Dove si parla di sonnambuli e Beati, di videogiochi d’autore e sermoni medievali, di donne libere che fanno musica, cinema e teatro, di Ufo, extraterrestri e italiani prigionieri del passato, di Spielberg, Meister Eckhart e lo Schiaccianoci N 4 | DICEMBRE 2022
Elena Lietti
Daniele
Debora Petrina
E.T. Pietro Righi Riva Nevina Satta Marco Vannini
Vicari Wu Ming
REDness
è passione, arte, impresa, comunicazione.
È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.
Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare.
La redness è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina. È l'entusiasmo, la motivazione, il senso, il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria. REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi. Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità...
Va bene tutto, purché sia fatto con redness.
In copertina: Debora Petrina Foto di: Gigi (servizio a pag. 6)
Direttore: Fabrizio Tassi
Progetto grafico: Marta Carraro Redazione: MondoRed Redness è un mensile edito da MondoRed SpA, Corso Buenos Aires 20, Milano Contatti: info@redness.it, direzione@redness.it Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore
EDITORIALE
4 Sonnambuli e Beati
50
E
VENTI
50 E.T. l’extraterrestre: quarant’anni di pura meraviglia
INCONTRI
6 Debora Petrina: cantautrice eclettica, donna libera 16 Wu Ming: guardare l’Italia scrutando il cielo 26 Elena Lietti: l’attrice che mancava al cinema italiano 34 Daniele Vicari: torniamo a raccontare i sentimenti
58
MEDITAZIONI
58 Marco Vannini: la vera mistica è “esercitarsi a morire” 63 Beati pauperes spiritu: andare al fondo dell’anima
IDEE
42 Saturnalia: solstizio horror in terra sarda. Arte ludica 43 Pietro Righi Riva: le (sante) ragioni della narrazione 48 Nevina Satta: il conflitto creativo fra tradizione e innovazione
STORIE DI VITA E D’IMPRESA
66 Pendragon: storia italiana e innovazione pop 70 Alutherm: la “vecchia maniera” dell’artigiano doc
C
OMMIATO
74 Lo schiaccianoci e il re dei topi di E.T.A. Hofmmann (e Iacopo Bruno)
3 DICEMBRE 2022
4
6
42
66
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S OMMARIO
Sonnambuli e Beati
Bisogna avere occhi capaci di vedere. Lo dice Hoffmann alla fine dello Schiaccianoci (che omaggiamo nel “Commia to”), lo diceva il Piccolo principe, citatissimo e incompre so, lo dicono da sempre fiabe, miti, racconti iniziatici.
Lo diceva anche Albert Einstein - a proposito di citati e incom presi, di cultura pop - parlando di coloro che non sono capaci di meraviglia e di venerazione. «Sono come morti», diceva lui. «Sonnambuli che credono di essere uomini», scriveva Gustav Meyrink, che di meraviglia se ne intendeva, anche se i suoi raccon ti fantastici erano, per lo più, allegorie alchemiche. Quelli che pensano di avere gli occhi aperti, di essere furbi e svegli, di solito sorridono di fronte alla metafora, che sembra un appello all’irrazionale, alla fuga nell’immaginazione. In realtà è l’esatto contrario. Bisogna essere estremamente lucidi e consapevoli per vedere chiaramente quanto siamo vittime delle illusioni, delle no stre abitudini di pensiero, delle narrazioni correnti.
La meraviglia non è un banale stupore che ti fa dire “oooh”, che ti regala il piacere effimero dell’inconsueto, liberandoti dalla noia (per qualche minuto, al massimo qualche ora). «La meraviglia si manifesta quando un’esperienza entra in conflitto con un mondo
di concetti già sufficientemente stabile in noi» (ancora Einstein). Per quanto il concetto sia stato normalizzato e depotenziato, la meraviglia rimane un’arma formidabile per provare a evadere dalla prigione dorata della routine, dalla tirannia dell’ego, dallo spetta colo quotidiano della realtà mediatica.
La meraviglia dovrebbe essere un’attitudine da coltivare, un modo di guardare le cose che le libera dalla polvere, le fa rivivere, risveglian doci a un mondo mai visto prima (con quell’intensità, quell’amore, quella libertà). Ed è inevitabilmente il tema di questo mese, con vi sta sul Natale, che riassume in sé le due possibilità: da una parte la festa sonnambula che sembra celebrare l’illusione, la dissipazione, la vita consumata in desideri sempre nuovi e sempre più difficili da soddisfare; dall’altra il mistero, la meraviglia, lo sguardo bambino che sa vedere l’invisibile e l’interiore, la parentesi che si apre dentro la frenesia dei giorni tutti uguali, spalancando una finestra verso il “senza tempo”. Qui si concretizza la possibilità della venerazione, la gioia di stare al mondo. Meraviglia, gioco, invenzione, redness, capa cità di guardare le cose come se fosse la prima volta.
La musica apre finestre, dice Debora Petrina. Apre un varco nel muro di gomma. Crea uno spiraglio nella nebbia fitta in cui siamo
4 DICEMBRE 2022
E DITORIALE
immersi, che è entrata anche nella nostra testa, rendendoci pigri e un po’ ottusi. Musica eclettica, insolita, stralunata, che ti riempie gli occhi (chiusi) di immagini e ti svuota la testa. Cominciamo da lei, questo mese, perché abbiamo un debole per chi percorre sentieri inconsueti e osserva il mondo con uno sguar do obliquo. E proseguiamo con Elena Lietti, a proposito di esse ri umani che non hanno paura di cambiare. Bella la sua storia di avvocato che un giorno molla tutto e diventa attrice (una formi dabile attrice). Bello ritrovarla oggi in uno spettacolo teatrale che mette in scena le infinite possibilità della vita - quanti, sentimenti e dimensioni parallele (Costellazioni) - in attesa di vederla in sala a Natale tra panorami alpini e amenità brianzole, emozioni (Le otto montagne) e risate (Il grande giorno) Daniele Vicari in Orlando, invece, ci racconta l’incontro tra il “passato” di un uomo anziano, un taciturno montanaro, e il “fu turo” in cui vive una ragazzina di Bruxelles. Quell’incontro è una speranza anche per noi della “generazione di mezzo”, che abbiamo dimenticato i sentimenti, che abbiamo perso il contatto con la terra (Madre).
Se c’è uno sguardo che mette in discussione l’ovvio e il pensiero corrente, è quello del collettivo Wu Ming. Il loro Ufo 78 ci fa vede re l’Italia del 1978 (la parte per il tutto) come non l’abbiamo mai vista. A loro piace osservare il mondo dal punto di vista privile giato della periferia, i margini, i marginali. In questo caso ci tocca stare con la testa all’insù, per provare a capire ciò che accade quag
giù, intorno a noi. L’ufologia come diversivo, fuga, immaginazio ne malata? Tutt’altro. Nella loro intervista, particolarmente ricca di spunti, i Wu Ming citano, giustamente, ciò che diceva Ernst Jünger sul fascino per l’astrologia, così diffuso tra la gente. Non è una banale questione di ignoranza - come dicono quelli “colti” e “impegnati” - ma il bisogno di vivere in un tempo e in uno spazio che non siano solo quantità, ma anche qualità: in un mondo in cui tutto è misurato, classificato, ridotto a uno schema, è inevita bile andare alla ricerca di qualcosa che «tenga aperti gli orizzonti dell’immaginabile».
Il fantastico può essere anche un efficace strumento per vedere meglio il reale, come sa Pietro Righi Riva, che si è inventato un videogioco horror in cui trasfigura la Sardegna e racconta anche le lotte dei minatori e la ribellione femminile al patriarcato. Insomma, c’è tanta meraviglia su questo numero, tanto altrove. Per questo ci è sembrato giusto anche omaggiare E.T. l’extraterre stre, nel suo quarantesimo compleanno. Anche se poi la sostanza sta nelle riflessioni che Marco Vannini ri cava da un monaco medievale, un pensatore-mistico indispensabi le come Meister Eckhart, ritrovando il senso vero, evangelico (ma comune a varie tradizioni spirituali), dell’essere piccoli, bambini, poveri non nel senso dell’avere, ma dell’essere: rinuncia a tutto e ot terrai il Tutto! Superate le ragioni del possesso e dell’affermazione di sé, rimangono quelle del puro essere, della piena gioia, della vera felicità. Beati loro! Anche noi, volendo. (f.t.)
5 DICEMBRE 2022
Debora Petrina
Donna libera, cantautrice eclettica, artista che piace agli artisti Nel salotto di casa sua è nato un disco memorabile
I NCONTRI
di Fabrizio Tassi
(foto Gigi)
Un salotto di cinque metri per quattro, pieno di cose sparse. «Un casino», dice lei. A sinistra c’è un divano. A destra un pianoforte a coda, che occupa quasi metà della stanza. Di solito ci sono anche due chitarre, una tastiera, cavi, mixer, pedali, «ma è tutto giù in macchina. Sono tornata alle 3 di notte da un con certo. Ora devo scaricare e rimontare ogni cosa». Vita da artista. Rigorosamente indipendente. Con tutti i pregi (la libertà) e i difetti (la precarietà, la fatica, le in comprensioni, le rotture di scatole) che ciò comporta. Con una grande finestra che dà su un quartiere popolare di Padova, venti minuti a piedi dal Duomo. E un vicina to che guarda con curiosità e sospetto a questa «donna che vive sola e fa un lavoro strano, un personaggio desta bilizzante»
Bisogna superare l’abitudine a tornare sempre nel consueto, nel sentiero che si conosce. Perdere i riferimenti non significa solo trovare cose diverse, ma trovare dei sé nuovi. Se non evolvi come essere umano finisci per fare sempre le stesse cose
Questa è la stanza dove è nato L’età del disordine. Uno di quei dischi che metti in loop e non riesci a fermarti più: al primo ascolto sobbalzi; al secondo sei innamorato perso; al terzo ti domandi come sia possibile che non venga tra smesso a ciclo continuo da tutte le radio italiane e pure i canali tv. Perché è vero che suona raffinato, con poesia e ironia, che le melodie non sono mai banali (per non par lare dei testi), che ci senti dentro Kate Bush e Tori Amos, Paolo Conte e Ivan Graziani, Diamanda Galas e Cristina Donà, Kurt Weil e i Cccp... (dici niente...). Ma alla fine, anzi fin dall’inizio, ciò che senti è solo Petrina, in una versione che stavolta è perfino un po’ pop, in un modo biz zarro e stralunato, romantico e sbilenco.
Un cantautorato che sgorga dalle vette inaccessibili della musica contemporanea, scende a ritroso verso gli anni ‘70 e poi risale veloce, lambendo jazz, rock, tradizione italia na, creando una sorta di opera-canzone, in cui la voce è un corpo che danza, gioca, recita, ammicca, fa giravolte e flessioni, salta e scivola tra le parole. Con la complicità
fondamentale di Marco Fasolo, che ci fa riscoprire il gusto dell’analogico e dell’acustico, che toglie aggiungendo (o vi ceversa?), costruendo uno spazio sonoro ideale per la voce mutevole di Debora Petrina.
Lei fa musica da vent’anni, il suo primo disco solista risale al 2009 (in doma) ed è passato quasi un decennio dall’al bum rivelazione Petrina, quindi non ha certo bisogno di darsi un tono, anche perché tra i suoi ammiratori ci sono musicisti del calibro di David Byrne, Terry Riley e Paolo Fresu. Per non parlare della carriera da interprete di opere contemporanee (al Teatro La Fenice, ad esempio), i con certi a New York (Barbès), San Francisco (Café du Nord), Londra (Conway Hall), La Havana (Teatro Roldán), i di schi-progetti eccentrici, come il recentissimo NuovoMon do Symphonies, per voce e due pianoforti con Giovanni Mancuso (un buffo patafisico viaggio tra popoli e terre immaginarie, in ventiquattro miniature, pubblicato dalla newyorchese zOaR Records di Elliott Sharp).
Ma L’età del disordine è il primo album tutto in italiano ed è un disco che si presta ad essere amato anche al di fuori del circolo degli intenditori e degli addetti ai lavori. Se non fosse che il mercato ha regole tutte sue, il gusto odierno è un tantino appiattito e non è detto che il pas saparola arrivi fino al grande pubblico. «Un agente con cui lavoro ha proposto Begonie a Radio Deejay, ma loro hanno detto che non è abbastanza pop, che non è nei loro target». Il che, in un certo senso, è un complimento, se si pensa a ciò che passa il convento. Se il pop è quella cosa facile che piace a tutti, allora Petrina fa un altro sport.
Parliamo di questo e d’altro, mentre lei se ne sta se duta sul palchetto che regge il pianoforte, coi suoi capelli rossi, gli occhi grandi e bellissimi, le risate aperte, sonore, che esplodono all’improvviso e mettono di buonumore (come la sua musica). Sembra quasi di vederla, nei giorni dell’emergenza sa nitaria, mentre fa ginnastica su un pezzo di moquette (“ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno”, chi se lo leva più dalla testa quel motivo?), e salta, danza, si sdraia, canta con la pancia all’insù e il “diaframma galleggiante”. È in questo salotto-studio-osservatorio (dell’anima) che Petrina ha visto le “begonie alte più di due metri”, cresciute nella foresta della sua testa, sorseggiando un “cocktail alchemico che ripara i tessuti del cuore” (rabarba ro e rancore, con un tocco di zenzero), sbirciando dalla finestra un “piccolo astronauta che cade a testa in giù”.
8 DICEMBRE 2022
Stando in questa stanza, sembra di percepire davvero “l’assenza bussare con insistenza” e ci viene voglia di can tare a squarciagola “amore è un mare amaro, amore è un mare amaro” (gran pezzo anche quello).
Petrina è cantautrice e compositrice, pianista, danzatri ce, performer, scrittrice. Tutto in lei è movimento. Ri esce difficile quindi immaginarla seduta al pianoforte, nella sua vita precedente, quella in cui era destinata a una carriera concertistica. Ma la vita a volte prende stra de impreviste.
«Ero destinata alla carriera pianistica e ai concorsi inter nazionali, perché avevo un maestro che credeva molto in me. Ma è successa una cosa tragica: mio padre ha fatto un incidente ed è rimasto paralizzato quasi completamente. Questo ha determinato un cambiamento di programma nella mia vita. Me n’ero appena andata di casa e ho deciso di tornare per dare un aiuto a mia madre. Una situazione durata cinque anni, fino alla morte di mio padre, che era attesa, ma è stata comunque tragica. In quei cinque anni mi sono come congelata, perché in quel
momento c’era qualcosa di più urgente di cui occuparsi. Ma dopo la sua morte è cambiato tutto. Sono uscite cose che erano rimaste represse. Il mio bisogno di comunicare. Ho cominciato a comporre, a cantare, a danzare, tutte cose che prima non facevo». Non le faceva professionalmente, anche se “c’erano”, in qualche modo. Ne parlavamo sul numero di novembre di Redness: per trovarsi, bisogna prima perdersi. «Sem bra un luogo comune, ma è vero. Penso sia uno dei segreti della vita. Lo si capisce andando avanti negli anni. Bi sogna superare la paura di perdere i riferimenti, l’abi tudine a tornare sempre nel consueto, nel sentiero che si conosce. Perdere i riferimenti non significa solo trovare cose diverse, ma trovare dei sé nuovi, che magari non sono veramente nuovi, perché li hai dentro, e però non hai avu to l’occasione di scoprirli prima. Ci sono delle moltitudini dentro di noi e forse alcune sono più importanti di altre, ma rischi di non trovarle. Se non cambi, se non evolvi come essere umano, finisci per fare sempre le stesse cose. Arte e vita sono legate. O almeno, dovrebbe essere così».
Debora Petrina
9 DICEMBRE 2022
(foto Chris Drukker)
Le dico che ascoltando il suo disco sembra quasi di ve derla giocare come fosse una bambina. «Se ci penso, in effetti, più invecchio e più somiglio a com’ero da bambina. Ho cominciato a suonare su una stufa. In casa c’era questa stufa a legna, con un cassetto che si tirava fuori, io ci muo vevo le dita sopra e guardavo il loro riflesso. Mi piaceva stare a osservare quel movimento. È questa cosa cinetica che mi ha sempre mosso. Ai compleanni mi piaceva orga nizzare le feste in grande stile. Ricordo che avevo 7-8 anni e preparavo dei balletti sulle musiche dei Led Zeppelin, con mia sorella, più grande di me: facevamo prese, lanci... Anche la dimensione performativa, un po’ istrionica, è sempre stata dentro di me. Avevo bisogno di esprimere la vitalità che sentivo in me. Poi, però, la vita ti costringe in una direzione». Soprattutto se vivi in una famiglia di professori. Mestiere che poi ha fatto anche lei, più per motivi economici che per vocazione. «La mia era una famiglia molto rigida, istituzionalizzata. Mio padre era preside, insegnava italiano e greco. Anche mio fratello è
un dirigente scolastico. Mia sorella è addirittura professo re ordinario di letteratura inglese medievale. Mia madre è “la parte sana” (lo dico con ironia, naturalmente). Ha avuto un’infanzia sfortunata, non ha potuto studiare, però ha sempre alimentato la sua vitalità, la curiosità, è sempre stata una lettrice pazzesca e ha viaggiato molto». Il problema è ciò che la famiglia pretende da te. «Io dovevo eccellere. Non solo al liceo classico, ma anche nel la musica». Con tutto lo stress che questo comporta. Alla faccia della libertà e della “cinetica”. Anche se, per fortuna, in casa c’erano anche ottimi stimoli musicali. «Fin da piccola ho potuto ascoltare i dischi dei miei fratel li, più grandi di me. Sono cresciuta con ciò che amavano loro, il rock anni ‘70, Soft Machine, Led Zeppelin, King Crimson, Simon & Garfunkel, Police. Ma prima ancora, la persona che mi ha aperto alla musica è mia mamma, che ha sempre cantato tanto, anche quando era incinta. E fischiava! Si inventava le canzoni, cose sempre diverse. Inventava anche storie».
10 DICEMBRE 2022
(grafiche Paolo Scaglia)
Perché emergesse l’artista che era in lei, ci sono voluti anni di «vita disordinata», ma soprattutto uno di que gli eventi tragici «che però finiscono per seminare, per far fiorire delle cose». Il terreno era buono. Anzi, ottimo. For se era il contesto che mancava. «Io ballavo di nascosto con le canzoni di Tori Amos. Ma vivevo a Fontaniva, un paese di campagna, dove non c’erano possibilità, non c’erano sti moli. Dopo la morte di mio padre, ho preso le Pagine Gialle, ho cercato “danza Venezia” e ho deciso di fare la prima cosa che ho trovato... Quando andavo agli spettacoli di danza, da giovane, me li mangiavo con gli occhi, era come se sentissi il movimento dentro di me. La vita è anche una ricerca di cosa è importante per te, di cosa ti fa stare bene. Ho scoperto che la cosa che mi faceva stare bene non era certo studiare per 24 mesi la sonata di Beethoven. Quello studio mi ha dato tanto, è stato importante per creare la mia sensibilità musicale. Ma ciò che mi faceva bene era creare, comporre, scrivere, cantare, usare la voce, che è una parte del corpo! Il pianismo è una cosa tremenda, una castrazione, se non è fatta in modo illuminato. Ti costringe ore e ore a studiare lo stesso passo, a restare rigido, a focalizzarti su quella che è una “prestazione sportiva” molto elevata, perché devi esse re in grado di suonare davanti a una commissione o una giuria senza sbagliare una nota, senza avere un vuoto di memoria. Devi avere delle caratteristiche psicologiche di un certo tipo, non puoi essere emotivo. E questa è una cosa che fa dei danni a chi, come me, ha un’emotività instabile. Dopo
la morte di mio padre ho scoperto la dimensione corporea che il pianismo aveva inibito. Ora ho tutto un altro approc cio e rapporto col pubblico, una grande libertà».
La libertà però va conquistata. Soprattutto se non sei protetta da grandi agenzie e grosse etichette. «Mi ha incoraggiato molto il Premio Ciampi, che ho ricevuto nel 2007. E anche quella cosa di David Byrne, il fatto che uno come lui scegliesse dei miei brani da mette re nella sua playlist sull’Italia, senza che ci fosse stata una mediazione. Ero l’unica che veniva dal nulla».
La sua risata è solare e sincera quando le chiedo se ci sta bene nella dimensione dell’artista che piace agli artisti. «Non mi faccio mai questo tipo di domande. L’artista ha bisogno di comunicare, tutto qua. Chiaro, mi piacerebbe che un maggior numero di persone ricevesse la mia “comu nicazione”, perché è sempre una forma di scambio. Ma è bello anche ricevere regali dalle persone che mi hanno aiu tato a fare uscire il disco in crowdfunding, e ricambiarli scrivendo poesie: ho scritto dei versi in rima per ognuno, giocando con il loro cognome. 145 poesie». Tanto per dire che oltre all’artista, al talento, c’è di più. L’umanità, la simpatia, il gusto di condividere bellezza, emozioni. «Ieri sera, al concerto di Bologna, si è avvicinata una cop pia che ricordava di avermi sentito a Sermide nella notte dei tempi, in un circolo Arci, immerso nella nebbia... Io ci scriverei un racconto su una cosa del genere».
Debora Petrina
(foto Fabio Ferrando)
Mentre tutti noi cercavamo un modo per evadere dalla ga lera dell’emergenza sanitaria, lei ha composto un disco in salotto. «Grazie anche a Marco Fasolo, che ha una mente molto aperta. Io vengo dalla musica classica e lui dal rock psichedelico. Ci siamo trovati benissimo. È rimasto da me per un mese. Era la prima volta che metteva piede fuori casa, dopo aver vissuto il lockdown coi suoi genitori in un paesino della bassa. Lavoravamo tutto il giorno e poi usci vamo a fare passeggiate. Era una situazione strana anche dal punto di vista emotivo». Dal punto di vista dello stile e dell’estetica, l’idea era quella di «dare centralità alla voce e al pianoforte, creando una specie di spazio attorno: non arrangiamenti sontuosi, con mille strumenti; poche cose ma giuste. Lui è un genio. Uno tutto suonato. Non c’è elettronica in questo disco. Anche i suoni strani che ci sono all’inizio di Astronauta, li abbia mo ottenuti mettendo il pianoforte in reverse, rovesciando le note. Nei ritornelli di Amore è cieco vengono fuori delle specie di grida, pianti, lamenti, una pioggia di suoni cre ata con le chitarre. Marco è una persona molto analogica. Abbiamo usato dei vecchi mixer e dei microfoni a nastro degli anni ‘50. Per questo c’è quel calore nelle sonorità, quell’intensità. Voce e batterie le abbiamo registrate in un posto molto grande a Marghera, una specie di capannone che è anche un club: ha messo dei microfoni sparsi in vari punti, anche a dieci metri di distanza, per captare tutto il riverbero, tutta quell’aria che stava intorno. Alla fine è sta ta una registrazione di stati emotivi. Piccola cicatrice me l’ha fatta cantare sdraiata, che è una cosa difficilissima: in questo modo il diaframma si posiziona in modo diverso ed esce una voce che sembra provenire da un’altra parte». Sì, doveva essere un bel casino quel salotto, nell’estate del 2020, con Marco Fasolo che faceva editing al computer, mentre Debora Petrina riusciva perfino a fare ginnastica, nei pochi metri rimasti liberi. «Quando lavori in questo modo, devi buttarti e nuotare». Poi, certo, alla fine bisogna mettere ordine. Scegliere e andare al missaggio. Quanto all’attitudine interiore, è quella raccontata in un pezzo scritto prima della pandemia, Panorami-che: «Si parla di con templazione. Io che guardo fuori dalla finestra e prendo ap punti nell’ombra. Che è anche una condizione esistenziale».
