Shavon Shields - All Time Olimpia leading scorer

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| ALL-TIME OLIMPIA LEADING SCORER | Shavon SHIELDS

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IL NUOVO RE

Nessuno potrà mai cancellare Bob McAdoo, ma Shavon Shields ha raggiunto un livello che nessuno aveva avvicinato in 35 anni. Ecco la sua storia, i suoi quattro anni all’Olimpia. And counting…

“Tutto è cominciato con una telefonata di Coach Ettore Messina, la sua visione, la voglia di costruire qualcosa di importante, di cui voglio far parte. A Francoforte avevo cominciato giocando da ala forte, poi quando alla fine della mia stagione da rookie sono venuto a Trento mi hanno spostato nel ruolo di guardia e l’ho occupato anche l’anno successivo. È stata un’esperienza formativa di cui non smetterò mai di essere grato”. Shavon Shields arrivò a Milano in piena era Covid. Era l’estate del 2020, aveva appena vinto la Liga con Vitoria nella Bolla

di Valencia. Era un giocatore affermato, ma non ancora una stella. Quattro anni dopo è il primo realizzatore in EuroLeague nella storia dell’Olimpia che in questa competizione è cominciata negli anni ’50. Bob McAdoo lo precedeva e ora lo segue. Erano altri tempi, altro basket, altro numero di partite, ma per circa 35 anni nessuno era riuscito a spodestare McAdoo. Vale tanto.

“Cercavamo un giocatore che potesse giocare sia da guardia che da ala piccola – ricorda Coach Ettore Messina -, che avesse margini di miglioramento

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Ma prima di arrivare a Milano, prima ancora di Francoforte e Trento e Vitoria, la parabola di Shavon Shields cominciò addirittura nel Nebraska. Non è nato lì, ma è lì che si sono conosciuti i genitori, Will Shields e Senia. Lui americano nato nel Kansas ma cresciuto in Oklahoma, lei danese, in America per motivi scolastici. Will Shields era un giocatore di football, un uomo di linea, di quelli che devono proteggere il

quarterback. Come tale, vinse l’”Outland Trophy” riservato al miglior giocatore di college del ruolo. Fu All-America. Nebraska ritirò la sua maglia numero 75. Il resto è storia: nel 1993 fu scelto al terzo giro dai Kansas City Chiefs, partì dalla panchina nella prima partita della sua carriera nella NFL dopodiché per 14 stagioni non ha mai più saltato una gara diventando uno dei più grandi giocatori della storia nel proprio ruolo con otto apparizioni al Pro Bowl e infine la nomina nella Hall of Fame del football. “Per me è tutto quello che ho visto. Tuo padre può essere un contabile, un uomo d’affari o un idraulico, il mio era un giocatore di football, è tutto quello che ho conosciuto e con cui avevo familiarità. Anche io ho pensato di giocare a football, ho anche provato per un paio di anni, ma ho visto che non faceva per me. Lui mi ha insegnato come comportarmi, ad essere un professionista, a venire in palestra e fare il tuo lavoro ogni giorno”.

Shavon non è esattamente fuggito dalla leggenda del padre. Quando è diventato un giocatore di basket, ha scelto di andare a Nebraska nella stessa scuola e una buona reputazione. Shields aveva fatto molto bene a Trento e stava facendo bene a Vitoria dove vinsero anche il campionato in quel periodo. Mi sembrava si adattasse bene alla squadra che stavamo costruendo, con Delaney, Rodriguez, Punter, poi soprattutto con l’arrivo di Datome costruimmo un pacchetto di esterni che non a caso è stato decisivo nel conquistare l’accesso alle Final Four. Ricordo che gli dissi che da noi avrebbe avuto la possibilità di giocare molto di più il pick and roll cosa che non faceva mai a Vitoria; quindi, sarebbe diventato molto più una guardia e molto meno un’ala per avere un maggior impatto a livello EuroLeague come poi è stato”.

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Shavon con il padre Will, Hall of Famer nel football Shavon Shields nel giorno della sua presentazione

del padre e della mamma Senia. Quattro anni senza mai giocare il Torneo NCAA ma quattro anni di alto livello per lui. Da senior un brutto infortunio, più spaventoso che brutto, l’ha danneggiato nel cercare un’opportunità nella NBA. “Quando cresci negli Stati Uniti sogni di giocare nella NBA, ma questo mi ha dato la possibilità di venire in Europa e tentare di diventare il miglior giocatore che potessi diventare e vincere il più possibile perché alla fine quello che conta è vincere. L’obiettivo sotto questo aspetto non è mai cambiato, che fossi in America o in Europa”.

