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Daniele Vicari: torniamo a raccontare i sentimenti
by MondoRed
DANIELE VICARI
Raccontare i sentimenti. Cosa succede se un uomo “del passato” incontra una ragazzina che vive “nel futuro”? Cinema, vita, speranza
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Il mondo è ostaggio della “generazione di mezzo”. Quella che non ha dovuto ricostruire, che non si è mai sporcata le mani con la terra, che si è illusa di vivere dentro un progresso infinito, con risorse inesauribili. È quella che produce, viaggia, studia, che non si è fermata neanche durante l’emergenza sanitaria, ma forse ha perso il senso di ciò che fa e ha dimenticato quanto siano importanti i sentimenti.
Orlando è un film di sentimenti. E i due protagonisti appartengono alla generazione “passata” e a quella “futura”. Un uomo anziano, proveniente da un paesino di montagna, ancorato alla natura, al lavoro, alla fatica. E una ragazzina che vive a Bruxelles ed è perfettamente a suo agio in una metropoli contemporanea. Tutti e due, in realtà, hanno qualcosa da imparare dall’altro. Tutti e due sono soli. Ma dal loro incontro può nascere una possibilità, una speranza. Per loro e anche per noi. Si presenta così il nuovo film di Daniele Vicari, Orlando, che ha tante qualità, due interpreti eccezionali (Michele Placido e la giovane Angelica Kazankova), ma soprattutto un’idea di cinema e di narrazione che è già di per sé una “risposta”, in un momento in cui il problema è che non sappiamo più fare le domande giuste. Non è un caso che i sentimenti siano così importanti in questa storia. Vicari si è fatto conoscere e apprezzare per i suoi documentari a sfondo politico e sociale, e ha realizzato alcune opere che rimangono documenti fondamentali per la nostra storia recente, da Il mio paese a La nave dolce, passando per Diaz. Ma è anche l’autore di Velocità massima e
L’orizzonte degli eventi, di Sole cuore amore e Il passato è una terra straniera, film che sanno raccontare la realtà e le sue contraddizioni partendo dagli esseri umani e i loro sogni, le frustrazioni, i limiti, le fragilità, la dignità inalienabile.
Qui ci sono un vecchio e una bambina, un uomo simbolo di un passato che rischiamo di perdere per sempre e un’apertura verso un futuro che fatichiamo a capire. Un nonno e una nipotina che devono provare a incontrarsi nel presente, dentro una storia fatta essenzialmente di emozioni. Una “favola” raccontata da un regista e un intellettuale (ricordiamo anche il romanzo Emanuele nella battaglia, gli scritti sul cinema, la fondazione della Scuola Gian Maria Volonté) che non si vergogna di ammettere il proprio senso di inadeguatezza di fronte allo stato delle cose, ma ha l’umiltà necessaria per continuare a fare, pensare, raccontare, con la ragione e con il cuore.
Sulla locandina del film campeggia la scritta “una favola moderna”, come per
chiarire da subito cosa dobbiamo aspettarci.
È una favola moderna perché è basata su una forma di amore assoluto, che non è scontato, che va raggiunto, tra due persone estremamente sole, un nonno e una nipote che non hanno mai avuto un rapporto tra di loro. Siccome la vita ha fatto il deserto intorno a loro, sono costretti ad avere a che fare una con l’altro, a mettere alla prova le loro aspettative sulla vita. E scoprono di avere lo stesso carattere: sono due testoni.
Nelle note di regia parli degli Orlando che ti è capitato di incontrare nella vita. Raccontaci questo tipo umano e cosa rappresenta per te.
Essendo cresciuto in un paese di montagna, ho conosciuto tanti Orlando. Sono persone di poche parole, capaci di fare qualunque cosa. Hanno una testardaggine, una caparbietà, dovuta alla lotta con la terra. Sono dei sopravvissuti. Solo le persone più forti sopravvivono alla natura. Ma non è così scontato che una persona così forte riesca a sopravvivere in un mondo come il nostro, che richiede una conoscenza molto ampia delle cose. Ad esempio, non è scontato che una persona del genere si senta europea. L’Europa è una cosa lontanissima per queste persone, una cosa astratta.

Il nostro Orlando è costretto per la prima volta in vita sua ad emigrare, e quando arriva Bruxelles, che dovrebbe essere il cuore dell’Europa, si sente talmente lontano da dire che non vuole morire a 3000 chilometri da casa. Non sono 3000, in realtà, ma per lui è come Noi, la “generazione produttiva”, non siamo se quel luogo fosse dall’altra parte del moncapaci di proiettarci né nel passato, né nel futuro. do. La forza di questa persona viene messa a dura prova da una realtà urbana, da Noi siamo l’unica vera generazione sconfitta dalla un’altra lingua e da un’altra visione del storia. Non abbiamo dovuto lottare per esistere. mondo, quella di una bambina che ha delle Ciò che ci caratterizza è la precarietà esigenze in apparenza opposte. Mentre Orlando vive nel passato, o almeno quella cosa che noi consideriamo passato (ma non lo è, abbiamo scoperto con la guerra in Ucraina che senza il grano non si mangia...), Lyse vive nel futuro. Lei ha 12 anni ma ha lo stesso problema di Orlando, è sola e lotta con la solitudine.
Di solito si guarda agli Orlando, a quel passato ancora presente, con un misto di nostalgia e commiserazione. Cosa rischiamo di perdere? Cosa rappresenta per noi quel modo di stare al mondo?
Gli Orlando hanno affrontato una fase della storia contemporanea molto particolare, il cosiddetto dopoguerra. Hanno costruito i paesi così come li conosciamo. Però molto spesso queste persone hanno lavorato talmente tanto che non si sono poste il problema del presente. Il loro problema era lavorare, trasformare quello che avevano sottomano in cibo e in futuro. La forza di queste persone è estremamente utile per noi che siamo una generazione di mezzo. La nostra generazione non ha avuto lo stesso tipo di problemi.
Durante la pandemia si è visto che gli anziani e i ragazzini sono rimasti prigionieri in casa perché noi li riteniamo improduttivi. Noi, la “generazione produttiva”, non siamo capace di proiettarci né nel passato, né nel futuro. Orlando per noi è fondamentale perché ci permette di misurare da dove veniamo. Così come Lyse ci permette di misurare dove stiamo andando. Noi siamo l’unica vera generazione sconfitta dalla storia. Non abbiamo dovuto lottare per esistere. Siamo stati presi sottogamba dall’epoca nella quale siamo vissuti. Il concetto di precarietà è forse quello che caratterizza di più la nostra generazione: è una definizione quasi esistenziale. Orlando sapeva bene che cosa doveva fare. Lyse ha lo stesso problema di Orlando: sa che deve lottare per il proprio futuro.
Sembri affascinato dalla generazione di Lyse, ma anche distante. Nel film la guardi come se non riuscissi a capirla fino in fondo.
Il film è intitolato Orlando perché è raccontato dal suo punto di vista. Orlando vede questa bambina come qualcosa di distante, che non gli appartiene, salvo poi scoprire che non può farne a meno. Quello di Orlando è un percorso, anche dal punto di vista fotografico: il film parte che è molto freddo e arriva che è molto caldo. Orlando non è mai riuscito a fare il padre, e a 75 anni la vita gli mette a disposizione questa chance. Anche a 75 anni puoi essere padre o madre, purché tu sia aperto all’esistenza. Quest’apertura da cosa dipende? Anche da chi incontri. Lui è stato fortunato, ha incontrato Lyse, con la quale ti devi confrontare per forza.
In certi momenti sembra quasi un “documentario interiore”, che racconta emozioni e pensieri, anche quelli che non si vedono. Sono bellissimi gli istanti apparentemente “vuoti”, il vagare di Orlando per la città, i momenti in cui lei si “inceppa” e finalmente perde il controllo.

Orlando parte da un mondo che per lui è razionalmente ed emotivamente comprensibile. Un ambiente naturale molto forte, un paesaggio struggente, uno stile di vita a misura d’uomo. Quando entra in quella navicella spazio-temporale che è il treno, e che probabilmente non ha mai preso nella sua vita (sicuramente non per andare fuori dall’Italia), atterra su un altro pianeta, in un luogo dove le persone non parlano in un modo che lui possa comprendere. Nessuno capisce cosa dice e lui non capisce niente di ciò che dicono gli altri. Questo passaggio l’ho raccontato attraverso una tecnica cinematografica, che i grandi registi del passato utilizzavano per immergerti in una situazione ambientale sovrastante: il grandangolo. Ho usato dei grandangoli esasperati. Sì, la macchina da presa è vicina a questo personaggio, ma vediamo il mondo intero intorno a lui. Deriva da qui la sensazione di essere in presa diretta coi suoi sentimenti. Io non volevo fare un discorso sociologico, volevo raccontare i sentimenti di Orlando, i sentimenti di Lyse. La domanda che mi sono fatto durante la pandemia è proprio questa: dove sono andati a finire i nostri sentimenti? Una domanda che è quasi una considerazione, perché ho sentito che la nostra società è diventata indifferente anche alla sofferenza e alla morte. Da un punto di vista narrativo ho messo per un momento da parte l’urgenza, l’esigenza di fare un discorso razionale sulle cose, per cercare di andare a capire cosa accade dentro di noi, nel sancta sanctorum dell’essere umano, i sentimenti, l’amore, la paura.
