive. Il Billy a sorpresa sbancò anche Varese in Gara 1, 8676, ma sentì la pressione e perse in casa Gara 2 rinviando il verdetto alla terza partita, la cosiddetta bella, a Masnago. Una partita con pronostico a senso unico.

LA SQUADRA - Era il primo anno di Dan Peterson a Milano, il secondo dopo il ritorno in Serie A e anche il secondo anno di D’Antoni a Milano. Ma la squadra non era quotata: aveva sei giovani in squadra e quattro veterani come Mike Sylvester, CJ Kupec, Vittorio Ferracini oltre a D’Antoni. Peterson decise che quella che doveva essere una debolezza si trasformasse nel punto di forza della squadra usando tutti i suoi giovani, di grandi qualità, per alzare i ritmi, aggredire in difesa e correre in contropiede. Quindi D’Antoni era il playmaker, Sylvester la guardia, Kupec, Gallinari (20 anni) e Ferracini i lunghi. Nel basket di oggi non sarebbe un quintetto piccolo, tutt’altro, ma nel 1979 lo era perché di fatto non aveva un centro ma solo ali. Da qui l’idea di chiamare la squadra la

“Banda Bassotti”. Gli altri interpreti erano Dino e Franco Boselli, Francesco Anchisi più Paolo Friz e Valentino Battisti.

LA PARTITA - “Battemmo Varese in Gara 3 con sei canestri dall’angolo di Kupec. Giocava il pick and roll con D’Antoni, eseguiva un taglio a banana e riceveva in angolo. Non sbagliò mai”, ha raccontato Peterson. Ma il vero capolavoro fu un altro. Peterson partì con un quintetto e non fece neppure un cambio. Andò avanti 40 minuti con gli stessi cinque giocatori. “Non fu una scelta premeditata, maturò nel corso della partita”, dice il Coach. Non solo: l’Olimpia finì la gara con cinque uomini in campo tutti carichi di quattro falli. Ma nessuno commise il quinto. Finì 87-84, con 26 punti di Kupec, 35 di Sylvester, otto punti e 11 rimbalzi di Ferracini, otto e nove rimbalzi di Gallinari. Varese ebbe 36 punti di Bob Morse e 18 di Dino Meneghin.

IL SIGNIFICATO - L’Olimpia raggiunse la finale scudetto a sorpresa. Venne battuta in due gare dalla Virtus Bologna, con lo stesso nucleo lasciato da Peterson per trasferirsi a Milano. Ma quella partita, la qualificazione alla finale, sublimò il ruolo storico della Banda Bassotti (“Fu un piacere allenare quella squadra – dice Peterson – perché non potevi mai dire nulla, a nessuno, davano sempre tutto. Tutti quelli che ne hanno fatto parte sono orgogliosi di avere fatto parte”) e aumentò il credito di Coach Peterson permettendogli poi di superare indenne i due anni successivi, in attesa dello scudetto.

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1° MAGGIO 1979

Libertas Livorno-Olimpia Milano 85-86

IL TUFFO

L’ultimo scudetto di Mike D’Antoni, Dino Meneghin, Bob McAdoo e Roberto Premier venne conquistato in una memorabile, drammatica, irripetibile Gara 5 a Livorno

L’ANTEFATTO - Nel 1988, l’Olimpia aveva vinto di nuovo la Coppa dei Campioni, ma dopo tre anni aveva dovuto cedere in campionato alla Scavolini Pesaro guidata da Valerio Bianchini. Senza un’ala piccola dinamica, in un basket che stava gradualmente cambiando, Milano si trovò scoperta contro Darren Daye. Quindi nella stagione 1988/89 rinunciò a Rickey Brown, protagonista l’anno precedente, per prendere Billy Martin. Ma Martin non funzionò e alla lunga arrivò Albert King, ex stella non del tutto sbocciata nella NBA. Nei playoff, l’Olimpia eliminò Pesaro dai playoff in circostanze polemiche: la Scavolini vinse Gara 1 sul campo ma la perse a tavolino perché una monetina colpì Dino Meneghin. La vittoria a tavolino consentì all’Olimpia di chiudere i conti in casa, 2-0, qualificandosi per la finale contro Livorno. L’Enichem era allenata da Alberto Bucci, aveva Alessandro Fantozzi, Andrea Forti, Wendell Alexis, Alberto Tonut e Joe Binion che componevano il quintetto. Ma quest’ultimo chiuse la stagione prendendo a pugni una porta a vetri a Reggio Emilia. Livorno andò avanti con Flavio Carera come centro e tenendo dalla panchina il duro americano David Wood. Quella era la squadra che contese lo scudetto all’Olimpia vincendo Gara 1 a Livorno e poi a sorpresa Gara 4 a Lampugnano impedendo la festa annunciata dello scudetto numero 24.

