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Elena Lietti: l’attrice che mancava al cinema italiano
by MondoRed
Elena Lietti
Faceva l’avvocato e sognava il cinema. È l’attrice che ci mancava. Due film in uscita, un premio teatrale, un talento raro
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di Fabrizio Tassi
Elena Lietti è l’attrice che mancava al cinema italiano. Forse per questo negli ultimi anni la troviamo ovunque. L’anno scorso in Tre piani di Nanni
Moretti e L’Arminuta di Giuseppe Bonito. Quest’anno in Siccità di Paolo Virzì e in una doppia uscita natalizia, due film molto diversi tra loro: Il grande giorno di Massimo Venier, tornato a dirigere Aldo Giovanni e Giacomo, e Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, visto e premiato a Cannes. Elena Lietti è quel tipo di attrice che sparisce dietro il suo personaggio. Forse il più grande pregio che si possa riconoscere a un’interprete - soprattutto dalle nostre parti, dove di solito accade il contrario. Il suo viso rimane subito impresso. Ma rimane soprattutto l’impressione di realtà e verità dei suoi personaggi. Anche se detto così suona forse un po’ solenne e pomposo, cosa che non le appartiene per niente, vista la semplicità con cui fa ciò che fa (semplicità che è il frutto di un grande lavoro). Non è “teatrale” nel senso deleterio del termine (uso invalso tra i critici cinematografici), anche perché il teatro è la sua seconda casa, e sul palcoscenico lascia la stessa impressione di autenticità. Il fatto è che Elena ha una storia di vita curiosa, che forse c’entra col suo specifico talento e che l’autore di questo articolo ha avuto il privilegio di vivere in tempo reale. Lei aveva scelto di fare l’avvocato, e lo faceva pure bene. Al cinema ci è arrivata tardi, a 32 anni. Prima di allora i film li guardava da innamorata del cinema, una vera e propria fan, che a settembre non si faceva mai mancare qualche giornata alla Mostra del cinema di Venezia. La ricordiamo in coda per vedersi tre-quattro film al giorno, insieme a noi “addetti ai lavori”, e a discuterne con gli amici cinefili, sempre col sorriso sulle labbra, perché il cinema per lei è sempre stato un piacere, una festa. La ricordiamo alle 2 di notte, usciti da una serata danzante sulla terrazza dell’Excelsior (balla molto bene, nel caso qualcuno volesse scritturarla per un musical...), mentre incrociamo uno scatenato Filippo Timi, che ci invita a un’altra festa, “perché la notte è giovane” (lei naturalmente ci andò...). Quello era l’anno in cui Elena stava per fare il salto dall’altra parte della “barricata”. Lei che andava a guardare gli attori e le attrici che amava sul tappeto rosso di Venezia, qualche anno dopo si è ritrovata sulla montée des marches di Cannes. Filippo Timi è stato il primo a notare il suo talento. È grazie a lui se Elena Lietti è approdata al Teatro con la T maiuscola (l’Amleto messo in scena al Franco Parenti di Milano, quando lei aveva già 34 anni, a proposito di esordi tardivi, seguito poi dal Don Giovanni, La Sirenetta e Un cuore di vetro in inverno, oltre a Ondine e Gli Innamorati con Andrée Ruth Shammah). Da lui ha imparato la libertà, l’energia, l’arte di stare su un palcoscenico.
Un altro incontro fondamentale (negli States) è stato quello con Michael Margotta, che è diventato anche suo compagno di vita, e da cui invece ha imparato il “metodo”. E citiamo anche un terzo nume tutelare, Niccolò Ammaniti, visto che l’ha voluta in due serie tv che l’hanno fatta conoscere al grande pubblico: Il miracolo (8 episodi, nel 2017) e Anna (6 puntate, nel 2021). Mettete insieme questi incontri, questi mondi anche molto diversi, e al loro incrocio troverete Elena Lietti, anche se lei in realtà ci ha messo molto del suo (il “suo” è proprio ciò che amano i registi), quell’insieme di istinto e mestiere, di innocenza quasi bambina e complessità malinconica che ad esempio potete vedere in questi giorni (fino all’11 dicembre) al Parenti nel bellissimo Costellazioni, per cui ha vinto il Premio Nazionale Franco Enriquez 2022 come miglior attrice. È proprio nel camerino d’antan del teatro milanese, davanti a un grande specchio antico, che ci siamo trovati a fare questa intervista sorridente.
Come mai facevi l’avvocato? Ricordo che in quinta elementare arrivavano gli psicologi per gli incontri di orientamento. Nell’ultima pagina ci chiedevano “cosa vuoi fare da grande?”. Io risposi: 1 Attrice, 2 Avvocato. Non so perché, ma ho sempre avuto una doppia fascinazione.