Ma venire in Europa non è stato uno choc culturale come è stato per tanti connazionali. “No, ero già stato in Europa tante volte, conoscevo la cultura europea, grazie a mia madre. Da questo punto di vista sono stato avvantaggiato”. La prima tappa è stata Francoforte, poi è toccato a Trento alla fine del primo anno e “Paradossalmente” la crescita di Shields non è mai stata chiara a nessuno quanto lo sia stata a Milano. “Il primo anno non abbiamo mai neppure pensato che potesse giocare il pick and roll – ricorda Mario Fioretti che

era già sulla panchina di Milano – Il problema era avere un corpo grosso, un giocatore fisico da mettergli addosso e contenere il suo uno contro uno. A quei tempi era chiaro che aveva potenziale e capacità realizzative, ma da allora ha aggiunto tante cose al suo arsenale”.

Shields ha giocato due finali con Trento, poi è andato in Spagna e al secondo anno a Vitoria ne ha giocata una terza vincendola. Nel 2020 è arrivato a Milano, affermato ma non ancora uomo da quintetto All-EuroLeague come poi è diventato nessuno pensava potesse diventare una figura storica per l’Olimpia, come dicono già oggi i due scudetti e le due Coppe Italia vinte. Addirittura, nelle Final Four di Supercoppa nel 2021, Shields non era tra i sei stranieri impiegati. “In realtà – spiega Coach Messina – volevamo proteggere, rispettare, i giocatori che erano già con noi e avevano fatto bene come Vlado Micov e Kaleb Tarczewski. Tenemmo fuori sia lui che Zach LeDay. Fu una questione di seniority come nei college americani che ambedue capirono perfettamente. Poi ci fu la sfortuna dell’infortunio di

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Il tiro da tre di Shavon Shields, progredito da quando è a Milano

Shields a canestro in contropiede

Micov in finale dopo pochi minuti. Non avevamo Shields e non avevamo Micov. Fortunatamente, vincemmo lo stesso”. Fatto sta che da quel momento in avanti, il ruolo di Shields è sempre stato fondamentale per la squadra.

“L’evoluzione di Shavon – riflette il Coach – è cominciata quando ha capito come poter essere un giocatore di impatto sui due lati del campo. Era già abituato a prendere il miglior attaccante avversario, ma a Vitoria in attacco era un giocatore di complemento, una quarta o quinta opzione. Qui è diventato sempre più una prima opzione soprattutto quando ha un mismatch da sfruttare. Già a Monaco all’inizio dell’EuroLeague segnò il canestro della vittoria, da tre punti. Bisogna riconoscergli di aver lavorato tanto con Fioretti nel tiro da tre e questo gli ha permesso di diventare un attaccante più consistente”. La sua fiducia nel tiro da tre è spiegata dalle cifre: nel suo primo anno di EuroLeague a Vitoria eseguiva 2.2 tiri da tre per gara, poi 3.1 nel secondo anno, 3.5 nel primo anno milanese, 4.1 nel secondo (nel terzo ha giocato solo 10 partite per infortunio fermandosi a 2.9 tiri per partita). Quest’anno, ne

esegue 6.7 di media, un balzo in avanti tremendo, sostenuto dalle cifre. Attualmente, ha il 42.8% dall’arco, sostanzialmente come nel 2020/21 ma allora aveva circa la metà dei tentativi. A livello di media punti e valutazione questa è di gran lunga la sua stagione migliore. Ha avuto momenti di onnipotenza balistica come nel mese di novembre in cui tra campionato ed EuroLeague ha tirato con il 55.7%. A novembre ha avuto il 50.1% su oltre otto tentativi a partita.

Che significato attribuire quindi a questo record? “Sono soddisfazioni personali che ti fanno stare bene, soprattutto a fine carriera. Ti permettono di essere ricordato un po’ più a lungo e di dimostrare che qualcosa di buono hai fatto. Ovviamente, sono fatti per essere battuto. Nessuno potrà mai cancellare Bob McAdoo perché quel record l’aveva fatto vincendo due titoli europei. Questo è impareggiabile. Però Shavon ha anche giocato una Final Four e ha segnato i suoi punti in un contesto molto più impegnativo di quello che era una volta. Penso che avrà bei ricordi anche lui”, dice Messina.

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Shields in allenamento
Shavon
La festa della squadra dopo il record

IL VALORE DI UN RECORD

Le premesse sono ovvie. Bob McAdoo ha segnato i suoi 1.292 punti in tre stagioni di EuroLeague; Shavon Shields sta disputando la quarta. Il numero di partite è quadruplicato. E McAdoo ha una media punti di 25.4 a partita che nell’EuroLeague odierna nessuno – all’Olimpia o altrove – è in grado di avvicinare. Shields in maglia Olimpia sta segnando circa 14 punti per partita.

