Red Shoes Magazine - Hall Of Fame Edition

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HALL OF FAME - edition REDSHOESMAGAZINE

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4 Mason Rocca 8 Keith Langford 12 Curtis Jerrells

16 Kruno Simon 20 Rakim Sanders

24 Vlado Micov 28 Gigi Datome REDSHOESMAGAZINE

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MASON

ROCCA 2008 - 2012

Quando l’Olimpia venne rilevata dal Gruppo Armani, Mason Rocca fu uno dei primi acquisti. L’allenatore scelto dall’Olimpia, Piero Bucchi, l’aveva allenato a Napoli dove la squadra era riuscita a vincere una Coppa Italia e a raggiungere le semifinali dei playoff, il momento migliore della storia moderna del basket partenopeo. Rocca, che era arrivato in Italia per giocare a Jesi, vincendo il campionato di A2 e poi era diventato anche una colonna portante della Nazionale (ai Mondiali del 2006 l’Italia riuscì a battere la Cina della superstella Yao Ming, che era 2.24 e si trovò in grande difficoltà contro il coraggio di Rocca, una prova diventata storica), aveva le caratteristiche perfette per il nuovo ciclo. Era un centro basso, due metri, senza tiro da fuori, ma grande spirito, dedito al sacrificio, alla difesa e ai rimbalzi. Bucchi lo scelse come

Capitano. In breve, sarebbe diventato il simbolo di quattro anni di Olimpia, i primi dell’era Armani, in cui la squadra non ha vinto ma ha costruito le fondamenta necessarie per emergere in futuro. Rocca ha giocato tre volte la finale per il titolo in quattro stagioni (2009, 2010 e 2012), ha giocato due volte le Top 16 di EuroLeague e conquistato la tifoseria con il suo gioco fatto di generosità, aggressività, intelligenza, coraggio. Ha catturato nell’arco di 164 partite di campionato ben 348 rimbalzi d’attacco e 792 rimbalzi totali. Ma oltre i numeri ha interpretato lo spirito Olimpia in modo impeccabile, ha seguito la linea dettata da Sandro Gamba e passata negli anni attraverso Arthur Kenney, Vittorio Gallinari, Dino Meneghin fino ad arrivare a Kyle Hines. Giocatori capaci

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di dare tutto per la maglia, di gettare il cuore oltre l’ostacolo, difensori durissimi che annullavano il loro ego nell’interesse della squadra. Per questo, anche se non ha vinto, Rocca ha un ruolo speciale tra i grandi della storia dell’Olimpia, è stato il primo “grande” dell’era Armani. Nato a Chicago, Rocca ha giocato all’università di Princeton, della Ivy League, dove le borse di studio sportive non sono ammesse, si gioca per diletto, perché contano i corsi accademici. Nonostante questo, la tradizione del college nel basket è impeccabile. Princeton ha sempre giocato un basket poco atletico, ma molto tecnico, molto intelligente e molto combattivo. Il più grande giocatore della storia è stato Bill Bradley, un altro membro della Hall of Fame dell’Olimpia. Rocca giocò a Princeton 76 partite in quattro anni, vincendo la Ivy League nel 1997 e nel 1998 completando la stagione senza sconfitte (14-0). Questo gli diede modo di giocare due volte il Torneo NCAA: nel secondo anno Princeton riuscì addirittura a battere Nevada Las Vegas al primo turno. Nelle ultime due stagioni, la squadra finì seconda nella Ivy League. Nel 2000 cominciò la carriera europea di Rocca. Dopo Jesi, andò a Napoli per quattro anni e dopo Napoli venne a Milano per altre quattro stagioni. Per capire cos’era l’Olimpia: nel 2008/09 ebbe una partenza tragica tanto da non qualificarsi neppure per le Final Eight di Coppa Italia. Cambiò passo nel girone di ritorno e nei playoff eliminò prima Teramo e poi Biella conquistando la finale. Un anno dopo, al termine di una stagione più 6

