OLIMPIA MILANO - IL LIBRO DELLE 3 STELLE

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LA PRIMA STE A SIMMENTHAL 1956/57

L’Olimpia vinse il suo scudetto numero 10, quello che le consentì di fregiarsi del diritto di incollare sulle proprie maglie la fatidica stella, nella stagione 1956/57. Nella storia del club fu una stagione estremamente significativa, per tanti motivi. Nell’estate precedente, Borletti aveva deciso di uscire definitivamente dal basket non solo come proprietario – era già accaduto, quando aveva passato la mano a Adolfo Bogoncelli – ma anche da sponsor. Quindi la stagione 1956/57 fu la prima con il marchio Simmenthal, del Cavalier Sada, sul petto. Fu anche l’ultima stagione di Cesare Rubini nei panni di giocatore e allenatore anche se in realtà aveva di fatto già rinunciato ad andare in campo con l’arrivo, la stagione precedente da Trieste, di Gianfranco Pieri e, proprio alla vigilia di quella stagione, da Pesaro, di Sandro Riminucci.

L’Olimpia aveva vinto all’inizio del decennio quattro scudetti consecutivi, ma poi aveva dovuto rinnovare la squadra, soprattutto aveva perso il grande Sergio Stefanini. Nei due anni precedenti, la Virtus Bologna aveva vinto due scudetti con un nucleo fortissimo composto dal centro Antonio Calebotta, da Achille Canna e Mario Alesini. Milano stava vivendo un graduale ricambio generazionale. Romeo Romanutti, il bomber, aveva 30 anni, a quei tempi non pochi per giocare ai massimi livelli. Rubini scelse anche il primo americano nella storia dell’Olimpia, Ron Clark, il secondo straniero di sempre (l’anno precedente c’era stato il greco Mimi Stephanidis).

Ma la Virtus era la favorita di quella stagione in cui per la prima volta andò a giocare in Piazza Azzarita, nell’odierno PalaDozza. E l’Olimpia cominciò male perdendo a Bologna contro il Motomorini, ovvero la Fortitudo dell’epoca. Quell’anno c’erano 12 squadre in Serie A, di cui tre bolognesi: Virtus Minganti, Fortitudo Motomorini e Preti Gira. L’Olimpia incredibilmente vinse dappertutto, ma non vinse mai a Bologna. Tre viaggi e tre sconfitte. Le uniche di una stagione chiusa con un record di 11-0 in casa. La seconda sconfitta stagionale maturò contro la Virtus, 71-64, ma dopo un tempo supplementare. L’americano Clark devastò la rinomata difesa bianconera, costruita da un allenatore siciliano, molto rispettato, Vittorio Tracuzzi. Clark segnò 30 punti ma non bastarono. L’Olimpia rischiò di perdere due volte: a Cantù si impose 44-43 e a Pesaro contro la Benelli, l’ex squadra di Riminucci, vinse di tre, 72-69. Alla fine del girone di andata aveva due sconfitte, esattamente come la Virtus che era caduta a sorpresa a Pavia e poi a Varese.

L’Olimpia aveva quindi un vantaggio: lo scontro diretto risolutivo si sarebbe giocato a Milano. Solo che perse di nuovo a Bologna, con il Gira, squadra comunque di classifica medio-alta, scivolando in seconda posizione con una vittoria in meno della Virtus. Il break favorevole arrivò quando la Virtus cedette

a Roma contro la Stella Azzurra, riequilibrando la classifica. Lo scontro diretto, a Milano, metteva di fronte le due contendenti a pari punti. E fu una battaglia, praticamente uno spareggio.

Cesare Rubini aveva un problema soprattutto. Clark, che aveva distrutto la Virtus nella partita di Bologna, era assente per infortunio. Lo scudetto, quindi, avrebbe dovuto vincerlo con una squadra tutta italiana. Come la partita di andata, anche la seconda andò al tempo supplementare. L’Olimpia si impose 67-63. Il ragazzo prodigio, l’Angelo Biondo che veniva dalla Riviera, Sandro Riminucci non aveva ancora compiuto 22 anni, ma decise di firmare personalmente, segnando 23 punti, quello scudetto. Altri 22 ne segnò il triestino di Spalato, Romeo Romanutti. In cabina di regia, Gianfranco Pieri, aggiunse 11 punti. Per Riminucci e Pieri, la coppia di guardie più forte probabilmente nella storia della società e forse del basket italiano, si trattò del primo scudetto. Ne avrebbero vinti altri otto inclusi i successivi tre. Uomini forti di quella squadra erano ancora i veterani Sandro Gamba ed Enrico Pagani. Riminucci segnò 459 punti in quella stagione. Solo il pivot slavo Toni Vlastelica di Pesaro ne segnò più di lui.

Battuta la Virtus, l’Olimpia aveva solo bisogno di non rovinare tutto nelle ultime due partite. Non lo fece. Si impose a Varese 84-75 e chiuse i conti, conquistando u cialmente lo scudetto della stella, a Milano nel Palazzo dello Sport della Fiera (il predecessore del Palalido), nell’ultima giornata di campionato contro Pesaro, un largo 79-52.

La stagione successiva, l’Olimpia partecipò per la prima volta alla Coppa dei Campioni. Superò brillantemente le prime due fasi, poi perse nei quarti di finale contro l’Honved Budapest, cedendo nella gara disputata in Ungheria. Vinse però un altro scudetto, sempre precedendo Bologna, anche cambiando straniero, da Clark a Bon Salle che poi sarebbe stato sostituito da Pete Tillotson, fino a quando la Federazione non decise di abolire di nuovo i tesseramenti di giocatori stranieri.

Ma lo scudetto della prima stella fece da spartiacque. Tra l’era Borletti e quella Simmenthal. Tra il Rubini allenatore-giocatore e il Rubini solo allenatore. Tra la generazione di Stefanini e Romanutti e quella di Pieri e Riminucci di cui Pagani e Gamba furono gli anelli di congiunzione. In pratica, quello scudetto strappato alla Virtus bicampione in carica, aprì un nuovo ciclo che in sostanza avrebbe portato la squadra fino alla conquista del titolo europeo del 1966 e nove titoli italiani in 11 anni.

ROSTER: Gianfranco Pieri, Sandro Riminucci, Sandro Gamba, Enrico Pagani (Capitano), Romeo Romanutti, Renato Padovan, Cesare Volpato, Ronald Clark, Cesare Rubini.

ALLENATORE: Cesare Rubini

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LA SECONDA STE A

BI Y 1981/82

C’era pressione sull’Olimpia alla vigilia della stagione 1981/82. Coach Dan Peterson era al quarto anno a Milano, ma ancora non aveva vinto nulla. Nel 1979, il Billy era arrivato a sorpresa in finale, ma poi erano seguite due eliminazioni in semifinale e qualcosa si era sgretolato, non solo per le partenze di CJ Kupec e Mike Sylvester. Nel 1981, Milano aveva perso la semifinale con Cantù cedendo in Gara 3 al Palazzone di San Siro dopo due tempi supplementari. Peterson era finito sul banco degli imputati perché a quei tempi era consentito rinunciare a tirare i liberi in situazione di bonus ma lui non l’aveva fatto – non lo faceva mai – e quella scelta era costata la rimonta e infine la vittoria di Cantù.

Ma nell’estate del 1981, vennero realizzate due grandi mosse di mercato. Varese, alle prese con una necessaria opera di ricostruzione, aveva deciso di cedere Dino Meneghin. Lo voleva Venezia, ma lo prese l’Olimpia in cambio di Dino Boselli e un conguaglio in denaro non indi erente per un giocatore di 31 anni. Oltre a lui arrivò da Gorizia il bomber Roberto Premier che piaceva a Peterson per lo spirito agonistico, non solo per le doti balistiche. La squadra, quindi, contava su D’Antoni e Premier come guardie, Franco Boselli dalla panchina, Ferracini o Gallinari da ala piccola mascherata e poi due centri, Gianelli, che sapeva tirare da fuori, e Meneghin.

Ma la squadra partì male in campionato. Meneghin ebbe un infortunio al ginocchio e dovette fermarsi a lungo. Senza di lui, l’Olimpia andò a Pesaro nel girone di andata e perse 110-65, la più clamorosa sconfitta della sua storia. Pesaro vinse la stagione regolare. Torino arrivò seconda. Ma l’Olimpia gradualmente salì di tono. Nel girone di ritorno vinse 10 partite su 13 risalendo fino al terzo posto davanti a Cantù che in quella stagione avrebbe vinto la Coppa dei Campioni (e venne eliminata nei quarti di finale dalla Virtus, poi sconfitta da Pesaro). Eliminata Brescia nei quarti di finale, l’Olimpia trascinata da Franco Boselli vinse Gara 1 a Torino e poi chiuse i conti in Gara 2, in un complicatissimo 66-65.

La finale cominciò a Pesaro, nel cosiddetto hangar di Viale dei Partigiani, dove il fattore campo è sempre stato terribile. La Scavolini aveva Dragan Kicanovic come stella, italiani fortissimi e giovani come Ario Costa e Walter Magnifico, ma anche veterani al top della parabola come Domenico Zampolini, Mike Sylvester, il tiratore Amos Benevelli e come centro Roosevelt Bouie. Per vincere lo scudetto della seconda stella, il Billy avrebbe dovuto vincere nella scatola di passione, a pochi metri dal Mar Adriatico, a maggio. In Gara 1 o in Gara 3.

Gara 1 fu comandata dall’Olimpia. Il vantaggio nella ripresa raggiunse i dieci punti, poi Pesaro venne trascinata dalla vecchia guardia, Ponzoni e Benevelli. Infine, Dragan Kicanovic, dopo un secondo tempo passivo, ingabbiato da Mike D’Antoni, la riportò fino a meno uno. Ma il Billy chiuse 86-83. Quattro giorni dopo a San Siro, l’Olimpia conquistò lo scudetto della stella dopo un’altra battaglia di 40 minuti, con 10.000 spettatori presenti. Con una mossa inattesa e dibattuta per anni il coach di Pesaro, Pero Skansi, tenne in panchina per 16 minuti nel primo tempo proprio Kicanovic. “Dopo Gara 1, Kicanovic avrebbe voluto uccidermi. In spogliatoio a Pesaro successe di tutto. Io ero tranquillo perché a difendermi c’era Meneghin - raccontò in seguito D’Antoni – Di certo, non avrei mai accettato di non giocare il primo tempo di Gara 2”. Quale fosse il senso della mossa di Skansi non è mai stato chiarito. Forse voleva sorprendere Peterson o forse tenersi Kicanovic fresco per la ripresa contando di restare agganciato alla gara. In ogni caso, Kicanovic segnò 16 punti in metà gara, portando la Scavolini da meno otto a più tre. Nel rocambolesco finale, Mike D’Antoni non sbagliò nulla. Fu suo l’ultimo canestro, 73-72, prima che la difesa del Billy alzasse il suo muro. L’ultimo tentativo praticamente disperato fu di Sylvester, ma John Gianelli eseguì la stoppata dello scudetto con la quale coronò una prova da 19 punti. Così il Billy vinse lo scudetto dopo dieci anni e conquistò la seconda stella. “Per me fu un sollievo – dice Mike D’Antoni –perché dopo tante volte in cui ci eravamo andati solo vicino cominciavo ad avvertire la pressione di dover vincere”. Lo stesso concetto valeva per Dino Meneghin, che era stato etichettato come vecchio a inizio stagione, in declino, e per Dan Peterson.

Lo scudetto del 1982 aprì un ciclo di otto finali consecutive per l’Olimpia, che avrebbe perso le successive due, ne avrebbe vinte poi tre di seguito prima di perdere nel 1988 quella con Pesaro (a rontata ma in un abbinamento impari anche nel 1985) e chiudere nel 1989 con la leggendaria vittoria di Livorno. D’Antoni, Premier e Meneghin avrebbero percorso insieme tutto quel ciclo, Peterson sarebbe rimasto fino al 1987 come Gallinari e Franco Boselli. Gianelli e Ferracini sarebbero rimasti un altro anno, quello in cui l’Olimpia arrivò seconda sia in campionato che in Coppa dei Campioni.

ROSTER: Mike D’Antoni, Franco Boselli, Marco Lamperti, Roberto Premier, Vittorio Ferracini (Capitano), Vittorio Gallinari, Dino Meneghin, John Gianelli, Rinaldo Innocenti, Antonio Della Monica, Italo Pignolo, Pierpaolo Del Buono, Vincenzo Sciacca.

ALLENATORE: Dan Peterson.