È tutto troppo diverso per essere paragonato: oggi si gioca di più, ma a quei tempi un giocatore stava in campo anche 38-40 minuti, i ritmi erano più blandi e nessuno aveva più di due stranieri per roster. In fondo, quando McAdoo silenziosamente sbriciolò il primato di punti segnati in Coppa dei Campioni, qualcuno avrebbe potuto obiettare che Bill Bradley aveva una media superiore alla sua, 26.5 a partita. Ma Bradley giocò in tutto dodici partite per l’Olimpia. Furono abbastanza per vincere il titolo europeo del 1966 a Bologna. McAdoo è al di sopra di ogni paragone. McAdoo ha vinto due volte la Coppa dei Campioni. Il suo ruolo è cementato, non è scalfibile.

Ma il record di Shields ha un significato importante, perché nel basket di oggi giocare quattro stagioni consecutive nella stessa squadra non accade spesso e certi primati hanno bisogno di partite, di costanza, di anni di milizia nello stesso luogo. Sono record alla portata di gente apprezzata, che si è fatta rispettare. Ha un significato importante, perché Shavon non ha giocato tutte le partite in questi quattro anni, ne ha saltate 34 in due anni, praticamente una stagione intera. Ha un grande significato perché nessuno era stato capace di ritoccare questo primato in quasi 35 anni di potenziali tentativi. Vlado Micov si era avvicinato a 60 punti di distanza, ma gli altri sono sempre rimasti lontani. La media punti di Micov è stata di 10.7 a partita; inferiore a quella di Shields.

È ovvio che i giocatori del passato siano penalizzati in questo genere di graduatorie: nella classifica dei dieci primi realizzatori dell’Olimpia ci sono solo tre campioni precedenti l’era EuroLeague, Bob McAdoo, Antonello Riva e Roberto Premier. In futuro spariranno anche loro. A loro volta avevano fatto sparire quelli della generazione precedente, Gabriele Vianello, Sandro Riminucci, Gianfranco Pieri: hanno tutti vinto una Coppa dei Campioni e giocato la finale l’anno seguente.

Sarebbe corretto stilare due classifiche distinte, una solo per l’EuroLeague in cui Shields era diventato il leader superando Vlado Micov e una per l’era precedente, definitiva, in cui Bob McAdoo precede Riva, Premier, D’Antoni, Meneghin, Pittis in questo ordine. Ma parlare di record non significa sminuire né gli uni né gli altri. Stiamo parlando di numeri, non di verità assolute. E resta il fatto che Shields – la cui media punti è sostanzialmente la stessa di Roberto Premier - ha fatto qualcosa che resterà per un po’ nella storia di un club che ha vinto otto coppe internazionali.

Classifica Media Punti (minimo 300 punti segnati): Bill Bradley 26.5; Bob McAdoo 25.8; Antonello Riva 22.4; Mike James 19.8; Rickey Brown 19.8; Keith Langford 17.4; Kevin Punter 15.6; Piero Montecchi 15.4; Gabriele Vianello 15.2; Roberto Premier 14.0; Shavon Shields 13.6; Andrew Goudelock 12.3; Massimo Masini 11.2; Vlado Micov 10.7; Mike D’Antoni 10.2.

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Micov ora terzo realizzatore di sempre
Keith Langford, top scorer di EuroLeague nel 2014 Bill Bradley, primo per media punti

SHIELDS BIG GAMES

Milletrecento punti segnati sono il frutto di tante partite, distribuite lungo un arco di tempo di quattro stagioni, di alto livello. Shavon Shields per superare Bob McAdoo ha sfoderato una lunga sequenza di prestazioni memorabili. Qui abbiamo provato a sceglierne dieci, considerando l’importanza della gara, la difficoltà, il livello dell’avversario il momento ed escludendo – in qualche caso forse ingiustamente – le partite che pur giocate benissimo non hanno determinato la vittoria. È d’accordo anche lui.

