18 minute read

Debora Petrina: cantautrice eclettica, donna libera

Un salotto di cinque metri per quattro, pieno di cose sparse. «Un casino», dice lei. A sinistra c’è un divano. A destra un pianoforte a coda, che occupa quasi metà della stanza. Di solito ci sono anche due chitarre, una tastiera, cavi, mixer, pedali, «ma è tutto giù in macchina. Sono tornata alle 3 di notte da un concerto. Ora devo scaricare e rimontare ogni cosa». Vita da artista. Rigorosamente indipendente. Con tutti i pregi (la libertà) e i difetti (la precarietà, la fatica, le incomprensioni, le rotture di scatole) che ciò comporta. Con una grande finestra che dà su un quartiere popolare di Padova, venti minuti a piedi dal Duomo. E un vicinato che guarda con curiosità e sospetto a questa «donna che vive sola e fa un lavoro strano, un personaggio destabilizzante».

Bisogna superare l’abitudine a tornare sempre nel consueto, nel sentiero che si conosce. Perdere i riferimenti non significa solo trovare cose diverse, ma trovare dei sé nuovi. Se non evolvi come essere umano finisci per fare sempre le stesse cose

Advertisement

Questa è la stanza dove è nato L’età del disordine. Uno di quei dischi che metti in loop e non riesci a fermarti più: al primo ascolto sobbalzi; al secondo sei innamorato perso; al terzo ti domandi come sia possibile che non venga trasmesso a ciclo continuo da tutte le radio italiane e pure i canali tv. Perché è vero che suona raffinato, con poesia e ironia, che le melodie non sono mai banali (per non parlare dei testi), che ci senti dentro Kate Bush e Tori Amos, Paolo Conte e Ivan Graziani, Diamanda Galas e Cristina Donà, Kurt Weil e i Cccp... (dici niente...). Ma alla fine, anzi fin dall’inizio, ciò che senti è solo Petrina, in una versione che stavolta è perfino un po’ pop, in un modo bizzarro e stralunato, romantico e sbilenco. Un cantautorato che sgorga dalle vette inaccessibili della musica contemporanea, scende a ritroso verso gli anni ‘70 e poi risale veloce, lambendo jazz, rock, tradizione italiana, creando una sorta di opera-canzone, in cui la voce è un corpo che danza, gioca, recita, ammicca, fa giravolte e flessioni, salta e scivola tra le parole. Con la complicità fondamentale di Marco Fasolo, che ci fa riscoprire il gusto dell’analogico e dell’acustico, che toglie aggiungendo (o viceversa?), costruendo uno spazio sonoro ideale per la voce mutevole di Debora Petrina. Lei fa musica da vent’anni, il suo primo disco solista risale al 2009 (in doma) ed è passato quasi un decennio dall’album rivelazione Petrina, quindi non ha certo bisogno di darsi un tono, anche perché tra i suoi ammiratori ci sono musicisti del calibro di David Byrne, Terry Riley e Paolo Fresu. Per non parlare della carriera da interprete di opere contemporanee (al Teatro La Fenice, ad esempio), i concerti a New York (Barbès), San Francisco (Café du Nord), Londra (Conway Hall), La Havana (Teatro Roldán), i dischi-progetti eccentrici, come il recentissimo NuovoMondo Symphonies, per voce e due pianoforti con Giovanni Mancuso (un buffo patafisico viaggio tra popoli e terre immaginarie, in ventiquattro miniature, pubblicato dalla newyorchese zOaR Records di Elliott Sharp). Ma L’età del disordine è il primo album tutto in italiano ed è un disco che si presta ad essere amato anche al di fuori del circolo degli intenditori e degli addetti ai lavori. Se non fosse che il mercato ha regole tutte sue, il gusto odierno è un tantino appiattito e non è detto che il passaparola arrivi fino al grande pubblico. «Un agente con cui lavoro ha proposto Begonie a Radio Deejay, ma loro hanno detto che non è abbastanza pop, che non è nei loro target». Il che, in un certo senso, è un complimento, se si pensa a ciò che passa il convento. Se il pop è quella cosa facile che piace a tutti, allora Petrina fa un altro sport.

Parliamo di questo e d’altro, mentre lei se ne sta seduta sul palchetto che regge il pianoforte, coi suoi capelli rossi, gli occhi grandi e bellissimi, le risate aperte, sonore, che esplodono all’improvviso e mettono di buonumore (come la sua musica). Sembra quasi di vederla, nei giorni dell’emergenza sanitaria, mentre fa ginnastica su un pezzo di moquette (“ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno”, chi se lo leva più dalla testa quel motivo?), e salta, danza, si sdraia, canta con la pancia all’insù e il “diaframma galleggiante”.