LA SQUADRA - Dan Peterson si era ritirato dopo il Grande Slam del 1987 lasciando la squadra a Franco Casalini che nel primo anno aveva vinto Coppa Intercontinentale e Coppa dei Campioni. Ma nel 1988/89 non aveva ancora nulla in mano, neppure la Coppa Italia. Casalini usava Piero Montecchi in quintetto e Roberto Premier dalla panchina. Poi c’erano Albert King, McAdoo e Meneghin. La rotazione era completata da Pittis, Davide Pessina, Max Aldi.

LA PARTITA - Fu una gara ad elastico. Ad inizio ripresa Livorno la afferrò per la gola e se la lasciò scappare. Milano ebbe un passaggio negativo in cui Pittis si fece fischiare un tecnico e a King sanzionarono un antisportivo. Casalini chiamò time-out e richiamò mezza squadra, troppo intenta a parlare con gli arbitri Grotti e Zeppilli, soprattutto D’Antoni. Pessina era il più agitato. Sembrava che l’Olimpia, stanca e logora, in un clima impossibile, fosse sul punto di implodere. Invece ebbe una reazione incredibile. Un pallone che Pessina di forza semplicemente strappò dalle mani di David Wood per segnare a rimbalzo. Un rimbalzo conteso da cento braccia che fu preda di Meneghin che aveva 39 anni. Premier saltò Forti dal palleggio e arrivò al ferro estendendosi in avanti, come se fosse sul punto di capitolare. Milano esplose a più otto!

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27 MAGGIO 1989

Premier fino a quel momento nullo, erratico, giocò dieci minuti spettacolari. Ma nel momento in cui la Philips sembrava avesse vinto, Livorno si liberò di tutta la tensione e giocò la sua pallacanestro migliore trascinata da Fantozzi e un fantastico Wendell Alexis che giocò probabilmente la più grande Gara 5 che un giocatore potesse giocare senza vincerla segnando 32 punti. Da 80-72, Livorno tornò a meno tre, con Tonut in contropiede dopo una palla persa da D’Antoni. Nessuno in quel momento realizzò che il tuffo con cui McAdoo gli deviò la palla oltre la linea laterale sarebbe diventato probabilmente il singolo atto più famoso nella storia dell’Olimpia o dell’intero basket italiano. La bellezza del gesto è indescrivibile, il cuore ancora di più. La sorpresa è di Tonut: intento a proteggersi da King, che gli corre accanto alla sua sinistra, si volta senza capire come abbia fatto la palla a sfuggirgli di mano. In quel momento, come un siluro, McAdoo completa il tuffo tra le braccia di operatori tv, fotografi e tifosi appollaiati tutti sulla linea di fondo. “So che se ne parla ancora – dice McAdoo – fu una giocata atipica perché ammetto che in tanti anni di NBA non avevo mai fatto nulla di simile. Non so cosa sia scattato”. Ma la palla rimase alla Libertas e sulla rimessa Fantozzi segnò da tre. La grande beffa è tutta qui: se McAdoo non si fosse tuffato, Tonut avrebbe segnato due punti e Livorno sarebbe rimasta sotto di uno. Invece fu 80-80. Premier segnò ancora da tre attingendo a non si sa quali energie. Alexis rispose con un tiro frontale ma con il piede sulla linea. Un centimetro costato tantissimo: 83-82. D’Antoni chiamò il gioco a elle da destra, girò attorno al blocco monumentale di Meneghin palleggiando con la mano sinistra. Guadagnò abbastanza da “perdere” Fantozzi e segnare ancora da tre. 86-82. Alexis segnò nuovamente da tre per il meno uno. La scelta di Livorno fu quella di

non commettere fallo, il che avrebbe lasciato pochissimo tempo per rimediare. Sull’ultimo possesso della stagione, Premier sbagliò il tiro del match-point e l’Olimpia si trovò clamorosamente, inopinatamente, stranamente esposta al contropiede avversario. Fantozzi lanciò un pallone lungo ad Andrea Forti ma forse dopo un’esitazione. Il tentativo di stoppata di Meneghin e McAdoo fu tardivo. Forti da sotto segnò il canestro più facile e importante della sua carriera. Ma dopo il suono della sirena. Quello che successe dopo è letteratura. Invasione di campo, arbitri rifugiati negli spogliatoi, i giocatori di Milano che rientrano convinti di aver vinto (nel filmato si vedono un paio di loro – incluso D’Antoni - esultare dopo aver guardato l’arbitro), quelli di Livorno che non capiscono. Si accende una rissa. Premier resta solo contro tutti ma di certo non risulta intimidito. Nel frattempo, sul tabellone elettronico il punteggio viene corretto a favore di Livorno: non si capisce bene da chi. La notizia arriva negli spogliatoi, i giocatori dell’Olimpia la apprendono con incredulità, come una mazzata. Ma negli spogliatoi si combatte un’altra partita: il canestro di Forti non è mai stato convalidato. Il general manager Cappellari nello spogliatoio degli arbitri si fa consegnare il referto vincente. Lo mostra negli spogliatoi, “ma era passata almeno un’ora”, dice Premier, ed esplode la gioia. Milano abbandona Livorno con enormi difficoltà e minacce. Ma lo fa da squadra Campione d’Italia

IL SIGNIFICATO - Fu l’ultima impresa di quella squadra incredibile, l’ottava finale consecutiva di cui cinque vinte. L’Olimpia tentò di prolungare il ciclo di una stagione, ma sbagliò, e successivamente procedette ad una vera rivoluzione che coincise con il ritiro di Mike D’Antoni e il suo passaggio in panchina al posto di Franco Casalini.