2020/21, Playoff, Gara 5: Milano-Bayern 92-89

Cifre: 34 punti, 5/6 da tre, 5 rimbalzi, 8 falli subiti

È la madre di tutte le partite. È la gara in cui Shavon Shields ha stabilito il primato personale di punti e valutazione e l’ha fatto con la posta in palio più alta. Solo un giocatore nell’era EuroLeague in maglia Olimpia ha segnato più di 34 punti, Samardo Samuels, ma successe in una gara di routine a Nizhny Novgorod. Shields l’ha fatto in Gara 5 dei playoff. In fondo al traguardo di quella notte c’era la qualificazione alle Final Four 29 anni dopo la precedente che risaliva al 1992. La serie tra Olimpia e Bayern era stata durissima: Milano vinse Gara 1 rimontando da meno venti nel secondo tempo, con un canestro sulla sirena, da rimessa di Zach LeDay; poi aveva vinto comodamente Gara 2 e perso Gara 3. In Gara 4, l’Olimpia aveva la testa avanti all’ingresso in rettilineo, ma poi il motore si era inceppato, il braccino era diventato corto. Il Bayern aveva rimontato. Proprio a Shields venne sanzionato uno sfondamento determinante che di fatto chiuse la partita portando la serie sul 2-2. Shields in Gara 5 era un uomo in missione, come dicono le cifre, i 34 punti, il 5/6 da tre, gli otto falli subiti da una difesa impotente di fronte alla sua esibizione offensiva, fatta di tiri pesanti, arresti e tiri dalla media, viaggi in lunetta. Per chiudere i conti, in un finale surreale, con una furiosa rimonta del Bayern, sarebbe servita la stoppata di Kyle Hines su Wade Baldwin. Ma l’Olimpia non avrebbe costruito una partita perfetta per 39 minuti se Shields non avesse giocato la miglior partita della sua carriera proprio quel giorno.

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2021/22, Playoff, Gara 2: Milano-Efes 73-66

Cifre: 21 punti, 8/11 da due, 8 rimbalzi, 6 falli subiti

Altra partita importante, la seconda dei playoff del 2022. In Gara 1, l’Olimpia aveva perso la gara ma soprattutto aveva perso Nicolò Melli. In Gara 2 in sequenza perse sia Malcolm Delaney che Sergio Rodriguez. Con le spalle al muro, Shields segnò un canestro impossibile alla fine del primo tempo, sbloccandosi mentalmente. Nel secondo tempo, ha preso la squadra sulle spalle chiudendo con un’altra prova mostruosa, fatta anche di otto rimbalzi e sei falli subiti, tutte le giocate decisive. L’Efes era la squadra che aveva vinto il titolo l’anno prima e si apprestava a vincerne un altro. Ma quella sera, al Forum, Shields ha giocato uno di quei secondi tempi memorabili, attaccando dal palleggio o segnando da fuori, che l’hanno trasformato in una delle migliori ali d’Europa. Al temine di quella stagione per il secondo anno consecutivo fu nominato nel secondo miglior quintetto di EuroLeague.

2023/24, Milano-Real Madrid 81-76

Cifre: 27 punti, 5/6 da due, 4/8 da tre, 6 falli subiti

Contro la prima in classifica in una situazione oggettivamente difficile, tra assenze, difficoltà del momento, giocatori appena rientrati, assetti da ribilanciare continuamente, Shields ha infierito sulla difesa del Real Madrid con la sua seconda prestazione realizzativa di sempre, con la seconda valutazione personale della carriera e i canestri chiave. Shields in questa gara con il Real Madrid non è stato infallibile al tiro da tre (4 su 8), ma ha usato la sua pericolosità perimetrale per avvicinarsi e usare il suo tiro dalla media, dal palleggio o attraverso l’uso del piede perno. In questa gara c’è tutta l’evoluzione di Shields, da giocatore di uno contro uno a esterno in grado non solo di creare dal palleggio ma tirare da fuori con grande continuità. Averlo fatto contro il Real Madrid conferisce uno spessore supplementare alla sua prestazione.

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del Real Madrid
Quest’anno, al tiro contro Fabien Causeur
Shavon Shields contro Vasa Micic nei playoff del 2022

2020/21, Khimki Mosca-Milano 93-102

Cifre: 26 punti, 6/6 da due, 4/5 da tre

Era il suo primo anno a Milano. Aveva già giocato due stagioni di EuroLeague in crescendo a Vitoria. Eravamo nella prima parte della stagione. Shields aveva già segnato la tripla della vittoria a Monaco ma dopo una partita normale. A Mosca contro un Khimki che non aveva ancora mollato come avrebbe fatto nell’ultima parte della stagione, Shields giocò una partita offensiva di rara pulizia con 10/11 dal campo, un altro record personale. Quel giorno, l’Olimpia segnò 102 punti e vinse proprio con la forza del suo attacco.