Immagino non sia stato difficile convincere Michele Placido a interpretare quel ruolo. Lui ha sempre detto di essere molto radicato nella terra in cui è nato, in quel modo di sentire le cose.
Non è stato necessario convincerlo. Ha letto la sceneggiatura e mi ha immediatamente chiamato. Era una domenica mattina alle 7.30, tanto che io pensavo fosse mia madre. Mi ha chiamato per dirmi: “Voglio fare questo film!”. Dentro questa storia c’è sicuramente qualcosa che lo riguarda, ma io sono convinto – anzi è la prima volta da quando faccio cinema che sono convinto di qualcosa – che Orlando sia ovunque in Italia, in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Lombardia... Secondo me è dappertutto e in qualche modo fa parte di ciascuno di noi.

(foto Dominique Houcmant, Jean François Ravagnan)

Dove sono andati a finire i nostri sentimenti? La nostra società è diventata indifferente anche alla sofferenza e alla morte. Voglio provare a capire cosa accade dentro di noi, nel sancta sanctorum dell’essere umano
Credi davvero nella possibilità di un incontro fra questi mondi? In fondo il nostro tempo nasce come negazione e superamento di quell’altro.
Secondo me i ragazzi, i giovanissimi, sono più lucidi di noi rispetto a cosa sta accadendo al Pianeta. Lo capiscono di più. Noi adulti abbiamo delle abitudini che ci permettono di sopravvivere, anche di non far caso al cambiamento climatico. I ragazzi e le ragazze no, sono più lucidi. Tanto è che nella nostra generazione non c’è stata una Greta Thunberg. Nella nostra generazione ci sono stati grandi intellettuali che hanno detto: attenzione, l’ambiente! Nella generazione dei giovani adulti, ma anche dei ragazzini, c’è la perfetta consapevolezza del livello di degrado che ha raggiunto il mondo. Da questo punto di vista Lyse è davvero simile a Orlando. È anche lì che si possono incontrare: tutti e due considerano la Terra una madre. Tutti e due sanno che il mondo nel quale vivono ti dà i suoi frutti solo se non lo distruggi. Lyse lo sa perché ha una visione, un’apertura, è una ragazza del futuro, a 12 anni ha una cultura e una conoscenza del mondo che Orlando non avrà mai. Orlando però ha un radicamento di cui Lyse ha bisogno. L’incontro tra queste due generazioni avviene in questi termini. Il vero ostacolo siamo noi! Per questo ho levato di mezzo Valerio, il padre.
Hai dedicato il film a Ettore Scola. Ci parli della vostra amicizia, legata alla scuola di cinema, e di quel “senso di inadeguatezza” a cui accenni nel pressbook riferendoti alle vostre chiacchierate?

Bisogna riconoscerlo quando si ha una fortuna incredibile come la mia, quella di avere un amico come Ettore, che in tarda età mi ha regalato la sua amicizia. In questa dedica riconosco di essere stato un uomo fortunato. Ettore mi ha accolto paternamente, infatti ha la stessa età di mio padre. Questo incontro è stato molto bello e la dedica è solo di affetto, non ha nulla di intellettuale. Ma ciò non elimina l’esperienza di questi dodici anni di condivisione, il lavoro fatto per la scuola di cinema. Abbiamo creato una scuola pubblica e gratuita, perché pensavamo tutti e due (insieme a Valerio Mastandrea, Antonio Medici e Andrea Porporati), che fosse necessario far sì che potessero entrare nel cinema nuove forze senza barriere, persone di tutte le classi sociali. E soprattutto doveva essere una scuola di cinema, cioè uno strumento che accompagna per circa tre anni, in un percorso di apprendimento, dei giovani e delle giovani, aspiranti cineasti, in una fase della vita particolare, in cui ci si rende conto di ciò che ti succede intorno. La questione che ci ponevamo è proprio questa, ci chiedevamo tutti i giorni: il nostro cinema si sta interrogando davvero su ciò che succede nel nostro Paese e nel mondo? La nostra cinematografia a un certo punto si è innamorata di una tendenza - per carità, giustissima, richiesta a gran voce dagli esperti del settore - il desiderio di avere uno sguardo ampio sulle cose. Quello sguardo però è diventato lunare, talmente ampio che gli esseri umani un po’ sono scomparsi. Facevamo queste considerazioni in senso autocritico. Orlando è influenzato da queste chiacchiere, perché la gestazione del film è avvenuta proprio in questo decennio, è un film che ho concepito all’inizio degli anni ‘10 e che ho realizzato solo per la testardaggine di Marica Stocchi, la produttrice.