Mi alzo e mi avvicino alla porta-finestra che dà sul balcone. Fuori c’è un edificio popolare, con le sue finestre spalancate su tante vite diverse. Lei se la ride, immaginando i miei pensieri. «Cerco di compen
sare con la giungla sul balcone». Di sicuro Debora Petrina non è una che passa inosservata. «Ricevo tuttora delle let tere anonime». Ma non indaghiamo sul contenuto. Ol tretutto siamo in un condominio. Come si fa a suonare in libertà in un appartamento? «Rispetto sempre gli orari: non si suona all’ora di pranzo e non si suona la sera. La notte assolutamente non si può, non esiste. Ma ho un set con tastiera in cui posso usare le cuffie».
Le chiedo cosa sognava di fare da grande quando era bambina. «Le amiche sognavano di sposarsi, avere figli, fare le veterinarie... Il mio unico pensiero invece era questo: “Quando sarò grande, sarò una donna libera, che fa ciò che vuole, senza rendere conto a nessuno”». Forse non è proprio una professione, non ti pagano per questo, ma è certamente uno stile di vita. L’insegnamento (part-time) a volte è frustrazione, ma è anche un’occasione creativa. «Ho sempre cercato di tene re un piede dentro e uno fuori. Il mondo della scuola è “pericoloso”. Ma con la pandemia è arrivato il concorso straordinario, l’ho vinto e mi sono presa 9 ore di piano forte alla settimana. Anzi di “potenziamento”. All’inizio pensavo si trattasse di potenziare la materia, immagina vo progetti creativi, di composizione e improvvisazione con i ragazzi. Invece, col cavolo. Per lo più ho seguito ragazzi in difficoltà e mi sono ritrovata a insegnare di tutto, ma tematica, scienze, statistica, biologia, inglese...». E però lo spazio c’è per inventarsi qualcosa. «Pensa che ho comin ciato prima a far comporre i miei allievi, e poi l’ho fatto io». Una di loro ha vinto un premio di composizione bandito da RaiRadio3, a 13 anni. Non un premio per ragazzi, ma per tutti. Debora ha pure un canale youtu be dedicato ai suoi allievi compositori. «Con Mateo, un mio allievo, sto costruendo un pezzo rap con una parte noi se. Mi ha portato venti registrazioni di rumori fighissime! L’insegnamento è un prolungamento e anche uno stimolo per la mia attività artistica. Ovvio che devo concentrarlo in una parte della settimana, per riuscire a fare il resto». Comunque, ragazzi fortunatissimi: vai a scuola a Padova e ti ritrovi Petrina come insegnante. Cosa vuole comunicare Petrina con la sua musica? «Vor rei riuscire ad aprire degli spiragli. Non importa quali siano. Non importa se uno vede una cosa o un’altra nella mia musica. Penso ce ne sia un gran bisogno, in un mo mento in cui c’è il rischio di una zombizzazione dell’uma nità. Vedo tanti morti viventi in giro, dopo tutto quello che è successo. La musica e i concerti aprono finestre».
12 DICEMBRE 2022
Debora Petrina
(foto Gigi)
Le sue canzoni non lanciano messaggi. Anche se poi den tro ci trovi tante idee, emozioni, stimoli. «Forse perché io uso molto le immagini. Le immagini lasciano l’interpreta zione aperta. Mi piace essere libera, anche come fruitrice di musica, non essere costretta in un messaggio»
Vorrei riuscire ad aprire degli spiragli. Non importa quali siano. Penso ce ne sia un gran bisogno. Vedo tanti morti viventi in giro, dopo quello che è successo. La musica e i concerti aprono finestre
Poi c’è il capitolo letterario. Perché tra le persone impor tanti della sua vita c’è anche lo scrittore Tiziano Scarpa, che ha letto le sue cose e le ha fatto capire che avevano un valore. «In questi anni ho cominciato a scrivere. Ah, come mi piace scrivere! I miei primi lettori sono stati un amico, mia madre e Tiziano Scarpa. A lui sono piaciute molto le cose che scrivevo, mi ha stimolato, ha pubblicato qualcosa nel suo blog “Primo amore” e mi ha fatto da supervisore. Ho scritto tantissimo, insieme abbiamo sforbiciato, scelto, e sono nati due libri».
Uno è quello che arriverà in dono a chi ha contribuito al crowdfunding per il disco. «In questo caso si parla di sogni. Nel periodo in cui non si suonava, io ho sognato di suonare. Sogni assurdi. Invece dei concerti in streaming, io li facevo in dreaming».
Ma c’è anche un secondo libro: «In quei giorni sono sal tate fuori anche cose del passato, aneddoti, a volte tristi a volte divertenti. Si tratta di un “Manuale autobiografico per donne che fanno musica”. Racconto cose che mi sono successe veramente, dal “come ci si veste”, al tizio che non ti paga, il volo aereo, i problemi di cachet, i cafoni... Tutto in chiave ironica, anche con qualche affondo, sui problemi che il musicista deve affrontare in questo mondo. Anche il “problema maschile”. Perché il mondo musicale è tutto in mano agli uomini. Senza fare vittimismo. Alla mia maniera». In realtà c’è anche la fantasia oltre all’auto biografia, l’aspetto più propriamente letterario e di fin zione. Ma non possiamo dire di più. Lo aspettiamo con grande curiosità.
Debora Petrina si è esibita in grandi teatri me tropolitani e in piccole realtà di provincia, in sale da concerto e in circoli associativi e pub. Ciò che conta è la musica. Certo, la sua dimensione ideale è quella dell’ascolto attento, capace di cogliere le sfumature canore e le prelibatezze sonore distribuite ovunque. Ma forse il modo migliore per apprezzare l’artista e la virtuosa è nelle situazioni più scomode, in quei locali in cui si ritrova a fare tutto da sola, con la gente che è lì per incontrarsi, bere, divertirsi, e si ritrova trascinata dai riff e dalle stregonerie musicali di Petrina. Allora capita di vederla con una mano sulla tastiera e un’altra che suona la batteria, con la chitarra tra le brac cia e un tappeto di pedali che la aiutano a creare la sua orchestra “da viaggio”. Perché di questo si tratta. C’è solo lei, ma l’impatto sonoro è di quelli che potrebbero riempire uno stadio.
14 DICEMBRE 2022
(foto Gigi)
Debora Petrina
Lo diciamo per esperienza vissuta di recente, in quel di Milano, in un club che le ha offerto un angolo di loca le, in cui lei oltre a un concerto ha messo in scena una sorta di cabaret musicale, tra letture, improvvisazioni e una canzone d’amore/odio dedicata al metano (viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, cercando un distributore aperto, è uno strazio senza fine). È qui che si vede il sudore e anche l’amore per questo mestiere che è soprattutto una vocazione (altrimenti chi te lo farebbe fare?). È in queste situazioni scomode che esce il talento sconfinato. In queste occasioni, se si
è fortunati, capita di ascoltare anche tracce inedite finite fuori dall’ultimo album - una, Particolare, è molto bella e molto amata da Tiziano Scarpa, che l’avrebbe voluta nell’ultimo disco e ha assolutamente ragione. Ma anche una sua versione minimal e grintosa di Burning Down the House, oppure l’incredibile Asteróide 482 (capolavo ro), inserito nel suo album d’esordio autoprodotto. A proposito, se qualcuno avesse una copia di quel primissi mo in doma e non sapesse cosa farsene (possibile?), può fargliela gentilmente recapitare? Non ne ha conservata neanche una.
15 DICEMBRE 2022
(foto Gigi)
WU MING
Guardare l’Italia scrutando il cielo. Il 1978 tra misteri e avvestimenti.
Un appassionante “oggetto narrativo non identificato”
Cosa ha significato il 1978 per l’Italia? La percezione di quell’anno fatidico, in un certo senso, è cambiata nel corso del tempo. Cosa rappresenta, oggi, perché è così importante riparlarne nel 2022? Sorprendentemente il ro manzo si inoltra fino ai nostri giorni.
Il 1978 è stato un anno di passaggio sotto molti punti di vista. È senz’altro famoso soprattut to per l’affaire Moro, che fu al tempo stesso il più grande colpo messo a segno dalle Brigate Rosse e l’inizio della crisi del lottarmatismo in Italia. Le politiche di emergenza varate in quei fatidici 55 giorni, sono state l’occasione per sperimentare pratiche di controllo poliziesco inedite e per realizzare una forzatura nella società, ponendo tutti davanti al ricatto: o con lo Stato o con le BR. Fu la prima di molte alternative infernali che ciclicamente sarebbero state riproposte nella storia del nostro Paese e che giungono fino ai giorni nostri. Ma il 1978 è stato anche l’anno dei tre papi, il terzo dei quali fu il primo papa straniero dopo quattrocento anni, e delle dimissioni del presidente della repubblica, travolto da uno scandalo per corruzione. Soprattutto fu l’anno delle ultime grandi riforme ottenute dalla spinta sociale del cosiddetto “lungo ‘68”, cioè la legge sull’interruzione volontaria di gravi danza, la legge che aboliva i manicomi (la cosiddetta “legge Basaglia”), e quella che istituiva il Sistema Sanitario nazionale. Si chiuse un ciclo cominciato con lo Statuto dei Lavoratori e proseguito con la legge sul divorzio e con l’ottenimento della scala mobile. Nel ‘78 comincia una stagione diversa, dominata dal boom dello spaccio e consumo di eroi na, dall’avvento della disco music, della voglia di disimpegno e dall’impazzimento dei mo vimenti sociali e politici, e che approderà agli anni Ottanta, quelli dell’edonismo, della Tv commerciale, del cosiddetto riflusso nel privato.
Chi immaginava un romanzo corale, frontale, sugli anni ‘70, con tutte le sue macro e micro-vicende, si ritrova dentro una storia stramba che parla di misteri e av vistamenti extraterrestri, di ufologi e ufofili (convinti, pentiti, mistici, razionali sti... quasi fosse una mappa della diaspora della sinistra). D’altra parte, chi magari pregustava della fantascienza filosofica, “la grande metafora”, si ritrova sorpreso dal realismo, le dichiarazioni, i documenti, l’indagine storica. Perché questa scelta di utilizzare gli Ufo (l’ossessione degli Ufo) come filtro, come chiave di lettura di quegli anni?
Il 1978 è anche l’anno della più grande ondata di avvistamenti Ufo della storia, e proprio in Italia. Si calcolano più di duemila avvistamenti di strani oggetti volanti o luci nel cielo. Gli Ufo erano davvero dappertutto in quell’anno, avevano invaso l’immaginario collettivo.
17 DICEMBRE 2022
I NCONTRI
La coesistenza tra questo fenomeno di massa e i grandi eventi di cui sopra ci è sembrata interessantissima da indagare e da raccontare. La nostra poetica ha sempre prediletto le angolazioni sghembe da cui raccontare un’epoca, e quella degli Ufo e di chi li studia pareva davvero perfetta per il nostro approccio. Quindi il nostro 1978 è raccontato dall’angolazione ufologica, con tutto il resto sullo sfondo, anche se poi è chiaro che sullo sfondo non vuol dire altrove, ma assolutamente presente e incidente sulle vite dei nostri personaggi che respirano e agiscono in quel clima. Loro stessi si interrogano sul significato di quella che gli ufologi chiamano “la Grande Ondata”, trovando risposte contraddittorie.
Il bello, però, è che quel mondo non viene irriso, non c’è sarcasmo e neppure una “psicanalisi” del fenomeno (a parte quella interna alla storia, portata avanti da uno dei personaggi). Gli Ufo non sono una fuga della realtà, un modo per non guardare ciò che fa paura. In un certo senso, la verità emerge seguendo le via obli qua della visione e dell’allucinazione, dello sguardo verso l’altrove (culturale, poli tico, sociale), aperto al mistero.
Quando tutto preme a identificarti - misurarti, studiarti, schedarti, classificarti, intruppartipensare che una luce in cielo sia un oggetto non identificato tiene aperti gli orizzonti dell’immaginabile
Nel suo libro Al muro del tempo, un pensatore culturalmente lontano da noi, Ernst Jünger, ha scritto cose molto acute sull’astrologia che, mutatis mutandis, possono valere anche per la pulsione a cercare in cielo oggetti non identificati. Dell’astrologia non sono interessanti i pronostici, ha poco senso impuntarsi a dimostrare che sono cazzate ecc. Non è questione di verità o meno degli oroscopi, dice Jünger, ma di vedere nel successo per durante dell’astrologia un bisogno, quello di esercitare in un altro modo il pensiero. Sentirsi dire che le proprie azioni e i propri incontri significano anche qualcosa d’altro, che in essi si riflettono grandi forze, insomma, avere un destino, è un desiderio di noi umani, un desiderio di senso. E un destino calcolabile, misurabile, non sarebbe più destino. Il fascino dell’astrologia – che personalmen te nessuno di noi subisce, ma non è questo il punto – sta proprio nel suo venire da un al trove, nel portare i segni di un altrove rispet to alla dittatura capitalistica dei numeri, a questo mondo basato sulla misurabilità e quantificabilità di tutto.
L’astrologia ha una concezione del tempo che non è solo quantitativa, non è solo misurazione, tot ore, tot minuti... No, è un tempo fatto di qualità diverse, a seconda di quando sei nato, dei presunti posizionamenti degli astri nel corso della tua vita, del rapporto tra il tuo segno zodiacale e quelli delle altre persone ecc.
Lo scientista, il debunker fa guerra all’astrologia perché la misura con i propri strumenti e pensa di averla colta in fallo. In realtà non ne coglie proprio il senso, ecco perché i suoi attacchi non ottengono il minimo risultato, e l’astrologia – anche per il fatto di venire dal basso, di diffondersi col passaparola e in forma ludica – continua a suscitare meraviglia, incantagione.
Questi passaggi risuonano con una delle idee che ci siamo fatti sul perché nel ‘78 e poi durante i grandi confinamenti pandemici – quando mai come prima siamo stati in balia dei nu meri, si pensi al bollettino quotidiano dei contagi e delle morti – si siano visti così tanti Ufo.
18 DICEMBRE 2022
Quando tutto preme a identificarti – misurarti, schedarti, classificarti, intrupparti, – pen sare che una luce in cielo sia un oggetto non identificato tiene aperti gli orizzonti dell’imma ginabile. Il paradosso solo apparente è che quest’aspetto è poco compreso dagli stessi ufologi, perlomeno da quelli più scientisti.
Uno dei temi di Ufo 78 sembra essere l’implosione della controcultura. L’occa sione persa. Ciò che promettevano certi movimenti, la musica, il pensiero e le comunità alternative, la ricerca consapevole di stati alterati della coscienza, spro fondati nell’eroina, nella paccottiglia spiritualista, e alla fine nella normalizza zione istituzionale.
In Ufo 78 ci siamo inventati due utopie: una è quella di Thanur, la comune alle pendici del monte Quarzerone che segue gli insegnamenti eco-femministi di Orsola Galbiati; l’altra è la combriccola degli ufofili, gli amanti di ciò che non è identificato, con le loro veglie notturne fatte di musica, fantascienza e sostanze psicoattive. È vero che entrambe le esperienze si esauriscono o si trasformano in tutt’altro, però non par lerei di occasioni perse o di promesse tradite. Passando da Thanur, Vincenzo e Pardo ini zieranno una nuova vita, più consapevole. E sempre da Thanur e dagli ufofili arriveranno indizi fondamentali per la soluzione del mistero di Jacopo e Margherita. Jimmy continuerà a frequentare il milieu della musica indipendente fino alla fine dei suoi giorni e Milena non smetterà di interessarsi alle luci in cielo… Quanto alla controcultura, il romanzo ne è intriso, come ne era intrisa quell’epoca, ma sen za nostalgie per la sua estinzione. Se oggi non la vediamo più in giro, non è soltanto perché l’hanno messa in gabbia e addomesticata. È anche perché ha cambiato identikit: fino agli anni Novanta, ad esempio, un elemento distintivo della controcultura era l’autoproduzione. Oggi se cerchi quella, la trovi nella musica più sperimentale come in quella più commerciale. Un tempo c’era l’underground, la nicchia, e certi prodotti culturali li scovavi solo in certi posti “indipendenti”. Adesso, con una ricerca su Spotify, puoi ascoltare un pezzo di Rihanna come uno degli Henry Cow.
in Valsusa, il 13 novembre, in cammino verso la vetta del Musiné (con vista su un immaginario Quarzerone). Era un evento organizzato da Alpinismo Molotov
19 DICEMBRE 2022
MING
WU
Roberto Beto Novaresio immortalato da Mariano Tomatis
Due immagini dal sito wumingfoundation.com. Il collettivo letterario Wu Ming sarà in tournée con “Ufo 78” fino all’ottobre del 2023.
Esiste anche una presentazione in versione “cantastoriesca”, che ha esordito il 20 ottobre al Centro sociale della pace di Bologna
Il discorso da fare sarebbe lunghissimo, ma mi limiterei a dire che in Ufo 78 c’è soprattutto un invito a lasciar perdere le categorie binarie, le cosiddette alternative infernali: o terrestre o alieno, o con lo Stato o con i terroristi. E quindi anche: o con gli apocalittici o con gli inte grati, o fuori dal sistema o schiavi dei suoi meccanismi.
In un certo senso non siamo più usciti dallo stato di emergenza. L’idea secondo cui bisogna scegliere se stare di qua o di là - non ci sono opzioni alternative allo Stato, alla legge, alla “scienza”, ecc - ha prodotto effetti devastanti nel corso dei decenni. L’ultima esperienza del genere, che come sempre ha avuto le sue “leggi speciali”, l’abbiamo vissuta con il Covid e la politica del green pass. La vostra è stata una delle poche voci dissonanti e razionali (per distinguerla da certo irra zionalismo novax), che ha provato a mettere in discussione quello stato di cose. Quanto vi ha sorpreso il silenzio e l’acquiescenza di quasi tutto il mondo intellet tuale, politico, culturale?
All’inizio ci ha sorpreso, poi ci abbiamo ragionato sopra, e abbiamo concluso che quell’acquie scenza arrivava al culmine di una lunga crisi, una vera e propria bancarotta ideologica ed esistenziale di un certo ceto politico e intellettuale “di movimento”, espressione che per anni abbiamo continuato usare per inerzia, senza mai chiederci di quale movimento si stesse par lando.
Detto ciò, è improprio dire che c’è stato silenzio, perché nei due anni pandemici, al contrario, c’è stata una sovraproduzione di discorso, gli “acquiescenti” hanno parlato tantissimo e, va detto, alcuni di loro hanno anche lottato. Però una lotta non è giusta solo perché avviene: bisogna vedere quale lotta, contro o a favore di che.
Secondo noi, guardando a quei due anni, bisogna distinguere tra certe campagne d’opinione che si muovevano dentro la cornice definita da governo e media mainstream, e dunque den tro le compatibilità dell’emergenza e talvolta con una vera e propria collateralità, e lotte che quella cornice – da noi definita “virocentrica” – la contestavano.
20 DICEMBRE 2022
In parole povere: c’è stato chi ha detto «prima di tutto la guerra al virus e nel quadro di questa guerra vogliamo e facciamo questo», e chi ha detto: «no, non c’è solo il virus, in nome della guerra al virus sta passando molto altro, si stabiliscono pericolosi precedenti, si creano diversivi e capri espiatori, dunque in opposizione a questo vogliamo e facciamo questo». Nel primo insieme c’erano le “spese sociali”, la richiesta di un “reddito di quarantena”, la ri chiesta di più chiusure (un più quasi sempre quantitativo, non qualitativo) ecc. Nel secondo insieme c’erano le lotte per tornare a scuola, le camminate contro il coprifuoco, le manifesta zioni e gli scioperi contro il green pass ecc. Non è una dicotomia rigida, perché ci sono state intersezioni, però poche. In generale, chi ha portato avanti discorsi e campagne del tipo A ha comunicato pochissimo e malissimo con chi portava avanti discorsi e lotte del tipo B, perché su quel versante vedeva soltanto “negazionisti”, “complottisti”, “novax”, per non dire “fascisti”. Dall’altra parte si è risposto per le rime, perché se contesti a monte un’impostazione, non puoi non contestare chi la sta accettando acriticamente. Communication breakdown, direbbero i Led Zeppelin.
E così, chi ha accettato l’impostazione mainstream non ha capito – tuttora non ha capito, o forse finge di non capire – quali messaggi aberranti ha contribuito a far passare, quali mostri ha aiutato a scatenare; dall’altra parte, troppo spesso tra coloro che si sono opposti hanno preso piede narrazioni non meno tossiche, sfrenate fantasie di complotto... Sono mo stri pure quelli. Fatto sta che chi ha accettato di muoversi solo dentro le compatibilità emergenziali oggi è disarmato, non è più in grado di contestare sensatamente nessuna emergenza, nessuna “al ternativa infernale”. Per farlo ci vorrebbero prima dei ripensamenti, delle riflessioni auto critiche... Invece, accade il contrario: quel periodo è già un grande rimosso. Tutto pur di non parlarne più. Lo abbiamo visto nei discorsi contro il decreto “anti-rave” del nuovo governo: si è citato ogni sorta di precedente autoritario, però... si fermavano tutti al 2019! Scomparso del tutto il biennio 2020-2021.
21 DICEMBRE 2022
WU MING (foto Francesca Tilio)
Eppure in quel periodo si è esteso a dismisura il significato di “assembramento” (già di suo un termine questurino e fascista); si sono imposti obblighi e divieti assurdi; si è proibito a un’in tera popolazione di uscire di casa se non per andare al lavoro o al supermercato; si è decretato il coprifuoco per la prima volta dal 1943, quando c’era il governo militare di Badoglio; sono passate senza colpo ferire politiche di controllo, sorveglianza e discriminazione che hanno lasciato ferite ancora aperte... Benissimo contestare il decreto “antirave”, ma se non si fa autocritica sull’aver accettato tutta quell’altra roba, non si va molto lontano.
Tornando a Ufo 78, come è nata questa tecnica narrativa, questa sorta di falsa/ vera inchiesta, costruita intorno a fatti e personaggi storici, su dettagli dimen ticati o trasfigurati? Da una parte sembra un omaggio a Peter Kolosimo (a cui rimanda uno dei protagonisti, Martin Zanka), quei suoi saggi che erano quasi esercizi letterari. Dall’altra però c’è di tutto, il thriller, la fantascienza, la trama gialla, il filo rosso (e nero) della politica, le fantasie cospirazioniste iper-culturali alla Eco, ci sono i sentimenti e c’è il vintage (il gusto di riscoprire questo e quello), c’è un’indagine antropologica al quadrato (visto che un’indagine del genere è al centro di una delle tracce del romanzo)... Una complessità stupefacente, anche nella voce narrante.