2022/23, Partizan Belgrado-Milano 75-80

Cifre: 25 punti, 3/4 da tre, 8/8 tiri liberi, 6 falli subiti

Una partita che evoca anche un po’ di tristezza perché due giorni dopo, a Monaco, Shields si sarebbe infortunato e la sua stagione europea sarebbe stata spazzata via quando la squadra era 3-1. A Belgrado, Shields giocò una gara di energia sovrumana, segnando 25 punti al Partizan di Obradovic ma al tempo stesso difendendo come un ossesso sulla punta di diamante avversaria, il suo amico Kevin Punter. Una prova totale che avrebbe potuto lanciarlo verso una stagione da potenziale MVP, se non si fosse infortunato appunto 48 ore dopo.

2023/24, Milano-Barcellona 74-70

Cifre: 23 punti, 5 rimbalzi, 5 assist, 7 falli subiti

Un’altra prova da oltre venti punti per Shields contro la seconda in classifica di EuroLeague. Una partita giocata anche questa con tante assenze ma affrontata con energia, difesa e attacco. Il punteggio finale indica quattro punti di vantaggio, ma la realtà era stata diversa e la gara l’Olimpia l’aveva dominata fin dall’inizio guidando con scarti perennemente in doppia cifra. Il faro è stato lui, non solo con i 23 punti, ma anche i sette falli subiti e i cinque assist, altro indice di maturità, ovvero la capacità di punire i raddoppi con scarichi precisi.

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Contro il Barcellona a Milano nel 2024 Contro il Partizan, 2022/23
Contro il Khimki nel 2020/21

2023/24, Barcellona-Milano 86-90

Cifre: 19 punti, 5/11 da tre, 4 rimbalzi

Partita difficilissima, affrontata in piena emergenza, al punto che in quintetto da ala piccola nominale va Pippo Ricci mentre Shields si muove da guardia e, in assenza di Nikola Mirotic, diventa automaticamente il punto di riferimento della difesa del Barcellona. Lui è bravo, con gli spazi chiusi in mezzo all’area, ad aprire la scatola difensiva con il tiro da fuori (cinque triple) senza cali di rendimento. La vittoria è nel cuore di dicembre, forse il miglior mese della carriera di Shavon Shields (18.3 punti per gara con il 50.7% da tre nelle due competizioni complessivamente).

2021/22, Milano-CSKA Mosca 84-74

Cifre: 17 punti, 6/7 da due, 7 rimbalzi, 5 assist

Per l’Olimpia dopo le Final Four del 2021 era importante ripetersi. La prima partita della nuova stagione era proprio contro il CSKA, al Forum. Fu una grande prestazione collettiva in cui Shields emerse con la sua capacità di attaccare il ferro e l’area dei tre secondi, di muovere la palla e andare fisicamente a rimbalzo. La giocata chiave fu un rimbalzo offensivo corretto con una tonante schiacciata. Il punto esclamativo sulla vittoria.

2020/21, Zalgiris Kaunas-Milano 64-69

Cifre: 23 punti, 5/8 da due, 3/6 da tre

Era l’anno delle Final Four, ma prima di pensare a questo c’era da certificare l’accesso. La partita di Kaunas era considerata cruciale, uno scontro diretto, che avrebbe potuto lanciare definitivamente l’Olimpia in zona playoff. Fu una battaglia difensiva, in trasferta, in un clima caldissimo. In quella gara, Shields emerse al di sopra di tutti proprio in attacco, con il suo gioco dentro-fuori firmando in prima persona la vittoria sprtiacque della stagione.

2023/24, Stella Rossa Belgrado-Milano 71-93

Cifre: 19 punti, 4/5 da tre, 5 rimbalzi

Una delle migliori partite della stagione, alla Stark Arena, in cui il giocatore decisivo fu Maodo Lo (32 punti), ma questo è un altro aspetto di Shields da considerare ovvero la capacità di fare la prima ma anche la seconda punta quando c’è qualcun altro ancora più caldo di lui come successe a Belgrado.

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Qui contro il CSKA nel 2021 Quest’anno a Belgrado vs Stella Rossa Quest’anno a Barcellona
nel
A Kaunas contro Grigonis
2021

L’UOMO DEI SOGNI

1.292 PUNTI IN TRE ANNI E DUE TITOLI EUROPEI VINTI.

BOB MCADOO HA FIRMATO UN’EPOCA DELL’OLIMPIA MILANO

CHE NON SARÀ MAI DIMENTICATA

Bob McAdoo è stato uno dei più grandi stranieri che abbiano giocato a Milano e in generale nel basket italiano. Arrivò nel 1986, a 35 anni, quando la sua carriera NBA era al termine. Restò quattro stagioni contribuendo al Grand Slam del 1987, prendendo parte ad almeno quattro gare epiche della storia dell’Olimpia. Con 1.292 punti segnati nell’allora Coppa dei Campioni è stato per oltre 30 anni il primo realizzatore di sempre dell’Olimpia. Non lo è più. Ma l’evento serve per ripensare a tutto quello che ha fatto il grande McAdoo.