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LA TERZA STE A OLIMPIA 2022/23

ONE T EAM ONE GOAL

Il finale è stato bellissimo. Nessuno vorrebbe mai mettere la propria stagione in palio in una singola partita, il classico “All or Nothing”, ma nella storia dell’Olimpia è scritto nel destino. Quale altra squadra ha giocato 12 partite equivalenti ad una finale? È successo cinque volte persino quando ancora i playo non esistevano. Ma in fondo si gioca per questo, si gioca per partite come quella del 23 giugno in Gara 7. La settima partita è anche un tributo alla forza dell’avversario. Quando lotti per sei partite e il punteggio è in bilico, hai usato tutto quello che avevi e così hanno fatto gli avversari: la Virtus Bologna è stata questo, è stata un grande avversario.

Vincere Gara 7, quando succede, è impagabile. Averlo fatto esprimendo il proprio DNA all’ennesima potenza ovvero con una difesa prodigiosa, riuscendo ad andare oltre le problematiche di giornata (i due falli che hanno impedito a Nicolò Melli di giocare il primo tempo), è stato come convalidare la forza mentale di un gruppo. E come ha detto Coach Ettore Messina alla fine che l’MVP sia stato Gigi Datome è perfetto. Il grande campione che emerge quando conta, senza mai perdere l’autocontrollo. In Gara 7 ha segnato i primi due canestri, ha centrato i primi sei tiri, ha messo la tripla più importante, ha stoppato una volta l’avversario più logorante della serie, Marco Belinelli, a momenti disarmante nel modo di fare canestro, ha risposto ad un taglio al sopracciglio (punti di sutura in panchina) e un dito che è stato riportato nella sua posizione naturale sempre in panchina. Dolore, sacrificio, vittoria. Gigi Datome è un “culture guy”, un leader silenzioso, che ha combattuto tutta la stagione contro ogni tipo di vicissitudine, incluso un virus che l’ha fatto fuori per più tempo di quanto si sarebbe immaginato. Datome però è un campione. In un certo senso lui ha rappresentato la quintessenza del giocatore che ha “presenza”. Che quella Gara 7 sia stata la sua ultima partita della carriera alimenta un senso di sottile tristezza. Un anno prima c’era stata l’ultima partita a Milano di Sergio Rodriguez. Anche questo è un segno del destino. Ma Datome ha potuto ritirarsi al top della propria professione, da eroe. Tutto vorrebbero farlo, quasi nessuno ci riesce.

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Lui sì. L’ha sottolineato anche Giorgio Armani commentandone il ritiro. Lasciare in vetta richiede coraggio, un coraggio da ammirare.

La stagione 2022/23 era cominciata in un’atmosfera hollywoodiana, con allenamenti che facevano registrare presenze degne di una finale NBA. Mike Brown, che è stato poi allenatore dell’anno ai Sacramento Kings, è passato talvolta inosservato. Normale quando un giorno l’attrazione principale è Gregg Popovich, l’allenatore che ha vinto cinque titoli NBA a San Antonio, e quello dopo Will Shields, un Hall of Famer del football che attirava gli sguardi dei giocatori americani come farebbe qualsiasi icona dello sport. C’erano gli Europei al piano di sopra e tanti ospiti, visitatori, curiosi. Scene surreali. Popovich che chiede a Mario Fioretti lumi su una difesa che raddoppiava sul post basso dal fondo. Cosa puoi chiedere di più? Persino quando gli Europei sono finiti e la squadra è tornata a lavorare nella normalità non sono mancate le eccezioni. Una mattina, si è presentato in palestra Chuck Jura, che all’Olimpia non ha mai giocato però è stato una star a Milano negli anni ’70. Per Shavon Shields che veniva dal suo stesso college, Nebraska, è stata un’altra esperienza indimenticabile. Poi persino Nicolò Melli si è trovato a spiegare a Jura in persona che sì, insomma, la mamma è di Lincoln, Nebraska. Un mondo veramente piccolo, concentrato in pochi metri quadrati. Quei metri quadrati in cui per mesi l’Olimpia, che in prestagione era apparsa subito brillante e aveva vinto nettamente il torneo di Atene, ha cercato sé stessa prima ancora che le contromisure per battere gli avversari.