(in “Tre piani” di Nanni Moretti) Poi per me era chiaro che “1 Attrice”. Ma nello stesso tempo era altrettanto chiaro che volevo studiare legge.

Ma attrice di cosa, cinema o teatro?
Non lo so, attrice nella vita, probabilmente, nei rapporti umani (e ride, in quel suo modo genuino e contagioso).
Quindi Giurisprudenza non era una cosa imposta dalla famiglia.
No, non ho giuristi in famiglia. È strana questa cosa, lo so, ognuno ha le sue perversioni.
Più che altro è strano che l’avvocato, in un primo momento, sia stato preferito all’attrice.
In realtà ho fatto entrambe le cose. Ho continuato a studiare teatro, ho frequentato la scuola di Quelli di Grock, avevo la mia compagnia amatoriale... Quando poi è entrato in scena Filippo Timi e ho cominciato a studiare con lui, è cambiato tutto. Quell’esperienza mi ha messo di fronte alla necessità di una scelta. Non potevo più tenere il piede in due scarpe.
Che tipo di avvocato eri?
Civilista. Però lavoravo in uno studio che faceva tanta proprietà intellettuale e diritti d’autore, quindi avevo a che fare con cose molto belle. Anche divertenti. Avventure notevoli.
Eri un avvocato appassionato di cinema, che non si perdeva un festival di Venezia.
Ho sempre visto tanti film perché mia mamma è cinefila.
Sei cresciuta a pane e Rossellini?
No, mia madre amava di più la Hollywood della Golden Age.
Quindi John Ford e Billy Wilder. Comunque grande cinema.
Guarda caso poi la passione per il cinema è cresciuta insieme a quella per gli Stati Uniti, che ho tanto visitato. Dall’America mi sono portata a casa anche la famiglia. I puntini si sono uniti. Ma tutto iniziò da mia madre che mi fece vedere Scandalo al sole.
Che meraviglia!
Avrò avuto cinque anni. L’imprinting è stato aggressivo.
(in “Siccità” di Paolo Virzì foto Greta de Lazzeris)

Facciamo un balzo in avanti, all’anno della grande scelta, l’addio alla carriera da avvocato. Fu un bel “salto mortale”.
Anche perché non avevo un ingaggio.
Di che anno parliamo?
La mia prima cosa al cinema l’ho fatta nel 2009, Oggi sposi di Luca Lucini, e la prima produzione in cui ho lavorato a teatro è stato l’Amleto di Filippo Timi prodotto dal Parenti nel 2011.
Quindi prima il cinema.
Sì, Luca Lucini fece dei casting a Milano.
Una 32enne che esordisce nel cinema. Una cosa rara. Poi così brava...
(lei se la ride)
...Così brava lo dico io. E comunque lo dicono tutti. Prima dell’Amleto c’era anche stato un tuo monologo. Bello. Posso uscire anche a mezzanotte.
Vero. Ma Filippo l’avevo conosciuto prima. Lui mi ha fatto vedere la libertà di quel mestiere. Quello che faceva lui in scena mi sembrava così folle! Ho intravisto una strada che poteva somigliare a ciò che piace a me. Fino a quel momento, fatta eccezione per alcuni spettacoli straordinari (Peter Brook), a teatro vedevo cose che non mi corrispondevano tanto. Ne vedevo di più al cinema.
Chi ti ha detto “sei brava”? O te ne sei accorta da sola?
Filippo è stato sicuramente una bella iniezione di fiducia, perché lui mi ha voluta fortemente nell’Amleto. Artisticamente mi ha sempre coinvolta. Il fatto che mi volesse tanto nei suoi gruppi di lavoro era la testimonianza che forse era quella la mia strada. Poi ci siamo sempre divertiti tanto sul palco. Questo significava qualcosa.
Quindi non è stata un’illuminazione improvvisa. Una voce “dal cielo”.
Non succede mai questa roba. Sono sempre gli incontri che ti illuminano. Io seguo l’impulso. Ho sempre pensato di essere molto cerebrale, ma quando devo prendere delle decisioni grosse, in realtà, non penso, vado di pancia. C’è stato un momento in cui ho sentito che dovevo andare da un’altra parte.
(in “Il grande giorno” di Massimo Venier foto Aliocha Merker)

A teatro poi sei entrata subito dalla porta principale, il Franco Parenti.
Sì, ma è sempre stata una strada in salita. Io non vengo da questo mondo. Sono sempre guardata come quella che non c’entra un cazzo (ride)
Adesso però non più, dopo tante esperienze, i premi...