Sono passate senza colpo ferire politiche di controllo, sorveglianza e discriminazione che hanno lasciato ferite ancora aperte
Ogni storia chiede d’essere raccontata in modo diverso. Trovare quello giusto è una delle sfide che ci poniamo quando dobbiamo iniziare a scriverla. In questo caso ci siamo occupati di un’epoca non troppo lontana, molti dei nostri lettori erano già nati nel 1978, proprio come noi, quindi era possibile costruire un ponte diretto con il presente. Lo abbiamo fatto attraver so la voce disincarnata di un narratore/intervistatore collocato in questi ultimi anni, tra il 2019 e il 2022. Si tratta di un nostro alter ego che spulcia negli archivi e interroga i soprav vissuti per raccontare il punto di svolta nelle vite di alcuni personaggi che si incrociarono allora. Quei personaggi non sono mai esistiti, ma noi li trattiamo come se lo fossero. Il modello è quello della docufiction, ma la scelta è stata influenzata soprattutto da molti documentari ibridi degli ultimi anni, sia quelli che ricostruiscono “cold case” a di stanza di decenni, sia quelli che raccontano di esperienze collettive controverse. Questa voce aiuta anche chi allora non c’era, perché ricostruisce la temperie dell’epoca fornendo notizie, dettagli, note di colore e di contesto. Insomma siamo noi senza esserlo.
Si conferma la coralità dei vostri lavori, e anche la convinzione che le cose si vedano meglio guardandole di traverso, dalla periferia del mondo. Se è vero che la trama converge verso una soluzione, ogni pagina però sembra dire: chi l’ha detto che deve essere tutto chiaro, spiegato, definito nella sua “verità” stabilita? Forse è più facile trovare delle risposte se le domande non sono così precise, nel senso del pregiudizio.
Non solo si vede meglio il mondo guardandolo dai margini, ma è nei margini che si svilup pano i fenomeni più interessanti.
22 DICEMBRE 2022
La periferia è la postazione ideale per osservare il centro, perché la periferia è il centro, la frontiera è da sempre il cuore del conflitto, e dunque il motore della storia. Ma la frontiera è anche il luogo dell’incontro, dunque della mescolanza, della sfumatura, degli Ufo. Negli anni Settanta poteva ancora sembrare che le metropoli fossero la culla della multicul tura, mentre nei villaggi sperduti prevaleva un modello di vita uniforme, tradizionale e im mutabile. Oggi è il contrario: le metropoli sono le capitali dell’omologazione, merci globali tutte uguali, mentre la varietà è caratteristica dei luoghi marginali. Ecco perché la scelta di uno sguardo periferico, eccentrico, coincide con il rifiuto di verità necessarie e con la messa in scena di una pluralità di voci.
Si direbbe un romanzo pessimista. Tanto per citare Poe, evocato nel finale, con tinuiamo a vivere in quel presente “sonnecchiante” in cui siamo sprofondati, nonostante in apparenza sia tutto uno sbraitare e dividersi su qualsiasi cosa (una rappresentazione social, più che altro). E però nella storia ci sono anche uomini e donne che hanno il coraggio di cambiare, di provarci, di non accontentarsi della scelta più semplice.
Pessimista no, il pessimismo è un lusso che oggi come oggi non possiamo permetterci. Va te nuto per tempi migliori.
Noi stavamo scrivendo Ufo 78 sia nel 2019 sia nel 2020. Il primo è stato un anno di solle vazioni popolari e movimenti radicali praticamente in tutto il pianeta, sembrava davvero potesse aprirsi un nuovo ciclo duraturo: le mega-manifestazioni in Cile contro il governo Piñera, quelle in Nicaragua contro il regime ex-sandinista e reazionario di Ortega, gli ombrelli di Hong Kong, i Gilet gialli, gli scioperi planetari per il clima, le donne polacche in difesa dell’aborto, e sono solo i primi esempi che vengono in mente.
Poi è arrivato il 2020, e in quasi tutti questi paesi l’emergenza pandemica è stata una splen dida opportunità per le classi dirigenti, ha permesso loro di seminare paura e diffidenza, di vietare le manifestazioni, di congelare la situazione.
In molti posti la situazione si sta scongelando, ma come fai notare c’è un problema, qui da noi particolarmente acuto. Stavolta citiamo Wim Wenders (quello degli anni Settanta): Falsche Bewegung.
Il Corriere d’Informazione del 3 maggio 1978
23 DICEMBRE 2022
WU MING
C’è un problema di falso movimento, di spasmi e contrazioni, in genere visibili sui social media, che simulano mobilitazioni ma... non mobilitano. Tutto dipende dal non mettere in discussione la logica della società dello spettacolo e della comunicazione social.
Ogni “campagna” si configura subito come un patchwork di mini-show da parte di piccole celebrità, i cosiddetti o presunti o aspiranti influencer. Non si mette mai in dubbio che la cosa più importante sia apparire, apparire, apparire per accrescere il proprio capitale simbolico. Il tutto stando connessi, inquadrati nel loculo-prigione dello schermo.
Anche quando si scende in piazza, spesso non si è davvero lì, diventa un momento subordi nato alla diretta sui social anziché viceversa. Molte piazze “no green pass” sono state così. Su Giap Andrea Olivieri ha parlato di un “metaverso” della rappresentazione socialmediatica della lotta contrapposta alla lotta vera.
Possiamo rifarci alla distinzione che fa Bifo tra congiunzione e connessione: sono entrambe «concatenazioni di corpi e di macchine», ma mentre la congiunzione può «generare signi ficato senza riconoscere e ripetere un disegno preordinato, senza rispettare una sintassi», la connessione può generare significato solo «seguendo un disegno intrinseco, e conformandosi a regole precise di comportamento e di funzionamento». Ad algoritmi insomma. La congiunzione, fa notare Bifo, è imprevedibile, ci cambia, trasforma sempre chi si congiunge: accade nell’amore, accade nelle rivolte, e nel nostro piccolo accade ai personaggi di Ufo 78. In vece la connessione si basa sul già previsto, conferma e basta, «presuppone un processo attraverso il quale gli elementi che devono connettersi siano previamente resi compatibili». Pensiamo alle sollevazioni del 2019. Ecco, quelle rivolte hanno realizzato congiunzioni. E di nessuna si saprebbe nominare un leader! Chiunque andasse in tv a interpretare la parte del leader o portavoce dei Gilet gialli veniva immediatamente attaccato dal mo vimento, con violenza.
C’è un problema di falso movimento, di spasmi e contrazioni, in genere visibili sui social media, che simulano mobilitazioni ma... non mobilitano.
Tutto dipende dal non mettere in discussione la logica della società dello spettacolo
Anche i personaggi di Ufo 78 sono scontenti delle loro usuali connessioni, che li confer mano nei loro ruoli. A un certo punto Ludo, con un calco dall’inglese, usa proprio la parola “connessioni”, per indicare gli “algo ritmi” che rischiano di riportare Vincenzo sulla via dell’eroina.
Che cos’è tutta la riflessione di Jimmy e Mi lena sull’ufofilia, se non un rifiuto della connessione a favore della congiunzione? È Paul Beathens a dirlo esplicitamente, in uno dei suoi “brindisi”: «Alla congiunzione col cosmo!»
Spiace scoprire che il monte Quarzerone, in realtà, non esiste. Ogni Paese dovrebbe avere la sua Devil’s Tower (ripensando a Incontri ravvicinati del terzo tipo). E però, allo stesso tempo, non siamo poi così sicuri che non esista davvero. Potrebbe essere una sorta di Monte Analogo alla Daumal. Quello si raggiunge dopo una navigazione “non euclidea” e si vede solo in certe condizioni interiori, per rappresentare una conquista spirituale. Qui forse si trat ta di (re)imparare a usare le armi dell’immaginazione, del racconto, della memoria non selettiva, per ritrovare una direzione e un senso, invece di accontentarsi della storia raccontata dai vincitori.
24 DICEMBRE 2022
Il Quarzerone si trova sull’atlante di un’Italia verosimile. Le vicende che lo riguardano sarebbero potute accadere e pro prio per questo ci aiutano a comprendere ciò che è accaduto più di una semplice cronaca degli eventi. Questo è l’incante simo della letteratura, il suo potere fragile e sovversivo. Quando un’inchiesta reale porta alla luce verità negate dal pensiero dominante, il più delle volte questo riesce a riassor birle, presentandole come integrazioni che alla lunga lo raf forzano e lo legittimano. Il punto di vista degli sconfitti di venta così un semplice corollario, che finisce per confermare il teorema dei vincitori, rendendolo più completo e più giusto. Al contrario, un’inchiesta di finzione come quella che rac contiamo in Ufo 78, proprio in quanto non è incentrata sui fatti mette in discussione il modo di narrarli, la cornice stes sa che serve ad inquadrarli e a comprenderli. Combinando la ricerca d’archivio e l’immaginazione si arriva insomma a produrre una storia alternativa alla vulgata non tanto sul piano degli avvenimenti, quanto su quello della loro inter pretazione. (f.t.)
«C’è Wu Ming, che è un collettivo di scrittori nato nel 2000, e poi c’è la Wu Ming Foundation, che è un soggetto multiforme, più vasto e ramificato». Lo facciamo dire a loro, rinviando al sito internet wumingfoundation.com, visto che parliamo di una delle realtà culturali (e sociali, e politiche) più importanti, libere, creative del nostro paese, e oltre. Qui si può davvero trovare una narrazione alternativa a quella ufficiale, istituzionale (veicolata dai media, ma anche da buona parte dell’opposizione al pensiero e al sistema corrente). Ufo 78 si inserisce in una storia partita da Q (firmato Luther Blissett) e proseguita con 54, Manituana, Altai, fino a L’Armata dei Sonnambuli. Poi sono arrivati i romanzi che mischiano la rico struzione storica e il fantastico: L’invisibile ovunque, Proletkult, La macchina del vento. I Wu Ming (“senza nome”) in passato sono stati anche in quattro e in cinque. Oggi sono tre: Roberto Bui, Giovanni Cattabriga e Federico Guglielmi. I nomi non sono segreti, ma quando scrivono insieme chiedono giustamente che si parli di Wu Ming. Rinviamo al sito per conoscere i tanti rami in cui si è sviluppato l’albero della Foundation: gli “oggetti narrativi non-identificati”, la letteratura per ragazzi, la band Wu Ming Contingent, i collettivi e gruppi di lavoro autonomi, Alpinismo Molotov, Resistenze in Cirenaica, Wu Ming Lab... Giap è il blog di riferimento. Una comunità.
25 DICEMBRE 2022
WU
MING
Elena Lietti
di Fabrizio Tassi
Elena Lietti è l’attrice che mancava al cinema italia no. Forse per questo negli ultimi anni la troviamo ovunque. L’anno scorso in Tre piani di Nanni Moretti e L’Arminuta di Giuseppe Bonito. Quest’anno in Siccità di Paolo Virzì e in una doppia uscita natalizia, due film molto diversi tra loro: Il grande giorno di Massi mo Venier, tornato a dirigere Aldo Giovanni e Giacomo, e Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, visto e premiato a Cannes.
Elena Lietti è quel tipo di attrice che sparisce dietro il suo personaggio. Forse il più grande pregio che si pos sa riconoscere a un’interprete - soprattutto dalle nostre parti, dove di solito accade il contrario. Il suo viso rima ne subito impresso. Ma rimane soprattutto l’impressio ne di realtà e verità dei suoi personaggi. Anche se detto così suona forse un po’ solenne e pomposo, cosa che non le appartiene per niente, vista la semplicità con cui fa ciò che fa (semplicità che è il frutto di un grande lavoro). Non è “teatrale” nel senso deleterio del termine (uso invalso tra i critici cinematografici), anche perché il teatro è la sua seconda casa, e sul palcoscenico lascia la stessa impressione di autenticità.
Il fatto è che Elena ha una storia di vita curiosa, che forse c’entra col suo specifico talento e che l’autore di questo articolo ha avuto il privilegio di vivere in tempo reale. Lei aveva scelto di fare l’avvocato, e lo faceva pure bene. Al
cinema ci è arrivata tardi, a 32 anni. Prima di allora i film li guardava da innamorata del cinema, una vera e propria fan, che a settembre non si faceva mai mancare qualche giornata alla Mostra del cinema di Venezia.
La ricordiamo in coda per vedersi tre-quattro film al gior no, insieme a noi “addetti ai lavori”, e a discuterne con gli amici cinefili, sempre col sorriso sulle labbra, perché il cinema per lei è sempre stato un piacere, una festa.
La ricordiamo alle 2 di notte, usciti da una serata danzan te sulla terrazza dell’Excelsior (balla molto bene, nel caso qualcuno volesse scritturarla per un musical...), mentre incrociamo uno scatenato Filippo Timi, che ci invita a un’altra festa, “perché la notte è giovane” (lei naturalmen te ci andò...). Quello era l’anno in cui Elena stava per fare il salto dall’altra parte della “barricata”. Lei che andava a guardare gli attori e le attrici che amava sul tappeto rosso di Venezia, qualche anno dopo si è ritrovata sulla montée des marches di Cannes.
Filippo Timi è stato il primo a notare il suo talento. È grazie a lui se Elena Lietti è approdata al Teatro con la T maiuscola (l’Amleto messo in scena al Franco Parenti di Milano, quando lei aveva già 34 anni, a proposito di esordi tardivi, seguito poi dal Don Giovanni, La Sirenetta e Un cuore di vetro in inverno, oltre a Ondine e Gli Inna morati con Andrée Ruth Shammah). Da lui ha imparato la libertà, l’energia, l’arte di stare su un palcoscenico.
26 DICEMBRE 2022
Faceva l’avvocato e sognava il cinema. È l’attrice che ci mancava. Due film in uscita, un premio teatrale, un talento raro
I NCONTRI
(foto Alessio Albi styling Amelianna Loiacono)
Un altro incontro fondamentale (negli States) è stato quello con Michael Margotta, che è diventato anche suo compagno di vita, e da cui invece ha imparato il “metodo”. E citiamo anche un terzo nume tutelare, Niccolò Ammaniti, visto che l’ha voluta in due serie tv che l’hanno fatta conoscere al grande pubblico: Il mira colo (8 episodi, nel 2017) e Anna (6 puntate, nel 2021). Mettete insieme questi incontri, questi mondi anche molto diversi, e al loro incrocio troverete Elena Lietti, anche se lei in realtà ci ha messo molto del suo (il “suo” è proprio ciò che amano i registi), quell’insieme di istin to e mestiere, di innocenza quasi bambina e complessi tà malinconica che ad esempio potete vedere in questi giorni (fino all’11 dicembre) al Parenti nel bellissimo Costellazioni, per cui ha vinto il Premio Nazionale Fran co Enriquez 2022 come miglior attrice. È proprio nel camerino d’antan del teatro milanese, da vanti a un grande specchio antico, che ci siamo trovati a fare questa intervista sorridente.
Come mai facevi l’avvocato?
Ricordo che in quinta elementare arrivavano gli psicologi per gli incontri di orientamento. Nell’ultima pagina ci chiedevano “cosa vuoi fare da grande?”. Io risposi: 1 Attrice, 2 Avvocato. Non so perché, ma ho sempre avuto una doppia fascinazione.
Poi per me era chiaro che “1 Attrice”. Ma nello stesso tem po era altrettanto chiaro che volevo studiare legge.
Ma attrice di cosa, cinema o teatro? Non lo so, attrice nella vita, probabilmente, nei rapporti umani (e ride, in quel suo modo genuino e contagioso).
Q uindi Giurisprudenza non era una cosa imposta dalla famiglia. No, non ho giuristi in famiglia. È strana questa cosa, lo so, ognuno ha le sue perversioni.
Più che altro è strano che l’avvocato, in un primo momento, sia stato preferito all’attrice. In realtà ho fatto entrambe le cose. Ho continuato a stu diare teatro, ho frequentato la scuola di Quelli di Grock, avevo la mia compagnia amatoriale... Quando poi è entrato in scena Filippo Timi e ho cominciato a studiare con lui, è cambiato tutto. Quell’esperienza mi ha messo di fronte alla necessità di una scelta. Non potevo più tenere il piede in due scarpe.
Che tipo di avvocato eri? Civilista. Però lavoravo in uno studio che faceva tanta proprietà intellettuale e diritti d’autore, quindi avevo a che fare con cose molto belle. Anche divertenti. Avventure notevoli.
Eri un avvocato appassionato di cinema, che non si perdeva un festival di Venezia. Ho sempre visto tanti film perché mia mamma è cinefila.
Sei cresciuta a pane e Rossellini? No, mia madre amava di più la Hollywood della Gol den Age.
Q uindi John Ford e Billy Wilder. Comunque gran de cinema. Guarda caso poi la passione per il cinema è cresciuta in sieme a quella per gli Stati Uniti, che ho tanto visitato. Dall’America mi sono portata a casa anche la famiglia. I puntini si sono uniti. Ma tutto iniziò da mia madre che mi fece vedere Scandalo al sole.
Che meraviglia! Avrò avuto cinque anni. L’imprinting è stato aggressivo.
28 DICEMBRE 2022
(in “Tre piani” di Nanni Moretti)
Facciamo un balzo in avanti, all’anno della grande scelta, l’addio alla carriera da avvocato. Fu un bel “salto mortale”. Anche perché non avevo un ingaggio.
Di che anno parliamo?
La mia prima cosa al cinema l’ho fatta nel 2009, Oggi sposi di Luca Lucini, e la prima produzione in cui ho la vorato a teatro è stato l’Amleto di Filippo Timi prodotto dal Parenti nel 2011.
Q uindi prima il cinema. Sì, Luca Lucini fece dei casting a Milano.
Una 32enne che esordisce nel cinema. Una cosa rara. Poi così brava... (lei se la ride)
...Così brava lo dico io. E comunque lo dicono tutti. Prima dell’Amleto c’era anche stato un tuo mono logo. Bello. Posso uscire anche a mezzanotte. Vero. Ma Filippo l’avevo conosciuto prima. Lui mi ha fatto vedere la libertà di quel mestiere. Quello che face
va lui in scena mi sembrava così folle! Ho intravisto una strada che poteva somigliare a ciò che piace a me. Fino a quel momento, fatta eccezione per alcuni spettacoli stra ordinari (Peter Brook), a teatro vedevo cose che non mi corrispondevano tanto. Ne vedevo di più al cinema.
Chi ti ha detto “sei brava”? O te ne sei accorta da sola?
Filippo è stato sicuramente una bella iniezione di fiducia, perché lui mi ha voluta fortemente nell’Amleto. Artisti camente mi ha sempre coinvolta. Il fatto che mi volesse tanto nei suoi gruppi di lavoro era la testimonianza che forse era quella la mia strada. Poi ci siamo sempre diver titi tanto sul palco. Questo significava qualcosa.
Q uindi non è stata un’illuminazione improvvisa. Una voce “dal cielo”. Non succede mai questa roba. Sono sempre gli incontri che ti illuminano. Io seguo l’impulso. Ho sempre pensato di essere molto cerebrale, ma quando devo prendere delle decisioni grosse, in realtà, non penso, vado di pancia. C’è stato un momento in cui ho sentito che dovevo andare da un’altra parte.
Elena Lietti
29 DICEMBRE 2022
(in “Siccità” di Paolo Virzì foto Greta de Lazzeris)
A teatro poi sei entrata subito dalla porta principa le, il Franco Parenti. Sì, ma è sempre stata una strada in salita. Io non vengo da questo mondo. Sono sempre guardata come quella che non c’entra un cazzo (ride)
Adesso però non più, dopo tante esperienze, i premi... Il lavoro paga. Però c’è sempre una certa curiosità rispetto al mio essere una outsider.
L’hai sempre vissuta col sorriso sulle labbra. Sono un animo allegro. Anche se invecchiando accuso an ch’io un po’ di malinconia.
Al cinema hai spesso ruoli complessi, interpreti personaggi sofferenti. Un po’ credo che sia la mia faccia... E poi io sono compli cata, i registi lo capiscono subito.
La svolta è stata Emma Tassi, ne Il Rosso e il blu di Piccioni. Sì, era il 2012, un momento importante per me. Anche se chi mi ha sdoganata tra gli addetti ai lavori è stato Niccolò Ammaniti, un altro grande incontro della mia vita. Il suo responsabile del casting Dario Ceruti – dav vero molto bravo, curioso, uno che va a vedere un sacco di spettacoli e scova persone in giro – mi ha visto in teatro con Filippo e mi ha chiamato per fare un po’ di provini. Mi ha chiamato per La pazza gioia (Paolo Virzì, guarda caso, mi ha voluto per fare la matta) e per una serie tv Disney per ragazzi, Alex & Co, che ho fatto per due anni.
Poi è arrivata la chiamata per la serie di Ammaniti. Ricordo ancora la sua telefonata nel 2017. Ero negli spogliatoi di una piscina, avevo portato mio figlio a nuo
to. “Ho un provino da proporti”. Mi disse anche una cosa tipo: “Devi cercare di essere stronza”. Quel provino è stato veramente un’esperienza incredibile. Sono partita da casa pensando: “Me la devo giocare fino in fondo. Se questo per sonaggio è così, sarò così, da quando esco di casa a quando arrivo lì”. Prima di fare quel provino ho detto delle cose davvero inopportune, che se ci ripenso adesso... Ho parlato male di persone davanti a colleghi, ho fatto cose che non si fanno e che di solito non faccio, però dentro di me pensa vo: “Qualcosa deve cambiare perché io possa avvicinarmi a questa donna”. Sole è una donna priva di filtri. Ancora oggi sogno che mi suoni il campanello di casa, tanto era re ale. Un personaggio incredibile, priva di diplomazia, per niente gentile, molto essenziale nei rapporti.
In un certo senso, anche “riposante”. Totalmente riposante. Sono uscita del secondo o dal terzo pro vino pensando: “Comunque vada io qui ho fatto qualcosa”.
C’erano tante concorrenti?
L’ultimo provino è stato tremendo, perché non eravamo in tante, ma quel giorno le ho incrociate tutte. Era stato davvero stressante. Però, anche lì, il mio essere dentro quel personaggio, psicologicamente mi aiutava.
I provini, in generale, sono come te li sei sempre immaginati?
Dipende dal regista. Nel caso di autori come Niccolò o Paolo Virzì sono sempre esperienze belle, perché hai di fronte persone creative che cercano un interlocutore crea tivo. Si mettono in una posizione di dialogo e di scoperta reciproca. Sono lì a guardare ciò che tu puoi proporre. È come un primo appuntamento amoroso. Cercano la chi mica tra te e il personaggio.
Non vogliono la prestazione. Non vogliono il paint-by-numbers, il “fammela così”, che è un altro genere di provino. Che esiste, drammaticamente. Nei grandi autori non lo trovi. Non trovi le formule tipo: “Questa è una donna forte ma che ha un grande vuoto dentro”. Quando senti una cosa del genere ti chiedi: ma cos’è il vuoto dentro? Chiedo: che lavoro fa? “Non è importante”. Come non è importante? Ha i soldi o non ce li ha? Chi sono i suoi genitori, dove vive, come è cresciuta? Sono queste le cose che fanno un personaggio. “Ha un vuo to dentro”... ma un vuoto de che?
30 DICEMBRE 2022
(in “Il grande giorno” di Massimo Venier foto Aliocha Merker)
Credi nel destino, che va accolto e bisogna impara re ad amarlo? O credi che siano i nostri pensieri e le nostre azioni a plasmare il mondo?
Io che faccio uno spettacolo sulla fisica quantistica, ten denzialmente sono portata a credere che tutto sia vibra zione ed energia, e che l’energia determini la realtà. Però gli incontri sono anche una questione di fortuna.
Va bene la fortuna, ma poi sei tu che ti predisponi ad avere un certo incontro, facendo le tue scelte, coltivando certi pensieri. Se scegli di fare la vita dell’avvocato, di comprarti una casa sul lago e stare tranquilla con la tua famiglia, difficilmente incon tri Filippo Timi.