Ciò che chiamiamo “morte del cinema” è il suo Intanto è uscito il tuo libretto Il cineesatto contrario. Ormai siamo talmente immersi nel ma, l’immortale. Il cinema sopravviverà certamente anche all’ennesima morte cinema che non lo vediamo più. Il cinema ci ha che gli è stata diagnosticata di recente, di nuovo sorpreso. Ci ha messo sotto scacco come a tutte le altre nel corso dei decenni. Questo momento però appare parti-
colarmente drammatico, soprattutto se lo si guarda dal punto di vista delle sale, tra streaming, piattaforme, serialità dominante.
Innanzitutto stiamo dando per spacciate le sale, il che è un grave errore. Le sale sono un luogo di aggregazione e, nel momento in cui è accaduto ciò che sappiamo, le persone si sono rifugiate nelle piattaforme. Ma adesso il pubblico sta tornando. Dobbiamo stare attentissimi ai discorsi che facciamo, perché altrimenti diamo la dimostrazione di non capire cosa succede nel Paese cosiddetto reale. Le persone ricominciano a uscire di casa, perché hanno ritrovato la serenità per farlo e anche i film da vedere. A parte questo, lo dico quasi con una battuta, noi chiamiamo “morte del cinema” il suo esatto contrario. Ormai siamo talmente immersi nel cinema che non lo vediamo più. Siamo come i pesci immersi nell’acqua che non vedono l’acqua, che non si pongono il problema dell’acqua, altrimenti affogherebbero. Basta qualche numerino: in Europa ogni anno produciamo più di 1500 film, lungometraggi di finzione. Sto escludendo documentari e serie. Nell’Africa subsahariana più di 1000. Solamente in Nigeria se ne fanno 7-800 all’anno. In India 1500-1800. È talmente gigantesca la produzione cinematografica contemporanea che non c’è nessuno che possa valutarla.
(foto Dominique Houcmant, Jean François Ravagnan)

Il cinema ci ha messo sotto scacco. È diventato talmente potente che se fosse vivo George Sadoul oggi non riuscirebbe a scrivere una storia del cinema, non sarebbe in grado di farlo. Il cinema ci ha di nuovo sorpreso. Questa enorme produzione in tutto il mondo è dovuta a fattori di sviluppo economico, ma anche tecnologico, la diffusione del cinema in tutti i Paesi. Fino al 1930 a produrre cinema nel mondo erano sette-otto Paesi. Oggi si produce ovunque. Non c’è nessun essere umano che possa dire: conosco il cinema mondiale. Non si può dire nemmeno di conoscere il cinema europeo: chi vede tutti i 1500 film prodotti in un anno? In questo momento in Italia abbiamo un problema di professionisti del cinema, perché l’industria dell’audiovisivo si è sviluppata enormemente. In termini di dimensioni, l’industria audiovisiva europea ruota intorno ai 240 miliardi di euro l’anno.
La nostra “generazione di mezzo”, quella che scrive manuali e insegna cinema, è rimasta spiazzata dagli sviluppi dell’audiovisivo. Si parla di cinema e ci si riferisce solo al grande schermo.
È strana questa ideologia dei formati. Se tu chiedi a un selezionatore come ha visto i film scelti in un festival, cosa ti risponde? In streaming. Però poi magari dice che i film vanno visti al cinema. Ma se li scegli in streaming significa che c’è anche questa possibilità, quantomeno. Magari a breve avremo una sala dove potremo vedere film in streaming… vai a sapere. Le sale devono certamente trovare nuove formule. È un discorso piuttosto complicato che riguarda il grado di sviluppo della nostra società dal punto di vista tecnologico e culturale. Ma lo rimandiamo alla prossima volta. (f.t.)