È in questo salotto-studio-osservatorio (dell’anima) che Petrina ha visto le “begonie alte più di due metri”, cresciute nella foresta della sua testa, sorseggiando un

“cocktail alchemico che ripara i tessuti del cuore” (rabarbaro e rancore, con un tocco di zenzero), sbirciando dalla finestra un “piccolo astronauta che cade a testa in giù”.

(foto Chris Drukker)

Stando in questa stanza, sembra di percepire davvero “l’assenza bussare con insistenza” e ci viene voglia di cantare a squarciagola “amore è un mare amaro, amore è un mare amaro” (gran pezzo anche quello). Petrina è cantautrice e compositrice, pianista, danzatrice, performer, scrittrice. Tutto in lei è movimento. Riesce difficile quindi immaginarla seduta al pianoforte, nella sua vita precedente, quella in cui era destinata a una carriera concertistica. Ma la vita a volte prende strade impreviste. «Ero destinata alla carriera pianistica e ai concorsi internazionali, perché avevo un maestro che credeva molto in me. Ma è successa una cosa tragica: mio padre ha fatto un incidente ed è rimasto paralizzato quasi completamente. Questo ha determinato un cambiamento di programma nella mia vita. Me n’ero appena andata di casa e ho deciso di tornare per dare un aiuto a mia madre. Una situazione durata cinque anni, fino alla morte di mio padre, che era attesa, ma è stata comunque tragica. In quei cinque anni mi sono come congelata, perché in quel momento c’era qualcosa di più urgente di cui occuparsi. Ma dopo la sua morte è cambiato tutto. Sono uscite cose che erano rimaste represse. Il mio bisogno di comunicare. Ho cominciato a comporre, a cantare, a danzare, tutte cose che prima non facevo». Non le faceva professionalmente, anche se “c’erano”, in qualche modo. Ne parlavamo sul numero di novembre di Redness: per trovarsi, bisogna prima perdersi. «Sembra un luogo comune, ma è vero. Penso sia uno dei segreti della vita. Lo si capisce andando avanti negli anni. Bisogna superare la paura di perdere i riferimenti, l’abitudine a tornare sempre nel consueto, nel sentiero che si conosce. Perdere i riferimenti non significa solo trovare cose diverse, ma trovare dei sé nuovi, che magari non sono veramente nuovi, perché li hai dentro, e però non hai avuto l’occasione di scoprirli prima. Ci sono delle moltitudini dentro di noi e forse alcune sono più importanti di altre, ma rischi di non trovarle. Se non cambi, se non evolvi come essere umano, finisci per fare sempre le stesse cose. Arte e vita sono legate. O almeno, dovrebbe essere così».

(grafiche Paolo Scaglia)

Le dico che ascoltando il suo disco sembra quasi di vederla giocare come fosse una bambina. «Se ci penso, in effetti, più invecchio e più somiglio a com’ero da bambina. Ho cominciato a suonare su una stufa. In casa c’era questa stufa a legna, con un cassetto che si tirava fuori, io ci muovevo le dita sopra e guardavo il loro riflesso. Mi piaceva stare a osservare quel movimento. È questa cosa cinetica che mi ha sempre mosso. Ai compleanni mi piaceva organizzare le feste in grande stile. Ricordo che avevo 7-8 anni e preparavo dei balletti sulle musiche dei Led Zeppelin, con mia sorella, più grande di me: facevamo prese, lanci... Anche la dimensione performativa, un po’ istrionica, è sempre stata dentro di me. Avevo bisogno di esprimere la vitalità che sentivo in me. Poi, però, la vita ti costringe in una direzione». Soprattutto se vivi in una famiglia di professori. Mestiere che poi ha fatto anche lei, più per motivi economici che per vocazione. «La mia era una famiglia molto rigida, istituzionalizzata. Mio padre era preside, insegnava italiano e greco. Anche mio fratello è un dirigente scolastico. Mia sorella è addirittura professore ordinario di letteratura inglese medievale. Mia madre è “la parte sana” (lo dico con ironia, naturalmente). Ha avuto un’infanzia sfortunata, non ha potuto studiare, però ha sempre alimentato la sua vitalità, la curiosità, è sempre stata una lettrice pazzesca e ha viaggiato molto». Il problema è ciò che la famiglia pretende da te. «Io dovevo eccellere. Non solo al liceo classico, ma anche nella musica». Con tutto lo stress che questo comporta. Alla faccia della libertà e della “cinetica”. Anche se, per fortuna, in casa c’erano anche ottimi stimoli musicali. «Fin da piccola ho potuto ascoltare i dischi dei miei fratelli, più grandi di me. Sono cresciuta con ciò che amavano loro, il rock anni ‘70, Soft Machine, Led Zeppelin, King Crimson, Simon & Garfunkel, Police. Ma prima ancora, la persona che mi ha aperto alla musica è mia mamma, che ha sempre cantato tanto, anche quando era incinta. E fischiava! Si inventava le canzoni, cose sempre diverse. Inventava anche storie».