18 REDSHOESMAGAZINE

17 APRILE 1983

Olimpia Milano-Bancoroma 86-73

LA MOSSA

L’ANTEFATTO - Il Billy arrivò alla seconda finale scudetto consecutiva dopo aver perso di un punto quella di Coppa dei Campioni contro Cantù. L’avversario era il Bancoroma, allenato dal grande rivoluzionario Valerio Bianchini, nemico numero 1, ma rispettatissimo, di Dan Peterson, tornato nella Capitale, lui milanese, per alimentare il sogno del tricolore che aveva solo accarezzato quando pilotava la Stella Azzurra. Roma era forte, con nazionali come Enrico Gilardi (35 punti in Gara 1), Marco Solfrini e Fulvio Polesello. I primi due avevano vinto l’argento olimpico a Mosca nel 1980. Il centro americano era Kim Hughes, 2.11, un passato nella NBA e un altro proprio a Milano, che però si infortunò prima dei playoff e fu sostituito da Clarence Kea, alto 1.98, di grande energia e impatto difensivo. Ma la stella di Roma era il funambolico playmaker Larry Wright, anche lui ex NBA, il fulmine della Louisiana, piccolo, forse fragile ma velocissimo che aveva vinto un titolo a Washington. Wright era più veloce, più dotato di talento di D’Antoni. Erano due stili diversi. Il duello tra i due, a distanza, andò avanti per tutto l’anno. Roma vinse la regular season perché al Palalido l’Olimpia perse alla fine della stagione contro la Libertas Livorno a causa di un canestro sulla sirena da tre quarti di campo di Roberto Paleari, un ex tra l’altro. In finale, dovette giocare con il fattore campo contro. Al Palaeur, Roma si impose 88-82, dopo aver chiuso il primo tempo a più 17, trasferendosi a Milano per il “match-point”.

LA PARTITA - Era una domenica pomeriggio e il Palazzone di San Siro era esaurito con 11.500 spettatori. Primo tempo in equilibrio, 43-43, poi il Bancoroma cambia marcia, prende cinque

punti di vantaggio e in quel momento Larry Wright ne ha 27. Sembra immarcabile. Intende chiudere il campionato quel giorno stesso. A quel punto, Peterson guarda la panchina, vede Vittorio Gallinari, il suo specialista difensivo, la sua sentinella, forse il suo gregario preferito, uno dei membri della Banda Bassotti, cresciuto nel settore giovanile dell’Olimpia. Gli disse di andare in campo, lui che era 2.05, a marcare Larry Wright che era 1.80. “Non passa giorno senza che qualcuno mi chieda di quella mossa – racconta Peterson -. Quella è stata la prima volta in cui, entrando in sala stampa, mi sono sentito dire: Dan sei stato un genio. Ho avuto la tentazione di montarmi la testa. Dissi grazie ma prima di arrivare a Gallinari ero passato da D’Antoni, Franco Boselli, Roberto Premier e nessuno era stato in grado di contenerlo”. Fu la carta della disperazione ma funzionò. Gallinari cominciò ad agitare le braccia, Wright fu sorpreso, tant’è che cominciò una battaglia personale che mandò Roma fuori giri. Milano rimontò. Milano fece 15-0 di parziale. Wright si fermò a 33 punti. D’Antoni non si fece irretire da Wright nel suo duello personale. Segnò 21 punti con 7/11 dal campo, Premier ne aggiunse 29. L’Olimpia vinse di 13, 86-73.

IL SIGNIFICATO - Due giorni dopo, il Bancoroma vinse lo scudetto storico di Roma, che la stagione seguente avrebbe vinto anche la Coppa dei Campioni. Vittorio Gallinari sarebbe passato alla storia per una gara in cui segnò zero punti, diventando simbolo di sacrificio e difesa. È limitativo ricordarlo solo per quella gara considerato quanto ha vinto in carriera.

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13 GIUGNO 2018

Mens Sana Siena-Olimpia Milano 72-75

THE BLOCK

Andrew Goudelock salvò l’Olimpia in Gara 5 della finale del 2018 non con uno dei suoi tanti canestri ma attraverso un gesto inatteso, una stoppata al ferro, da ultimo uomo, su un giocatore 10 centimetri più alto

L’ANTEFATTO - Nella stagione 2017/18 l’Olimpia aveva vinto la Supercoppa, ma era stata eliminata al primo turno in Coppa Italia e in EuroLeague era stata in corsa per i playoff solo per una parte di stagione. Nei playoff eliminò Cantù 3-0 e poi Brescia 3-1 dopo aver perso Gara 1 in casa. Nella finale scudetto, andò in vantaggio 2-0 contro Trento, poi in due battaglie senza esclusione di colpi si ritrovò sul 2-2 e costretta a giocare una pericolosa Gara 5 con tutta la pressione addosso.

LA SQUADRA - Totalmente rinnovata rispetto alla stagione precedente, l’Olimpia aveva Simone Pianigiani al primo anno da allenatore, aveva perso per infortunio Jordan Theodore dopo le Final

Eight, ma contava sul miglior Andrea Cinciarini di sempre e un Andrew Goudelock tirato a lucido nella post-season. Le ali erano Vlado Micov e Mindaugas

Kuzminskas; i centri Arturas Gudaitis e Kaleb Tarczewski. Ruoli importanti li avevano (erano permessi sette stranieri) Dairis Bertans come tiratore scelto e Curtis Jerrells come jolly dalla panchina.

In panchina c’erano anche Abi Abass e Marco Cusin.

LA PARTITA - L’Olimpia guidò di 11 punti nel primo quarto ma poi la gara si trasformò in un gigantesco corpo a corpo. Milano, cancellato un tentativo di fuga di Trento, rispose salendo a più otto nel quarto finale. A quel punto, Shavon Shields, proprio lui (27 punti in 27 minuti quella sera), comincia a segnare l’impossibile. Sul più otto per Milano, segna una tripla e poi due tiri liberi. Dopo un’acrobazia di un grande Cinciarini (15 punti e quattro assist), sempre da tre riavvicina Trento a meno due. Arturas Gudaitis, strepitoso anche lui (19 punti e sette rimbalzi), con un gioco da tre punti ripristina cinque lunghezze per Milano. Sembrerebbe la giocata risolutiva, invece dopo un errore dalla lunetta del centro trentino Dustin Hogue, la palla carambola nelle mani sbagliate. Sono ancora quelle di Shields: dall’arco completa un possesso da quattro punti e riporta la sua squadra a meno uno. Gudaitis, ancora, mette due tiri liberi che valgono il più tre. Trento, che era

squadra mediocre nei tiri liberi ma fortissima a rimbalzo d’attacco, dopo due errori dalla linea controlla in qualche modo il possesso. Da rimessa, Shields pareggia la gara, addirittura. Sulle tribune di un Mediolanum Forum tutto esaurito serpeggia il panico.

Andrew Goudelock, con un fade-away, restituisce il vantaggio all’Olimpia. Ma Shields con uno step-back da tre sorpassa. Mancano 16 secondi alla fine. Curtis Jerrells, l’uomo che aveva salvato l’Olimpia nel 2014 in Gara 6, lavora centralmente, poi attacca Shields dal palleggio e prende fallo. Per l’ala dell’Aquila è il quinto fallo, quello che lo fa fuori dall’ultimo potenziale possesso. Jerrells va in lunetta sotto di uno, ma centra in modo glaciale ambedue i tiri liberi. A sei secondi alla fine, l’Olimpia è tornata avanti di un punto. Ma Trento non si arrende. Il playmaker Jorge Gutierrez conduce il coast-to-coast, supera Jerrells con un palleggio incrociato a 3.7 secondi dalla fine. Kuzminskas e Gudaitis si muovono verso di lui, l’obiettivo è fermare il palleggio e guadagnare tempo. Opportunamente, Micov da una parte e Goudelock dall’altra sono sui loro uomini negli angoli. Gudaitis ha libertà di intervento perché Hogue è in ritardo. Ma il movimento generoso di Kuzminskas apre di fatto un corridoio per Dominique Sutton a centro area. Il passaggio di Gutierrez a poco più di un secondo dalla sirena è

perfetto. Manda Sutton comodamente a canestro. Sarebbe forse il lay-up dello scudetto, di sicuro quello del 3-2.

Ma Andrew Goudelock, MVP della finale, un realizzatore del primo livello, 16 punti in quella partita, decide di entrare nella storia. Con scelta di tempo perfetta, ma soprattutto grande istinto, pur 10 centimetri più basso di Sutton e non certo famoso per la sua difesa, abbandona il suo uomo, sprinta verso il canestro e vola ad incontrare Sutton proprio al ferro. Ne esce la stoppata più pura della sua carriera. Solo palla. The Block. Vittoria protetta, 91-90. 3-2 nella serie. Due giorni dopo, a Trento, Goudelock avrebbe alzato il trofeo di MVP della finale.

IL SIGNIFICATO - L’Olimpia vinse lo scudetto dominando a Trento Gara 6. Il gesto di Goudelock l’ha fatto entrare nella storia anche in un’edizione di playoff in cui segnò 15.9 punti per gara, svolgendo il suo mestiere, quello di realizzatore, tiratore da tre punti, artista del floater. Come nel 1989, Bob McAdoo – supremo realizzatore – aveva firmato la storia con il famoso tuffo, un gesto mai eseguito in carriera; nel 2018 Goudelock ottenne il suo ruolo nella mitologia dell’Olimpia con la terza stoppata della sua intera stagione milanese. Nel momento più importante. Decisivo.

18 GIUGNO 2022

Olimpia Milano-Virtus Bologna 81-64

THE WALL

Il Muro difensivo dell’Olimpia in evidenza per tutta la serie ha indirizzato Gara 6, giocata a Milano con l’obbligo di non tornare a Bologna per Gara 7 e uno Shields uscito malconcio dalla quinta partita

L’ANTEFATTO - Nella stagione

2021/22, dopo aver vinto la Coppa

Italia a Pesaro, l’Olimpia non riuscì a ripetere l’accesso alle Final Four di EuroLeague conquistato l’anno prima anche a causa di una molteplice serie di infortuni che di fatto tolsero di mezzo Malcolm Delaney e Nicolò Melli, oltre a richiedere uno sforzo supremo, da menomato, a Sergio Rodriguez. L’Olimpia finì seconda in stagione regolare e recuperò Melli nei playoff solo nella semifinale con Sassari. La stagione di Delaney invece era già finita. In corso d’opera era stato perso anche Dinos Mitoglou e il suo posto occupato da Ben Bentil. In finale, ritrovò la Virtus Bologna Campione d’Italia con il fattore campo contro. Ma con una grande prova di squadra Milano vinse subito la prima partita in trasferta e poi in casa allungò sul 3-1 prima di cede-

re in Gara 5 a Bologna. Nel finale di quella partita, Shavon Shields si infortunò alla caviglia cadendo sul piede di Marco Belinelli. Si arrivò quindi a Gara 6 con il match-point scudetto, ma anche il rischio di tornare a Bologna per Gara 7 con Shields in condizioni complicate.

LA SQUADRA - Senza Delaney, Sergio Rodriguez era il playmaker con il sostegno di Tommaso Baldasso. Anche Devon Hall veniva impiegato in quel ruolo. Nei playoff ebbe una parte significativa Jerian Grant, utilizzato come sesto straniero al posto di Delaney. Shavon Shields e Gigi Datome erano gli altri esterni. I lunghi erano Nicolò

Melli, Kyle Hines, Ben Bentil più Pippo Ricci. Si trattava di una rotazione di dieci uomini più Paul Biligha come terzo centro e Davide Alviti.

LA PARTITA - Non è stata una vittoria drammatica quella di Gara 6. In realtà è stata una partita senza storia, che l’Olimpia ha dominato fin dalle prime battute per poi allungare e finire dominando. Ma è stata una partita che ha rispecchiato l’andamento della serie e dei playoff, contrassegnati da un’Olimpia più brillante e veloce in attacco rispetto all’intero andamento della stagione ma sempre efficace in difesa nell’alzare il suo muro, “The Wall”, grazie alla presenza contemporaneo in campo di quattro straordinari difensori come Devon Hall, Shavon Shields, Nicolò Melli e Kyle Hines. Anche in Gara 6, l’Olimpia ha tenuto una formazione ricca di talento come la Virtus a quota 64 punti. L’Olimpia in questa Gara 6 ha tratto dalla difesa le risorse per esaltare l’attacco, segnando in contropiede e transizione. Nel primo quarto ha costruito subito 13 punti di vantaggio in questo modo, segnandone addirittura 29. Dopo un secondo periodo migliore in cui Bologna è tornata a meno sette, i primi cinque minuti del terzo periodo sono stati significativi: l’Olimpia ha segnato dieci punti concededone… zero. Il

muro ha trasformato i sette di vantaggio dell’intervallo in 17. A quel punto, la partita non è più tornata in discussione né in equilibrio. La Virtus ha segnato dieci punti nel terzo quarto e 28 in generale nel secondo tempo, ma nel quarto periodo la partita è stata una cavalcata trionfale. Shavon Shields è stato l’unanime MVP della serie, in quella gara Gigi Datome ha segnato 23 punti e Sergio Rodriguez 12 ma con otto assist e quattro palle rubate.

IL SIGNIFICATO - È stata la prima volta nella storia del club in cui l’Olimpia ha battuto la Virtus in una finale dei playoff. Aveva perso nel 1979, nel 1984 e dodici mesi prima nel 2021 addirittura 4-0. Oltre che sublimare la classe e il gioco totale di Shavon Shields, la finale e in particolare Gara 6 hanno rappresentato il momento del grande connubio tra Chacho Rodriguez e il Muro, non quello in campo, ma quello sugli spalti. Infine, la vittoria ha convalidato una stagione esaltante cosa che sfortunatamente non era successa un anno prima quando un gruppo in parte simile aveva esaurito le proprie energie contro lo stesso avversario.