Robert Allen McAdoo nacque nel 1951 a Greensboro nel North Carolina. Cominciò a fare canestro a quattro anni ed era una promessa già alla David Jones Elementary School dove la mamma Vandalia ha insegnato per tutta la vita. Quando arrivò all’età del liceo, decise di prendere il bus tutti i giorni per sperimentare il concetto di integrazione razziale nel sud degli Stati Uniti iscrivendosi alla Smith High anziché alla Dudley che era di fatto una scuola riservata agli afroamericani.

Il padre Robert sr, che lavorava come custode a North Carolina A&T, un college minore frequentato solo da ragazzi afroamericani,

gli cantava le gesta di Al Attles che poi avrebbe avuto una buona carriera NBA a Golden State successivamente anche come allenatore e manager, alimentando la sua passione per il basket. Nel suo ultimo anno di liceo McAdoo portò Smith High alla semifinale del torneo dello stato e vinse il titolo di salto in alto valicando i 2.02. Un altro giocatore di basket, il bianco Bobby Jones, finì secondo. Era una star.

Il suo sogno era giocare in un college della ACC visto che da qualche anno Dean Smith aveva infranto la barriera del colore portando a North Carolina il grande Charlie Scott. Ma McAdoo non aveva ancora i voti

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giusti e dovette spendere due anni in uno junior college dell’Indiana, Vincennes. Vinse il titolo al primo anno segnando 27 punti in finale. Lo voleva John Wooden a UCLA ma lui voleva giocare a casa. Il padre non stava bene e da sempre sognava di vederlo giocare al college. “Dean Smith mi spiegò cosa avrebbe significato giocare a UNC senza garantirmi un ruolo o uno spazio. Era quello che volevo”, raccontò McAdoo al funerale del suo grande maestro.

North Carolina arrivò alla semifinale per il titolo NCAA. A quei tempi nessuno lasciava il college in anticipo e nessuno l’aveva mai fatto a UNC. Fu Smith a decidere per McAdoo. Aveva la possibilità di guadagnare troppo bene e mettere a posto la famiglia perché fosse saggio rinunciare.

Incredibilmente, venne scelto prima di lui un centro di nome Larue Martin che sostanzialmente sarebbe rimasto un comprimario. Con il numero 2 del draft McAdoo andò ai Buffalo Braves, upstate New York. Il primo anno McAdoo venne utilizzato da ala, qualche volta ala piccola. La squadra era una tragedia. Lui insisteva per giocare centro ma sarebbe successo solo a fine stagione. Nondimeno fu rookie dell’anno. Al termine della stagione, ai Braves arrivò un nuovo allenatore, Jack Ramsay, moderno, pieno di energia e idee. Lo trasformò nel miglior “shooting center” della Lega. 30.6, 34.5, 31.1 le sue medie punti in tre stagioni consecutive. Nel 1974 finì secondo nella classifica dell’MVP e si indignò. Nel 1975 fu MVP e basta. Ramsay avrebbe presentato McAdoo alla cerimonia di ammissione alla Hall of Fame.

Buffalo con Ramsay in panchina e McAdoo in campo diventò una delle migliori squadre della Lega: 42, 49 e 46 vittorie in tre anni con altrettante partecipazioni ai playoffs. Ma

qualcosa si ruppe e per McAdoo fu l’inizio della parte buia, enigmatica, misteriosa della sua carriera. Si sentiva sottopagato e cominciò a farlo sapere. Venne accusato di aver ingigantito le dimensioni di un infortunio. Un affronto. Il 9 dicembre del 1976 fu scambiato ai New York Knicks, ansiosi di tornare al vertice, come al solito attratti dalle grandi star.

I Knicks avevano talento, McAdoo, Spencer Haywood, Micheal Ray Richardson, Ray Williams ma poca chimica. Ironicamente per avere McAdoo, i Knicks mandarono a Buffalo un certo John Gianelli che l’avrebbe preceduto a Milano. Giocò 171 partite a New York con 26.1 punti e 12.0 rimbalzi di media. Ma i Knicks si qualificarono per i playoffs solo nel 1978. Nel febbraio del 1979 venne ceduto a Boston e sette mesi dopo si ritrovò a Detroit. I Celtics firmarono ML Carr come free-agent. A quei tempi si doveva compensare: i club si incontrarono e i Pistons accettarono di ricevere McAdoo girando ai Celtics (una rapina!) due prime scelte del 1980. Quelle due scelte sarebbero servite ai Celtics per avere da Golden State Kevin McHale e Robert Parish. I Warriors le usarono per Joe Barry Carroll e Rickey Brown. L’Olimpia nel destino. Ancora.