Il lavoro paga. Però c’è sempre una certa curiosità rispetto al mio essere una outsider.
L’hai sempre vissuta col sorriso sulle labbra.
Sono un animo allegro. Anche se invecchiando accuso anch’io un po’ di malinconia.
Al cinema hai spesso ruoli complessi, interpreti personaggi sofferenti.
Un po’ credo che sia la mia faccia... E poi io sono complicata, i registi lo capiscono subito.
La svolta è stata Emma Tassi, ne Il Rosso e il blu di Piccioni.
Sì, era il 2012, un momento importante per me. Anche se chi mi ha sdoganata tra gli addetti ai lavori è stato Niccolò Ammaniti, un altro grande incontro della mia vita. Il suo responsabile del casting Dario Ceruti – davvero molto bravo, curioso, uno che va a vedere un sacco di spettacoli e scova persone in giro – mi ha visto in teatro con Filippo e mi ha chiamato per fare un po’ di provini. Mi ha chiamato per La pazza gioia (Paolo Virzì, guarda caso, mi ha voluto per fare la matta) e per una serie tv Disney per ragazzi, Alex & Co, che ho fatto per due anni.
Poi è arrivata la chiamata per la serie di Ammaniti.
Ricordo ancora la sua telefonata nel 2017. Ero negli spogliatoi di una piscina, avevo portato mio figlio a nuoto. “Ho un provino da proporti”. Mi disse anche una cosa tipo: “Devi cercare di essere stronza”. Quel provino è stato veramente un’esperienza incredibile. Sono partita da casa pensando: “Me la devo giocare fino in fondo. Se questo personaggio è così, sarò così, da quando esco di casa a quando arrivo lì”. Prima di fare quel provino ho detto delle cose davvero inopportune, che se ci ripenso adesso... Ho parlato male di persone davanti a colleghi, ho fatto cose che non si fanno e che di solito non faccio, però dentro di me pensavo: “Qualcosa deve cambiare perché io possa avvicinarmi a questa donna”. Sole è una donna priva di filtri. Ancora oggi sogno che mi suoni il campanello di casa, tanto era reale. Un personaggio incredibile, priva di diplomazia, per niente gentile, molto essenziale nei rapporti.
In un certo senso, anche “riposante”.
Totalmente riposante. Sono uscita del secondo o dal terzo provino pensando: “Comunque vada io qui ho fatto qualcosa”.
C’erano tante concorrenti?
L’ultimo provino è stato tremendo, perché non eravamo in tante, ma quel giorno le ho incrociate tutte. Era stato davvero stressante. Però, anche lì, il mio essere dentro quel personaggio, psicologicamente mi aiutava.
I provini, in generale, sono come te li sei sempre immaginati?
Dipende dal regista. Nel caso di autori come Niccolò o Paolo Virzì sono sempre esperienze belle, perché hai di fronte persone creative che cercano un interlocutore creativo. Si mettono in una posizione di dialogo e di scoperta reciproca. Sono lì a guardare ciò che tu puoi proporre. È come un primo appuntamento amoroso. Cercano la chimica tra te e il personaggio.
Non vogliono la prestazione.
Non vogliono il paint-by-numbers, il “fammela così”, che è un altro genere di provino. Che esiste, drammaticamente. Nei grandi autori non lo trovi. Non trovi le formule tipo: “Questa è una donna forte ma che ha un grande vuoto dentro”. Quando senti una cosa del genere ti chiedi: ma cos’è il vuoto dentro? Chiedo: che lavoro fa? “Non è importante”. Come non è importante? Ha i soldi o non ce li ha? Chi sono i suoi genitori, dove vive, come è cresciuta? Sono queste le cose che fanno un personaggio. “Ha un vuoto dentro”... ma un vuoto de che?
Credi nel destino, che va accolto e bisogna imparare ad amarlo? O credi che siano i nostri pensieri e le nostre azioni a plasmare il mondo?
Io che faccio uno spettacolo sulla fisica quantistica, tendenzialmente sono portata a credere che tutto sia vibrazione ed energia, e che l’energia determini la realtà. Però gli incontri sono anche una questione di fortuna.
Va bene la fortuna, ma poi sei tu che ti predisponi ad avere un certo incontro, facendo le tue scelte, coltivando certi pensieri. Se scegli di fare la vita dell’avvocato, di comprarti una casa sul lago e stare tranquilla con la tua famiglia, difficilmente incontri Filippo Timi.
Se invece vai a teatro allo Spazio Tertulliano e sei lì con Filippo che mangia gli spaghetti sul palcoscenico... Pensavo: “Ma chi è ‘sto pazzo che mangia davanti al pubblico prima che inizi lo spettacolo?”. Poi l’ho aspettato e gli ho detto: tu mi devi insegnare quello che fai perché mi piace troppo!
Qualcuno ti ha insegnato la differenza tra recitare al cinema e a teatro?
Un altro incontro determinante per me, sotto tutti i punti di vista, è stato quello con il mio compagno, Michael Margotta, che viene dall’Actor’s Studio, da quel modo di vedere la recitazione. Il Method è il famoso elefante che può essere preso da tanti punti diversi: uno ti dice che è la proboscide, l’altro che è la coda.... Ma quel tipo di ricerca necessaria a preparare un personaggio, me l’ha insegnata lui. Anche il training che fai su te stesso per essere disponibile a incontrare le circostanze in cui si trova il personaggio. Mi ha dato una grammatica. Ha dato un nome a cose che facevo istintivamente, in modo disordinato. Mi ha dato un metodo, a prescindere dal fatto che fosse “il metodo”. Io comunque mi sono formata con Quelli di Grock, ho studiato biomeccanica con una compagnia milanese, ho fatto laboratori Meisner... Alla fine mescoli un po’ le cose e crei un tuo personale incontro con il personaggio e con la storia che racconti.
Con Nanni Moretti, invece, come si lavora?
Con Nanni fai un lavoro completamente diverso, perché lui ha proprio un’estetica della recitazione. E la cerca ad esempio attraverso la ripetizione delle battute. Lui vuole una specie di maschera neutra.
Quindi devi avere un approccio diverso al personaggio.
In realtà il mio approccio non cambia. Per Tre piani comunque ho fatto il mio lavoro di preparazione, perché quando racconti una storia non puoi farlo con dei personaggi generici. Se interpreto un avvocato, questo sicuramente vuol dire qualcosa, ad esempio riguardo il suo senso della giustizia, che è diverso da quello delle persone comuni, è molto più sofisticato ed elaborato, quindi le sue reazioni sono filtrate da quella mentalità, e lo è anche il fatto che il marito sia accusato di stupro...

Poi, però, dopo aver fatto quel lavoro, quando sei nelle mani di Nanni, ti devi disarmare completamente, perché lui ti porta a raggiungere il risultato che cerca.
Ogni regista è un mondo, un modo di fare cinema. Ora tu esci con due film molto diversi tra loro. Aldo, Giovanni e Giacomo, con Massimo Venier, finalmente ti hanno dato la possibilità di interpretare un personaggio comico.
Sono in una commedia, quindi il registro è quello. Se non è un personaggio comico ho sbagliato. Me lo dirai tu... Ma io non sono né Aldo, né Giovanni, né Giacomo: loro sono la commedia.
In effetti gli altri personaggi, nei loro film, non devono far ridere per forza.
Sì, ma non devono neanche fare Bergman.
Ti sei divertita a girare Il grande giorno?
Tantissimo. Era un set totalmente diverso dagli altri. Loro sono molto divertenti, anzi lo era tutto il cast messo insieme da Massimo Venier. Uscivamo sempre a mangiare insieme la sera, finito di lavorare. Era una cosa che avevamo voglia di fare, sempre.
Una cosa rara
Rarissima. Generalmente ognuno torna a casa sua.
Che personaggio interpreti?
La moglie di Giovanni, Valentina. La signora Segrate Arredi. Tanto ti basti.
Un personaggio importante?
Fondamentale nell’economia della storia. La “first lady”. Anzi la “second lady”, perché sono la seconda moglie. Ho tutte le insicurezze della seconda moglie in carica, che ha cresciuto una figlia non sua.
È un film che aspira ad essere campione di incassi. Il trio è tornato con Massimo Venier alla regia, col quale hanno realizzato i loro film migliori (Tre uomini e una gamba, Così è la vita, Chiedimi se sono felice...).
Massimo è veramente un bravo direttore di attori. Questa è una commedia amara. O meglio, ci sono entrambi i lati della faccenda, anche gli sketch. Quando ho letto la sceneggiatura ho riso davvero tanto. Perché sono sketch “alla Massimo Venier”, che ha scritto la sceneggiatura con loro, è quella nonsense comedy un po’ nera che a me fa spaccare dalle risate. Ci sono anche cose quasi scorrette. Ma pure le idee più slapstick mi fanno tanto ridere. Ci sono entrambi gli aspetti.
Non c’è il “grande tema”, che oggi sembra quasi indispensabile, anche nelle commedie?
No, ma c’è la Brianza. Grande tema, secondo me.... Credo che la specificità geografica sia uno dei punti di forza del film.