Se invece vai a teatro allo Spazio Tertulliano e sei lì con Filippo che mangia gli spaghetti sul palcoscenico... Pensa vo: “Ma chi è ‘sto pazzo che mangia davanti al pubblico prima che inizi lo spettacolo?”. Poi l’ho aspettato e gli ho detto: tu mi devi insegnare quello che fai perché mi piace troppo!
Q ualcuno ti ha insegnato la differenza tra recitare al cinema e a teatro?
Un altro incontro determinante per me, sotto tutti i pun ti di vista, è stato quello con il mio compagno, Michael Margotta, che viene dall’Actor’s Studio, da quel modo di vedere la recitazione. Il Method è il famoso elefante che può essere preso da tanti punti diversi: uno ti dice che è la proboscide, l’altro che è la coda.... Ma quel tipo di ricerca
necessaria a preparare un personaggio, me l’ha insegnata lui. Anche il training che fai su te stesso per essere disponi bile a incontrare le circostanze in cui si trova il personag gio. Mi ha dato una grammatica. Ha dato un nome a cose che facevo istintivamente, in modo disordinato. Mi ha dato un metodo, a prescindere dal fatto che fosse “il metodo”. Io comunque mi sono formata con Quelli di Grock, ho studiato biomeccanica con una compagnia mi lanese, ho fatto laboratori Meisner... Alla fine mescoli un po’ le cose e crei un tuo personale incontro con il personag gio e con la storia che racconti.
Con Nanni Moretti, invece, come si lavora? Con Nanni fai un lavoro completamente diverso, perché lui ha proprio un’estetica della recitazione. E la cerca ad esempio attraverso la ripetizione delle battute. Lui vuole una specie di maschera neutra.
Q uindi devi avere un approccio diverso al personaggio.
In realtà il mio approccio non cambia. Per Tre piani co munque ho fatto il mio lavoro di preparazione, perché quando racconti una storia non puoi farlo con dei per sonaggi generici. Se interpreto un avvocato, questo sicu ramente vuol dire qualcosa, ad esempio riguardo il suo senso della giustizia, che è diverso da quello delle persone comuni, è molto più sofisticato ed elaborato, quindi le sue reazioni sono filtrate da quella mentalità, e lo è anche il fatto che il marito sia accusato di stupro...
Elena Lietti
(foto di Marco De Scalzi per la locandina dello spettacolo “Posso uscire anche a mezzanotte”)
Poi, però, dopo aver fatto quel lavoro, quando sei nelle mani di Nanni, ti devi disarmare completamente, per ché lui ti porta a raggiungere il risultato che cerca.
O gni regista è un mondo, un modo di fare cine ma. Ora tu esci con due film molto diversi tra loro. Aldo, Giovanni e Giacomo, con Massimo Venier, finalmente ti hanno dato la possibilità di interpretare un personaggio comico. Sono in una commedia, quindi il registro è quello. Se non è un personaggio comico ho sbagliato. Me lo dirai tu... Ma io non sono né Aldo, né Giovanni, né Giacomo: loro sono la commedia.
In effetti gli altri personaggi, nei loro film, non de vono far ridere per forza. Sì, ma non devono neanche fare Bergman.
Ti sei divertita a girare Il grande giorno?
Tantissimo. Era un set totalmente diverso dagli altri. Loro sono molto divertenti, anzi lo era tutto il cast messo insieme da Massimo Venier. Uscivamo sempre a man giare insieme la sera, finito di lavorare. Era una cosa che avevamo voglia di fare, sempre.
Una cosa rara
Rarissima. Generalmente ognuno torna a casa sua.
Che personaggio interpreti?
La moglie di Giovanni, Valentina. La signora Segrate Arredi. Tanto ti basti.
Un personaggio importante?
Fondamentale nell’economia della storia. La “first lady”. Anzi la “second lady”, perché sono la seconda mo glie. Ho tutte le insicurezze della seconda moglie in cari ca, che ha cresciuto una figlia non sua.
È un film che aspira ad essere campione di incassi. Il trio è tornato con Massimo Venier alla regia, col quale hanno realizzato i loro film migliori (Tre uo mini e una gamba, Così è la vita, Chiedimi se sono felice...).
Massimo è veramente un bravo direttore di attori. Que sta è una commedia amara. O meglio, ci sono entrambi i lati della faccenda, anche gli sketch. Quando ho letto
la sceneggiatura ho riso davvero tanto. Perché sono sketch “alla Massimo Venier”, che ha scritto la sceneggiatura con loro, è quella nonsense comedy un po’ nera che a me fa spaccare dalle risate. Ci sono anche cose quasi scorrette. Ma pure le idee più slapstick mi fanno tanto ridere. Ci sono entrambi gli aspetti.
Non c’è il “grande tema”, che oggi sembra quasi indispensabile, anche nelle commedie?
No, ma c’è la Brianza. Grande tema, secondo me.... Cre do che la specificità geografica sia uno dei punti di forza del film.
Loro lo sanno fare questo. In Chiedimi se sono fe lice c’è una delle Milano più belle viste nel cinema recente. Esatto, lo sanno fare.
E cosa mi dici invece di Le otto montagne? In quel caso chi interpreti? Sono Francesca, mamma di Pietro e moglie di Giovanni, che è proprio Filippo Timi.
Che tipo di lavoro hai fatto in questo caso? Il genere informa il lavoro, ma il lavoro non cambia. Qui c’era l’epoca. Ed eravamo in montagna, cosa non in differente. In altitudine, anche se io sono un personaggio che si assesta sui 1500, quindi stavo nel verde, vicino ai torrenti (Filippo invece era a 4000 metri). La montagna dettava le regole. E poi, soprattutto, c’era lo sguardo molto internazionale di Felix e Charlotte sul lavoro degli atto ri, che è meraviglioso.
In che senso? Nel senso: vediamo come funziona la scena e poi met tiamo le macchine. Chi faceva così? Cassavetes, forse. Il mio compagno, quando glielo dico, mi risponde: “It’s nor mal”. No, ‘sto cavolo, non è normale.
È ora di puntare al cinema internazionale. Dico sempre che mi piacerebbe molto per mettere a frut to l’inglese. Poi però quando dico questa frase, a volte sui giornali diventa: “Già che ho il marito americano, al meno sfrutto l’inglese”. Mi piacerebbe lavorare in una lingua che non è la mia. Ho la sensazione che possa essere un altro tipo di esperienza.
32 DICEMBRE 2022
Penélope Cruz dice sempre che ogni lingua è un universo, con una sua dimensione, anche sul piano della recitazione. Infatti ho la sensazione che ti possa dare più libertà, sen za essere schiavo della parola, del significato dentro le parole, così da sentirle soltanto. Io però lo farei solo con l’inglese, su cui mi sento solida.
Ti vai a rivedere al cinema? Una volta mi vedo sempre, quando fanno la proiezione per il cast, poi c’è quella ufficiale.
A Cannes come è stato? Bellissimo. Anche se io sono molto legata a Venezia.
Hai fatto la montée des marches! Due volte! Sono stata brava, non sono inciampata e ho tenuto a bada il senso di inadeguatezza, fingendo disin voltura.
Ma ti vai anche a rivedere in sala, quando esce il film, in mezzo al pubblico? Siccità l’ho rivisto due volte perché sono davvero innamo rata di quel film. Sono andata con due gruppi di amici diversi.
Mascherata, per non farti riconoscere. Non sono così famosa. Sai chi è davvero famoso? Aldo, Giovanni e Giacomo. Sono celebrities pazzesche. È in credibile quanto sono amati. Trasversalmente. Fuori dal set c’era sempre gente, così come al ristorante. È la prima volta che vedo quel genere di affetto da parte del pubblico, che rasenta il fanatismo. Loro sono bravissimi a gestirlo.
Sono persone umili. Assolutamente. Ed è una cosa notevole, alla luce del fatto che sono letteralmente braccati. Loro in realtà sono timi dissimi. Belle persone.
Ci pensi a quest’onda che stai vivendo? I film in serie al cinema, il premio teatrale... Ma a cosa devo pensare? Devo lavorare e basta. Io penso alla prossima cosa. Anche se non posso ancora dire cos’è.
Un’ora dopo Elena Lietti era in scena. E qui le pa role si incartano, vista la quantità di emozioni piovute giù dal palco. Allegria, dolore, rabbia, amore, ironia, amarezza, gioco e tragedia, lacrime e sor risi. La vita! (Il teatro!). D’altra parte Costellazioni - scrit to da Nick Payne, regia di Raphael Tobia Vogel – mette in scena le tante possibili storie che stanno dentro ogni storia, le variabili dell’esistenza, le trame parallele conte nute in ogni incontro tra un lui e una lei (lui apicoltore, lei cosmologa). I dialoghi si ripetono con piccole varian ti di tono e di parole, facendo nascere o collassare amori, tradimenti, malattie, scelte devastanti, mentre dei fasci di luce disegnano spazi geometrici su un palco circolare, quasi a visualizzare la trama quantistica dell’universo, con le sue dimensioni infinite. La freddezza di un concetto scientifico e filosofico che prende letteralmente fuoco sul palco, grazie a Elena Lietti e Pietro Micci. A quel punto l’intervista è scomparsa dietro la commo zione (e l’ammirazione). Tanto per ricordarci cos’è l’ar te e a cosa serve. Ecco, andate a vederla in scena Elena Lietti, e la conoscerete così com’è, con quel sorriso da bambina felice e stralunata, e la sofferenza che non sem bra mai recitata.
Elena Lietti
33 DICEMBRE 2022
(foto Alessio Albi styling Amelianna Loiacono)
DANIELE VICARI
Raccontare i sentimenti. Cosa succede se un uomo “del passato” incontra una ragazzina che vive “nel futuro”? Cinema, vita, speranza
Il mondo è ostaggio della “generazione di mezzo”. Quella che non ha dovuto ricostruire, che non si è mai sporcata le mani con la terra, che si è illusa di vivere dentro un progres so infinito, con risorse inesauribili. È quella che produce, viaggia, studia, che non si è fermata neanche durante l’emergenza sanitaria, ma forse ha perso il senso di ciò che fa e ha dimenticato quanto siano importanti i sentimenti. Orlando è un film di sentimenti. E i due protagonisti appartengono alla generazione “passata” e a quella “futura”. Un uomo anziano, proveniente da un paesino di montagna, ancorato alla natura, al lavoro, alla fatica. E una ragazzina che vive a Bruxelles ed è perfetta mente a suo agio in una metropoli contemporanea. Tutti e due, in realtà, hanno qualcosa da imparare dall’altro. Tutti e due sono soli. Ma dal loro incontro può nascere una possi bilità, una speranza. Per loro e anche per noi. Si presenta così il nuovo film di Daniele Vicari, Orlando, che ha tante qualità, due in terpreti eccezionali (Michele Placido e la giovane Angelica Kazankova), ma soprattutto un’idea di cinema e di narrazione che è già di per sé una “risposta”, in un momento in cui il problema è che non sappiamo più fare le domande giuste. Non è un caso che i sentimenti siano così importanti in questa storia. Vicari si è fatto conoscere e apprezzare per i suoi documentari a sfondo politico e sociale, e ha realizzato alcune opere che rimangono documenti fondamentali per la nostra storia recente, da Il mio paese a La nave dolce, passando per Diaz. Ma è anche l’autore di Velocità massima e L’orizzonte degli eventi, di Sole cuore amore e Il passato è una terra straniera, film che san no raccontare la realtà e le sue contraddizioni partendo dagli esseri umani e i loro sogni, le frustrazioni, i limiti, le fragilità, la dignità inalienabile.
Qui ci sono un vecchio e una bambina, un uomo simbolo di un passato che rischiamo di perdere per sempre e un’apertura verso un futuro che fatichiamo a capire. Un nonno e una nipotina che devono provare a incontrarsi nel presente, dentro una storia fatta es senzialmente di emozioni. Una “favola” raccontata da un regista e un intellettuale (ricor diamo anche il romanzo Emanuele nella battaglia, gli scritti sul cinema, la fondazione della Scuola Gian Maria Volonté) che non si vergogna di ammettere il proprio senso di inadeguatezza di fronte allo stato delle cose, ma ha l’umiltà necessaria per continuare a fare, pensare, raccontare, con la ragione e con il cuore.
34 DICEMBRE 2022
I NCONTRI
Sulla locandina del film campeggia la scritta “una favola moderna”, come per chiarire da subito cosa dobbiamo aspettarci.
È una favola moderna perché è basata su una forma di amore assoluto, che non è scontato, che va raggiunto, tra due persone estremamente sole, un nonno e una nipote che non hanno mai avuto un rapporto tra di loro. Siccome la vita ha fatto il deserto intorno a loro, sono costretti ad avere a che fare una con l’altro, a mettere alla prova le loro aspettative sulla vita. E scoprono di avere lo stesso carattere: sono due testoni.
Nelle note di regia parli degli Orlando che ti è capitato di incontrare nella vita. Raccontaci questo tipo umano e cosa rappresenta per te.
Essendo cresciuto in un paese di montagna, ho conosciuto tanti Orlando. Sono persone di poche parole, capaci di fare qualunque cosa. Hanno una testardaggine, una caparbietà, do vuta alla lotta con la terra. Sono dei sopravvissuti. Solo le persone più forti sopravvivono alla natura. Ma non è così scontato che una persona così forte riesca a sopravvivere in un mondo come il nostro, che richiede una conoscenza molto ampia delle cose. Ad esempio, non è scontato che una persona del genere si senta europea. L’Europa è una cosa lontanissima per queste persone, una cosa astratta.
35 DICEMBRE 2022
Noi, la “generazione produttiva”, non siamo capaci di proiettarci né nel passato, né nel futuro. Noi siamo l’unica vera generazione sconfitta dalla storia. Non abbiamo dovuto lottare per esistere.
Il nostro Orlando è costretto per la prima volta in vita sua ad emigrare, e quando arriva Bruxelles, che dovrebbe essere il cuore dell’Europa, si sente talmente lontano da dire che non vuole morire a 3000 chilometri da casa. Non sono 3000, in realtà, ma per lui è come se quel luogo fosse dall’altra parte del mon do. La forza di questa persona viene messa a dura prova da una realtà urbana, da un’altra lingua e da un’altra visione del mondo, quella di una bambina che ha delle esigenze in apparenza opposte.
Ciò che ci caratterizza è la precarietà
Mentre Orlando vive nel passato, o alme no quella cosa che noi consideriamo passato (ma non lo è, abbiamo scoperto con la guerra in Ucraina che senza il grano non si mangia...), Lyse vive nel futuro. Lei ha 12 anni ma ha lo stesso problema di Orlando, è sola e lotta con la solitudine.
Di solito si guarda agli Orlando, a quel passato ancora presente, con un misto di nostalgia e commiserazione. Cosa rischiamo di perdere? Cosa rappresenta per noi quel modo di stare al mondo?
Gli Orlando hanno affrontato una fase della storia contemporanea molto particolare, il co siddetto dopoguerra. Hanno costruito i paesi così come li conosciamo. Però molto spesso queste persone hanno lavorato talmente tanto che non si sono poste il problema del presente. Il loro problema era lavorare, trasformare quello che avevano sottomano in cibo e in futuro. La forza di queste persone è estremamente utile per noi che siamo una generazione di mezzo. La nostra generazione non ha avuto lo stesso tipo di problemi.
36 DICEMBRE 2022
Durante la pandemia si è visto che gli anziani e i ragazzini sono rimasti prigionieri in casa perché noi li riteniamo improduttivi. Noi, la “generazione produttiva”, non siamo capace di proiettarci né nel passato, né nel futuro. Orlando per noi è fondamentale perché ci permette di misurare da dove veniamo. Così come Lyse ci permette di misurare dove stiamo andan do. Noi siamo l’unica vera generazione sconfitta dalla storia. Non abbiamo dovuto lottare per esistere. Siamo stati presi sottogamba dall’epoca nella quale siamo vissuti. Il concetto di precarietà è forse quello che caratterizza di più la nostra generazione: è una definizione quasi esistenziale. Orlando sapeva bene che cosa doveva fare. Lyse ha lo stesso problema di Orlando: sa che deve lottare per il proprio futuro.
Sembri affascinato dalla generazione di Lyse, ma anche distante. Nel film la guardi come se non riuscissi a capirla fino in fondo.
Il film è intitolato Orlando perché è raccontato dal suo punto di vista. Orlando vede questa bambina come qualcosa di distante, che non gli appartiene, salvo poi scoprire che non può farne a meno. Quello di Orlando è un percorso, anche dal punto di vista fotografico: il film parte che è molto freddo e arriva che è molto caldo. Orlando non è mai riuscito a fare il pa dre, e a 75 anni la vita gli mette a disposizione questa chance. Anche a 75 anni puoi essere pa dre o madre, purché tu sia aperto all’esistenza. Quest’apertura da cosa dipende? Anche da chi incontri. Lui è stato fortunato, ha incontrato Lyse, con la quale ti devi confrontare per forza.
In certi momenti sembra quasi un “documentario interiore”, che racconta emozioni e pensieri, anche quelli che non si vedono. Sono bellissimi gli istanti apparente mente “vuoti”, il vagare di Orlando per la città, i momenti in cui lei si “inceppa” e finalmente perde il controllo.
DANIELE VICARI
(foto Dominique Houcmant, Jean François Ravagnan)
Orlando parte da un mondo che per lui è razionalmente ed emotivamente comprensibile. Un ambiente naturale molto forte, un paesaggio struggente, uno stile di vita a misura d’uomo. Quando entra in quella navicella spazio-temporale che è il treno, e che probabilmente non ha mai preso nella sua vita (sicuramente non per andare fuori dall’Italia), atterra su un altro pianeta, in un luogo dove le persone non parlano in un modo che lui possa comprendere. Nessu no capisce cosa dice e lui non capisce niente di ciò che dicono gli altri. Questo passaggio l’ho raccontato attraverso una tecnica cinematografica, che i grandi registi del passato utilizzavano per immergerti in una situazione ambientale sovrastante: il grandango lo. Ho usato dei grandangoli esasperati. Sì, la macchina da presa è vicina a questo personaggio, ma vediamo il mondo intero intorno a lui. Deriva da qui la sensazione di essere in presa diret ta coi suoi sentimenti. Io non volevo fare un discorso sociologico, volevo raccontare i sentimenti di Orlando, i sentimenti di Lyse. La domanda che mi sono fatto durante la pandemia è proprio questa: dove sono andati a finire i nostri sentimenti? Una domanda che è quasi una considera zione, perché ho sentito che la nostra società è diventata indifferente anche alla sofferenza e alla morte. Da un punto di vista narrativo ho messo per un momento da parte l’urgenza, l’esigenza di fare un discorso razionale sulle cose, per cercare di andare a capire cosa accade dentro di noi, nel sancta sanctorum dell’essere umano, i sentimenti, l’amore, la paura.
Immagino non sia stato difficile convincere Michele Placido a interpretare quel ruolo. Lui ha sempre detto di essere molto radicato nella terra in cui è nato, in quel modo di sentire le cose.
Non è stato necessario convincerlo. Ha letto la sceneggiatura e mi ha immediatamente chia mato. Era una domenica mattina alle 7.30, tanto che io pensavo fosse mia madre. Mi ha chiamato per dirmi: “Voglio fare questo film!”. Dentro questa storia c’è sicuramente qualcosa che lo riguarda, ma io sono convinto – anzi è la prima volta da quando faccio cinema che sono convinto di qualcosa – che Orlando sia ovunque in Italia, in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Lombardia... Secondo me è dapper tutto e in qualche modo fa parte di ciascuno di noi.
(foto Alfredo Falvo)
Dove sono andati a finire i nostri sentimenti? La nostra società è diventata indifferente anche alla sofferenza e alla morte. Voglio provare a capire cosa accade dentro di noi, nel sancta sanctorum dell’essere umano
Credi davvero nella possibilità di un incontro fra questi mondi? In fondo il nostro tempo nasce come negazione e superamento di quell’altro.
Secondo me i ragazzi, i giovanissimi, sono più lucidi di noi rispetto a cosa sta accadendo al Pianeta. Lo capiscono di più. Noi adulti abbiamo delle abitudini che ci permettono di sopravvivere, anche di non far caso al cambiamento climatico. I ragazzi e le ragazze no, sono più lucidi. Tanto è che nella nostra generazione non c’è stata una Greta Thunberg. Nella nostra generazione ci sono stati grandi intellettuali che hanno detto: attenzione, l’ambiente! Nella generazione dei giovani adulti, ma anche dei ragazzini, c’è la perfetta consapevolezza del livello di degrado che ha raggiunto il mondo. Da questo punto di vista Lyse è davvero simile a Orlando. È anche lì che si possono incontrare: tutti e due considerano la Terra una madre. Tutti e due sanno che il mondo nel quale vivono ti dà i suoi frutti solo se non lo distruggi. Lyse lo sa perché ha una visione, un’apertura, è una ragazza del futuro, a 12 anni ha una cultura e una conoscenza del mondo che Orlando non avrà mai. Orlando però ha un radicamento di cui Lyse ha bisogno. L’incontro tra queste due generazioni avviene in questi termini. Il vero ostacolo siamo noi! Per questo ho levato di mezzo Valerio, il padre.
Hai dedicato il film a Ettore Scola. Ci parli della vostra amicizia, legata alla scuola di cinema, e di quel “senso di inadeguatezza” a cui accenni nel pressbook riferen doti alle vostre chiacchierate?
DANIELE VICARI
39 DICEMBRE 2022
(foto Dominique Houcmant, Jean François Ravagnan)
Bisogna riconoscerlo quando si ha una fortuna incredibile come la mia, quella di avere un amico come Ettore, che in tarda età mi ha regalato la sua amicizia. In questa dedica ricono sco di essere stato un uomo fortunato. Ettore mi ha accolto paternamente, infatti ha la stessa età di mio padre. Questo incontro è stato molto bello e la dedica è solo di affetto, non ha nulla di intellettuale. Ma ciò non elimina l’esperienza di questi dodici anni di condivisione, il lavoro fatto per la scuola di cinema. Abbiamo creato una scuola pubblica e gratuita, perché pensavamo tutti e due (insieme a Valerio Mastandrea, Antonio Medici e Andrea Porporati), che fosse necessario far sì che potessero entrare nel cinema nuove forze senza barriere, persone di tutte le classi sociali. E soprattutto doveva essere una scuola di cinema, cioè uno strumento che accompagna per circa tre anni, in un percorso di apprendimento, dei giovani e delle giovani, aspiranti cineasti, in una fase della vita particolare, in cui ci si rende conto di ciò che ti succede intorno.
La questione che ci ponevamo è proprio questa, ci chiedevamo tutti i giorni: il nostro cine ma si sta interrogando davvero su ciò che succede nel nostro Paese e nel mondo? La nostra cinematografia a un certo punto si è innamorata di una tendenza - per carità, giustissima, richiesta a gran voce dagli esperti del settore - il desiderio di avere uno sguardo ampio sulle cose. Quello sguardo però è diventato lunare, talmente ampio che gli esseri umani un po’ sono scomparsi. Facevamo queste considerazioni in senso autocritico. Orlando è influenzato da queste chiacchiere, perché la gestazione del film è avvenuta proprio in questo decennio, è un film che ho concepito all’inizio degli anni ‘10 e che ho realizzato solo per la testardaggine di Marica Stocchi, la produttrice.