Perché emergesse l’artista che era in lei, ci sono voluti anni di «vita disordinata», ma soprattutto uno di quegli eventi tragici «che però finiscono per seminare, per far fiorire delle cose». Il terreno era buono. Anzi, ottimo. Forse era il contesto che mancava. «Io ballavo di nascosto con le canzoni di Tori Amos. Ma vivevo a Fontaniva, un paese di campagna, dove non c’erano possibilità, non c’erano stimoli. Dopo la morte di mio padre, ho preso le Pagine Gialle, ho cercato “danza Venezia” e ho deciso di fare la prima cosa che ho trovato... Quando andavo agli spettacoli di danza, da giovane, me li mangiavo con gli occhi, era come se sentissi il movimento dentro di me. La vita è anche una ricerca di cosa è importante per te, di cosa ti fa stare bene. Ho scoperto che la cosa che mi faceva stare bene non era certo studiare per 24 mesi la sonata di Beethoven. Quello studio mi ha dato tanto, è stato importante per creare la mia sensibilità musicale. Ma ciò che mi faceva bene era creare, comporre, scrivere, cantare, usare la voce, che è una parte del corpo! Il pianismo è una cosa tremenda, una castrazione, se non è fatta in modo illuminato. Ti costringe ore e ore a studiare lo stesso passo, a restare rigido, a focalizzarti su quella che è una “prestazione sportiva” molto elevata, perché devi essere in grado di suonare davanti a una commissione o una giuria senza sbagliare una nota, senza avere un vuoto di memoria. Devi avere delle caratteristiche psicologiche di un certo tipo, non puoi essere emotivo. E questa è una cosa che fa dei danni a chi, come me, ha un’emotività instabile. Dopo la morte di mio padre ho scoperto la dimensione corporea che il pianismo aveva inibito. Ora ho tutto un altro approccio e rapporto col pubblico, una grande libertà».

La libertà però va conquistata. Soprattutto se non sei protetta da grandi agenzie e grosse etichette. «Mi ha incoraggiato molto il Premio Ciampi, che ho ricevuto nel 2007. E anche quella cosa di David Byrne, il fatto che uno come lui scegliesse dei miei brani da mettere nella sua playlist sull’Italia, senza che ci fosse stata una mediazione. Ero l’unica che veniva dal nulla». La sua risata è solare e sincera quando le chiedo se ci sta bene nella dimensione dell’artista che piace agli artisti. «Non mi faccio mai questo tipo di domande. L’artista ha bisogno di comunicare, tutto qua. Chiaro, mi piacerebbe che un maggior numero di persone ricevesse la mia “comunicazione”, perché è sempre una forma di scambio. Ma è bello anche ricevere regali dalle persone che mi hanno aiutato a fare uscire il disco in crowdfunding, e ricambiarli scrivendo poesie: ho scritto dei versi in rima per ognuno, giocando con il loro cognome. 145 poesie». Tanto per dire che oltre all’artista, al talento, c’è di più. L’umanità, la simpatia, il gusto di condividere bellezza, emozioni. «Ieri sera, al concerto di Bologna, si è avvicinata una coppia che ricordava di avermi sentito a Sermide nella notte dei tempi, in un circolo Arci, immerso nella nebbia... Io ci scriverei un racconto su una cosa del genere».