Loro lo sanno fare questo. In Chiedimi se sono felice c’è una delle Milano più belle viste nel cinema recente.
Esatto, lo sanno fare.
E cosa mi dici invece di Le otto montagne? In quel caso chi interpreti?
Sono Francesca, mamma di Pietro e moglie di Giovanni, che è proprio Filippo Timi.
Che tipo di lavoro hai fatto in questo caso?
Il genere informa il lavoro, ma il lavoro non cambia. Qui c’era l’epoca. Ed eravamo in montagna, cosa non indifferente. In altitudine, anche se io sono un personaggio che si assesta sui 1500, quindi stavo nel verde, vicino ai torrenti (Filippo invece era a 4000 metri). La montagna dettava le regole. E poi, soprattutto, c’era lo sguardo molto internazionale di Felix e Charlotte sul lavoro degli attori, che è meraviglioso.
In che senso?
Nel senso: vediamo come funziona la scena e poi mettiamo le macchine. Chi faceva così? Cassavetes, forse. Il mio compagno, quando glielo dico, mi risponde: “It’s normal”. No, ‘sto cavolo, non è normale.
È ora di puntare al cinema internazionale.
Dico sempre che mi piacerebbe molto per mettere a frutto l’inglese. Poi però quando dico questa frase, a volte sui giornali diventa: “Già che ho il marito americano, almeno sfrutto l’inglese”. Mi piacerebbe lavorare in una lingua che non è la mia. Ho la sensazione che possa essere un altro tipo di esperienza.
Penélope Cruz dice sempre che ogni lingua è un universo, con una sua dimensione, anche sul piano della recitazione.
Infatti ho la sensazione che ti possa dare più libertà, senza essere schiavo della parola, del significato dentro le parole, così da sentirle soltanto. Io però lo farei solo con l’inglese, su cui mi sento solida.
Ti vai a rivedere al cinema?
Una volta mi vedo sempre, quando fanno la proiezione per il cast, poi c’è quella ufficiale.

A Cannes come è stato?
Bellissimo. Anche se io sono molto legata a Venezia.
Hai fatto la montée des marches!
Due volte! Sono stata brava, non sono inciampata e ho tenuto a bada il senso di inadeguatezza, fingendo disinvoltura.
Ma ti vai anche a rivedere in sala, quando esce il film, in mezzo al pubblico?
Siccità l’ho rivisto due volte perché sono davvero innamorata di quel film. Sono andata con due gruppi di amici diversi.
Mascherata, per non farti riconoscere.
Non sono così famosa. Sai chi è davvero famoso? Aldo, Giovanni e Giacomo. Sono celebrities pazzesche. È incredibile quanto sono amati. Trasversalmente. Fuori dal set c’era sempre gente, così come al ristorante. È la prima volta che vedo quel genere di affetto da parte del pubblico, che rasenta il fanatismo. Loro sono bravissimi a gestirlo.
Sono persone umili.
Assolutamente. Ed è una cosa notevole, alla luce del fatto che sono letteralmente braccati. Loro in realtà sono timidissimi. Belle persone.
Ci pensi a quest’onda che stai vivendo? I film in serie al cinema, il premio teatrale...
Ma a cosa devo pensare? Devo lavorare e basta. Io penso alla prossima cosa. Anche se non posso ancora dire cos’è. Un’ora dopo Elena Lietti era in scena. E qui le parole si incartano, vista la quantità di emozioni piovute giù dal palco. Allegria, dolore, rabbia, amore, ironia, amarezza, gioco e tragedia, lacrime e sorrisi. La vita! (Il teatro!). D’altra parte Costellazioni - scritto da Nick Payne, regia di Raphael Tobia Vogel – mette in scena le tante possibili storie che stanno dentro ogni storia, le variabili dell’esistenza, le trame parallele contenute in ogni incontro tra un lui e una lei (lui apicoltore, lei cosmologa). I dialoghi si ripetono con piccole varianti di tono e di parole, facendo nascere o collassare amori, tradimenti, malattie, scelte devastanti, mentre dei fasci di luce disegnano spazi geometrici su un palco circolare, quasi a visualizzare la trama quantistica dell’universo, con le sue dimensioni infinite. La freddezza di un concetto scientifico e filosofico che prende letteralmente fuoco sul palco, grazie a Elena Lietti e Pietro Micci.
A quel punto l’intervista è scomparsa dietro la commozione (e l’ammirazione). Tanto per ricordarci cos’è l’arte e a cosa serve. Ecco, andate a vederla in scena Elena Lietti, e la conoscerete così com’è, con quel sorriso da bambina felice e stralunata, e la sofferenza che non sembra mai recitata.