Non è stata la stagione sognata, ma è finita come tale. Superfluo ripercorrerne i momenti, la concentrazione di infortuni nello stesso ruolo, le di coltà di adattamento di tanti giocatori nuovi, adattamento ad una realtà nuova, ad una cultura, quella costruita in questi anni da Ettore Messina, supportato poi da Sergio Rodriguez, Kyle Hines, Gigi Datome e infine Nicolò Melli, oltre a Shavon Shields. Sono successe tante cose, alcune imprevedibili, altre sfortunate, ma tutto è cominciato realmente la notte di Monaco di Baviera. Quella sera l’Olimpia vinse la terza trasferta consecutiva di EuroLeague. In

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mezzo c’era stato il passo falso dopo un tempo supplementare (dato da non dimenticare perché nell’arco della stagione in overtime sono arrivate cinque sconfitte su cinque e una è costata la finale di Supercoppa) interno con l’Alba Berlino, ma anche le vittorie di Villeurbanne e la monumentale partita di Belgrado contro una squadra che sarebbe arrivata ad un passo dalle Final Four, in un’atmosfera descrivibile solo da chi l’ha vissuta. Quella sera, in Germania, Kevin Pangos – che aveva segnato una tripla cruciale a Villeurbanne e un lay-up decisivo a Belgrado - distribuì dieci assist, l’ultimo - per la tripla dall’angolo di Billy Baron - di fatto determinò la vittoria sul Bayern. L’Olimpia era praticamente in testa, dannate le assenze, gli Europei che avevano privato la squadra di sette elementi, ed esprimeva solo buone sensazioni. Ma in quella partita, Shavon Shields si procurò l’infortunio che avrebbe condizionato la sua stagione e messo una pietra tombale sulle chance dell’Olimpia. Quella vittoria di Monaco fu seguita da nove sconfitte consecutive in EuroLeague. Un filotto dal quale, a quei livelli, non ti puoi riprendere.

Ci sono stati momenti di scoramento, ma c’è stata anche una feroce capacità di mantenere dritta la barra del timone, di continuare ad andare avanti nel mare in tempesta, cambiando quintetto, trovando assetti migliorativi come quello conclusivo in campionato, con Johannes Voigtmann da ala forte e Nicolò Melli da centro. Quando capitava qualcosa che sembrava buttarla giù, la squadra si tirava su, e viceversa. Ad un certo punto, con sei vittorie di fila, successive all’arrivo di Shabazz Napier, il ritorno di Shavon Shields e quello di Kevin Pangos, l’Olimpia ha persino dato la sensazione di poter piazzare una rimonta clamorosa e acciu are, non si sa come, l’ottavo posto in EuroLeague. Non fai nulla del genere, se non hai qualcosa dentro. Qualcosa di solido. Cos’era questo qualcosa lo si è visto nei playo . O forse lo si è visto in regular season, nel campionato italiano, quando l’Olimpia con cinque successi consecutivi si è messa nelle condizioni di poter approfittare di un passo falso avversario. Quando questo passo falso è capitato, nella sera in cui l’Olimpia vinse a Tortona, si è concretizzato il primo posto.

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Il post-partita di Tortona (in realtà eravamo a Casale Monferrato) va raccontato perché nell’arco di una stagione ci sono sempre momenti in cui il web ti rovescia addosso risultati che ti aspetti o non ti aspetti, ma comunque ti condizionano, cambiano le prospettive. L’Olimpia aveva appena vinto una partita dura, risolta in parte da una inaspettata stoppata di Shabazz Napier su Semaj Christon. La partita era finita da qualche minuto. Nello stesso momento, la Virtus stava vincendo a Treviso per conservare il proprio primato in classifica. La partita, vista dallo schermo di un cellulare, sembrava finita, archiviata, per cui – tipico di ogni spogliatoio – l’attenzione era passata all’analisi della classifica nel tentativo velleitario di identificare con una settimana di anticipo l’avversario del primo turno dei playo . Poi il colpo di scena. A Treviso è successo qualcosa, Adrian Banks ha segnato, ha subito fallo, ha convertito il tiro libero, ma c’è stato un fallo tecnico e comunque è stato sbagliato il tiro libero e poi ha sbagliato il tiro finale anche Belinelli. Quindi Treviso ha vinto, quindi tutto quello che era stato analizzato fino a quel momento andava cestinato. L’Olimpia era prima. Salita sul pullman per tornare a casa, al casello di Casale, la Polizia aveva anche piazzato un posto di blocco. Incuranti del logo sul pullman che non lasciava dubbi su chi vi fosse all’interno, la pattuglia pretese comunque lo stop. Cosa sarà successo? Attimi di vita quotidiana: “Scusate – dice un agente – sono un vostro tifoso. Coach, possiamo farci una foto?”.

Avere il vantaggio del fattore campo, conquistato quella sera e poi confermato una settimana dopo battendo Sassari in casa, non sempre vale lo scudetto, anzi. Ma è meglio averlo a favore che non averlo. Nel 2022, l’Olimpia non l’aveva ma aveva vinto Gara 1 di finale a Bologna di un’inezia e su quella, e poi i 12.600 del Mediolanum Forum, aveva costruito lo scudetto. Giocare in casa conta. Non è una garanzia. Ma conta. L’Olimpia non ha avuto il vantaggio del fattore campo in finale solo perché ha vinto a Tortona (dove Bologna era caduta) e perché la Virtus ha perso a Treviso. L’ha avuto perché nel girone di andata ha vinto con un margine superiore ai venti punti proprio a Bologna. La di erenza canestri, che

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nel finale di stagione è decisiva, si costruisce fin dall’inizio del torneo, in tempi non sospetti. Quella sera, a Bologna, Brandon Davies segnò 23 punti e diede tanto alla squadra anche Naz Mitrou-Long. È bello oggi rilevare che è stato il percorso a condurre alla vittoria e durante il percorso sono stati utili tutti. Davies fu strepitoso quella sera. Mitrou-Long segnò una tripla cruciale. Qualche zampata la vibrò anche Tim Luwawu-Cabarrot.

È inutile adesso negare quanto abbia inciso sulla stagione l’infortunio di Shavon Shields o abbia pesato l’arrivo di Shabazz Napier. Shields, nella stagione precedente prima di infortunarsi alla mano nel famoso contatto con Rudy Fernandez, era un legittimo candidato MVP di EuroLeague, poi era diventato il quinto MVP dei playo nella storia dell’Olimpia dopo Rolando Blackman, Alessandro Gentile, Rakim Sanders e Andrew Goudelock. Quest’anno il nuovo infortunio ha privato la squadra di uno dei migliori “two-way player” d’Europa, raro esempio di giocatore cruciale sui due lati del campo. Shabazz Napier è arrivato quando ha capito che non sarebbe tornato nella NBA, almeno non subito, e l’Olimpia aveva perso la speranza che Kevin Pangos potesse tornare nei tempi auspicati, vittima anche lui di infortuni tagliagambe. Napier si è presentato con la sua taglia fisica limitata, ma straripante personalità e un contenitore nero dal quale non si separava mai. Sopra aveva incollato un adesivo e in pieno stile “Space Jam” aveva scritto sopra “Shabazz Secret Stu ”. Dentro, in realtà c’era solo acqua naturale, alla temperatura giusta, per essere idratato perfettamente in ogni attimo della sua giornata. Quando sei alto poco più di 1.80 e non ti scambieranno mai per un culturista, ogni dettaglio è vitale. Napier l’ha capito molti anni fa e questo gli ha permesso di vincere due titoli NCAA, giocare nella NBA. La finale è stata durissima per lui, perché era regolarmente il più piccolo giocatore in campo, “ma io cerco di rimediare con l’intelligenza, cercando di capire il gioco meglio dell’avversario, studiando il video. Non sono mai il più alto, il più grosso, il più bravo e nemmeno il più veloce”. Ma quando ti sguinzagliano dietro due dei migliori difensori sulla palla d’Europa, 15 centimetri più alti, come Hackett e Pajola, tutto diventa indubbiamente

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più di cile. Napier ha avuto il merito di non smarrirsi, non uscire dalla serie, accettare lo scontro. In Gara 7 ha segnato cinque punti consecutivi vitali nel quarto periodo. A Milano è rimasto poco, ma ha lasciato un’impronta sul trentesimo scudetto.

Giocare contro avversari più grossi e difese fisiche, attente, è il destino di Billy Baron. Figlio di un ex playmaker di St. Bonaventure che poi si è trasformato in un eccellente allenatore a livello collegiale (Jim Baron da Brooklyn), come il fratello maggiore, Billy ha costruito la sua carriera sul tiro da fuori. “Mi piacciono i tiratori, alla fine nel basket devi fare canestro”, ha detto il padre, adesso in pensione, un giorno osservando l’allenamento del figlio al Mediolanum Forum. Billy è figlio di un allenatore, si vede, anche nella comprensione del gioco. Ma non sarebbe arrivato fino qui senza un tiro devastante, il tiro delle grandi rimonte, delle grandi vittorie. Le cifre di Baron sono mostruose. Sostanzialmente, è stato l’unico giocatore del campionato italiano oltre il 60% da due, oltre il 40% da tre e oltre il 90% nei tiri liberi. Il suo tiro da tre è stato per tutto l’anno –anche in EuroLeague – il vero termometro della squadra: quando l’Olimpia ha vinto lui ha tirato con il 49.6%, quando ha perso con il 32.7%. E ha finito la stagione con un gomito dolorante, che l’ha costretto dopo poche ore addirittura a operarsi.