Mentre tutti noi cercavamo un modo per evadere dalla galera dell’emergenza sanitaria, lei ha composto un disco in salotto. «Grazie anche a Marco Fasolo, che ha una mente molto aperta. Io vengo dalla musica classica e lui dal rock psichedelico. Ci siamo trovati benissimo. È rimasto da me per un mese. Era la prima volta che metteva piede fuori casa, dopo aver vissuto il lockdown coi suoi genitori in un paesino della bassa. Lavoravamo tutto il giorno e poi uscivamo a fare passeggiate. Era una situazione strana anche dal punto di vista emotivo». Dal punto di vista dello stile e dell’estetica, l’idea era quella di «dare centralità alla voce e al pianoforte, creando una specie di spazio attorno: non arrangiamenti sontuosi, con mille strumenti; poche cose ma giuste. Lui è un genio. Uno tutto suonato. Non c’è elettronica in questo disco. Anche i suoni strani che ci sono all’inizio di Astronauta, li abbiamo ottenuti mettendo il pianoforte in reverse, rovesciando le note. Nei ritornelli di Amore è cieco vengono fuori delle specie di grida, pianti, lamenti, una pioggia di suoni creata con le chitarre. Marco è una persona molto analogica. Abbiamo usato dei vecchi mixer e dei microfoni a nastro degli anni ‘50. Per questo c’è quel calore nelle sonorità, quell’intensità. Voce e batterie le abbiamo registrate in un posto molto grande a Marghera, una specie di capannone che è anche un club: ha messo dei microfoni sparsi in vari punti, anche a dieci metri di distanza, per captare tutto il riverbero, tutta quell’aria che stava intorno. Alla fine è stata una registrazione di stati emotivi. Piccola cicatrice me l’ha fatta cantare sdraiata, che è una cosa difficilissima: in questo modo il diaframma si posiziona in modo diverso ed esce una voce che sembra provenire da un’altra parte». Sì, doveva essere un bel casino quel salotto, nell’estate del 2020, con Marco Fasolo che faceva editing al computer, mentre Debora Petrina riusciva perfino a fare ginnastica, nei pochi metri rimasti liberi. «Quando lavori in questo modo, devi buttarti e nuotare». Poi, certo, alla fine bisogna mettere ordine. Scegliere e andare al missaggio. Quanto all’attitudine interiore, è quella raccontata in un pezzo scritto prima della pandemia, Panorami-che: «Si parla di contemplazione. Io che guardo fuori dalla finestra e prendo appunti nell’ombra. Che è anche una condizione esistenziale».

Mi alzo e mi avvicino alla porta-finestra che dà sul balcone. Fuori c’è un edificio popolare, con le sue finestre spalancate su tante vite diverse. Lei se la ride, immaginando i miei pensieri. «Cerco di compensare con la giungla sul balcone». Di sicuro Debora Petrina non è una che passa inosservata. «Ricevo tuttora delle lettere anonime». Ma non indaghiamo sul contenuto. Oltretutto siamo in un condominio. Come si fa a suonare in libertà in un appartamento? «Rispetto sempre gli orari: non si suona all’ora di pranzo e non si suona la sera. La notte assolutamente non si può, non esiste. Ma ho un set con tastiera in cui posso usare le cuffie». Le chiedo cosa sognava di fare da grande quando era bambina. «Le amiche sognavano di sposarsi, avere figli, fare le veterinarie... Il mio unico pensiero invece era questo: “Quando sarò grande, sarò una donna libera, che fa ciò che vuole, senza rendere conto a nessuno”». Forse non è proprio una professione, non ti pagano per questo, ma è certamente uno stile di vita. L’insegnamento (part-time) a volte è frustrazione, ma è anche un’occasione creativa. «Ho sempre cercato di tenere un piede dentro e uno fuori. Il mondo della scuola è “pericoloso”. Ma con la pandemia è arrivato il concorso straordinario, l’ho vinto e mi sono presa 9 ore di pianoforte alla settimana. Anzi di “potenziamento”. All’inizio pensavo si trattasse di potenziare la materia, immaginavo progetti creativi, di composizione e improvvisazione con i ragazzi. Invece, col cavolo. Per lo più ho seguito ragazzi in difficoltà e mi sono ritrovata a insegnare di tutto, matematica, scienze, statistica, biologia, inglese...». E però lo spazio c’è per inventarsi qualcosa. «Pensa che ho cominciato prima a far comporre i miei allievi, e poi l’ho fatto io». Una di loro ha vinto un premio di composizione bandito da RaiRadio3, a 13 anni. Non un premio per ragazzi, ma per tutti. Debora ha pure un canale youtube dedicato ai suoi allievi compositori. «Con Mateo, un mio allievo, sto costruendo un pezzo rap con una parte noise. Mi ha portato venti registrazioni di rumori fighissime! L’insegnamento è un prolungamento e anche uno stimolo per la mia attività artistica. Ovvio che devo concentrarlo in una parte della settimana, per riuscire a fare il resto». Comunque, ragazzi fortunatissimi: vai a scuola a Padova e ti ritrovi Petrina come insegnante. Cosa vuole comunicare Petrina con la sua musica? «Vorrei riuscire ad aprire degli spiragli. Non importa quali siano. Non importa se uno vede una cosa o un’altra nella mia musica. Penso ce ne sia un gran bisogno, in un momento in cui c’è il rischio di una zombizzazione dell’umanità. Vedo tanti morti viventi in giro, dopo tutto quello che è successo. La musica e i concerti aprono finestre».