A Detroit andò peggio, venne tagliato, firmato dai Nets dove rimase fino al Natale del 1984 quando Bill Sharman, il general manager dei Lakers, decise di acquistarlo per il suo squadrone. Fu così che approdò ai Lakers dello Showtime: per il bene comune doveva partire dalla panchina ovvero accettare un ruolo da sesto uomo che però gli calzava a pennello. Pat Riley usava il muscolare Kurt Rambis in quintetto e McAdoo nella seconda unità poteva sprigionare il suo talento offensivo. “Abbiamo preso McAdoo – disse Riley –valutando tutti i pro e i contro, abbiamo una chimica troppo forte per essere

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McAdoo insieme a Dino Meneghin La coppia dei sogni: Bob McAdoo e Mike D’Antoni

compromessa da un giocatore”. In pratica, McAdoo sapeva di non poter sgarrare e non lo fece. In quattro anni, giocò 224 partite, 12.1 punti e 4.4 rimbalzi di media. Nel 1982, segnò 16.3 punti per gara nella serie finale vinta contro i Philadelphia 76ers. Nel 1985 vinse il secondo titolo contro i Boston Celtics. “Era molto amareggiato quando i Lakers non lo confermarono. Pensava di meritarsi qualcosa di più perché aveva giocato bene e accettato la panchina”, racconta Peterson. Milano lo voleva un anno prima, ma lui tentò di restare nella NBA a Philadelphia per un anno.

“Avevo un buon rapporto con Dean Smith – racconta Peterson – Dopo i Sixers gli suggerì di considerare l’ipotesi europea. Noi eravamo pronti”. In Italia si sarebbe ricostruito tutto, anche oltre i quattro anni di Milano in cui vinse tutto, “vivendo i suoi anni migliori” come dice sempre Mike D’Antoni. I Sixers lo chiamarono di nuovo quando aveva già firmato per Milano, ma non trovarono terreno fertile. Bob era un uomo di parola. Rimase sorpreso quando al debutto il pubblico urlava “Doo Doo” come a Los Angeles. Era merito delle telecronache di Peterson. Le prime settimane furono complicate. La stagione si sarebbe conclusa con il Grande Slam del 1987, ma cominciò con una salita ripidissima, attraverso un’impresa che sarebbe entrata nella storia.

Per vincere la Coppa dei Campioni, la Tracer doveva accedere al durissimo gironcino finale a sei squadre dopo un turno preliminare che a quei tempi era considerato quasi una formalità. Ma quell’anno non lo fu. L’Olimpia venne abbinata all’Aris Salonicco. “A quei tempi non c’era lo scouting di adesso, le informazioni erano frammentarie”, ha ammesso nel suo libro Franco Casalini, assistente di Dan Peterson ai tempi. In altre parole, l’Aris

venne in parte sottovalutato. Poi era fine ottobre e Milano non era in forma.

Fatto sta che nella bolgia di Salonicco, l’Olimpia venne spazzata via, perse con uno scarto di 31 punti che suonava come una condanna. 98-67. Nick Galis, il primo grande giocatore greco, di scuola americana, nativo del New Jersey, laureato a Seton Hall, fece 44 punti. Per lui fu una sorta di introduzione nell’olimpo del basket europeo: nel corso della sua carriera Galis, con il compagno di avventure Panagiotis Giannakis, avrebbe portato la Grecia al titolo europeo. Un anno dopo quella gara allucinante di Salonicco, l’Aris avrebbe giocato la semifinale ancora contro l’Olimpia. Quindi la squadra greca era a pieno titolo in grado di competere ai massimi livelli. Nessuno però avrebbe potuto immaginare una disfatta simile per una formazione come la Tracer che puntava dichiaratamente al titolo.

Sette giorni dopo il Pala Trussardi fu testimone di una delle più grandi imprese/ sorprese della storia. L’Olimpia non giocò affatto con lo spirito di chi è rassegnato ad una clamorosa uscita di scena. Giorno dopo giorno, la sensazione che si potesse fare, senza alcuna spiegazione razionale, cominciò a serpeggiare. Dan Peterson indicò la strada: un punto al minuto e ce la faremo, non serve rimontare tutto in una volta. L’Olimpia giocò una buona partita offensiva ma soprattutto una grande partita difensiva, tenne l’Aris a 49 punti, vinse di 34, segnandone 83 e festeggiò in mezzo al campo come se la Coppa dei Campioni fosse stata vinta quel giorno. E forse fu davvero così.