Nicolò Melli in due anni a Milano ha giocato 146 partite u ciali, per 3.522 minuti che fanno quasi sessanta ore spese sul campo giocando. Dire che ha dato tutto alla causa è riduttivo: il Capitano, per la prima volta da solo dopo la partenza di Chacho Rodriguez, è la versione moderna di quello che una volta era Dino Meneghin, un giocatore totalmente disinteressato alle cifre individuali, che sono solo una conseguenza delle vittorie, non il contrario. Melli gioca da ala forte o da centro, come vuole l’allenatore, si spreme a marcare chiunque, porta blocchi, corre lungo il campo, stoppa, segna quando serve. In Gara 2 della finale ha segnato i tiri liberi decisivi, in Gara 5 ha annichilito uno dei migliori giocatori del proprio ruolo, Tornike Shengelia. La faccia da bravo ragazzo, i modi educati, frutto di una famiglia per bene, la passione per

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i libri, il sorriso in cui si scioglie quando vede la piccola Matilde, nascondono solo in parte lo spirito di uno “streetfighter” che non ha paura di mettersi in mezzo alla tempesta per uscirne vincitore. Melli è questo. La squadra aveva bisogno di rimbalzi e lui ne ha presi come se non ci fosse un domani. In sostanza le cifre che contano sono quelle che gradualmente lo stanno spedendo nella storia del club. Un po’ come, a livelli più generali, sta succedendo al grande Kyle Hines.

Secondo i medici, un qualsiasi giocatore con una soglia di sopportazione del dolore buona, si sarebbe fermato per settimane dopo il problema alla spalla di Gara 4. Non Kyle Hines. Kyle Hines se sta in piedi gioca. Quest’anno era già successo in una partita di EuroLeague ad Atene. Si era svegliato la mattina scoprendo di avere la mano gonfia come un pallone. Nessuno avrebbe giocato. Non Kyle Hines. Quando si parla di rispetto, si intende questo. Hines non è necessariamente il leader che parla, si agita, urla. Hines sussurra e guida con l’esempio. La sua presenza spesso è su ciente per mantenere l’ordine. Nessuno vuole deludere Kyle Hines e nessuno è mai stato deluso da Kyle Hines. La cultura di un club, di un progetto è dettata dai “culture guys”. Hines è questo. “Se posso scegliere – ha detto Coach Messina –scelgo di giocare sempre con Hines. Per me è scontato, semplice, per altri non so, ma qui la storia, certi valori valgono più di due canestri e un rimbalzo”. E la sua presenza guida altri giocatori sullo stesso binario, come Devon Hall.

Hall sta a questa squadra come una via di mezzo tra Hines e Melli in termini caratteriali. Hall è stato il giocatore più utilizzato in EuroLeague, perché Coach Messina di lui si fida. Non c’è un complimento migliore che puoi fare ad un giocatore. Ha avuto una stagione di cile, perché inizialmente è stato l’unico dei piccoli risparmiato dal “bug” degli infortuni. Pangos è stato fuori e lui ha fatto il playmaker. Poi è stato fuori Mitrou-Long e ha fatto il playmaker. Poi è stato fuori Billy Baron e ha fatto quello che serviva. Infine, si è fatto male anche lui. Hall difende, gioca dove gli viene chiesto di giocare trasformando i difetti in pregi. Quando durante i playo ha saltato tre partite per turnover non

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ha fatto una piega, ha continuato ad allenarsi e quando è stato richiamato ha risposto. Non c’erano dubbi che l’avrebbe fatto. Che non sia stato considerato come miglior difensore del campionato è un’ingiustizia concettuale. I migliori difensori stoppano come Kyle Hines, rubano palla come faceva Mike D’Antoni, marcano tanti giocatori di ruoli di erenti come Nicolò Melli. E come Devon Hall. Non cercate il valore di Hall nelle statistiche, ma nel contributo che o re alla causa tutti i giorni. Anche in allenamento, anche nell’esempio, anche nella disciplina che gli deriva, anche qui, dall’ottimo ambiente familiare in cui è cresciuto.