lineare, tornò ancora in finale. Per Rocca fu la stagione migliore, 10.6 punti e 6.4 rimbalzi di media in campionato. Una terza finale la giocò nel 2012, l’anno in cui trascinò la squadra alla vittoria di Belgrado in EuroLeague contro il Partizan, uno spareggio per accedere alle Top 16. In un clima indescrivibile, si inventò realizzatore per una volta segnando 13 punti. Per lui fu frustrante arrivare tante volte così vicino alla vittoria senza riuscire a coglierla. Diede tutto nelle tre finali scudetto giocate, ma Siena era troppo forte. Il titolo del 2012 sarebbe stato revocato in seguito. Questa però è un’altra storia. Rocca tra i giocatori odierni potrebbe essere paragonato naturalmente a Kyle Hines: la stessa capacità di stare basso sulle ginocchia, di opporsi all’avversario con il mestiere e, in attacco, di sorprendere con qualità che non appartengono ai centri ma gli hanno permesso di emergere: trattamento di palla, visione di gioco, passaggio e timing perfetto. Rocca aveva tutto questo. Era un rimbalzista straordinario e sapeva usare gli angoli per utilizzare il tabellone e segnare contro avversari più alti: “Sono arrivato quando stava cambiando tutto, ma ho capito subito che Milano era un club speciale, che per giocare qui serviva uno spirito speciale. Sono orgoglioso di averne fatto parte”. L’ultimo atto da giocatore è stato a Bologna. Rocca è poi tornato a casa con la sua famiglia, i cinque figli, un ruolo accademico importante a Chicago e una grande passione per il ciclismo nel quale ha cominciato anche a competere con successo nelle gare over 40.

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Mason Rocca in una delle tre finali scudetto che ha giocato contro Siena

Il suo gancio con la mano sinistra

Il suo tiro usando il tabellone


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KEITH

LANGFORD 2012 - 2014

Nato a Fort Worth in Texas, Keith Langford è stato una grande stella all’università del Kansas dove raggiunse due volte le Final Four NCAA, perdendo la finale in ambedue le circostanze. Non ebbe fortuna nella NBA, così decise presto di sbarcare in Europa partendo da Cremona e Biella fino a scalare i gradini per emergere a Bologna e volare al livello più alto con Khimki Mosca e Maccabi Tel Aviv. A Milano arrivò nell’estate del 2012 rimanendo due stagioni. Nella seconda, fu il primo realizzatore di EuroLeague giocando per la squadra che arrivò ai playoff e venne eliminata solo dal Maccabi campione d’Europa. Langford venne anche incluso nel primo quintetto All-EuroLeague (l’Olimpia vinse sette partite consecutive nelle Top 16). Keith fu anche il miglior realizzatore di squadra nel campionato italiano guidando l’Olimpia a 21 vittorie consecutive tra

regular season e playoff. Langford risultò decisivo nel guidare la squadra alla conquista del primo scudetto dell’era Armani. Era una guardia tiratrice dotato di un prodigioso cambio di velocità uno contro uno e, in quel momento, aveva anche sviluppato il proprio tiro da fuori fino a diventare uno dei bomber più efficaci d’Europa. Mancino, segnò 12 volte almeno venti punti in gare di EuroLeague con la maglia di Milano. Nella stagione 2013/14 segnò 439 punti in 25 presenze. Fu Roy Williams a reclutare Langford per l’università del Kansas dove la sua carriera fu strepitosa, nonostante quelle due semifinali perse. “Ho sempre avuto la sensazione che Juan Dixon di Maryland e poi Carmelo Anthony di Syracuse si siano portati via i miei due titoli NCAA. Sì, ho qualche rimpianto.

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Soprattutto l’ho avuto sul momento poi guardando le cose in prospettiva ti rendi conto che quanto fatto non è da tutti e allora lo apprezzi di più”, disse Keith. Guardando Langford però gli scout vedevano una guardia nel corpo di un playmaker e una prima punta che non si sarebbe mai adattato a compiti di gregariato puro. Non venne scelto nei draft e fu costretto a sbarcare in Europa quando i giochi erano fatti e lui un rookie da maneggiare con cura. La prima tappa fu Cremona in Legadue: fu una stagione straordinaria oltre i 21 punti di media. Così riprovò con la NBA. San Antonio era interessata e gli diede una chance. Keith dominò la G-League ma non fu ancora abbastanza. Accettò di finire la stagione a Biella e fu un altro successo che gli consentì di salire ancora di un gradino, a Bologna. Arrivò da ripiego, per sostituire Will Bynum che dopo aver firmato trovò un contratto garantito a Detroit e si liberò dall’impegno. Fece il sesto uomo ma si dimostrò in fretta il miglior giocatore della squadra. La portò alla finale di Coppa Italia e vinse da MVP la FIBA Eurochallenge. Era al top del suo atletismo. Dopo aver firmato il rinnovo del contratto venne ceduto al Khimki Mosca dove giocò due anni e conobbe Sergio Scariolo che poi l’avrebbe portato a Milano. Ma successe dopo Mosca e dopo due stagioni indimenticabili al Maccabi. A Tel Aviv vinse due titoli israeliani e una Lega Adriatica da MVP. Arrivò all’Olimpia nell’estate del 2012. In quel momento, Langford era al top della condizione atletica, ma la chimica di squadra era imperfetta. Fu 10