Nell’immediato dopo gara, Peterson afferrò McAdoo e disse “Hai visto che miracolo abbiamo fatto?”. “Coach, quale miracolo? Eravamo tutti sicuri di farcela”.

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29 REDSHOESMAGAZINE Il suo gesto più celebre: il Tuffo di Livorno
Qui contro Lee Johnson McAdoo ha segnato 25.4 punti di media in Europa

“Sicuri?”. “Certo, abbiamo visto il nostro allenatore così calmo che non avevamo dubbi”. In realtà, Peterson era stato zitto una settimana, imprigionato dalla tensione, aspettandosi una catastrofica eliminazione. “Quella sera forse salvammo anche la carriera italiana di Bob perché se fossimo andati fuori non so cosa sarebbe successo”, raccontò in seguito Mike D’Antoni. “Bob dice che quella è stata la partita più fisica della sua vita e anche l’unica volta in cui ha pensato a stoppare ogni tiro, prendere ogni rimbalzo ma non a quanti punti avrebbe segnato e dice anche di non aver mai visto Meneghin così teso prima di una partita”, dice Peterson.

“Il Grande Slam del 1987 è stata la più grande impresa della mia carriera”, ammette McAdoo. Il 2 aprile 1987 a Losanna, l’Olimpia doveva completare l’opera. Aveva i tifosi alle spalle, il popolo biancorosso contro la valanga gialla del Maccabi capitanata da Kevin Magee, il maciste dell’area, giocatore fisico, passato da Varese che poi avrebbe trovato la morte in Louisiana, ancora giovane. Nel 1987, Magee era nel fiore della carriera, era al top. Era due metri di altezza ma era anche largo, forte, fortissimo e giocava dentro l’area. Il giocatore perfetto per Dino Meneghin. L’altro americano era Lee Johnson: da rookie aveva vinto la Coppa Korac con Rieti. Era alto, leggero, elegante, buon tiratore. Un fenicottero con il jump shot. Ma Bob McAdoo era un’altra cosa. Esperto, alto 2.08, con un tiro rapido, bruciante, non bellissimo ma efficace. Ad aprile, McAdoo era ormai entrato in sintonia con la squadra, la competizione, l’ambiente. Fu lui a catturare il rimbalzo sul tiro corto di Doron Jamchy della vittoria, 71-69. In quattro anni a Milano, McAdoo vinse due Coppe dei Campioni (la seconda nel 1988 con Franco Casalini in panchina al posto di Dan Peterson),

due scudetti, una Coppa Italia. L’ultimo scudetto fu quello della bolgia di Livorno e della sua giocata più memorabile.

In gara 5, sull’80-77 per Milano, Livorno aveva Alberto Tonut in contropiede dopo una palla persa da D’Antoni. Nessuno in quel momento realizzò che il tuffo con cui McAdoo gli deviò la palla oltre la linea di fondo sarebbe diventato probabilmente il singolo atto più famoso nella storia dell’Olimpia o dell’intero basket italiano. La bellezza del gesto è indescrivibile, il cuore ancora di più. La sorpresa è di Tonut: intento a proteggersi da Albert King, che gli corre accanto alla sua sinistra, si volta senza capire come abbia fatto la palla a sfuggirgli di mano. In quel momento, come un siluro, McAdoo completa il tuffo tra le braccia di operatori tv, fotografi e tifosi appollaiati tutti sulla linea di fondo. “So che se ne parla ancora – dice McAdoo –fu una giocata atipica perché ammetto che in tanti anni di NBA non avevo mai fatto nulla di simile. Non so cosa sia scattato”. “Eravamo abituati alle sue gesta, a cose incredibili, lo vedevamo tutti i giorni in allenamento quindi sul momento l’ho archiviato come un’altra grande giocata di Bob, per quanto inusuale per lui – disse il povero Casalini qualche anno dopo – È dopo, a mente fredda, che resti basito”.

Dopo Milano, McAdoo avrebbe giocato a Forlì e poi addirittura due partite a Fabriano a carriera finita. Nel 1991 perse la moglie Charlina, un’ex Laker Girl che aveva fondato il “Dance Team” dell’Olimpia, il primo, assieme a Laurel D’Antoni. A Forlì avrebbe poi conosciuto e sposato Patrizia che con lui sarebbe rientrata negli Stati Uniti dove Bob ha avuto una buona carriera da assistente allenatore dei Miami Heat, voluto ancora da Pat Riley.

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