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Auxilium Torino-Olimpia Milano 90-91 LO

SHOW

L’ANTEFATTO – Dopo due finali perse alla bella, l’Olimpia faticò nella stagione 1984/85, una stagione contrassegnata dal crollo del Palazzone di San Siro che obbligò la squadra a cercare casa in modo disperato e inadeguato rispetto all’attenzione suscitata dalla squadra. I due stranieri erano Wally Walker e Russ Schoene. Entrambi partirono male e le voci di taglio erano sempre più insistenti. Quando si manifestò la possibilità di prendere il fenomeno Joe Barry Carroll, l’Olimpia – indecisa – sacrificò l’esperto Walker salvando il più giovane Schoene. La squadra fece male in Coppa Italia, ma vinse la Coppa Korac battendo Varese in finale con 33 punti proprio di Schoene. Nei playoff eliminò la Virtus Bologna campione d’Italia 2-0 e in semifinale la Berlino Torino. Gara 1 fu vinta a Milano nonostante i 33 punti della star avversaria, Scott May. Gara 2 fu la partita dello show.

LA SQUADRA - L’anno prima di venire a Milano, Carroll nella NBA aveva segnato 20.5 punti di media, 24.1 due anni prima. Al rientro in America, avrebbe prodotto due stagioni da 21.2 di media. Fu un colpo sensazionale perché Carroll aveva solo 26 anni e costrinse Dan Peterson ad una mossa senza precedenti: il taglio volontario di un giocatore. Il talento di Carroll era irreale per l’Italia, ma costrinse Meneghin a fare da gregario. A Dino però interessava solo vincere e sapeva che con Carroll l’avrebbe fatto.

“Chiamai Dino spiegandogli che avrebbe dovuto cambiare

ruolo e temevo la sua reazione. Dino non fece una piega: non era minimamente interessato alla gloria personale”, racconta Peterson

LA PARTITA - La Torino dell’epoca era una squadra fortissima, costantemente tra le prime quattro del campionato. Allenata dal milanese ed ex Olimpia, Dido Guerrieri, aveva un mix eccezionale di giovani come Carlo Delle Valle, bravissimo a mettere in difficoltà Mike D’Antoni, e Riccardo Morandotti, e giocatori esperti come Carlo Caglieris e Renzo Vecchiato, oltre al grande Scott May e Michael Gibson. Gara 2 al Parco Ruffini fu una battaglia. Torino costruì otto punti di vantaggio. Poi Carroll si mise al lavoro. “Renzo Vecchiato – racconta Meneghin – mi disse dopo che si aspettava Carroll camminasse sulle acque”. L’Olimpia cominciò a dare la palla dentro. Carroll centrò otto tiri consecutivi, improvvisando un clinic di movimenti in post basso, tiri dalla media, ganci. Arrivò a segnare 38 punti in quella gara. La giocata conclusiva la fece in difesa, rubando palla a Caglieris sul possesso decisivo. L’Olimpia vinse 91-90 e si qualificò per la finale.

IL SIGNIFICATO - In finale, Milano liquidò 2-0 anche Pesaro, ma fu una serie squilibrata. L’Olimpia vinse di uno sia Gara 2 a Bologna che Gara 2 a Torino diventando la prima squadra della storia a finire imbattuta nei playoff. Carroll in quelle sei gare segnò 176 punti, 29.3 di media.

REDSHOESMAGAZINE 27
25
aprile 1985

25 maggio 1996

Fortitudo Bologna-Olimpia Milano 68-70

THE JUMPER

L’ANTEFATTO - Il 15 giugno 1994 Bepi Stefanel entrò ufficialmente all’Olimpia Milano come sponsor ma nella realtà stava comprando tutto. “C’erano due squadre e dovevano farne una”, rilevò Nando Gentile anni dopo commentando partenze illustri come quelle di Sasha Djordjevic per Bologna o di Antonello Riva verso Pesaro. In pratica restarono solo Flavio Portaluppi il cui tiro intrigava il nuovo Coach Bogdan Tanjevic, Hugo Sconochini, Paolo Alberti e Davide Pessina. Da Trieste al seguito di Stefanel arrivarono invece Dejan Bodiroga, Nando Gentile, Gregor Fucka, Davide Cantarello e Sandro De Pol. La Stefanel raggiunse la finale di Coppa Korac nel 1995 e poi ancora nel 1996 ma le perse tutte e due in modo rocambolesco contro Alba Berlino ed Efes Istanbul. Nel 1996 però cambiò passo verso la fine della regular season, vinse la Coppa Italia a Milano ed entrò nei playoff in grande condizione. Anche se voci riguardanti il futuro del gruppo erano ormai dilaganti. Si sapeva già che Tanjevic sarebbe andato via e altri cambiamenti pesanti attendevano il roster. Ma questo a fine stagione. L’Olimpia invece arrivò dritta in finale dove trovò l’emergente Fortitudo allenata da Sergio Scariolo e con il vantaggio del fattore campo nella serie al meglio delle cinque partite. La Fortitudo vinse Gara 1 a Bologna approfittando di due atipici errori di Bodiroga dalla lunetta, ma perse Gara 2 a Milano. Gara 3 ancora nel capoluogo emiliano sarebbe stata quella decisiva.