una stagione balorda: eliminazione al primo turno di EuroLeague dopo un 2-0 di partenza, il taglio di Omar Cook, playmaker e capitano, quello di Richard Hendrix, amico intimo di Langford. Un anno da cancellare che si chiuse con l’eliminazione da parte di Siena nei quarti di finale perdendo Gara 7 in casa. Come allenatore arrivò Luca Banchi che costruì una squadra diversa, lui diventò la prima punta. CI fu qualche intoppo all’inizio ma dopo dicembre l’Olimpia risultò incontenibile, in campionato e anche in EuroLeague dove vinse sette partite di fila entrando nei playoff con il vantaggio del campo. Purtroppo, lui non era al meglio e Alessandro Gentile era del tutto assente. L’Olimpia lottò con il Maccabi ma perse. Nei playoff del campionato italiano, durissimi, l’Olimpia chiuse un digiuno di 18 anni assicurandosi lo scudetto. Langford ebbe altre fiammate incredibili, la mostruosa capacità di sbrogliare le situazioni più difficili, con la sua velocità e improvvisazione. In EuroLeague ha una media di 16.5 punti per gara in maglia Olimpia. Partito nell’estate del 2014, ha continuato a giocare ad alto livello anche in seguito soprattutto a Kazan, al Panathinaikos e all’AEK Atene. Con il senno di poi, Keith Langford avrebbe dovuto rimanere ancora un po’ a Milano. Sarebbe stato la prima punta perfetta anche l’anno dopo, anche accanto al miglior Gentile che si sia mai visto. Il suo livello di professionalità è stato sempre esemplare e gli ha consentito di condurre una carriera lunghissima rendendo al meglio fino alla fine

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Keith Langford nella serie di playoff con il Maccabi Tel Aviv

Qui il suo proverbiale tiro REDSHOESMAGAZINE mancino Keith con i trofei vinti nel 2014

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CURTIS

JERRELLS 2013 - 2014 | 2017 - 2019

Sarà sempre ricordato per “The Shot”. Se l’è anche tatuato sulla schiena. Sono quei gesti che restano per sempre. Playmaker e guardia, una wild card come diceva lui, Curtis Jerrells arrivò a Milano nell’estate del 2013 dopo molteplici esperienze europee non tutte fortunate anche se prestigiose (Fenerbahce, Partizan) e qualche apparizione nella NBA a San Antonio. Mancino texano di Austin, fisico scolpito, una grande carriera universitaria a Baylor, Jerrells era un giocatore particolare, non particolarmente atletico, non necessariamente un grande tiratore, senza un ruolo preciso. Ma a Milano queste caratteristiche diventarono il suo punto di forza, perché Jerrells faceva quello che serviva per vincere.

Ebbe un inizio di stagione difficoltoso: all’esordio a Brindisi non segnò e a dicembre era considerato prossimo al taglio. Ma quando prima di Natale, l’Olimpia ottenne finalmente il sì di Daniel Hackett, fu MarQuez Haynes a venire scambiato, non Jerrells. Da titolare diventò il cambio di Daniel Hackett e Keith Langford, ma in quelle vesti esplose: finì la stagione di EuroLeague con una striscia aperta di 21 gare con almeno una tripla a segno e quando l’Olimpia vinse Gara 2 dei playoff con il Maccabi, lui fu nominato Mvp di giornata. Nelle Top 16 di EuroLeague fu di fatto il giocatore più costante della squadra. “Io ho questa capacità di segnare – spiegava – che non tutti hanno, ma da professionista ho cercato di migliorare il playmaking, la difesa, le letture. E di essere meno

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prevedibile: il mio coach al Partizan mi disse che ero scontato perché, da mancino, se andavo a sinistra lo facevo per attaccare il ferro e se andavo a destra lo facevo per poi arrestarmi e tirare da fuori. Aveva ragione”. Corresse il proprio gioco, diventando più imprevedibile, diventando quello che le sue squadre avevano bisogno fosse. A sorreggerlo ci fu sempre quello che gli americani chiamano un “chip on the shoulder”, quella voglia di dimostrare qualcosa, giocando con fiducia, a tratti arroganza, a dispetto di quello che possano pensare gli altri. Difesa, fisicità e tiro da tre erano le sue armi migliori. Ma soprattutto Jerrells dimostrò le qualità caratteriali che avevano convinto Luca Banchi a sceglierlo: era un giocatore di incrollabile fiducia. Questa caratteristica sarebbe emersa in modo folle e travolgente in Gara 6 della finale scudetto a Siena quando nell’ultimo possesso si rifiutò di passare la palla per eseguire il tiro della vittoria sulla sirena salvando la stagione dell’Olimpia. Il famoso “The Shot”. L’Olimpia, a dispetto delle 21 vittorie consecutive, di una grande stagione, era sotto 3-2 e aveva perso tre gare di fila contro la squadra Campione d’Italia. Gara 6 fu una partita incredibile. L’Olimpia doveva vincerla per restare viva. Jerrells non aveva segnato da tre quella sera, aveva due punti e solo una grande fiducia in sé stesso quando il tiratore di Siena, Matt Janning sbagliò la tripla del potenziale più tre lasciando 14