Ciò che chiamiamo “morte del cinema” è il suo esatto contrario. Ormai siamo talmente immersi nel cinema che non lo vediamo più. Il cinema ci ha di nuovo sorpreso. Ci ha messo sotto scacco
Intanto è uscito il tuo libretto Il cine ma, l’immortale. Il cinema sopravviverà certamente anche all’ennesima morte che gli è stata diagnosticata di recente, come a tutte le altre nel corso dei decen ni. Questo momento però appare parti colarmente drammatico, soprattutto se lo si guarda dal punto di vista delle sale, tra streaming, piattaforme, serialità dominante.
Innanzitutto stiamo dando per spacciate le sale, il che è un grave errore. Le sale sono un luogo di aggregazione e, nel momento in cui è accaduto ciò che sappiamo, le persone si sono rifu giate nelle piattaforme. Ma adesso il pubblico sta tornando. Dobbiamo stare attentissimi ai discorsi che facciamo, perché altrimenti diamo la dimostrazione di non capire cosa succede nel Paese cosiddetto reale. Le persone ricominciano a uscire di casa, perché hanno ritrovato la serenità per farlo e anche i film da vedere. A parte questo, lo dico quasi con una battuta, noi chiamiamo “morte del cinema” il suo esatto contrario. Ormai siamo talmente immersi nel cinema che non lo vediamo più. Siamo come i pesci immersi nell’acqua che non vedono l’acqua, che non si pongono il problema dell’ac qua, altrimenti affogherebbero. Basta qualche numerino: in Europa ogni anno produciamo più di 1500 film, lungometraggi di finzione. Sto escludendo documentari e serie. Nell’Afri ca subsahariana più di 1000. Solamente in Nigeria se ne fanno 7-800 all’anno. In India 1500-1800. È talmente gigantesca la produzione cinematografica contemporanea che non c’è nessuno che possa valutarla.
40 DICEMBRE 2022
Il cinema ci ha messo sotto scacco. È diventato talmente potente che se fosse vivo George Sa doul oggi non riuscirebbe a scrivere una storia del cinema, non sarebbe in grado di farlo. Il cinema ci ha di nuovo sorpreso. Questa enorme produzione in tutto il mondo è dovuta a fattori di sviluppo economico, ma anche tecnologico, la diffusione del cinema in tutti i Paesi. Fino al 1930 a produrre cinema nel mondo erano sette-otto Paesi. Oggi si produce ovunque. Non c’è nessun essere umano che possa dire: conosco il cinema mondiale. Non si può dire nemmeno di conoscere il cinema europeo: chi vede tutti i 1500 film prodotti in un anno? In questo momento in Italia abbiamo un problema di professionisti del cinema, perché l’indu stria dell’audiovisivo si è sviluppata enormemente. In termini di dimensioni, l’industria audiovisiva europea ruota intorno ai 240 miliardi di euro l’anno.
La nostra “generazione di mezzo”, quella che scrive manuali e insegna cinema, è rimasta spiazzata dagli sviluppi dell’audiovisivo. Si parla di cinema e ci si riferisce solo al grande schermo.
È strana questa ideologia dei formati. Se tu chiedi a un selezionatore come ha visto i film scel ti in un festival, cosa ti risponde? In streaming. Però poi magari dice che i film vanno visti al cinema. Ma se li scegli in streaming significa che c’è anche questa possibilità, quantomeno. Magari a breve avremo una sala dove potremo vedere film in streaming… vai a sapere. Le sale devono certamente trovare nuove formule. È un discorso piuttosto complicato che riguar da il grado di sviluppo della nostra società dal punto di vista tecnologico e culturale. Ma lo rimandiamo alla prossima volta. (f.t.)
DANIELE VICARI
41 DICEMBRE 2022
(foto Dominique Houcmant, Jean François Ravagnan)
Solstizio horror in terra sarda Il videogioco è arte e storia
Èil 21 dicembre del 1989. La notte del solstizio d’inverno.
Una presenza inquietante si aggira tra i vicoli di un antico borgo sardo. Siamo dentro un labirinto e dobbiamo fuggire. Tutto ciò di cui disponiamo sono dei fiammiferi (pochi) per provare a illuminare la notte. Dobbiamo risolvere enigmi e sopravvivere all’orrore che incombe, mentre la trama cambia in base alle scelte fatte dai personaggi con cui giochiamo.
Ma Saturnalia non è solo un gioco. È anche arte, storia, tradizione. Un’esperienza creativa, oltre che ludica, capace di unire il diverti mento (lo spavento) con la voglia di conoscere e scoprire.
In Saturnalia si incontrano la tradizione sarda e l’espressionismo tedesco, il Carnevale di Barbagia e il cinema di Dario Argento e Mario Bava, la grafica in stile rotoscoping e la memoria delle proteste dei mina tori. Insomma, realtà e immagina zione, paura e lotta di classe, dentro una Sardegna trasfigurata.
Ma c’è di più. Perché questo vide ogioco indipendente e italiano è il frutto dell’inedita collaborazione tra uno studio di game design e una
film commission. Da una parte c’è Santa Ragione, lo studio fondato da Pietro Righi Riva e Nicolò Tedeschi, a cui dobbiamo già Foto nica, MirrorMoon EP e Wheels of Aurelia. Dall’altra la Sardegna Film Commission, che ha avuto l’idea di creare un fondo per il “location scouting” dedicato al mondo videoludico.
È così che è nato il villaggio di Gra voi in cui si svolge il gioco, la cui ge ografia cambia ogni volta che i vari personaggi escono di scena (anche il finale è multiplo), dentro cui ritrovi i Comuni di Orani e Gavoi, rituali arcaici che affondano le loro radici in Barbagia, tra le maschere nere in legno dei mamuthones, echi di Santa Cristina e del castello dei Ma laspina, oltre che delle miniere del Sulcis. Ci trovi la civiltà nuragica, ma anche la chiusura delle miniere degli anni Ottanta, in un’epoca in cui si sviluppava una seconda on data di femminismo che metteva in discussione la culturale patriarcale tradizionale. Anche la musica attin ge ai canti popolari sardi e la lingua del luogo risuona misteriosamente in alcuni dialoghi.
Il tutto sotto la direzione artistica di
Marta Gabas, altra scelta eccentri ca e vincente, visto che la celebre scenografa (che lavora per il teatro e per il cinema) è alla sua prima esperienza nel mondo dei video giochi. Da qui l’estetica ricercata, che guarda all’espressionismo (per cui luoghi, scenografie, luci, sono parte della narrazione) e al cinema italiano “di paura” anni ‘70, oltre che al fumetto noir.
Tutto molto inquietante, spropor zionato, claustrofobico. E quindi affascinante.
Ecco una strada per i videogiochi di domani. Che guarda alla giocabili tà, al divertimento (vedi la scelta del genere horror), ma anche al conte sto sociale e culturale. Arte ludica.
42 DICEMBRE 2022
I DEE
AMBIENTATO NELL’89 TRA ENIGMI, MISTERI E LE PROTESTE DEI MINATORI “SATURNALIA” È FIRMATO DALLO STUDIO ITALIANO “SANTA RAGIONE” CON IL CONTRIBUTO DELLA FILM COMMISSION DELL’ISOLA
Le (sante) ragioni del racconto
PIETRO RIGHI RIVA: «I PREGIUDIZI SUI VIDEOGIOCHI? GIUSTIFICATI» CHIACCHIERE CON LE STAR
Perché Santa Ragione?
Intanto è un nome italiano, il che è una rarità.
Di solito si sceglie un nome in inglese per sembrare più inter nazionali. Anche per paura che all’estero non lo capiscano. Questo è vero, ci chiamano Santa Raghione, oppure arrivano mail con scritto Dear Santa, come fos simo Babbo Natale... Ma noi non cerchiamo di competere con i colossi mainstream. Se ci fossimo chiamati Dark Wood Games avremmo perso la nostra identità. Nel nome c’è una promessa che poi manteniamo perché i nostri prodotti parlano di Italia. C’è anche il tentativo di mantenere una tradizione del design italia no, che poi è quello che ho studiato
al Politecnico di Milano. Santa Ragione è l’espressione di quella tradizione all’interno del mondo dei videogiochi.
Nel nome c’è anche un gioco di parole.
Volevamo unire la “santità” con la “razionalità”, ossimoro che rappre senta bene il mondo dei videogiochi, un artefatto ultra-tecnologico che però vuole avere un valore artistico, suscitare emozioni, non risolvere problemi ingegneristici.
Eri appassionato di giochi anche prima di fare il Politecnico e scegliere questa strada profes sionale?
Il nostro primo progetto è stato un gioco da tavola ed è ancora uno di
quelli che vendono di più. Io sono sempre stato appassionato di vide ogiochi, come penso sia abbastanza tipico della nostra generazione, soprattutto per i figli unici... Crescen do, questo medium mi ha dato l’impressione di essere potenzialmen te una miniera d’oro, perché molto giovane, molto inesplorato e con un potenziale di coinvolgere l’audience in maniera attiva che gli altri mezzi di comunicazione hanno in modo minore. Offre strumenti interessanti per raccontare delle storie nell’inte rattività.
Un pregiudizio diffuso vuole che il videogioco sia solo intrat tenimento e consumo. Ma c’è anche il possibile valore artistico ed espressivo del mezzo.
43 DICEMBRE 2022
Più che un pregiudizio è un post-giudizio. Non è sbagliato, è la sostanziale verità della stragran de maggioranza di ciò che questa industria produce. A differenza dell’industria del cinema, quella dei videogiochi non ha distinzioni al suo interno. Generalmente non si parla di “industria del video”, mettendo sullo stesso piano un film, una clip musicale, un filmato porno o il video che fai sul cellulare. Invece nel mondo dei videogiochi viene messo tutto assieme: se una cosa è interatti va e non serve per una certa finalità, è un videogioco. Se tutte queste cose si chiamano nello stesso modo, e una persona conosce solo Candy Crush che gioca sul cellulare, non si può pretendere di insegnargli che quella è cultura. D’altra parte manca un mercato significativo per prodotti che invece abbiano ambizioni alte. È tutto da dimostrare il fatto che i vi deogiochi, nonostante singoli esempi di valore, possano avere un impatto culturale simili alle varie arti.
Al cinema da una parte c’è l’industria, i film dei supereroi, Hollywood, dall’altra l’arte e il film d’autore. Ma in mezzo ci sono gli Spielberg che fanno tutte e due le cose insieme. Nei videogiochi c’è qualcosa di simile, ma è una fetta quasi invisibile: uno o due giochi all’anno dentro un’industria che ne produce forse diecimila. C’è una completa sproporzione. I festival come l’In dependent Games, l’unica grande manifestazione del mondo dedicata ai giochi indipendenti, non hanno assolutamente la rilevanza non dico di Cannes e Berlino, ma neanche del Sundance. Per un’industria che
invece è altrettanto significativa, se non di più, dal punto di vista econo mico. Questa cosa è imbarazzante.
Voi avete una predilezione per il videogioco “narrativo”. “Narrativo”, però, è diventata un’e tichetta pericolosa, dispregiativa, per intendere quei videogiochi che non sono divertenti da giocare.
Tipo: non è bello, ma interes sante. Ecco: no grazie... Semmai possiamo dire che i giochi che ci interessano sono quelli che utilizzano le mecca niche dell’interazione per raccontare una storia. Ci sono grandissimi esempi di giochi puramente astratti, che hanno anche un valore artistico, ma non sono il nostro pane.
Ci spieghi cos’è l’interaction design, la materia in cui hai con seguito il dottorato di ricerca? È quella branca del design industria le che si occupa di progettare la comu
nicazione tra uomo e macchina. Ad esempio, la persona che deve progetta re i tuoi comportamenti mentre usi il bancomat (dalla sicurezza all’accessi bilità) è un interaction designer.
Si parla di Saturnalia come di un gioco non lineare, che “viene creato mentre lo si esplora”.
Cosa significa?
Molti giochi hanno una progressione lineare: vivi eventi interattivi uno in fila all’altro che devi risolvere per andare alla scena successiva. Il nostro invece è un gioco non lineare perché sei buttato all’interno di un villaggio e decidi tu da che parte andare e cosa iniziare a esplorare. Ciò che scopri o trovi ti invita a continuare l’esplorazione e a cercare il prossimo step, all’interno di una rete libera di connessioni. La cosa particolare è che questa ricerca la fai utilizzando quattro personaggi diversi, che possono affrontare gli eventi del gioco, e quindi la storia che emerge, in qualunque ordine.
44 DICEMBRE 2022
Quello che i personaggi dicono, i dialoghi, gli eventi, tengono in considerazione l’ordine delle azioni che hai compiuto. Quindi la storia emerge in maniera naturale da un tuo comportamento non predeter minato.
Immaginiamo sia particolarmen te complesso programmare un gioco del genere. Sì, decisamente. Mentre la sceneg giatura di un gioco più tradizio nale è una sequenza simil-lineare, come quella di un film, noi per ogni evento abbiamo dialoghi per tutti i personaggi, che prendono in considerazione gli eventi precedenti. Per fare un esempio che non sia uno spoiler: se trovi l’arma del delitto ma non la vittima, ti diranno “cosa ci fa qui quest’arma?”; se invece hai trovato anche la vittima diranno: “mi chiedo se questa è l’arma che
ha ucciso tizio”. Questo è sia un problema di intelligenza artificiale, che deve conoscere il contesto in cui scegliere la battuta, sia un proble ma di scrittura, perché bisogna im maginarsi tutti gli scenari possibili e scriverli.
In genere come nascono le vostre idee? Immagini, occasioni? Non abbiamo un metodo. Quello che succede di solito è che si accumu lano delle idee che vengono appun tate. Quando arriva il momento di creare un nuovo progetto, le idee compatibili tendono a convergere in un’idea nuova. Può essere quella di una meccanica piccola, tipo il villaggio che cambia ogni volta che lo esplori. Magari questa idea viene senza pensare al gioco finito, poi quando c’è l’occasione di fare un horror, ecco che arriva il momento di utilizzarla.
In particolare Saturnalia come è nato?
Stavamo ragionando su un horror politico-sociale, per raccontare il con flitto inter-generazionale e il concetto di tradizione come strumento di oppressione e mantenimento dello status quo. Avevamo anche un’idea meccanica: utilizzare i fiammiferi come valuta per conoscere un labi rinto; la scommessa di fare un passo in più al buio senza usare il fiam mifero, per imparare. I due aspetti si sono uniti grazie al bando Europa Creativa, che finanzia fino al 50% di un prototipo di videogioco narrativo. Abbiamo scritto il bando e poi abbiamo ragionato sul luogo in cui ambientare questa storia. Avevamo il bisogno di raccontare un conflitto che esiste dall’alba dei tempi e che quindi doveva essere posizionato in un luogo con una forte stratificazio ne storica, culturale e sociale.
45 DICEMBRE 2022
Inoltre, dovendo creare un hor ror, serviva anche un folklore, un immaginario da reinventare, che non si fosse mai visto nel mondo dei videogiochi. Questo ci ha portato diritti in Sardegna. Anche perché noi vogliamo fare giochi ambien tati in Italia. Ci ha aiutato anche Andrea Dresseno, che sta facendo un progetto molto bello (Ivipro) di vi deogiochi sul territorio, in cui mette in contatto studi di sviluppo con film commission. Quando siamo entrati in contatto con la Sardegna Film Commission, è stato subito chiaro che loro potevano aiutarci in modo molto pratico e sostanziale, ci hanno portato a fare location scouting e ab biamo raccolto tantissimo materiale.
Avete anche una direzione arti stica importante. Esatto, Marta Gabas. Non aveva mai lavorato a un videogioco nella sua vita. Sapevamo che questo gioco doveva avere un look molto ricono scibile, non solo per il nostro gusto personale, ma anche dal punto di vista del mercato. C’è stato un festival l’anno scorso dedicato ai videogame horror in cui ne hanno presentati 800... C’era una necessità molto pratica di riconoscibilità e io penso che Saturnalia si distingua grazie al lavoro di Marta che, non
venendo dal mondo dei videogio chi, quindi non essendo “corrotta” dall’estetica e dalle aspettative di questa industria, ci ha portato in un mondo di scenografia e concept art molto originale, creando un’identità del gioco unica.
Ci ha anche messo in difficoltà, perché siccome volevamo lasciarle il controllo di tutte le scenografie, abbiamo dovuto costruire gli eventi e le meccaniche di gioco attorno alle strutture che lei ha creato. Con risultati che in un videogioco non si sono mai visti.
L’impressione è che sia un pro dotto molto “autoriale”. Questo tipo di videogioco, che ha una forte connotazione artistica, culturale e sociale, funziona anche tra i giovani o si rivolge a un’altra fetta di mercato?
Uno dei nostri grandi difetti è che non ci occupiamo di target. Per noi questo è un pensiero secondario. Già il fatto di fare un horror, è stata una concessione cosciente alla necessità di creare qualcosa di appetibile per il mercato. Un gioco d’autore ma di genere. Dopo di che non saprei.
46 DICEMBRE 2022
Abbiamo fatto delle scelte sull’acces sibilità del gioco che consentano una fruibilità anche a chi non è partico larmente interessato ai temi politici e storici. Si possono saltare tutti gli elementi del contesto, scappare dal mostro e arrivare all’uscita. Al contrario del nostro gioco precedente, The Wheels of Aurelia, in cui non c’è scampo se non sai cosa sono gli “anni di piombo” e non ti interessa il tema dei diritti, visto che il gioco parla solo di quello.
Per ora l’accoglienza critica di Saturnalia è stata ottima. Sì, siamo molto contenti.
Come vedi l’evoluzione del videogioco, in generale? Ci sono tanti punti di vista diversi: quello pre occupato dei genitori, che vedono i figli piegati tutto il giorno sui cellulari; quello dei giovani che cercano qualcosa di stimolante; quello dei teorici che amano i videogiochi liberi e artistici. Il videogioco è uno dei mezzi con cui lo schermo compete sul tempo libero delle persone. I ragazzi piegati sul cellulare non necessariamente stanno giocando a un videogioco. Il content, come si chiama adesso, non deve essere necessariamente interattivo. È molto facile che il mondo dell’entertain ment si vada perfezionando in ottica capitalistica privilegiando esclusiva mente la cattura dell’attenzione del consumatore, per potergli mostrare pubblicità più mirate e più frequenti. Il tempo dedicato allo schermo è una misura oggettiva, e già oggi si crea contenuto ottimizzandolo in funzione dell’attenzione. Noi esseri umani abbiamo reazioni fisiologiche mi surabili agli stimoli audiovisivi che
riteniamo appaganti, e il contenuto che ci viene proposto è studiato e ordi nato per massimizzare questi stimoli. Siccome questa auto-ottimizzazione è un meccanismo alla base delle nuove intelligenza artificiali, e siccome il capitalismo similmente privilegia il contenuto che genera profitto, allora sempre di più verrà generato contenuto con il solo obiettivo di monopolizzare l’attenzione. Se questa dinamica non viene regolamentata diventerà pervasiva. In Cina hanno imposto delle limitazioni al tempo che i cittadini possono dedicare ai videogiochi, forse andrebbe pensato un limite anche per i social network e i video su YouTube.
Ci sono speranze per uno svi luppo in senso “artistico” del videogioco? Voi cosa avete in programma per il futuro?
Io dieci anni fa mi aspettavo che il videogioco avrebbe preso i temi e i valori artistici propri del cinema, invece vedo che sta accadendo il contrario. Sono un po’ scettico sugli sviluppi futuri. La speranza è nella nuova generazione, ed ecco infatti ciò che voglio fare in futuro. Ci sono creatori e artisti che vengono dalle discipline più disparate, a cui non frega niente dei videogiochi, ma che semplicemente trovano nel mezzo in terattivo lo strumento con il quale si vogliono esprimere. Stanno facendo opere secondo me molto importanti e che hanno risonanza con la loro generazione, dai 25 anni in giù.
Come Santa Ragione l’anno scorso abbiamo pubblicato il gioco di un mio ex studente, che si intitola Milky Way Prince, la storia di un amore tossico fra due ragazzi, uno dei quali soffre di sindrome borderline.
Racconta come queste personalità si alimentano a vicenda fino alla tragedia. Io non sarei mai riuscito a fare un prodotto del genere, perché non ho mai pensato che un gioco potesse parlare di questi temi. Invece per lui è stata una cosa naturale. Autobiografica. E se guardi chi ci gioca, persone che appartengono a quella generazione, scopri che una su due si mette a piangere. Allora vuol dire che sei andato a colpire qualcosa di non banale. A me interessa scoprire questi autori e aiutarli, dopo aver fatto dieci anni di esperienza sugli aspetti tecnici e pratici della distribuzione, della pubblicazione, del rapporto con le consolle. Offrire il know-how necessario a trasformare le loro idee in prodotti che si possono auto-alimentare economicamente.
Pietro Righi Riva. Nella pagina precedente e in quella seguente, alcuni esempi di come i luoghi sardi sono stati trasfigurati nel gioco
47 DICEMBRE 2022
Ieri e oggi, un conflitto creativo
NEVINA SATTA E IL RUOLO DELLA SARDEGNA FILM COMMISSION
«Ci siamo incamminati anche un po’ folle mente dentro l’universo del videogame, ma non avremmo mai immaginato di finire sull’Epic Game Store dopo qualche anno». Nevina Satta guarda con grande soddisfazione al successo del progetto Saturnalia. La Sardegna Film Commission, che dirige, ha scelto di ampliare l’orizzonte: non solo cinema e tv, ma anche produzione videoludica (grazie al lavoro di Susanna Tornesello, esperta del settore). E il risultato è un gioco indipendente, un horror d’autore, il cui immaginario è profondamente radicato in terra sarda. «Tutto è partito dal classico lavoro di location scouting – racconta Nevina Satta. - Con Pietro Righi Riva abbiamo ragionato sulla ricerca delle ambienta zioni, in relazione al mood della storia, focalizzata sul ribaltamento dell’ordinario. Il primo luogo che ci è venu to in mente, quindi, è la Barbagia col suo Carnevale. Per noi è molto interessante la riscrittura libera di luoghi e tradizioni fatta da Saturnalia».
L’apporto della Film Commission è andato ben al di là della mera ricerca di luoghi adatto allo scopo. «Generalmente chiediamo di aver accesso allo script, oppure, se siamo ancora in una fase ispirazionale, lavoriamo sulle conversazioni, come fa il produttore esecutivo di un progetto cinematografico. Si ragiona con il regista e il suo team sulle motivazioni della storia. Il nostro è un lavoro creativo, che incrocia diverse professionalità, esperti di vari settori. Siamo andati ad approfondire l’incrocio conflittuale fra tradizione e modernità, che in un’isola millenaria come la nostra si manifesta in modo ciclico. Abbiamo portato Pietro e un suo collaboratore in giro per la Barbagia e per siti archeologici, insieme ai location manager: loro per noi sono come degli angeli del terri torio, archeologici, geologi, professionisti capaci anche di restituire la relazione con il paesaggio». Visitare questi luoghi con chi li vive e li conosce perfettamente, significa anche scoprire elementi che danno un’ulteriore dimensione al progetto. «Fa parte del racconto della location e della comunità che la abita. Se vai in un paese come Orgosolo, vedi i murales, vedi il paesino, ma poi c’è anche la curiosità di sapere qualcosa del racconto di Emilio Lussu... Da una parte c’è la ricer ca un po’ gramsciana, di una terra portatrice di conflitti e contenuti molto significativi. Dall’altra hai il contrasto tra il mare e certe roccaforti geologiche, fatte di granito, la leggerezza dell’acqua ma anche la gravitas dell’anco raggio millenario. Tutto questo, per un visionario come Pietro, è diventato un grande stimolo».
Alla fine il videogioco è il risultato di tutti questi intrecci. «C’è Gavoi, c’è Orgosolo, ci sono le maschere nere dei mamuthones, l’antropomorfizzazione del Boe, il Pozzo Santa Cristina, i complessi minerari, portatori di un altro grande conflitto sociale. Abbiamo innestatocosa che da isolani ci viene naturale - diversi gradi della storia, anche il tema del femminismo e della partecipa zione delle donne alla vita pubblica. Se vai a guardare
48 DICEMBRE 2022
le mitologie storiche della Sardegna, Eleonora d’Arborea è stata una figura di grande lungimiranza, pur essendo arrivata con la dominazione spagnola: ha scritto uno dei documenti della Carta de Logu che porta avanti un rico noscimento femminile paritario molto rivoluzionario. Noi portiamo gli autori nei luoghi, nelle comunità e nelle loro storie, che sono sempre intrecciate: siamo un popolo di raccontatori, un po’ come i griot africani, abbiamo una grande tradizione narrativa orale. Vai a Cabras a vedere un sito, ma la persona che ti accompagna è il nipote del pastore che ha trovato i giganti di Mont’e Prama e diventa una mise en abyme straordinaria». Va detto che Nevina viene dal mondo della produzione, ha lavorato a Los Angeles, prima di vincere dieci anni fa il concorso che era stato indetto dalla Regione Sarde gna. Una vera e propria scommessa. Anche perché lei, in passato, se n’era andata da Nuoro per cercare fortuna altrove. «Abbiamo messo in gioco tutte le doti che una regione come questa può vantare. Penso al patrimonio museale: io venivo da dieci anni in America, e ritenevo che quel passato dovesse diventare presente vissuto, altri menti come dice Marcello Fois si finisce per mettere i vivi nelle teche di vetro e chiuderli dentro, imbalsamandoli. Noi abbiamo una squadra straordinaria, che lavora allo stesso modo per il piccolo videoclip degli studenti del Dams o per la grande produzione Disney. Anche per un fattore generazionale, abbiamo la libertà di chi dice: non dobbiamo sempre fare il film storico o il documentario divulgativo, possiamo fare anche uno straordinario horror videoludico giocando su più livelli. Questa è una terra di grande sperimentazione, negli anni Settanta sono venuti Eugenio Barba, i Living Theatre, Marina Abramović... Perché si sono innamorati della Barbagia? Perché qui si trova in pieno la dialettica – che il videoga me ha assolutamente assorbito - tra apollineo e dionisia co, l’estremamente ordinato, quasi pittorico, canonico, e la forza dirompente del fuoco che avvia il carnevale, della rivolta degli operai o dei minatori». Senza dimenticare che si parla di servizio pubblico «Siamo passati dal concetto di film commission di fun zionari che fanno i permessi, a una film commission che fa produzione creativa. Ma lo facciamo nel pubblico, ad esempio con una nostra policy sulla sostenibilità ambien tale. Nessuno si permette di dire a Netflix o Disney cosa fare, noi sì. Qui gli inseguimenti in mare non li possono fare in qualsiasi momento, perché dobbiamo salva
guardare la tartaruga caretta e quindi Red Notice lo hanno girato a metà novembre, non ad agosto. L’isola ti costringe a scelte radicali. Ma questa è la nostra forza. Non possiamo entrare in una dimensione competitiva, non siamo Roma, non abbiamo i capitali del Trentino, lavoria mo sulla cooperazione, cerchiamo finanziamenti e pensiamo a cose dirompenti come il lavoro sui videogame, che nessuna film commission trattava».
Merita un accenno anche il segmento dedicato all’ani mazione. «Si chiama Progetto Nas, New Animation in Sardegna. Anche questo è un esperimento, perché è il primo laboratorio pubblico di formazione e produzione di animazione, che parte dal presupposto che qualcuno debba guidare e articolare i talenti sparsi. C’è la squadra sarda di Bonelli, tanti giovani, Jean Claudio Vinci, che dalla casa dei genitori, in mezzo al medio campidano, disegna gli Incredibles per la Pixar... Un patrimonio pazzesco. Ora abbiamo una squadra di 89 animatori. Non stiamo creando uno studio, si creano concept, è un servizio pubblico finalizzato alla comunità, cercando di accompagnare gli animatori anche nel mercato internazionale. Vista la di soccupazione giovanile, è incoraggiante per una comunità poter contare su un segmento così attrattivo». Ecco quindi spiegato il retroterra di Saturnalia. «Pietro è arrivato con il giusto livello di follia e ha colto la propo sta lanciata dalla nostra Susanna Tornesello. Il pubblico deve fare sperimentazione di modelli, non certo sostituir si alle produzioni. Deve tracciare percorsi di investimento sul territorio, con capitali a rischio, ma stimolando i capitali privati. Saturnalia ha un valore simbolico per noi: dieci anni fa nessuno avrebbe mai immaginato che si potesse sovvertire la rappresentazione della maschera dei mamuthones». Bello sapere che, in un’epoca in cui si (stra)parla di metaverso, stia tornando di moda la realtà. Perché è di questo che si tratta. Anche quando la ritroviamo in for ma di videogioco che trasfigura la terra sarda. «Quelli della nostra generazione hanno usato i primi visori VR. Adesso cerchiamo di convincere chi usa i visori per creare, a far venire voglia alle persone di tornare qua».
49 DICEMBRE 2022
Quella bici che vola in cielo è l’emblema stesso della meraviglia del cinema. Un po’ come la luna colpita da un razzo nel film di Méliès. O la scena imma ginifica in cui poveri e reietti volano con le scope sui cieli di Milano, sorvolando il Duomo, immaginata da Zavattini e De Sica (Spielberg si lasciò ispirare proprio da Miracolo a Milano).
Sono passati 40 anni dall’apparizio ne di E.T. l’extraterrestre (in Italia uscì nel dicembre del 1982) e tutto il mondo sta celebrando da mesi un film che da subito è entrato nell’em pireo dei classici, le opere destinate a rimanere sempre “attuali”, le storie che fanno appello a qualcosa di profondo, di radicato, e quindi emozionano ogni volta e fanno sognare (piccoli e grandi rimasti bambini).
Steven Spielberg a quel tempo era già l’autore de Lo squalo (1975), di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), de I predatori dell’arca perduta (1981). Era un regista che trasformava in oro tutto ciò che toccava. Che sapeva rendere reale l’inverosimile. Ma invece di realiz zare il kolossal che tutti si aspettava no, girò E.T.
40 anni fa E.T. è atterrato tra noi Un incanto che non finisce mai IL CINEMA COME MERAVIGLIA. L’INCONTRO CON “L’ALTRO” NEGLI OCCHI DEI BAMBINI. CELEBRAZIONI E RIEDIZIONI E VENTI
Lo facciamo dire a Franco La Polla, che conosceva il cinema americano come pochi: Spiel berg con questo film portava avanti la sua vecchia (nuova) idea di «ci nema come apparato concepito per il sogno e per lo stupore, per la fiaba e per la meraviglia, comprendendo bene che tutto ciò non era tanto una questione di denaro quanto di inventività, fantasia, ardimento» (lo scriveva nel Castorino dedicato a Steven Spielberg).
Da una parte c’era la forte impres sione lasciata dalla lavorazione di Incontri ravvicinati del terzo tipo (a
UNA FIABA NATA DALLA BIOGRAFIA
DI SPIELBERG E DA “INCONTRI RAVVICINATI”
proposito di capolavori del cinema, di film che riescono a conciliare le ragioni dello spettacolo con quelle dell’anima, l’arte e l’intrattenimen to). Spielberg si chiese cosa sarebbe accaduto se uno di quegli alieni, arrivati sulla Terra, fosse rimasto bloccato quaggiù. La mente di un narratore funziona così: ogni storia genera altre storie.
Ma c’entrava anche la biografia. Il desiderio di risolvere, o perlomeno elaborare, certe pagine oscure della
sua infanzia. Il dolore per il divorzio dei genitori, la solitudine, che aveva generato un amico immaginario, un alieno invisibile che gli faceva compagnia. Spielberg lo ha ricor dato anche di recente, in un evento pubblico organizzato a Hollywood per celebrare il quarantesimo com pleanno di E.T.: «Stavo lavorando a uno script sulla separazione e il di vorzio dei miei genitori. Era il 1976 e in quel momento giravo Incontri ravvicinati del terzo tipo.
Eravamo arrivati alla scena in cui l’extraterrestre scende dall’astronave e fa il segno della mano a François Truffaut. All’improvviso ho pensato: e se quella piccola creatura non facesse ritorno all’astronave? Se cam biasse programma, e lei o lui restasse qui? Se trasformassi la storia sul divorzio in un film su un bambino che prova ad assumersi quelle re sponsabilità che causano il divorzio, in particolare se hai fratelli? Loro
devono prendersi cura l’uno dell’al tro. Il ragazzino protagonista per la prima volta deve prendersi delle responsabilità su una forma di vita, riempire il vuoto del suo cuore». Non la fantasia come fuga dalla re altà, pura evasione, per non pensare al brutto della vita e non affrontare i problemi, ma come strumento per esplorare la realtà, una luce per illuminare gli angoli bui. Come ha esplicitato qualche anno
fa J.J. Abrams (uno dei tanti che a Spielberg devono tantissimo), che con il suo Super 8 metteva il giovane protagonista faccia a faccia con il “mostro”, mangiatore di uomi ni, che però alla fine svelava due occhioni da E.T.: quell’essere alieno era l’incarnazione del lutto (la morte della madre), del dolore che rischia di divorarti, se non hai il coraggio di affrontarlo. A cui devi parlare come se fosse una parte di te.
52 DICEMBRE 2022
Non per niente E.T. comincia in un bosco, come tante fiabe e storie mitiche. C’è sempre un luogo oscu ro, pauroso, pericoloso da esplorare (una foresta, una caverna, un buco nero in cui si cade). C’è una prova da superare, per diventare grandi o per comprendere una qualche verità. Qui c’è la notte, la musica inquietante e sognante di John Williams, il fogliame indistinto, la macchina da presa che si sposta in
orizzontale, creando una situazio ne che non è realtà ma incanto. Compare subito anche il “cattivo”, ovvero l’uomo (adulto!), che fa la sua irruzione nel film con la violen za di un’automobile, e poi rimane forma indistinta, massa d’uomini, piedi che camminano, luci di torce che fendono il buio. Non è certo un caso che i “grandi” siano assenti dal film, a parte la madre. Che Spielberg abbia deciso di girare
per lo più ad altezza bambino, di guardare il mondo con i loro occhi. Non più spettatori di un film, ma protagonisti. In una storia che parla dell’incontro con l’Altro (dentro e fuori di sé, perché la metafora può avere tanti significati diversi). Gli adulti, di solito, hanno l’ossessione del controllo, vedono l’altro come un possibile nemico, seguono logi che legate al dominio, il profitto, il successo, il potere.
53 DICEMBRE 2022
I ragazzi sono un’altra possibilità, una visione diversa del mondo e della vita. Il potere del cinema (come quello della letteratura) è proprio questo: dire cose che rischierebbero di essere ovvie e anche un po’ moralistiche, con una forza e una semplicità che ne rivela la verità.
Epensare che Spielberg, in partenza, aveva pensato a un extraterrestre cattivo, che perseguitava la famiglia. Quel pro getto si chiamava Night Skies, era un horror, e successivamente darà origine a Poltergeist. A rendere E.T. così straordinario è, al contrario, l’intuizione di un alieno buono, di un essere apparentemente mostruo so, che per essere capito, e perfino amato, ha bisogno di occhi in grado di vederlo per ciò che è davvero. E qui arriva l’apporto di un altro grande artista, perché ogni film è sempre l’incontro fra varie menti, visioni, capacità. Carlo Rambaldi si ritrovò di fronte alla necessità di creare un essere di natura vegetale
PER CELEBRARE L’ANNIVERSARIO LA UNIVERSAL HA PREPARATO UNA RIEDIZIONE SUPER
(così ne ha sempre parlato Spiel berg), né maschio né femmina, che apparisse allo stesso tempo vecchio, raggrinzito, e infantile, brutto ma tenero, una “tartaruga senza guscio”. Ne ha parlato spesso Rambaldi: «Spielberg mi ha detto che voleva una cosa brutta ma inno cente. Beh, per farlo brutto bastava mettere molte grinze sul volto. Farlo innocente era più difficile, perché po teva sembrare stupido. Poi un giorno ho guardato il mio gattino, e nei suoi occhi ho visto proprio quell’innocenza che cercavo».
Più che il protagonista della storia, E.T. è «l’aiutante magico, ed è vicino a Elliott in ogni momento in cui il bambino è fatto oggetto di rimproveri, in ogni momento, cioè, in cui egli è richiamato alla realtà» (ancora La Polla). Dove per realtà va intesa quella ottusa degli adulti. «La storia ruota attorno a Enrichet to, a Pollicino, a uno dei tanti eroi bambini che intrattengono rapporti privilegiati col meraviglioso (...) Spielberg ha sempre avuto un occhio di riguardo per quell’età, la sua stessa figura passa per quella di un Peter Pan che ha saputo mettere a frutto una sua idea fissa tramutan dola in perfetta macchina fantasti ca. E proprio Peter Pan ritorna in una scena di E.T. nella quale Mary legge un brano alquanto significati vo del celebre romanzo di Barrie ove si allude alla necessità infantile di credere nelle favole».
Sono tanti gli aspetti, anche tecnici, che rendono questo film indimenticabile. A partire dal modo in cui Spielberg decise di girare, seguendo l’ordine degli eventi (cosa rarissima, essendo molto complicata). Voleva la mas sima spontaneità e verità possibile dai ragazzi, dalle loro emozioni, e quindi dovevano vivere la storia davvero, giorno dopo giorno.
Tra gli aneddoti entrati nel mito, c’è quello di Spielberg con i foglietti di bloc-notes infilati nel taschino, su cui erano appuntate le scene della giornata. Non si trattava di una sce neggiatura classica, ma di un lavoro portato avanti passo dopo passo (cinque giorni per volta) insieme a Melissa Mathison. Doveva essere fatto tutto il possibile per consenti re spazi di invenzione e improvvisa zione sul set.
Anche perché Spielberg aveva trovato dei ragazzi stupefacenti, da Henry Thomas, che nel provino si lasciò andare a un pianto così vero che lasciò tutti di stucco, a una piccolissima Drew Barrymore. Spielberg ha rievocato in più di un’occasione il provino di quella incredibile bambina di 6 anni, che si presentò come batterista di un gruppo punk, che inventava storie senza ritegno. «Si intuiva la sua incredibile vita interiore», ha ricordato il regista nell’incontro di Hollywood.
Di fatto, ancora oggi, la visione di E.T. risulta magica. Lo facciamo dire a un’altra studiosa appassiona ta che di cinema americano se ne intende, Giulia D’Agnolo Vallan. Sul Manifesto, per il ventennale del film, scrisse parole che si possono sottoscrivere anche oggi.
54 DICEMBRE 2022
«E.T. non ha perso un gra nello di magia, anzi non ci si ricordava quanto fos se bello da vedere, con quelle notti di un blu profondo, tanto denso di promessa d’avventura da sembrare palpabile, con i tramonti arancio polveroso, con il suo occhio ad altezza di bambino (un’i dea semplicissima e così efficace), con quello sguardo affettuoso e devastante sulla vita nel sobborgo middle class americano, e l’alieno con il cuore che si illumina come una lampadina rosso fragola e strilla di paura. Piccolo ed enorme allo stesso tempo, sentimentale e dark, cinema classicamente disneya no ma anche cinema del futuro».
Per Spielberg l’infanzia ha una “luccicanza” tutta sua, ma è anche solitudine e malinconia, per colpa dei rapporti umani difficili.
Scriveva il critico Dario Tomasi: «Per quanto la storia del film non si presenti esplicitamente come il frutto di un sogno o di una fantasticheria, è evidente che il personaggio di E.T. può essere interpretato anche come una cre atura immaginaria partorita dalla mente dello stesso Elliott. La simbiosi fra i due è evidente sin dai loro nomi (E.T. è formato dalla prima e dall’ul tima lettera di quello di Elliott) e si rafforza nella comunicazione telepatica che li lega. E.T. è così un doppio dello stesso Elliott ed è attra verso l’incontro con l’alieno – reale o immaginario che sia – che il bambino riesce a percorrere un vero e proprio viaggio di formazione che lo porterà a conoscere i primi fermenti dell’amore e la terribilità della morte».
Di certo non si era mai visto un extraterrestre così, una «creatura inedita e rugosa, stranamente in bi lico tra saggezza millenaria e prima infanzia» (Giulia D’Agnolo Vallan).
Se amate E.T. e ammirate il lavoro di Carlo Rambaldi non potete perdere la mostra organizzata dalla Cineteca di Milano, che rimarrà aperta fino al 29 gennaio
55 DICEMBRE 2022
Certi film hanno un fascino che è legato anche all’usura dell’immagine, alla pellico la che sconta lo scorrere del tempo. Ma se volete ritrovare i colori e la definizione dell’originale, ecco la versione in 4K Ultra HD che la Universal ha deciso di pubblica re per celebrare il quarantesimo anniversario. Si parla di «riscoprire la magia di E.T. l’extraterrestre come se fosse la prima volta». Lo steelbook edito per l’occasione è il classico, spettacolare oggetto da fan: vedi i 45 minuti di contenuti speciali inediti. Oltre a bonus già visti in passato, dalle scene eliminate alla storia della creazione di E.T., c’è un video che racconta l’eredità lasciata dal capolavoro spielberghiano in questi quarant’anni, oltre a un’intervista recente al regista che riflette sulla produzione di quel film e sulla sua carriera in generale. E poi “i diari di
E.T.” (con riprese dietro le quinte), le interviste al cast, la conversazione con John Williams, la reunion, ecc. Nell’edizione speciale si trovano poster, pass, libretto fotografico, cartoline. Anche il merchandising vuole la sua parte.
INTANTO ARRIVA NELLE SALE IL NUOVO FILM DI SPIELBERG “THE FABELMANS” (MAGNIFICO)
Fa ancora più piacere, però, sapere che il film è tornato a circolare nelle sale, dove la magia si moltiplica, e l’oscurità da cui parte la storia trova riscontro in quella della sala.
A Milano, ad esempio, lo si è già visto all’Arlecchino per il Piccolo Grande Cinema, curato dalla Cineteca, che in collaborazione
con il Planetario ha anche pensato di organizzare un’osservazione del cielo con proiezione del film. L’appuntamento, intitolato E.T. Telefono Planetario («E.T. phone home» è una delle battute più conosciute della storia del cinema) andrà in scena lunedì 26 dicembre a partire dalle 18.
Ricordiamo che la Cineteca ha anche organizzato una bella mostra in collaborazione con la Fondazione Culturale Carlo Rambaldi che po trà essere visitata fino al 29 gennaio al Mic (Museo interattivo del cine ma). Qui potete vedere alcuni degli animatronic utilizzati per far vivere E.T., opportunamente restaurati. Potete osservare il processo creativo di Rambaldi, attraverso bozze, schizzi, disegni. Ci sono lettere e filmati, gadget dell’epoca, ma anche la possibilità di partecipare a laboratori ed esperienze. E c’è il mitico Oscar.
56 DICEMBRE 2022
Dicembre (il 22) porterà con sé anche il nuovo film di Steven Spielberg: The Fabel mans. Chi l’ha già visto (ad esempio a Roma, per la Festa del Cinema) ha parlato senza mezzi termini di un “capolavoro assoluto”. Che ha a che vedere con E.T., visto che si tratta di quel film autobiografico che Spielberg non ha mai girato.
Sammy Fabelman è l’alter-ego del regista ed è insieme l’incarnazione di ogni ragazzo alle prese con le gioie e i dolori della vita - secondo le regole narrative del grande cinema classico americano - e con la scoper ta della meraviglia. Vedi la messin scena (il ricordo) di Sam/Steven let teralmente sconvolto, al cinema, di fronte a Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B DeMille. Ed ecco l’ossessione del cinema, la voglia di creare, inventare, girare film. The Fabelmans dura 150’, ma potrebbe anche durarne il doppio, tanto riesce a incantare. È una let tera d’amore al cinema, omaggiato nei suoi generi (western, commedia, horror, melodramma, fantascien za), esaltato nella sua funzione di sogno a occhi aperti, che noi spet tatori (ri)facciamo insieme al suo autore, ognuno a modo suo. Come ha scritto Simone Emiliani (sul sito sentieriselvaggi.it): «In The Fabelmans c’è tutta la magia, la paura e la spietatezza del cinema. La cinepresa cattura dettagli che l’occhio umano non vede (...) Il film della sua famiglia è il (suo) film della vita. (...) Prima delle biciclette di E.T. ci sono stati i carrelli della spesa che si muovevano in mezzo alla strada sotto il tornado in The Fabelmans. Perché sì, in qualunque momento ci si può alzare da terra e volare».
Il 22 dicembre arriverà nelle sale il nuovo film di Spielberg, The Fabelmans, una lettera d’amore al cinema
57 DICEMBRE 2022
«La mistica? È “esercitarsi a morire” È distacco. Proprio come la filosofia»
UNA RIFLESSIONE DI MARCO VANNINI, CHE PARTE DAL NATALE E ARRIVA AL MISTERO DELLA PRIMA BEATITUDINE. CHI SONO I “POVERI NELLO SPIRITO”?
«La filosofia non ha che una sola meta e un solo principio: conoscere sé stessi e diventare simili agli dèi». Lo scriveva l’imperatore Giuliano, alla fine dell’era antica. Parole che appaiono remote, misteriche, quasi stravaganti, in questo tempo liquido e cinico, in cui anche il discorso filosofico e culturale, sem pre più caotico, si trasforma spesso in chiacchiera vuota, e la religione rischia di esaurirsi in moralismi e apparati rituali. Parole che dovrebbe sempre ricordarsi chiunque persegua una qualche ricerca interiore e di senso, o che nutra un interesse sincero verso ogni forma di autentica spiritualità.
Giuliano venne chiamato “l’Apostata”, ma in realtà il suo messaggio, in profondità, coincideva con quello del cristianesimo, con l’appello di Gesù al distacco, alla ri nuncia di sé - dell’ego, diremmo oggi, - unico modo per riscoprire “l’uomo interiore” di cui parlava già Platone, e quindi «la somiglianza con Dio, fino alla comunione con Lui, luce nella luce, spirito nello spirito» Lo scrive Marco Vannini, nell’introduzione del suo ultimo libro, edito da Lindau, Beati pauperes spiritu La sua ennesima meditazione sul pensiero di Meister Eckhart, di cui ha tradotto le opere, facendoci capire l’importanza e l’attualità di questo straordinario maestro spirituale, teologo e mistico (anche se su queste definizioni ci sarebbe da discutere, e lo faremo). Di mi stica, soprattutto cristiana ma non solo, Marco Vannini è il massimo esperto in Italia. Lo dicono i suoi libri, troppi per citarli tutti (da Mistica e filosofia a Storia della mistica occidentale, da La mistica delle grandi religioni a Prego Dio che mi liberi da Dio), così come
gli innumerevoli consessi, incontri e seminari in cui nel corso dei decenni è stato invitato a parlare di temi, testi e autori spirituali (da Margherita Porete a Simone Weil, da Taulero a Silesius). Beati pauperes spiritu ci aiuta a capire il vero significato della prima beatitudine evangelica, quella “povertà” che ha a che vedere con la capacità di rinunciare a tutto, anche a se stessi, come vuole il messaggio di Gesù, che è «liberazione dalle dottrine religiose», «aprendo lo sconfinato orizzonte della libertà dello spirito», regione che, come scriveva Dante, «solo amore e luce ha per confine».