LA SQUADRA - Insieme al nucleo dei triestini e qualche sopravvissuto della vecchia Olimpia, brillava la stella di Rolando Blackman, panamense cresciuto a Coney Island, a New York, una grande carriera a Kansas State e nella NBA a Dallas prima di finire a New York nei suoi Knicks e scoprirsi dimenticato da tutti. Blackman era una guardia con un tiro micidiale, un giocator

elegante e bello, che era stato MVP già della finale di Coppa Italia vinta battendo la Virtus Bologna e poi Verona.

LA PARTITA - La Fortitudo prese sette punti di vantaggio nel primo tempo. Aveva la partita in mano quando sbagliò tutto negli ultimi possessi. Incassò un 7-0, poi la sua star Carlton Myers completò un gioco da tre punti entrando con una forza atletica inaudita per quei tempi. Ma Bodiroga da tre dopo un primo tempo opaco pareggiò di nuovo. La Fortitudo aveva un punto di vantaggio quando Scariolo con sette secondi da giocare chiamò time-out. Ma la rimessa fu un disastro e Nando Gentile sulla sirena andò a segnare un facile lay-up. Dopo minuti difficili, in cui la Fortitudo aveva fatto di più e Bodiroga pochissimo, l’Olimpia era avanti. Il secondo tempo fu un’altra battaglia. Carlton Myers su uno sfondamento andò a commettere il quinto fallo che lo mise a sedere in panchina per gli ultimi quattro minuti abbondanti di gara. Senza Myers, Djordjevic prese la squadra sulle spalle mentre Tanjevic rimandava in campo Nando Gentile, anche lui con quattro falli (incluso un tecnico per proteste). Ma in sua assenza Portaluppi aveva fatto il suo solito lavoro di tiri e sacrifici. Quando Gentile entrò, Myers era fuori e l’Olimpia aveva il controllo della gara. Djordjevic provò a ribellarsi ma sull’ultimo possesso, punteggio pari, Bodiroga giocò in isolamento nella sua posizione preferita, alzandosi in sospensione dal gomito destro della lunetta. Fu il canestro dello scudetto numero 25 anche se l’Olimpia concretamente lo conquistò a Milano nella quarta partita.

IL SIGNIFICATO - Fu una sorta di scudetto ponte tra l’era delle grandi vittorie e quella successiva che sarebbe stata molto meno brillante. L’Olimpia non avrebbe più vinto per i successivi 18 anni.

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Virtus Bologna-Olimpia Milano 71-75

L’ESPULSIONE

L’ANTEFATTO - L’Olimpia nel 1982/83 aveva perso la finale di Coppa dei Campioni di un punto contro Cantù e la finale scudetto in Gara 3 a Roma. Nel 1983 aveva puntato su uno straniero di grande impatto come Earl Cureton con il quale sembrava imbattibile. Ma Cureton scappò per tornare nella NBA e venne sostituito da un rookie di talento immenso come Antoine Carr. In Coppa delle Coppe, senza poterlo utilizzare, l’Olimpia perse di uno la finale con il Real Madrid. Quando arrivò a giocarsi lo scudetto contro la Virtus Bologna era reduce da tre finali perse consecutivamente. Tuttavia, aveva vinto la regular season e aveva il vantaggio del fattore campo. Al Palazzone di San Siro però perse Gara 1 in casa, su un fallo in attacco molto discusso fischiato a Mike D’Antoni nel finale, e il 23 maggio 1983 invase Piazza Azzarita a Bologna nel tentativo di rimanere viva e riportare la serie a Milano.

LA SQUADRA - Dopo cinque anni a Cantù, Milano riprese Renzo Bariviera, un ritorno, per ovviare alla perdita di Vittorio Ferracini. La squadra era la stessa della stagione precedente con Antoine Carr al posto che originariamente era stato occupato da John Gianelli e affittato da Earl Cureton prima della sua fuga per Detroit. La Virtus Bologna aveva come stranieri l’esterno Jan Van Breda Kolff e il centro Elvis Rolle, un rookie. Il coach era Alberto Bucci e in campo cresceva la leadership di Roberto Brunamonti, ma c’erano ancora anche Renato Villalta e Marco Bonamico oltre a Do-

menico Fantin, una guardia che sarebbe stato decisivo nei playoff.

LA PARTITA - Russ Schoene fece 8/9 dal campo nel primo tempo costruendo dieci punti di vantaggio per l’Olimpia, mentre Caserta era aggrappata a Sandro Dell’Agnello che la tenne in partita. Nel secondo tempo, quando la Juve tentò di riavvicinarsi ancora, fu Roberto Premier a salire in cattedra, un canestro dopo l’altro fino a pilotare una vittoria netta dell’Olimpia, 19 punti di scarto massimo e nove alla conclusione. Schoene finì a quota 23. Henderson fu il miglior rimbalzista dell’Olimpia in tutte le 10 partite di playoff giocate, 13.4 per gara. “Due volte – ricorda Peterson – Gentile rubò palla e andò a tirare in terzo tempo e due volte con uno sprint a tutto campo Henderson lo rimontò arrivando a stopparlo e poi mantenendo il possesso della palla”

IL SIGNIFICATO - Soprattutto quella squadra dimostrò grande cuore, ma la vittoria si rivelò inutile come quella di un anno prima in Gara 2 contro il Bancoroma. In seguito alla sua espulsione, Dino Meneghin venne costretto a saltare la decisiva Gara 3 (Gallinari giocò 31 minuti al suo posto). Antoine Carr, che pure non era fisicamente al meglio, giocò una partita mostruosa, segnando 22 punti, ma alla fine due errori dalla lunetta di Renzo Bariviera furono fatali e la Virtus vinse lo scudetto consegnando all’Olimpia la quarta sconfitta consecutiva in finale in un oceano di polemiche.

REDSHOESMAGAZINE 29
23 MAGGIO 1983

Olimpia Milano-Juvecaserta 93-84

IL BACK TO BACK

L’ANTEFATTO - L’Olimpia raggiunse la finale scudetto per la quinta volta consecutiva nel 1986 con un nuovo avversario, la Juvecaserta di un giovanissimo Nando Gentile, con Oscar Schmidt e la guardia uruguagia Tato Lopez. Il coach era Bogdan Tanjevic. In semifinale, era sopravvissuta ad una battaglia ancora con Torino, dopo aver perso Gara 1 in casa. La finale risultò incredibilmente accesa: l’Olimpia, forzata a giocare al Palalido, vinse la prima partita con il giovane Cedric Henderson al top del suo rendimento, autore di 29 punti e 13 rimbalzi, oltre ad una difesa spettacolare su Oscar. Il brasiliano perse la testa, lo colpì e venne espulso. In Gara 2, il clima a Caserta era caldissimo. Vennero espulsi Mike D’Antoni e l’ala casertana, Sandro Dell’Agnello, un agonista. Ci furono falli tecnici, un tempo supplementare, 41 punti di Oscar, e infine anche un accenno di rissa al rientro negli spogliatoi, nella lunga camminata che divideva il tunnel dagli spogliatoi. Dan Peterson venne accusato di aver insultato Lopez. Alla gara era presente Diego Maradona, che giocava a Napoli in quel periodo. In Gara 3, invece a Milano si presentò il Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, creando non pochi problemi di collocazione.

LA SQUADRA - La vera novità rispetto alla stagione precedente era Cedric Henderson, un talento rimasto tagliato fuori dai draft NBA perché in ritardo sui tempi di iscrizione, ma eliminato dal college per irregolarità accademiche commesse dalla sua università (Georgia).

Aveva 19 anni, era immaturo, venne tagliato in prestagione e poi richiamato. Ma arrivati alla fase decisiva della stagione, Henderson era letteralmente al top.

LA PARTITA - Russ Schoene fece 8/9 dal campo nel primo tempo costruendo dieci punti di vantaggio per l’Olimpia, mentre Caserta era aggrappata a Sandro Dell’Agnello che la tenne in partita. Nel secondo tempo, quando la Juve tentò di riavvicinarsi ancora, fu Roberto Premier a salire in cattedra, un canestro dopo l’altro fino a pilotare una vittoria netta dell’Olimpia, 19 punti di scarto massimo e nove alla conclusione. Schoene finì a quota 23. Henderson fu il miglior rimbalzista dell’Olimpia in tutte le 10 partite di playoff giocate, 13.4 per gara.

IL SIGNIFICATO - I due scudetti precedenti dell’era Peterson-D’Antoni-Meneghin erano arrivati prima della “bella”, 2-0 contro Pesaro nel 1982, 2-0 contro Pesaro anche nel 1985. Ma nel 1983 (Roma) e nel 1984 (Bologna), l’Olimpia aveva sempre perso la partita decisiva. La vittoria in Gara 3 su Caserta rappresentò il primo scudetto vinto vincendo la partita finale. Quell’anno l’Olimpia vinse anche la Coppa Italia preparando l’assalto alla più grande stagione della sua storia, nonostante le defezioni di Cedric Henderson Russ Schoene e Renzo Bariviera.

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maggio 1986
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REDSHOESMAGAZINE 32 PALLACANESTRO OLIMPIA MILANO S.S.R.L. Via G. di Vittorio 6, 20090, Assago (MI) Tel +39 0270001615 - Fax +39 02740608 - olimpia@olimpiamilano.com olimpiamilano.com FOLLOW US

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