Pippo Ricci non è diverso. Il suo ruolo all’interno della squadra dipende dai momenti e dalle esigenze. Può essere un’ala forte e qualche volta può essere un’ala piccola. Può aiutare con un tiro da tre punti oppure con quella anomala capacità di capire dove finirà il rimbalzo, quella sorprendente abilità di saltare tante volte e smanacciare, toccare la palla, tenerla viva quando non è sotto controllo. Ricci non è una stella, ma su adattamento e sacrificio ha costruito una carriera e soprattutto tante vittorie. Ricci ha vinto tutti gli ultimi tre scudetti, ha dato un significato diverso alla rivalità Milano-Bologna perché lui è stato sempre dalla parte dei vincitori.

Non c’è dubbio che una delle chiavi della stagione sia stato Johannes Voigtmann. Nel corso di una lunga regular season in cui ha avuto un ruolo marginale, in cui sembrava sfiduciato e titubante, Voigtmann ha giocato almeno venti minuti cinque volte.

Ma è successo undici volte nei soli playo , quando il suo ruolo – oltre l’etichetta di starter – è lievitato. Voigtmann – che, come Baron, tira oltre il 60% da due e oltre il 40% da tre, non lo eguaglia solo dalla lunetta – ha dato una nuova dimensione al gioco dell’Olimpia, introducendo un lungo pericoloso nel tiro da fuori e quindi in grado di aprire il campo, di fare coppia con Melli difendendo poi sul centro e supportando il Capitano nella battaglia dei rimbalzi. L’aspetto sottovalutato del suo gioco è il passaggio. Non solo quelle fucilate da canestro a canestro, degne di un quarterback, che l’hanno proiettato in tanti highlights. Ha finito con 2.5 assist di

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media nei playo , 3.0 nella serie finale. Anche Voigtmann è un tipo silenzioso, parla tedesco con Melli e inglese con tutti gli altri. Viene dalla Germania Est, anche se è nato dopo la caduta del muro, e il suo primo amore era stato la pallamano. Il carattere schivo probabilmente non l’ha aiutato all’inizio, quando ha so erto, ma anche lui è stato la fotografia della stagione. Non si è lasciato soverchiare dalle di coltà. Le ha superate ed è arrivato in fondo.

Vale anche, con un altro ruolo, per Paul Biligha, ovvero l’arte di farsi trovare pronto quando serve com’è successo in Gara 5, tra falli e i problemi fisici di Hines. Nelle squadre come l’Olimpia rispondere presente anche dopo lunghi minuti trascorsi in panchina se non intere partite è essenziale. Anche Tommaso Baldasso, come era successo l’anno prima, è riuscito a farlo. Non sempre succede. Ma in ogni squadra è essenziale che chi non gioca sia di supporto a chi gioca come hanno fatto in allenamento Davide Alviti, Deshaun Thomas e Naz MitrouLong, comunque utile nella prima parte di stagione. Kevin Pangos è stato vittima degli infortuni. Quando è tornato sano, c’era Shabazz Napier al suo posto e ha dovuto fare un passo indietro. L’ha fatto aiutando la squadra, anche se lui ha una statura tecnica e una carriera diverse da rivendicare. Com’è successo a Brandon Davies. Il suo è un caso particolare perché alla fine della regular season era tra i nominati per il titolo di MVP. Ma per ragioni di equilibri tattici, è rimasto fuori dalla squadra dei playo . Stefano Tonut userà la stagione del suo personale terzo scudetto per il suo futuro. A tratti, ha fatto quello che doveva, soprattutto quand’era fuori Shields: difesa, palle rubate, uno contro uno, contropiede. Altre volte, è rimasto fuori dalla rotazione. L’adattamento non è mai facile, ma lui è riuscito ad essere utile anche con pochi possessi, anche entrando per una sola difesa, alla fine di un quarto.

Alla fine, com’è stato l’anno precedente, il gruppo ha prevalso. Il gruppo ovvero la capacità di tutti di accettare un ruolo, qualunque fosse, anche a tratti quello del tifoso, del supporter, del giocatore pronto solo in caso di emergenza. Gli scudetti si vincono così. Gara 7 è un incubo di emozioni. Vincerla però è bellissimo.

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ONE T EAM ONE PASSION

MILANO PESARO

MILANO SASSARI

LA FINALE

LA FESTA

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