all’Olimpia l’ultimo possesso. Nicolò Melli catturò il rimbalzo e consegnò la palla a Jerrells. Curtis la portò avanti, ignorando tutti, palleggiò sul posto contro Haynes, palleggio incrociato, un passo avanti, uno indietro, quasi sfiorando la linea laterale. E poi il tiro, con tempismo perfetto Jerrells non sbagliò. L’Olimpia restò viva proprio grazie a quel canestro. “Non passai la palla a nessuno, eravamo pari e quello che volevo era non lasciare tempo sul cronometro. Se avessi sbagliato avremmo giocato il supplementare”, spiegò. Ma non sbagliò. Due sere dopo in Gara 7 nel quarto periodo segnò ancora da tre il canestro del pareggio nella rimonta da meno otto. Lasciata Milano nel 2014, tornò tre anni dopo (aveva giocato a Kazan e Gerusalemme) debuttando con una prova da 30 punti a Valencia. Ancora in finale contro Trento nel 2018 in Gara 5 segnò i due tiri liberi del sorpasso poi protetto dalla stoppata conclusiva di Andrew Goudelock. Restò un altro anno, ma con l’arrivo di Mike James e Nemanja Nedovic ebbe un ruolo inferiore e quando, prima dei playoff, venne firmato anche James Nunnally si trovò fuori dal roster dei playoff del 2019 quando l’Olimpia venne eliminata da Sassari. Poi ha giocato ancora, anche a Sassari, ma di fatto con l’uscita di scena da Milano la sua carriera si indirizzò verso la conclusione. In EuroLeague ha giocato in tutto 82 partite nell’Olimpia, con 125 triple a segno; 108 nel campionato italiano con 191 triple a segno.

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Uno dei tiri più famosi nella storia dell’Olimpia: Curtis Jerrells a Siena in Gara 6 della finale del 2014

Jerrells è tornato a Milano nella stagione 2017/18 vincendo un secondo scudetto


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KRUNO

SIMON 2015 - 2017

Fino ai 27 anni di età, Kruno Simon aveva giocato solo in Croazia e tra l’altro neppure nella squadra simbolo del paese, il Cibona. Era sottovalutato, considerato troppo poco atletico per giocare ad un livello altissimo nonostante la creatività, l’estro, il tiro mancino, la diabolica capacità di passare o tirare in salto, senza equilibrio, senza luoghi in cui atterrare. “Sarà uno dei nostri punti di forza, perché con lui è come avere due playmaker in campo”, disse invece Coach Jasmin Repesa presentandone l’arrivo. Kruno giocava da guardia e da ala piccola, ma poteva portare palla e vedeva il gioco due passaggi avanti. Nel 2012, aveva lasciato per la prima volta la Croazia arrivando a Malaga in Spagna, poi aveva giocato in Russia alla Lokomotiv Kuban ed era diventato

una pedina fissa della Nazionale croata (nel 2016 fu uno dei protagonisti della vittoria al Preolimpico di Torino che escluse l’Italia dalle Olimpiadi di Ro de Janeiro). Ma l’Olimpia era la sua grande occasione di dare una svolta decisiva alla carriera. A 30 anni di età. Non avrebbe fallito. Arrivò all’Olimpia in una squadra da ricostruire attorno ad Alessandro Gentile. Nel corso della stagione 2015/16 arrivarono altri tre giocatori a correggerla e rinforzarla, Mantas Kalnietis, Rakm Sanders ed Esteban Batista. Sarebbero stati con lui e Gentile il cuore della squadra guidata da Repesa. Il Coach aveva ragione su Kruno Simon. A Milano, avrebbe mostrato

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pezzi di un repertorio inatteso, come il gancio da fuori. Ma soprattutto era davvero un playmaker aggiunto, non un difensore per evidenti limiti atletici e forse anche di attitudine. Però capace di ovviare con intelligenza e mestiere. Simon era anche un agonista. Non il classico combattente, che si tuffa sulle palle vaganti, ma il “competitor” che vuole vincere e quando serve non avverte stanchezza, non sente la pressione, il dolore, i problemi. Pensa solo a quello e diventa trascinante. Ogni giorno di più. Kruno Simon è stato la perfetta pedina necessaria per aiutare i compagni, i finalizzatori. L’Olimpia faticò nella prima parte di stagione, perse la finale di Supercoppa contro Reggio Emilia e venne infatti eliminata subito in EuroLeague, ma con le correzioni si mise in ritmo e Kruno Simon fu grande protagonista di una galoppata che l’avrebbe condotta alla conquista della Coppa Italia (tre vittorie a Milano con scarti record, superati solo nel 2021) e poi dello scudetto. La stagione successiva cominciò con la vittoria in Supercoppa e poi in Coppa Italia a Rimini. Con Simon, di fatto, l’Olimpia vinse quattro trofei italiani consecutivi nell’arco di due anni. Sfortunatamente, gli infortuni che ne condizionarono in parte il biennio milanese, emersero proprio nei playoff del 2017. Simon (che era stato obbligato a guardare dalla panchina già le Final Eight di Rimini) fu costretto ad alzare bandiera bianca dopo Gara 18

2 della semifinale persa con Trento. Provò a rientrare dopo Gara 4, con la squadra sull’orlo dell’eliminazione, ma non fu possibile farlo. Peccato, perché un Simon a pieno regime non solo avrebbe potuto cambiare la storia di quella stagione ma magari anche la sua storia all’Olimpia, che si chiuse proprio allora. In ogni caso, in due anni all’Olimpia ha vinto uno scudetto, due Coppe Italia e una Supercoppa. Venne nominato MVP proprio della Supercoppa vinta nel 2016 a Milano (25 punti in finale contro Avellino), e fu decisivo nello scudetto conquistato pochi mesi prima. Fu suo il canestro della vittoria in Gara 6 a Reggio Emilia dal post basso, un fade-away mancino che era la fotografia della sua versatilità. Tiri e passaggi in salto, infallibile dalla lunetta, tatticamente intelligente, mancino: con queste qualità, Kruno superava i limiti atletici. Nei playoff del 2016 ebbe 12.8 punti di media con il 42.8% da tre. In due stagioni ebbe 75 presenze in Italia con 1.014 punti segnati, 31 apparizioni in EuroLeague e 331 punti segnati. Numeri di qualità. Via da Milano, sacrificato nella rivoluzione seguita all’eliminazione dai playoff del 2017 e il conseguente esonero di Coach Repesa, Simon ha giocato cinque anni all’Anadolu Efes Istanbul vincendo due volte l’EuroLeague e meritandosi il ritiro della maglia numero 43.

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Kruno Simon ha giocato due anni a Milano vincendo quattro trofei, uno da MVP

Kruno Simon era il playmaker aggiunto della squadra dello scudetto del 2016


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RAKIM

SANDERS 2015 - 2017

La svolta alla propria carriera Rakim Sanders la diede ai tempi del college, quando lasciò il Boston College per andare a Fairfield, scuola gesuita nello stato di New York, dove molti anni prima di lui aveva fatto cose enormi Arthur Kenney. Sanders giocò solo un anno negli Stags, ma diventò l’unico nella stessa stagione a segnare almeno 600 punti catturando al tempo stesso almeno 300 rimbalzi. Prima di arrivare in Italia, aveva giocato in Belgio e Germania. Non godeva di una grande reputazione, ma quando approdò a Sassari ebbe una stagione strepitosa che consentì alla Dinamo di vincere tre trofei su tre in Italia. Lui fu grande protagonista insieme a Shane Lawal, a Jerome Dyson, a David Logan. In particolare, Rakim risultò

decisivo nella dolorosa sconfitta interna di Gara 7 nella semifinale di quella stagione 2014/15. L’Olimpia, che era rientrata da 1-3 per impattare la serie in Gara 6, conduceva di tre punti a nove secondi dalla fine della settima partita. In lunetta, Dyson segnò il primo tiro libero ma decise di sbagliare appositamente il secondo. Ci furono due rimbalzi almeno, quello decisivo fu strappato da Sanders che segnò il lay-up che portò la battaglia al tempo supplementare in cui la Dinamo vinse eliminando l’Olimpia allenata allora da Luca Banchi. “Esultai come un pazzo, perché nella concitazione del momento ero convinto che con quel canestro avessimo vinto. Invece mancavano ancora cinque minuti”, raccontò appena arrivato a Milano,

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mesi dopo. L’anno seguente, dopo un’operazione al braccio, Sanders approdò a Milano praticamente a metà stagione. Dopo un paio di settimane di rodaggio fu MVP della Coppa Italia vinta al Mediolanum Forum battendo in finale Avellino (17 punti e sette rimbalzi di cui quattro offensivi). Nel giugno seguente fu MVP della finale scudetto vinta 4-2 contro Reggio Emilia (83 punti in sei gare). Poi aiutò la squadra a conquistare Supercoppa (ancora contro Avellino) e Coppa Italia a Rimini dove fu decisivo nella gara più dura contro Reggio Emilia in semifinale (22 punti con 7/9 da due) e poi ancora in finale contro Sassari, la sua ex squadra cui segnò 15 punti con sei rimbalzi. L’anno successivo si trasferì a Barcellona. Per due anni fu fisicamente incontenibile in Italia, un mix di potenza, aggressività e tecnica irrisolvibile per gli avversari. Gli mancava solo qualche centimetro per giocare ad un livello superiore. Infatti, Sanders era arrivato in Italia per giocare da guardia e ala, ma veva una fisicità simile a quella di Alessandro Gentile con il quale duellò ad altissimo livello per una stagione intera, salvo poi diventarne compagno di squadra. Nel corso della sua esperienza milanese da guardia giocò poco, quasi nulla, mentre venne utilizzato moltissimo da ala forte nonostante fosse 1.96, per allargare il campo e consentire a Repesa di cambiare difensivamente su ogni tipologia di avversario differente. Era una sorta di tuttofare, duro in difesa, bravo a giocare spalle 22

a canestro contro avversari piccoli, straordinariamente atletico soprattutto in campo aperto. In sostanza, per due anni e mezzo, dalla stagione di Sassari alle due di Milano, almeno fino alla seconda Coppa Italia vinta, Sanders non fu solo al top del proprio rendimento, ma fu il miglior giocatore del campionato italiano, il più decisivo. Troppo potente fisicamente, troppo esplosivo, troppo forte e troppo bravo, una combinazione eccezionale che si rivelò letale per gli avversari. “Sono solo un ragazzo del Rhode Island – dice – che ha cercato di farsi strada nella vita grazie al basket. Devo tutto al basket e alle situazioni che mi hanno permesso di emergere, come è stato a Milano. Ho sempre avvertito la spinta dei tifosi, della responsabilità. Quando non avevo voglia di allenarmi magari, quella spinta mi è servita per andare comunque in palestra”. Anche se la sua epopea è durata relativamente poco (54 gare di campionato, 583 punti, ma 98 in sei gare di Coppa Italia tutte vinte), un po’ per l’offerta del Barcellona, un po’ per il brutto epilogo di squadra della sua seconda stagione, un po’ perché per esprimersi al meglio aveva necessità di essere fisicamente al cento per cento, la sua esperienza a Milano è stata al tempo stesso vincente e altamente produttiva. Rakim Sanders ha vinto due trofei di MVP e quattro titoli, un bottino tutt’altro che indifferente e gli vale un posto tra i più grandi della storia del club.

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Rakim Sanders era un contropiedista straordinario, bravissimo a chiudere al ferro

La straordinaria potenza di Sanders, innescato in velocità e in campo aperto REDSHOESMAGAZINE

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VLADO

MICOV 2017 - 2021

Vlado Micov è arrivato a Milano nell’estate del 2017. Aveva 32 anni. La percezione era che fosse arrivato un giocatore a fine carriera, reduce dal biennio di Mosca e poi un periodo al Galatasaray, in declino. Ma nei suoi primi due anni milanesi, Micov è stato uno dei giocatori più impiegati in assoluto in EuroLeague, attorno ai 30 minuti di media, e ha fatto in tempo, nel suo ultimo anno all’Olimpia, a giocare la sua terza Final Four di EuroLeague. Ha vinto uno scudetto, ha vinto una Coppa Italia, ha vinto tre volte la Supercoppa, una volta da MVP. Ha giocato oltre 100 partite di EuroLeague, il secondo dopo Kaleb Tarczewski a tagliare quel traguardo. In EuroLeague nessuno ha segnato più di lui in maglia Olimpia. Contando l’era precedente, davanti è rimasto solo Bob McAdoo.

Appena sessanta punti in più. Pur non essendo un individualista, anche se non avrebbe mai sacrificato una sola vittoria per un record personale, quella era una classifica in cui nell’ultimo anno aveva dato un’occhiata. In qualche modo ci teneva. Così come, nell’unica concessione narcisistica della carriera, era contento di essere stato soprannominato “Il Professore”. “Sottintende che gioco in modo intelligente ed è una cosa che mi rendo orgoglioso”, dice. Vlado Micov viene da Belgrado, ha avuto un passato importante nelle giovanili della Nazionale serba, l’oro europeo Under 16 nel 2001 e il bronzo Under 20 nel 2005. È passato attraverso diverse esperienze, le giovanili del Beopetrol Belgrado

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poi Nova Pazova, OKK Belgrado, Buducnost in due momenti diversi vincendo due titoli montenegrini e tre coppe nelle stagioni decisive della sua evoluzione, e il Partizan dove ha conquistato il titolo serbo. Il suo percorso non è stato però lineare: nel 2009 fu ceduto al Panionios Atene, poi ha giocato anche a Vitoria ma senza trovare stabilità. Così la svolta c’è stata a 25 anni, forse più tardi del previsto, con l’arrivo a Cantù, stagioni importanti, il ritorno in EuroLeague, una finale scudetto giocata contro Siena. In sostanza ha fatto un passo indietro per poi muoverne due avanti. Da Cantù è volato addirittura al CSKA Mosca giocando due volte le Final Four di EuroLeague. Era al top del movimento europeo, era uno starter (nel secondo anno aveva il 48.8% da tre, il massimo in carriera). Dopo il CSKA, è andato al Galatasaray per altri tre anni, vincendo un Eurocup nel 2016 (ed è stato incluso nel primo quintetto All-Eurocup della competizione). Poi c’è stata l’avventura milanese, forse la più appagante della sua carriera. Altro che giocatore in declino, Micov aveva ancora tutto da dare. Nella stagione 2019/20, incredibile, tre volte ha segnato il canestro della vittoria, sempre con un tiro da tre punti, a Venezia, in casa con Cremona, a Valencia. La sua fama di “Clutch Shooter” è diventata leggendaria. Segnò anche una tripla per pareggiare una gara di EuroLeague contro il Fenerbahce ma poi l’Olimpia perse all’overtime e quell’eroismo rimase un po’ nascosto. Non era un giocatore

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atletico, Micov, ma sapeva manovrare la palla, tirare, vedere il gioco due passaggi avanti, anche come difensore. Non tradiva emozioni, celebre la sua freddezza dopo la stoppata di Andrew Goudelock che di fatto decise lo scudetto del 2018. Solo a Valencia dopo la tripla della vittoria in rimonta, nel 2020, prima che la stagione fosse interrotta dal Covid, ebbe quasi un gesto di esultanza. “Ci sono stati allenatori che mi hanno rimproverato, perché non avevo reazioni emotive, ma io tengo tutto dentro, è il mio modo di essere”, ha spiegato. È sempre stato un personaggio ostico, nel senso che non ha mai accettato compromessi. Il carattere corretto ma tutto d’un pezzo ad un certo punti gli ha fatto perdere la nazionale serba. “Ho solo un rimpianto, avrei voluto vincere una Final Four. Tre volte ci sono arrivato e non ho mai superato la semifinale, ma guardando alla mia carriera non avrei potuto chiedere di più, sono felice di quello che ho costruito e a Milano ho trovato la mia casa”, ha detto tornando a Milano, dopo il ritiro. Per una volta tradendo un po’ di emozione. Ma chi lo conosce sa che dietro la maschera di ferro, si è sempre protetto un campione vero, un modello, che ha costruito insieme ad altri compagni la cultura dell’Olimpia, la cultura del lavoro, dello stile. Era un freddo, Vlado, ma era freddo fuori, non dentro. Dentro, è sempre stato un uomo intelligente, con i suoi valori, le sue ambizioni e il suo carattere.

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La tripla della vittoria di Venezia, una delle tre nella stagione 2019/20

A Milano, Micov ha giocato la terza Final Four della carriera REDSHOESMAGAZINE

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GIGI

DATOME 2020 - 2023

La carta d’identità dice Montebelluna, provincia di Treviso. Lì Luigi Datome è nato il 22 novembre 1987: Montebelluna in realtà è il paese di origine della mamma Antonella, che peraltro è nata e cresciuta ad Asmara in Etiopia dove il nonno era emigrato negli anni Venti, ma Gigi ha vissuto in Veneto solo pochi giorni, prima di trasferirsi a Olbia, la base di tutta la sua vita. A Olbia, c’è il Pala Datome che non è intitolato a lui come molti pensano, ma allo zio Roberto scomparso prematuramente in un incidente stradale. Il padre Sergio è un albergatore, ma soprattutto un grande appassionato di basket oltre che ex giocatore delle serie minori sarde il cui soprannome era “33” perché pare segnasse spesso 33 punti. Il club locale si chiama Santa Croce e fu fondato nel 1970. Gigi ha giocato con il 70 per quel

motivo. Olbia è il posto in cui è diventato un giocatore. Piero Pasini, allenatore romagnolo di grande esperienza, andò ad Olbia proprio per sostenere a fine carriera un progetto costruito attorno a Gigi. Una volta lo provocò durante l’intervallo di una partita: gli disse che aveva paura, che se la stava facendo sotto. Gli fece scattare la rabbia, quel senso di sfida che non l’ha mai abbandonato. Nel 2002, Olbia vinse il titolo italiano allievi grazie proprio a quel progetto affidato a Piero Pasini che raccoglieva i migliori prospetti della zona, costringendoli però ad allenarsi in posti diversi, a Olbia, a Sassari o a metà strada. Lo scudetto fu vinto a

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Bormio, battendo Biella in finale. Ma, in semifinale, la squadra di Gigi superò proprio l’Olimpia. Ma Olbia stava stretta a Gigi, a quel punto. Agli Europei Under 16 vinse la classifica marcatori. I top club italiani provarono a prenderlo. Datome andò a Siena, a fare incetta di titoli giovanili, portandosi dietro la mamma che non avrebbe mai permesso ad un figlio sedicenne di vivere da solo così presto. Nel 2005, al junior tournament di EuroLeague, a Mosca, guidò la sua squadra alla vittoria sul Maccabi Tel Aviv, segnando 38 punti con 19 rimbalzi e 54 di valutazione. Aveva 18 anni, ed era considerato un prospetto NBA. In realtà, sarebbe servito ancora un po’ di tempo per vederlo esplodere ai massimi livelli internazionali. A Siena in prima squadra ha giocato poco (anche se esordì in Serie A il 12 ottobre del 2003, a quindici anni e undici mesi, e tre giorni dopo il sedicesimo compleanno segnò i suoi primi punti contro la Viola Reggio Calabria), a Scafati ha fatto due anni di apprendistato, come lo sono stati i primi due a Roma. Nel 2010/11, le cose sono cambiate. Quella è stata la sua prima stagione finita in doppia cifra, 10.8 di media. Nel 2012/13 fu MVP del campionato portando Roma alla finale scudetto, persa contro Siena. Il premio per una stagione di livello altissimo fu coronare il sogno di giocare nella NBA. Scelse di giocare a Detroit. Il suo contratto fu firmato da Joe Dumars, uno dei grandi del basket degli anni ’80 e ’90, due volte Campione NBA con i Pistons. Ma Dumars era

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a fine corsa. L’anno dopo, con un nuovo boss, Stan Van Gundy, le cose andarono peggio e Gigi fu costretto a tre partite in G-League. Un’esperienza frustrante che si tramutò in qualcosa di indimenticabile nel febbraio del 2015 quando venne ceduto a Boston e dopo qualche settimana di adattamento entrò nella rotazione dei Celtics, giocando anche bene e debuttando nei playoff, nella serie persa contro i Cleveland Cavaliers che quell’anno avrebbero vinto il titolo trascinati da LeBron James. L’estate del 2015 è stata quella in cui andò al Fenerbahce. Datome andò a Istanbul giocando la finale di EuroLeague titolo tre volte di fila, di cui una vinta, oltre a tre titoli turchi, uno da MVP nel 2016, tre coppe nazionali, la Coppa del Presidente. È stato, quello, un matrimonio perfetto. A Milano era arrivato per coronare il sogno di vincere da protagonista in Italia. In tre stagioni, ha vinto due scudetti, cinque trofei e disputato una Final Four di EuroLeague, la quinta della sua carriera. È stato due volte MVP, nella Coppa Italia del 2021 e nella finale del 2023, quella che ha rappresentato, in Gara 7 l’ultima uscita a livello di club di una carriera leggendaria. Ma oltre i numeri e le vittorie, Datome è stato un esempio, un modello di comportamento, professionalità, educazione. Non è solo quello che ha fatto, ma come lo ha fatto che ha generato tutta la commozione e la voglia di fargli sapere quanto sia apprezzato, una volta deciso di ritirarsi. Datome è stato un modello di perseveranza e di stile.

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Gigi Datome nella finale scudetto del 2023, vinta da MVP, l’ultimo atto della sua carriera di club

La storica esultanza di Datome dopo lo scudetto del 2022, di fatto il suo primo in Italia


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