Ecco allora l’idea di affidarci a Marco Vannini per provare a ri-pensare il Natale in un’ottica spirituale. Perché, è quasi inutile ribadirlo, il Natale in Occidente è diventato il luogo (simbolico) di tutte le contraddizioni: l’evento più importante per la vita religiosa di chi crede (insieme alla Pasqua) è anche l’apoteosi del consumo, della dissipazione, con in più l’equivoco del sentimentalismo, di una bontà che rima ne in superficie e diventa pura apparenza. «Indietro non si torna – dice Marco Vannini. - I recuperi non li vedo possibili. Bisognerebbe che ci fosse un salto di qualità. Che il nostro mondo – occidentale, consumi stico – andasse incontro a una crisi. Speriamo che non accada, io non me lo auguro di certo, ma come è successo altre volte in passato solo una crisi epocale, economica, sociale, non solo di valori, potrebbe portare a un ritorno verso l’interiorità, verso qualcosa che non dipenda dal benessere esteriore».
58 DICEMBRE 2022
M EDITAZIONI
In teoria è successo qualcosa del genere con il Covid.
In realtà, come tutti possono vedere, una volta superato il momento più grave, siamo tornati ai raduni oceanici, ai divertimenti di massa. Ribadisco: nessuno auspica carestie e pestilenze. “A peste, fame et bello libera nos Domine”, dicevano i nostri antenati (“Liberaci Signore dalla peste, dalla fame e dalla guerra”, ndr). Ma solo una crisi radicale potrebbe indurre le masse non a un ritorno al passato, che non serve, ma a “un passaggio di grado”, una riscoperta dell’uomo interiore.
Le prediche natalizie si rifugiano spesso nel senti mentalismo. Si è un po’ smarrito il senso profondo dell’incarnazione. È rimasta solo la festa.
Il problema è un altro. Un po’ d’anni fa – ormai sono due secoli – Kierkegaard diceva che la cristianità si è pre sa come feste principali il Natale e la Pasqua: il Natale, in cui c’è di mezzo un infante, e la Pasqua, in cui c’è un risorto; ovverosia due persone che è impossibile imitare. Diceva che le chiese hanno completamente messo la sordina alla concreta imitazione del Cristo. Mi sembra un’osservazione interessante.
59 DICEMBRE 2022
Non a caso Kierkegaard, che era protestante, faceva affer mazioni molto elogiative nei confronti dei cattolici, credo pensando soprattutto agli ordini religiosi del tempo. Il Natale è sempre stato un po’ così. Anche cinquant’anni fa, in un contesto diverso, in una società che non era anco ra quella consumistica e scristianizzata dei nostri giorni, era sostanzialmente una festa per bambini. Basta guardare quale importanza ha assunto quel vec chio signore vestito di rosso, con le renne e la slitta, Babbo Natale, che con Gesù non c’entra proprio niente. Gli aspetti legati alla festa pagana - senza offesa per nessuno - ci sono sempre stati. D’altra parte il Natale è nato come festa pagana, la celebrazione del Sol Invictus, il solstizio, il giorno in cui il sole raggiunge il punto più basso ma poi “rinasce” e riprende vigore. La Chiesa decise di fissare in quel giorno la nascita di Gesù, di cui in realtà non sappiamo nulla.
lo meno dargli subito il senso che secondo me è corretto: mistica in realtà vuol dire riflessione profonda. Non è una dimensione particolare, di carattere eccezionale. Io sostengo che mistica è la stessa cosa di filosofia. La filosofia, dice Platone, che se ne intendeva, è “esercitarsi a morire”, è distacco, se è una cosa seria. Quella che noi chiamiamo mistica è anch’essa un esercitarsi a morire, a dimenticare l’egoità, l’interesse personale. Una riflessio ne vera, profonda, non determinata e non viziata dai legami dell’ego, che sono molteplici e non sono solo quelli economici e del potere, ma quelli dell’amor sui, l’amore di se stessi.
Nell’immaginazione popolare, la mistica è legata a una vita di rinuncia e solitudine, se non proprio di eremitaggio. In questo senso non c’è nulla di più lontano dal modo in cui pensa e vive l’uomo moderno.
Sono decenni che lei parla di mistica in un modo che affascina le persone “in ricerca”, non credenti compresi. La mistica può essere una risposta al bisogno diffuso, ma confuso, di spiritualità del mondo contemporaneo?
La risposta è facile. Anche se non mi stancherò mai di dire che bisognerebbe evitare il termine mistica, o per
In realtà la mistica non è affatto qualcosa di eccezionale, o per la quale ci vogliono delle tecniche o delle condizioni particolari. Assolutamente no. Il mio autore prediletto, Meister Eckhart, è un filosofo in piena regola. Oggi in Germania ci sono studiosi che dicono: basta chiamarlo mistico! Questa definizione non gli rende ragione, perché lo inserisce in un ambito con cui lui non c’entra affatto, ad esempio il mondo delle sante estatiche, che io rispetto profondamente, ma che sono un’altra cosa. Non posso imitare, neanche se mi sforzo, le estasi di santa Chiara da Montefalco o di santa Teresa, ma ciascun essere uma no, uomo o donna, “libero o schiavo”, può e deve esercitare quella riflessione che prima di tutto è volta all’obbedien za del precetto dell’Apollo delfico: conosci te stesso.
60 DICEMBRE 2022
«Esercitarsi a morire significa dimenticare l’egoità, l’interesse personale. Parlo di una riflessione profonda, che obbedisca al precetto dell’Apollo delfico: conosci te stesso»
Che c’entra poco o nulla con la psicologia moderna. Io mi permetto di esercitare spesso una certa polemica nei confronti di tante tendenze della psicologia moderna. Lo dico con tutto il rispetto per gli studiosi: qui non ci siamo, perché non si va verso il vero profondo, quel “fondo dell’a nima” nel quale possiamo trovare noi stessi, ciò che davve ro siamo. C’è un’altra cosa che ripeto spesso – purtroppo il mio repertorio è limitato – quel passo del De consolatio ne philosophiae di Boezio, quando in carcere si presenta la Filosofia nelle vesti di una veneranda matrona e gli dice: “So bene qual è la causa del tuo male, tu non sai più chi sei”. Questo è il dramma, la tragedia, il problema di tutti noi, del nostro mondo: non sapere più chi siamo. Il fatto è che, parlando di mistica, si parla di un mistero profondissimo, della possibilità di trovare Dio in se stessi, di cercare l’unione con lo Spirito, cose che, per chi vive nella civiltà contemporanea e ci sta pure bene, appare come qualcosa di estremamente lontano e misterioso. Noi, rispetto a un paio di secoli fa, viviamo una condizione estremamente diffusa, quella che Hölderlin chiamava “il tempo della mancanza”, del bisogno, in cui è andata in cri si l’immagine tradizionale di Dio. Questa è la differenza enorme che c’è tra noi e i grandi del passato, senza bisogno di arrivare al Medioevo, a Dante o Meister Eckhart. Viviamo un tempo molto difficile, per molti versi brut
tissimo, ma per altri anche bellissimo. Diceva Simone Weil: “Non potresti desiderare di vivere in un’epoca migliore della nostra, in cui si è perduto tutto”. Parados salmente questa “povertà”, questo spogliamento, diciamo pure questa “morte di Dio”, anche se è un’espressione un po’ abusata, può essere interpretata anche come una libe razione da immagini transitorie e superstizioni. Non a caso, come è noto, Meister Eckhart prega Dio che lo liberi da Dio. Non è una cosa semplice. È un passaggio anche abbastanza doloroso, questo attraversare l’assenza.
È anche pericoloso. Ai nostri giorni è molto diffuso parlare di nichilismo. C’è un grande autore anonimo del Trecento inglese che ci ha lasciato il libro La nube della non conoscenza, bellissimo testo spirituale, in cui c’è questa frase meravi gliosa: “Quello che l’uomo esteriore chiama nulla, l’uomo interiore chiama tutto”. L’uomo esteriore definisce il nulla con orrore, come cosa estremamente negativa, per l’uomo interiore invece si tratta di una cosa positiva. Sono espressioni di origine greca, ma poi anche cristiana: uomo esteriore è quello che vive soprattutto la vita della sensazione, volto al mondo esterno, al possesso, mentre l’uomo interiore è l’uomo spirituale. Per l’uomo interiore il nulla si configura come luce, pura luce, una grandis sima assenza, che non ha oggetto, in cui non c’è dentro nulla, ma che è la suprema presenza.
“Il discorso della montagna” del Beato Angelico (Museo di San Marco, Firenze) e nell’altra pagina quello di Carl Heinrich Bloch (Frederiksborg Museum)
Ma come andare al di là dell’ego, e raggiungere questo nulla-tutto, senza utilizzare qualche stru mento, che siano le tecniche di meditazione o la pratica della rinuncia?
Ribadisco, ma provo a ripeterlo in altro modo: secondo me si tratta semplicemente di esercitare profonda riflessione, il pensiero. Pascalianamente direi che l’unica cosa che si richiede è l’onestà. La riflessione onesta, quella che a ogni essere umano è possibile. Lo dirò con le parole di Simone Weil: riconoscere che è sempre relativo, parziale - non voglio dire falso - tutto ciò a cui noi di volta in volta siamo tentati di dare valore assoluto. Non è in nostro potere acchiappare l’assoluto. Io aborro le espressioni tipo “espe rienza del divino” o “conoscenza di Dio”. Ma è in nostro potere rifiutare il nostro consenso a ciò che il divino assoluto non è. Questa è l’opera del distacco, un’operazione tanto intellettuale quanto morale. Io non insegnerei mai né le tecniche meditative né le opere di penitenza, che rischiano di diventare un fine in sé, ma insegnerei ad essere onesti, a vivere onestamente, riconoscendo in interiore homine come stanno le cose. Ne siamo capaci tutti.
«Sono beati coloro che, essendo nello spirito, hanno la vera povertà. Non è una questione di beni esteriori. Il vero povero è quello che niente vuole, niente sa, niente ha. L’uomo così povero è nello spirito. E se sei nello spirito sei uno con Dio»
in Matteo e in un altro in Luca. Luca dice: “Beati i poveri”. E questo non ci dà problemi, è un elogio evange lico della povertà in contrapposizione alla ricchezza. Ma se si dice, come in Matteo, “beati pauperes spiritu”, la parola spirito ci complica la vita. Purtroppo nei secoli ha prevalso una traduzione e quindi un’interpretazione che sembrava favorire la semplicità, e in modo più malizio so la stupidità, gli “ignoranti”, quelli che sanno poco, i semplici. Il che non è giusto. Spirito, sia nell’ebraico che nel greco, ha sempre un valore positivo. Dire che sono beati quelli che ne hanno poco, non mi sembra sensato. Questa interpretazione aveva anche un fine pastorale, doveva avvalorare il compito dei sacerdoti e del clero a beneficio del popolo. Ma se noi, invece di tradurre “beati i poveri di spirito”, diciamo “beati i poveri nello spirito”, cosa permessa dal greco, ecco che tutto cambia. Certo, è un’interpretazione anche questa. Significa: beati quelli che, essendo nello spirito, hanno la vera povertà. È quello che dice Meister Eckhart nel famoso sermone 52, che è il più paradossale, ardito, eretico di tutti gli ereticissimi ser moni di Eckhart. Se uno lo legge rimane sulle prime scon certato, perché si parla dell’eternità dell’uomo, del vero io che è eterno, che è e sempre sarà. Di questa radicalità lui era consapevole e lo scriveva: lo capiranno solo quelli che sono la cosa stessa, coloro per i quali non c’è un divino come alterità, ma è già qualcosa di presente.
Il concetto cardine è quello del distacco. Il distacco è la parola chiave della filosofia. Leggiamo Plotino: c’è una sola cosa da fare, áfele pánta, togli via tutto. Meister Eckhart in un suo sermone dice: “Quando parlo, dico sempre le stesse cose, sono solito parlare del distacco”. Certo, poi spiega come l’anima umana sia capace del Divino, ma la prima cosa è quella. Le tecniche meditative paradossalmente tutto fanno fuorché esercita re o favorire il distacco.
Perché è così importante comprendere cosa signifi ca “beati pauperes spiritu”?
Il mio libro parte dall’interpretazione del versetto evan gelico, la prima delle beatitudini. Che suona in un modo
Ed eccoci tornati al distacco. Beati i poveri nello spirito ci dice che il valore della pover tà sta nel distacco. Non si tratta di beni esteriori, di essere senza soldi, come sostenevano alcune correnti (ad esempio i francescani), ma si tratta di essere assolutamente di staccati. Il vero povero è quello che niente vuole, niente sa, niente ha. Il triplice nulla. Il “nulla volere” è la rinuncia alla propria egoità come volontà. Il rimettersi alla volon tà di Dio, a ciò che la necessità ti dice. Il “niente sapere” è il più duro e il più bello, perché è la rinuncia alla pretesa di saperi “forti”. Non si tratta di non sapere che ore sono, possiamo conoscere la morfologia delle piante o l’anato mia umana, ma non sappiamo niente sulla realtà di Dio e dell’uomo. Il “niente avere” non va inteso in senso economico, ma di non avere il senso di appropriazione. Una sorta di totale spoliazione. L’uomo così povero è nello spirito. E allora ci siamo, il gioco è fatto: lo spirito è tale sia con la s minuscola che maiuscola. Se sei nello spirito sei con Dio, perché Dio è Spirito. Sei uno con Dio.
62 DICEMBRE 2022
Andare al “fondo dell’anima”
UN LIBRO CHE È UN ESERCIZIO SPIRITUALE, ISPIRATO DA ECKHART, CONTRO LE ILLUSIONI DELLA PSICOLOGIA E DELLA TEOLOGIA.
Lo spirito, questo sconosciuto. Citando Dante, «luce intellettual, piena d’amore, / amor del vero ben, pien di letizia, / letizia che trascende ogni dolzore».
Parte da qui, il libro di Marco Vannini. Da una realtà, quella dello spirito, dimenticata sia dal pensiero filosofico laico che da quello reli gioso. Qualcosa di indeterminabile, una “negatività assoluta” che in realtà è assoluta pienezza.
Per dirla con Eckhart: «Molta gente semplice immagina Dio lassù e noi quaggiù. Ma non è così: Dio e io siamo una cosa sola». Parole simili si trovano nelle Upa nishad indiane, nella formula “Tat tvam asi” (“Questo sei tu”), che allude all’identità tra l’ātman indi viduale e quello divino, universale. Un’identità che si trova nel “fondo dell’anima”, dove non c’è spazio per la psiche egoica, che si illude di essere libera quando in realtà è schiava di mille determinazioni, come esplicita un celebre detto sufi: «Chiunque non sia Dio e dice “io” è uno shaitan (demonio)». Vannini spazia da sempre fra le varie tradizioni spirituali e i mistici-pensatori che sono arrivati al nocciolo della questione, in ogni epoca e latitudine. E ogni volta dà la vertigine. Perché offre al suo lettore la possibilità di cogliere il nucleo profondo, e identico, di tradizioni
millenarie, di testi complessi, di riflessioni disperse in mille rivoli. Ecco uno dei meriti più grandi della sua opera di divulgazione, che assume spesso i connotati di una vera e propria formazione spiri
tuale-intellettuale, nel senso che offre gli strumenti per andare oltre, passando dalla teoria alla pratica. Anche con riflessioni che suonano estremamente provocatorie per il pensiero contemporaneo.
63 DICEMBRE 2022
Qui non si parla di “esperienze reli giose” in senso stretto, cioè legate a una questione di fede intesa come credenza, ma di processi intellet tuali che vanno al di là del comune pensare, «frutto della prolifera zione emotivo-concettuale», come spiega benissimo anche il buddhi smo, secondo cui il “nemico” sta negli inquinanti dell’attaccamento, dell’avversione e dell’ignoranza. Anche se poi i concetti utilizzati sono quelli propri a varie tradizioni religiose, a partire dalla necessità dell’umiltà, alla base del distacco, condizione necessaria a una vera libertà.
Nel capitolo che parla dell’Uno e il Tutto, Vannini ci ricorda con Simone Weil che accanto alla fisica della natura esiste anche una «fisi ca soprannaturale» che ragiona in termini di eterno presente, evocato dalla mistica di ogni tempo, ma
ormai anche dalla riflessione contemporanea: «Tutto perma ne. Tutto è in relazione, anche le anime, e la preghiera le mette in comunicazione».
C’è una prima fase di questa ricerca in cui cominciamo a percepire un “altro” mondo-spazio-tempo, grazie alla fede, alla tensione verso il divino, e poi «questa rappresen tazione ingenua diventa vita inte riore, scoprendo questa realtà già qui e ora». Prima c’è il “tu” della preghiera, poi la percezione della “luce etterna”, l’apertura «alla bellezza del mondo come un tutto, il cosmo come manifestazione visibile di Dio, il bello come manifestazione sensibile del Bene» .
Non servono i “sistemi” e neppure gli Spinoza, ma l’Io sono la verità di Gesù, una volta capito chi è e cos’è davvero quell’io, che nulla c’entra con gli psichismi e le psicologie, alla
base dell’idea di un Dio fatto così o cosà, frutto del nostro attacca mento. Bisogna evitare qualsiasi appropriazione di Dio, che poi è un altro modo per affermare se stessi, un esercizio di potere (come uno strumento di potere sono diventate spesso le religioni).
«La nostra fede è quella di cui parla san Giovanni della Croce, che non produce alcuna nozione o credenza, ma, al contrario, tutte le toglie via e conduce nel vuoto, nel nulla, che è il solo “luogo” ove può mostrarsi la luce. Fede, non credenza teo-mitologica, bensì conoscenza: conoscenza dello spirito nello spirito». Suonano puntute e illuminanti le pagine sulla “cultura come alie nazione”, sul modo in cui l’arte, la letteratura e le varie forme di spettacolo e di rappresentazione rischiano di portarci fuori strada, tenendo «l’anima nel vortice dello psichismo», quel sentimentalismo che Hegel definiva “pappa del cuore”.
Non per niente c’è un capitolo che, fin dal titolo, non lascia spazio ad equivoci: “Sulla psicologia come malattia”: «Priva della conoscenza dello spirito, la psicologia (come, peraltro, la filosofia stessa) vaga smarrita tra mille accidentali determinazioni, senza verità». Simone Weil scriveva che occorre bloccare l’immaginazione, se si vuole lasciar spazio alla grazia, che ha bisogno del “vuoto”, l’assenza di desiderio.
Anche la teologia può essere alienazione, quando ignora l’esperienza dello spirito, dell’uo mo interiore, come può esserlo la mistica intesa in modo psicologico e sentimentale.
64 DICEMBRE 2022
Non si tratta di “vedere Dio” (espressione che suona anche un po’ blasfema) ma di «guardare il mondo con gli occhi di Dio». Al contrario la “mistica filosofica” è «conoscenza di sé, dell’unico, comu ne, universale “fondo dell’anima”, non delle mutevoli, accidentali, sue facoltà». Per Vannini sta qui la ve rità della predicazione di Gesù, che ha poco a che vedere con il clericali smo e la religione istituzionalizzata, originata da una certa interpre tazione della sua vicenda terrena. Ecco allora un cristianesimo che non è fondato «su una struttura piramidale depositaria della Verità, ma sulla singolarità delle persone», sulla vita buona e giusta. In cui la resurrezione non è un atto dimostrativo, una specie di “super-miracolo”, ma un evento spirituale, un’esperienza interiore, «conoscenza dello spirito e della sua beatitudine».
Seguono pagine su Kant e l’ebrai smo, e su Nietzsche e il cristianesimo (la vena mistica di Nietzsche! «Il suo tentativo di salvare la verità del messaggio di Gesù dalle costruzioni mitiche in cui è stato inserito, soprat tutto da Paolo»).
Poi, nella seconda parte, ecco l’analisi del sermone 52 di Mei ster Eckhart, quello dedicato alla “povertà nello spirito”. Un dome nicano medievale che predica in chiesa la possibilità e la necessità di diventare la verità stessa, «dun que essere Dio stesso». Una cosa scandalosa e inimmaginabile per quel tempo. Ma anche per il nostro. Per il nostro, a dir la verità, risulta difficile anche capire cosa si intenda per beatitudine, cosa ben diversa dalla felicità effimera, basata sulla
soddisfazione di un piacere. «La beatitudine invece è costante; non è un accidentale stato d’animo, ma la realtà propria dello spirito, che sta fuori dello spazio e del tempo, ovvero fuori dal condizionamento»
L’uomo interiore permane immuta bile – distaccato, che non vuol dire indifferente, tutt’altro – nella gioia e nella tristezza dell’anima (della psiche) che non toccano lo spirito. Uno stato che si può intuire in qualche modo, presagire, dentro la riflessione di Eckhart, piena di pensieri che sono dei veri e propri spalancamenti, illuminazioni, che Vannini rende comprensibili anche a noi lettori moderni, plasmati da se coli di teologia e psicologia, dalla lo gica del Dio-Altro fuori dal mondo e da un io che pretende di conoscerlo.
L’essere eterno dell’uomo, in quanto spirito (corpo e anima sono destinati a morire), è lo stesso essere di Dio.
“Le otto beatitudini” di Hendrick Goltzius (1578). Nell’altra pagina, “Matrimonio mistico di Santa Caterina” di Giovanni di Paolo. Opere conservate al Metropolitan Museum (open access)
Per poi tornare, alla fine del libro, al grande rimosso, lo spirito. Per Mei ster Eckhart «il paradiso e la vita eterna sono partecipazione alla gioia, alla beatitudine, di Maria e degli angeli tutti, ma questa beatitudine, questa vita eterna, è già qui, proprio in quanto vita eterna, e sono già beati quelli che sono “poveri nello spirito”» Gli anni della predicazione di Eckhart erano gli stessi della Commedia di Dante. «Niente che equivalga a questi due capolavori è più comparso in Europa, ma il loro messaggio è ancora aperto all’intelli genza dell’uomo». (f.t.)
65 DICEMBRE 2022
TRADIZIONE ITALIANA, INNOVAZIONE POP, SUCCESSO MONDIALE
L’exploit di Pendragon nel mercato del dentale: quattro marchi, tante idee e un piede in America
vendita per le frese dentali (idea che piace, eccome), produce strumenti trattati al titanio ed è passato dai 100 pezzi ordinati all’inizio della sua carriera, ai 100mila che la sua azienda fa girare ogni anno in tutto il mondo.
Alessandro Lattore vive a Mexicali, nella Bassa California, da dove guida un’azienda globale che ha la sua sede legale a Lodi e quella operativa in provincia di Asti. Questa storia, in effetti, comincia in terra piemon tese, 51 anni fa.
Dall’Italia al Messico e ritorno, con invenzioni e innovazioni che hanno conquistato il mercato mondiale, ma anche una storia tipicamente italiana, fatta di lavoro e ingegno, che affonda le sue radici negli anni Settanta.
Perché è così che nascono le impre se destinate a durare. Dall’idea di un perito meccanico che lavora in un deposito di prodotti per denti
sti, ma poi decide di mettersi in pro prio, creando una delle realtà più importanti del settore nel nord-o vest italiano. Enzo Lattore, che ha ormai superato i settant’anni, viene chiamato ancora oggi quando c’è un problema irrisolvibile, un macchinario che nessuno riesce a riparare (tranne lui). Nel frattempo suo figlio, Alessan dro Lattore, ha creato quattro mar chi diversi, si è inventato il conto
«Tutto nasce nel 1971 – ci racconta - quando mio padre apre uno dei pri mi centri di distribuzione di prodotti per dentisti. A quel tempo erano pochi in Italia. Lui era un perito meccanico e aveva cominciato come tecnico, in uno storico deposito di Torino. È stato aiutante, apprendista, piano piano ha cominciato a crescere e alla fine ha deciso di mettersi in proprio. È partito con questa avventura, aiutato da aziende del settore. Ancora oggi è molto ricercato. Lo chiamano per delle riparazioni che a volte sembrano impossibili. Quando nessuno riesce più a metterci le mani dicono: “Chia ma Lattore”. E lui in qualche modo risolve il problema»
Con un esempio del genere davanti agli occhi, è facile che ti venga il de siderio di metterti alla prova. «A 18 anni, quando andavo ancora a scuola, dicevo spesso a mio padre: “Voglio lavorare da te, voglio imparare”. Però io non volevo fare il “meccanico” - perché io mio padre lo vedevo un po’ così - non volevo riparare le macchi ne, volevo costruirle. Avevo questo sogno. E lui mi rispondeva: “Prima comincia a capire come sono fatte”.
MESE 2022 66 DICEMBRE
S TORIE DI VITA E D’IMPRESA
Mio padre mi disse una cosa molto giusta, che all’epoca però non mi piacque per niente: “Se vieni a lavorare da me finisce che ti siedi alla mia scrivania e ti credi il capo, non farai più nulla”. Aveva ragione. Per questo mi mandò a lavorare da un amico, un’azienda di Padova che produceva strumenti chirurgici e frese dentali».
I padri saggi fanno così: meglio evitare scorciatoie, ognuno deve percorre la sua strada, facendo le sue esperienze. «La mia avventura, in effetti, è iniziata così. Parliamo del 1998. Ho cominciato come agente e guadagnavo anche molto bene. Mi pagavano delle buone provvigioni, ottimi fissi. Tanto che ho cominciato a chiedermi: come fanno a pagarmi così? Vuol dire che ci sono dei margini molto interessanti». Ed ecco l’idea di provare a produrre qualcosa in proprio. «Ho comincia to a contattare le prime aziende. 25 anni fa erano molto poche» Fortunatamente Alessandro Lattore se la cavava molto bene con le lingue straniere. «Parlo quattro lingue e questo mi ha aperto il mon do, mi ha permesso di parlare con giapponesi, cinesi, coreani, indiani... Riuscivo a comunicare con tutto il mondo, facendo arrivare prototipi e pezzi da vari Paesi, finché abbiamo trovato dei produttori disposti ad aiutarci. Ci sono aziende con cui mi sono trovato benissimo. Con una, in particolare, mi sono trovato così bene che ancora oggi continuo a lavorare con loro, anche se magari ci sarebbero fornitori più economici. All’epoca non potevo fare grandi quantitativi, ma loro hanno creduto in me. Oggi muoviamo 100 mila pezzi all’anno».
Da dove nasce il successo di Pendragon? Dall’idea di differenziare l’offerta. Perché è vero che l’Italia è leader mondia le nella produzione di dispositivi medici, ma la concorrenza è tanta e bisogna distinguersi. «Con il marchio BursBox siamo diventati la prima azienda al mondo che vende frese den tali in conto vendita. Noi prestiamo a un numero considerevole di dentisti degli stock di frese che utilizzano liberamente, pagando solo quelle che vengono utilizzate. Abbiamo comin ciato nel 2016». Un modo efficace per essere dentro gli studi dentistici
prima che ne abbiano bisogno, fide lizzando il cliente. «Noi lasciamo le frese al cliente e quando ne ha bisogno le usa. Funziona. Piace come concetto. Il medico non deve più correre come un matto per andare a cercare le frese. Sono così tante che finiscono senza che te ne rendi conto. Se ti serve una fresa specifica per fare un lavoro partico lare, immancabilmente quando ne hai bisogno scopri che sono finite. Col nostro sistema questo non succede più, perché grazie a un controllo costante, prima che finiscano noi andiamo ad aggiungere il sostituto pronto per essere utilizzato».
67 DICEMBRE 2022
Alessandro Lattore vive a Mexicali (Bassa California), ma ha riportato la sua azienda in Italia per conquistare il mondo
Il passaggio successivo? Automatiz zare questo sistema, per evitare che i venditori diventino degli impiegati addetti agli inventari e anche per minimizzare le scocciature agli studi dentistici. «A dicembre dell’anno scorso abbiamo creato e brevettato un software, con un sistema hardware, un computer, collegato alle scatole con segnate al cliente. Da gennaio queste scatole saranno computerizzate e quindi sapremo quando un cliente apre un pacchetto di strumenti. Ci arriverà in automatico un messaggio via mail. In questo modo il medico utilizzerà le sue frese in tutta tranquillità e una volta al mese vedrà arrivare il pacchetto Dhl con gli strumenti nuovi». L’innovazione si fa anche così, trovando soluzioni per risolvere problemi pratici. Da una parte ci sono gli ingegneri che studiano e progettano, dall’altra le idee che nascono all’improvviso, osservando la realtà. «Il marchio 360 Luminous nasce per produrre trapani dentali (turbine) con la novità di una luce al led circolare. Intorno alla fresa c’è questo cerchio luminoso che evita la formazione di coni d’ombra, a differenza della turbina tradizionale, che ha una luce che va dal basso verso l’alto. L’abbiamo ideata a partire dal ring light dei tiktoker. Ci siamo
detti: funziona mettendolo intorno a una telecamera, perché non dovrebbe funzionare intorno a una fresa? Il problema poi è come applicarlo, come adattarlo al prodotto. Sulle turbine ci siamo riusciti, ora proveremo anche con altri strumenti più piccoli». A volte, invece, si cerca di risolvere un problema e si finisce per risolver ne due. «Con SurgiTi produciamo strumenti chirurgici trattati al titanio. Di solito i dispositivi medici per dentisti sono realizzati in acciaio chirurgico. All’inizio abbiamo pensato al titanio solo come abbellimento. Nel settore dentistico si sono fatti passi da gigante per la tranquillità del paziente. Ci sono psicologi che lavorano sui colori, studi che dipingono le pareti di verde o azzurro, per i bambini ci sono le mascherine con il sorriso di Mickey Mouse o il dentista che si veste da supereroe... Ma al momento di fare l’estrazione, prendiamo la nostra pinza in acciaio che terrorizza il paziente. Una fobia particolar mente comune. A livello di strumenti chirurgici non era mai stato fatto nulla, perché si pensava semplice mente alla loro funzionalità. Noi abbiamo cercato di colorarli, un’idea nata da un trattamento che veniva usato nel settore estetico, ad esempio per le forbici dei parrucchieri. Poi
però abbiamo scoperto che in ambito medico chirurgico questo trattamento ha anche una funzione protettiva sull’acciaio, perché evita che si ossidi troppo velocemente. Il nemico numero uno dello strumenti chirurgici è proprio la ruggine. Alcune aziende utilizzavano questo trattamento sugli strumenti di microchirurgia. Noi lo facciamo su tutta la gamma, anche il semplice specchietto». Con uno sviluppo prossimo futuro. «Un pros simo brand produrrà un linea d’alta gamma completamente in titanio, fin dalla matrice. Ha dei costi molto alti, ma sembra che piaccia. A partire dalla drastica riduzione di peso degli strumenti. Oggi questo viene fatto per la microchirurgia cardiaca e oftalmica, nel dentale saremo i primi al mondo».
C’è anche un quarto marchio, BlackBurs, e non c’è neanche biso gno di dire che anche qui si porta avanti un’innovazione importante. «In questo caso utilizziamo un tratta mento in titanio chiamato DLC, Diamond Like Carbon, che si utilizza nei motori di Formula Uno e sulla punta delle trivelle per la perforazio ne petrolifera. Abbiamo utilizzato questa tecnologia sulle frese dentali. Frese che hanno la necessità di essere particolarmente dure, ad esempio taglia-corone o taglia-metalli. Di solito si utilizza una fresa normale che puntualmente si rompe e viene sostituita. A volte ne utilizzano anche tre o quattro per finire un lavoro.
Con la nostra nuova linea, l’idea è che con una fresa fai tutto il lavoro e ti rimane anche per iniziare quello successivo. Si velocizza il processo. Lo scopo è far sì che il paziente rimanga il minor tempo possibile sulla poltrona con la bocca aperta».
Èincredibile pensare quanto spazio ci sia per la creatività e l’innovazione tecnologica anche in un campo come quello dei dispositivi medici per dentisti. Ecco un modo efficace di fare impresa. Seguendo anche le svolte della vita, perché non sempre è la razionalità a comandare. «L’avventura america na nasce 15 anni fa, con un viaggio di piacere. Sono venuto in California, a San Diego, e ho conosciuto una ragazza messicana, di cui mi sono innamorato e che è diventata mia moglie. A quel punto mi sono detto: faccio dispositivi medici in Italia, li posso fare anche in Messico. Fortu na vuole che proprio nel municipio dove siamo c’è un’area considerata il “paradiso dentale d’America”. Si chiama Los Algodones. Sono quattro strade orizzontali e quattro verticali, sembra più un quartiere, ma ci sono cento studi dentistici. La gente arriva qui da tutti gli Stati uniti e soprattut to dal Canada. A ottobre comincia la stagione, che poi finisce a maggio. Qui chiamano i canadesi “los pajaros de la nieve”, gli uccellini della neve, che scappano dal freddo dell’inverno e ar rivano in quantità industriale, come fosse una migrazione di uccelli, sul confine con il Messico, tra l’Arizona e la California. Vengono con dei cam per enormi, intasano tutta la zona, e passano il confine per farsi fare lavori dentali». Ovviamente si tratta di una questione di costi. «La qualità dei dentisti in realtà è molto alta, ma sono prezzi messicani. Un impianto dentale che qui paghi 5000 dollari in Canada costerebbe 50 mila». Sulla qualità degli strumenti ci sono pochi dubbi, visto che sono italiani. «In Italia ci sono 60mila dentisti e circa 800 depositi dentali.
In Messico ci sono 120 mila dentisti, il doppio, ma solo 100 depositi dentali. Il volume che si genera in Italia è incredibile. Facciamo quasi gli stessi numeri degli Stati Uniti che è cinque volte più grande, 270 mila dentisti. A livello produttivo mondiale il 60-70% dei dispositivi sono made in Italy».
E visto che si lavora con il “made in Italy”, era d’obbligo anche il ri torno in Italia, dove tutto era nato. «Nel 2021 ho deciso di riaprire sul mercato italiano. Avevo bisogno di un motivo per tornare più spesso... Abbiamo anche cambiato i processi di produzione: alcuni semilavorati li facciamo ancora all’estero, ma poi arrivano in Italia e tutti gli strumenti nascono qui». Alla Pendragon si insiste molto sul fatto che il dentista debba imparare a fare l’imprenditore, pur mettendo sempre al primo posto il benessere del paziente e la qualità del suo lavoro. E lo stesso spirito (impren ditoriale) sta alla base di ogni mossa della holding. «Siamo seguiti da
AC Finance, azienda di proprietà di Antonio Chieffo, uno degli advisor più famosi d’Italia, che si occupa di quotazioni in borsa di aziende. Si è innamorato del progetto ed è entrato come socio con una piccola quota. Ci sta aiutando nel processo di sviluppo e di crescita, per arrivare fra qualche anno alla quotazione in borsa». La crisi loro non l’hanno sentita. «La pandemia ha portato a un incremen to del settore salute. Nel 2020 il nostro fatturato è cresciuto del 20%» Il segreto, come sempre, è quello di investire in tecnologia e inno vazione. Senza mai dimenticare la storia da cui provieni. Va bene la start-up innovativa, ma serve anche «conoscere la storia del dentale in Italia. Quando vado alle fiere con mio padre ci fermiamo ogni tre metri a salutare qualcuno. Il fondatore del più grosso distributore in Italia, un’azienda che ha più di venti succursali in tutta Italia, era un grande amico di mio padre, han no cominciato insieme. Fa piacere sentirsi parte di questa storia».
69 DICEMBRE 2022
L’idea vincente? Frese in conto vendita, con inventario digitale Ma anche l’uso del titanio e un’invenzione ispirata dai tiktokers
LA “VECCHIA MANIERA” DELL’ARTIGIANO DOC CHE PIACE A PARIGI
artista-artigiano dell’800. Ebbene, quelle finestre sono state realizzate ad Atina, piccolo comune in pro vincia di Frosinone. Le ha create e installate un’azienda che si chiama Alutherm.
Per questioni di estetica e di rispetto dell’architettura dell’opera, ha dovuto ricorrere a infissi con chiusura a bocca di lupo (quelle a incastro, che non si usano più).
Se vi capita di andare a Parigi, fate un giro dalle parti dell’Hilton, un hotel di lusso nel cuore della città. È un edificio sontuoso, che si fa notare
per la hall spettacolare, con le sue colonne di marmo e i lampadari principeschi. Quando ci passate, date un’occhiata alle finestre, che sembrano opera di un qualche
Un lavoro complicato, ma a dir poco prestigioso. Che evidente mente ha lasciato soddisfatti i pro prietari, visto che tuttora l’azienda italiana viene chiamata dall’hotel per varie lavorazioni e piccole riparazioni.
Tanto che poi l’Alutherm è stata richiesta anche dal Napoléon, sempre a Parigi.
70 DICEMBRE 2022 S TORIE DI VITA E D’IMPRESA
un operaio, ha creato un’azienda, Alutherm, all’opera anche all’Hilton. Qualità e umanità
Era
Ma l’azienda di Atina è anche all’opera quotidianamente in ogni tipo di casa e appartamento, visto che produce e installa serramenti in alluminio, oltre a realizzare lavori di carpenteria in ferro: cancelli, ringhie re, pensiline, verande, scale, porte blindate...
Il bello di questa realtà artigianale, tipicamente italiana, è che può realizzare strutture standard, a costi contenuti, per chi ha l’esigenza di ri sparmiare, ma allo stesso tempo è in grado di andare incontro a qualsiasi richiesta, a prescindere da quanto possa essere complicata o stravagan te, perché è in grado di soddisfare ogni necessità.
“Alla vecchia maniera”. Il motto potrebbe essere questo. Per dire quel modo di lavorare che tiene insieme le ragioni economiche e quelle del servizio al cliente, il mestiere ma anche il rapporto umano. Non per niente, nella loro pagina Facebook, campeggia una frase di Tolstoj, che recita così: «Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per ciò che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo».
Ne parliamo con Martina, che si prende una pausa dal lavoro, sempre intenso, per raccontarci la storia di questa azienda, nata nel 1991: «È una storia cominciata dal nulla. Da un operaio, Bruno, che ha deciso di mettersi in proprio. Operaio non retribuito, per la precisione. Ci è riuscito partendo da zero, sotto casa sua, anzi la casa dei genitori: ha creato una piccola officina, con un altro operaio, Giuseppe, che lo ha seguito e che ancora oggi è con lui, e si
occupa dell’alluminio. Da soli hanno tirato su una bella realtà». Il titolare oggi è il figlio, e l’azienda è rimasta a conduzione famigliare. Il che significa flessibilità (nel senso della capacità di andare incontro alle varie esigenze), consapevolezza (una lunga storia creativa, con migliaia di lavora zioni diverse) e orgoglio del proprio mestiere. Oltre a un rapporto diretto
e franco con il cliente. «Nel corso degli anni ci siamo prima trasferiti in un’altra officina, poi abbiamo comprato il capannone in cui siamo oggi. Una bella realtà, dove c’è una sezione dedicata solo al ferro e un’altra per l’alluminio. L’evoluzione è stata notevole. Qui abbiamo anche una piccola esposizione, principalmen te finestre e ringhiere in ferro».
71 DICEMBRE 2022
Di
padre
in figlio. L’azienda di Atina (Frosinone) produce e installa serramenti in alluminio e realizza strutture in ferro
Oltre all’evoluzione logistica, c’è anche quella della clientela. «Andia mo dove ci chiamano. Abbiamo fatto molte cose in zona, nel territorio, ma anche scuole, ad esempio a Guidonia, abbiamo lavorato a Roma e L’Aqui la, per privati e appalti pubblici»
Poi è arrivato anche l’approdo in terra francese. «Merito di amicizie e rapporti nati qui. Abbiamo realizzato diversi lavori a Parigi. Anche una porta di bronzo, per un cliente impor tante. È stata una lavorazione molto particolare. Abbiamo dovuto rivol gerci a una fonderia specializzata. Il cliente voleva una porta verde. Ci sono voluti dieci anni prima che il marrone del bronzo originario si ossidasse e cambiasse colore». Questa forse era una richiesta particolarmente eccen trica, per un cliente danaroso, ma il segreto è sempre quello di ingegnarsi e trovare soluzioni, come vuole la tradizione dell’artigianato nostrano. «È come per il cibo e per tante altre cose. Non ci sono paragoni quando si
parla di qualità del lavoro. In questo noi italiani siamo i più bravi». Poi, certo, la stragrande maggioran za delle persone cerca il risparmio. «Ora sembra che tutto sia fatto in pvc.
Bruno è contrario, dice che in fondo è solo plastica, preferisce lavorare con l’alluminio, che ha una resa diversa. Ma ci adattiamo alle esigenze del cliente e alle sue possibilità».
L’azienda fa anche parte della rete dei Maestri Serramentisti della Domal, che vanta i migliori specialisti del settore in tutta Italia. Sul perché preferire l’alluminio, loro rispon dono con un elenco molto detta gliato: tenuta e durata nel tempo (l’alluminio è praticamente eterno), manutenzione azzerata, isolamento acustico, infinita gamma di colori, lu minosità (si incrementa la superficie vetrata). Inoltre, in un’epoca in cui la difesa dell’ambiente è diventata fon damentale, ci sono gli ottimi risultati in termini di isolamento termico (e quindi risparmio energetico), ma anche la facilità con cui questo materiale viene riciclato. Sulla politica delle agevolazioni e dei bonus, l’opinione è piuttosto critica. «Noi abbiamo ricevuto richieste legate ad agevolazioni con sconto in fattura, e abbiamo aderito a quella del 50%. Ma va detto che le proce dure sono complicate, ci richiedono continuamente pratiche e documenti, e anche per il cliente non è semplice, visto anche i soldi che deve versare in anticipo. Per non parlare del 110%: abbiamo lavorato in subappalto con aziende di costruzioni che hanno fatto il super-bonus, che però non veniva no pagate e quindi non pagavano neanche noi; ma senza i pagamenti non è possibile ordinare il materiale e cominciare i lavori. Siamo ancora in attesa... Oltretutto in questi anni è diventata difficile ogni cosa, anche trovare i materiali o un punteggio. I lavori legati ai bonus spesso vengono lasciati in sospeso». Resta il dubbio che, in questi casi, ci guadagnino gli improvvisati, non certo le aziende che lavorano bene da anni. Quelle che hanno una storia, conoscenze tecniche e creatività, pre
feriscono la “vecchia maniera”: l’ordi ne fatto su misura, il lavoro realizzato nei tempi previsti e il pagamento immediato, per la soddisfazione di tutti, cliente e produttore.
«Oggi c’è tanta competizione, ci sono aziende molto concorrenziali, è sempre più difficile stare sul mercato. Ma noi continuiamo a crescere grazie
al passaparola. Bruno ci tiene molto a queste cose, al rapporto con il cliente». Vuoi mettere la soddisfazione di sentirti fare i complimenti per il tuo lavoro? Sorgeranno sempre nuovi franchising di grandi marchi in gra do di offrire prezzi stracciati. Ma il lavoro di qualità dell’artista-artigiano non ha paragoni.
Trent’anni di storia: dalla piccola officina sotto casa al capannone in cui si realizzano opere su misura
Ci sono molti modi di rieditare un classico. Soprattutto una fiaba natalizia come Schiaccianoci e il re dei topi, che forse è conosciuta più per le sue riscritture successive e per il balletto di Čajkovskij, per non parlare dei numerosi adattamenti cinematografici. Ci siamo quasi dimenticati di E.T.A. Hoffmann, scrittore romantico e perturbante (chiedere a Freud, che ci costruì sopra alcune sue riflessioni sulle nevrosi e le ossessioni). Un appassio nato di musica, pittura e letteratura, critico teatrale, direttore d’orchestra, caricaturista, oppresso dal suo incarico al servizio dello stato prussiano. Ci siamo quasi dimenticati anche della piccola Marie, la protagonista della versione originale della storia, una bambina, che per la sua età e la sua innocen za può ancora vivere in una dimensione in cui realtà e fantasia sono intrecciate tra loro. Ci sono molti modi, dicevamo, di omaggiare un testo del genere. Il migliore è affidarlo a un illustratore come Iacopo Bruno, che fa letteralmente rivivere ciò che passa per le sue mani e la sua fantasia, pur dentro una filoso fia di rispetto totale dell’opera. Lo aveva già fatto con Pinocchio e Canto di Natale. Qui esalta il sapore antico dello Schiaccianoci (è stato pubblicato nel 1816), riuscendo ad essere retrò, quasi filologico, e allo stesso tempo moderno, con i suoi caratteristici disegni geometrici (ma mai astratti, sempre molto dettagliati, vivi, vivaci), la prospettiva appiattita che sembra sempre sul punto di esplodere in un pop-up, il tratto magnifico. Sogni, magie ed esseri fantastici per Hoff mann erano più veri del reale, che è invece totalmente assurdo e falso (c’è anche la lettura politica, oltre a quella esistenziale). Una mente pura riesce a vedere una creatura gentile e coraggiosa dietro l’apparenza buffa di un semplice Schiaccianoci. Il disegno aiu ta a vedere meglio. Libera l’immaginazione.
Avrai già capito, mio caro, affezionatissimo pubblico qui riunito, che la piccola Marie, stordita e sopraffatta da tutte quelle meraviglie, aveva finito per addormentarsi nel salone del castello di Marzapane, da dove i mori, o forse i paggetti, o magari le stesse principesse l’avevano accompagnata a casa e messa a letto. «Oh mamma, mammina cara! Sapeste dove mi ha portato stanotte Schiaccianoci! E quante cose belle mi ha fatto vedere!». Cominciò a descrivere tutto quello che vi ho appena raccontato, mentre la mamma la guardava sempre più sbalordita (...) Nonostante Marie avesse il divieto assoluto di parlare delle sue avventure, il ricordo di quel fantastico regno incantato non l’abbandonava mai: era come un dolce mormorio, una musica leggiadra che la cullava amorevolmente.
Era ancora tutto così vivo nella sua mente che ormai, invece di giocare come faceva un tempo, rimaneva per ore seduta sulla sua seggiolina, immobile, in silenzio, rapita dai suoi pensieri, tanto che ben presto tutti cominciarono a prenderla in giro dicendole che era solo una piccola, sciocca sognatrice (...) Pare anche che Marie sia ancora la regina di un piccolo regno felice in cui lo sguardo può posarsi sulle cose più belle di questo e altri mondi, dai luccicanti boschi natalizi ai magnifici castelli di marzapane. A patto, ovviamente, che si abbiano occhi capaci di vederle».
74 MESE 2022
(Ernst Theodor Amadeus Hoffmann)
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