(foto Gigi)

Le sue canzoni non lanciano messaggi. Anche se poi dentro ci trovi tante idee, emozioni, stimoli. «Forse perché io uso molto le immagini. Le immagini lasciano l’interpretazione aperta. Mi piace essere libera, anche come fruitrice di musica, non essere costretta in un messaggio».

Vorrei riuscire ad aprire degli spiragli. Non importa quali siano. Penso ce ne sia un gran bisogno. Vedo tanti morti viventi in giro, dopo quello che è successo. La musica e i concerti aprono finestre

Poi c’è il capitolo letterario. Perché tra le persone importanti della sua vita c’è anche lo scrittore Tiziano Scarpa, che ha letto le sue cose e le ha fatto capire che avevano un valore. «In questi anni ho cominciato a scrivere. Ah, come mi piace scrivere! I miei primi lettori sono stati un amico, mia madre e Tiziano Scarpa. A lui sono piaciute molto le cose che scrivevo, mi ha stimolato, ha pubblicato qualcosa nel suo blog “Primo amore” e mi ha fatto da supervisore. Ho scritto tantissimo, insieme abbiamo sforbiciato, scelto, e sono nati due libri». Uno è quello che arriverà in dono a chi ha contribuito al crowdfunding per il disco. «In questo caso si parla di sogni. Nel periodo in cui non si suonava, io ho sognato di suonare. Sogni assurdi. Invece dei concerti in streaming, io li facevo in dreaming». Ma c’è anche un secondo libro: «In quei giorni sono saltate fuori anche cose del passato, aneddoti, a volte tristi a volte divertenti. Si tratta di un “Manuale autobiografico per donne che fanno musica”. Racconto cose che mi sono successe veramente, dal “come ci si veste”, al tizio che non ti paga, il volo aereo, i problemi di cachet, i cafoni... Tutto in chiave ironica, anche con qualche affondo, sui problemi che il musicista deve affrontare in questo mondo. Anche il “problema maschile”. Perché il mondo musicale è tutto in mano agli uomini. Senza fare vittimismo. Alla mia maniera». In realtà c’è anche la fantasia oltre all’autobiografia, l’aspetto più propriamente letterario e di finzione. Ma non possiamo dire di più. Lo aspettiamo con grande curiosità.

Debora Petrina si è esibita in grandi teatri metropolitani e in piccole realtà di provincia, in sale da concerto e in circoli associativi e pub. Ciò che conta è la musica. Certo, la sua dimensione ideale è quella dell’ascolto attento, capace di cogliere le sfumature canore e le prelibatezze sonore distribuite ovunque. Ma forse il modo migliore per apprezzare l’artista e la virtuosa è nelle situazioni più scomode, in quei locali in cui si ritrova a fare tutto da sola, con la gente che è lì per incontrarsi, bere, divertirsi, e si ritrova trascinata dai riff e dalle stregonerie musicali di Petrina. Allora capita di vederla con una mano sulla tastiera e un’altra che suona la batteria, con la chitarra tra le braccia e un tappeto di pedali che la aiutano a creare la sua orchestra “da viaggio”. Perché di questo si tratta. C’è solo lei, ma l’impatto sonoro è di quelli che potrebbero riempire uno stadio.

(foto Gigi)

Lo diciamo per esperienza vissuta di recente, in quel di Milano, in un club che le ha offerto un angolo di locale, in cui lei oltre a un concerto ha messo in scena una sorta di cabaret musicale, tra letture, improvvisazioni e una canzone d’amore/odio dedicata al metano (viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, cercando un distributore aperto, è uno strazio senza fine). È qui che si vede il sudore e anche l’amore per questo mestiere che è soprattutto una vocazione (altrimenti chi te lo farebbe fare?). È in queste situazioni scomode che esce il talento sconfinato. In queste occasioni, se si è fortunati, capita di ascoltare anche tracce inedite finite fuori dall’ultimo album - una, Particolare, è molto bella e molto amata da Tiziano Scarpa, che l’avrebbe voluta nell’ultimo disco e ha assolutamente ragione. Ma anche una sua versione minimal e grintosa di Burning Down the House, oppure l’incredibile Asteróide 482 (capolavoro), inserito nel suo album d’esordio autoprodotto. A proposito, se qualcuno avesse una copia di quel primissimo in doma e non sapesse cosa farsene (possibile?), può fargliela gentilmente recapitare? Non ne ha conservata neanche una.

This article is from: