II - Ottobre 2022

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ETCETERA Il giornalino degli studenti Ottobre 2022 - N°2

INDICE

L’EDITORIALE

4 A Calliope di Luca Saracho, 5F

SCUOLA

6 I Soliti Problemi di Stefano Rovere, 5D

POLITICA

9 Donne, Vita e Libertà di Giorgia Tiralongo, 4bb; Sofia Marcantoni, 4H; Veronica Guarisco, 3D

15 Nucleare: risorsa o pericolo? di Gabriele Redaelli, 4C

CULTURA

21 Margaritas ante porcos di Pietro Cattaneo, 4bb

27 Samurai: la mitica figura del Sol Levante di Alessandro Balossi, 5A

30 Ricerca ed analisi storiografica sopra gli eventi e le cause della cosiddetta rivolta cesanese tenutasi nel 1229 di Oliver Zocco, 5H; Silvia Violato, 5aa; Matteo Galbiati, 5H

34 S.A.L.M.O. di Samuele Nava, 4C

37 Il mito di Medusa di Melpomene, 1aa; Maria Simonetta, 1bb

39 Ci pensi mai di Melissa Colombo, 4I

SPORT

46 Pallavolo: gioco di Fantasia di Marco Fantasia, 3E; Luigi Sala, 3cc; Andrea Pirota, 3cc

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OGGI, NELLA STORIA

50 Il 29 ottobre di Tucidide, 5B

ANIMALE DEL MESE

51 La vacchetta di mare di Angelica Pellegrino, 2A

NARRATIVA

53 Spicchi di narrativa di Sofia G.

POESIA

55 Tormento Interiore di Elisa Zaccagni, 3cc

56 Haiku sul mare di Filippo Conte, 3cc

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N° 2 INDICE

A CALLIOPE

Quando non sai che scrivere, che fai? Scrivi di come non sai che scrivere.

Ahi Musa, perché m’abbandonasti solo e lacero nel mio cuore. Ahi Diva, perché tradisti il silenzioso patto nostro, eterno.

E penso e creo e distruggo e impazzisco e tento di rimembrare il suon profano della tua voce; ma fredda è la notte e sterile la mia anima perduto è il vessel, tra i flutti, senza la luna. Furiosa dilania la mia man il foglio accecato tiranneggio le mie dannate carte in vano mesco il glorioso mio crater ricolmo del nulla.

4EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 L’EDITORIALE

L’EDITORIALE

Sol tu sapesti riempir i miei pensieri sol tu sapesti guidar la mia mano sol tu sapesti domar questo candido terso nitor che crudel m’opprime.

Perché m’esaltasti, oh Maledetta, perché mi condannasti a dolori e privazioni?

Perché m’illudesti con la suadente tua voce da puttana di porto.

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I SOLITI PROBLEMI

Salve salve salve! Com’è andata l’estate, majorani? Dopo tre mesi siamo ancora qui. Beh, in realtà non tutti: alcuni di noi in redazione hanno avuto la maturità, e sono passati a scuola migliore, mentre tanti nuovi studenti si sono fatti vedere per la prima volta nei corridoi delle due sedi. E, se mi permettete un attimo di egoismo, in qualche modo mi manca solo una manciata di mesi prima dell’ultima volta che varcherò i cancelli di ques ta scuola che ha promesso tanto e ci ha dato un po’ meno. Una scuola già provata dai problemi, una scuola che ha sofferto molto con il covid e una scuola da ricostruire, con impegno, a partire da noi studenti. Ed è proprio per questo che oggi vi voglio raccontare una storia che forse molti già conosceranno, ma che al trettanti ignoreranno: la magica fiaba della racconta (in)differenziata e dei

pannelli solari del liceo Majorana. In ogni classe dell’istituto sono presenti tre cestini: quello della plasti ca, della carta e dell’indifferenziata. Con l’esclusione di quello della carta, che non è mai stato ritirato e alla fine dell’anno è arrivato pieno da nove mesi di spazzatura, quello della plastica e dell’indifferenziata sono ritira ti regolarmente. È lo stesso per quelli posizionati sui corridoi, blu e gialli, svuotati subito dopo le lezioni ogni giorno dell’anno. Se però qualcuna di voi vecchie volpi ha mai fatto caso ai carrelli del perso nale ATA, avrà senz’altro notato che, nonostante siano presenti due supporti per i sacchi, ne viene posizionato solamente uno. E i nostri bei colorati cestini sono completamente inutili, in quanto tutta la spazzatura viene but tata assieme, indiscriminatamente dal cestino utilizzato. Facile fare la dif-

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ferenziata così, no? Trovo alquanto ironico il fatto che negli scorsi anni i rappresentanti di istituto e chi per loro si sono mossi per cambiare i cartelli sui cestini, perché imprecisi, mentre la scuola se ne fregava altamente, e continuava ad agire come se fossimo nel secolo scorso. Soprattutto adesso, che il disegno di legge Salvamare è stato ufficializza to: dalle parole dell’ex ministro della transizione ecologica Sergio Costa, “tutte le scuole dovranno fare raccolta differenziata, con l’aiuto degli studenti”.

Ma cerchiamo di capire, una volta tan to, di chi è la responsabilità. Vi avviso, dovrò entrare nel merito per qualche riga, seguitemi: per legge, il consiglio di istituto si occupa dell’adozione del regolamento interno di istituto [T.U. 16 aprile 1994, n. 297, in specie l’art. 10, comma 3, lett. a], dove leggiamo che il personale ATA si occupa della pulizia e varie secondo l’ordine del DSGA, direttore dei servizi, che esprime le richieste della presidenza [regolamento scolastico, in specie art. 32, lett. d]. In quanto il sito scolastico non è aggiornato con nuovi docu menti a riguardo da almeno 4 anni, possiamo risalire solo alla direttiva

SCUOLA

DSGA del biennio 2017/18, dove si legge che il personale ATA risponde al Piano delle attività del personale ATA, documento di cui però non si ha trac cia. Inoltre, la responsabilità del controllo delle attività ricade sempre sul DSGA, incarico la cui responsabilità è facilmente rintracciabile. È tutto pubblico, nero su bianco, sul sito dell’istituto.

Insomma, la responsabilità di chi è? Non si può dire con certezza: non abbiamo il documento chiave, quindi potrebbe essere una richiesta mancata da parte della presidenza, oppure un errore di controllo da parte del DSGA. Per concludere la questione differenziata, vi pongo una domanda: secondo voi, per quale ragione nella nostra scuola non esistono cestini dell’umido? Sarebbero utili, soprattuto nei pomeriggi dove si può stare a scuola per consumare il pranzo prima delle attività pomeridiane. La domanda la pongo a voi, perché ho tentato di volgerla alla Gelsia Ambiente, che però mi ha completamente ignorato. Ho inviato una mail al recapito nazionale, senza risposta. Anche questo rimarrà un mistero quindi. Ma forse dovremmo parlare anche di

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un’altra questione, a mio parere altret tanto assurda. Non tutti sanno che, fuori dalla nostra amata sede 2, sono presenti dei bei pannelli solari. Sono visibili dal secondo piano, sporgendosi un po’ dalla finestra, ma non sono come ce li si aspetta: sono infatti in credibilmente sporchi di terra, smog e polvere. Tanto che ci si può chiedere se siano mai stati puliti, dalla costruz ione della succursale, nel 2010. Per non pensare ai cavi, che hanno dovuto sopportare 12 anni di sole, acqua, neve, grandine, oltre che smog e vento. La manutenzione a chi spetta? Su questo ho trovato meno, ma potreb be essere responsabilità del comune

di Desio o della provincia di Monza e Brianza. Sarebbe interessante conoscere la produzione effettiva di questi pannelli, per capire se sono perlome no in funzione. Ma forse anche questa questione è destinata a rimanere l’ennesimo mistero inspiegabile della nos tra scuola.

La mia speranza è che, chiunque siano i prossimi rappresentanti di istituto, si occupino seriamente di problemi di questo genere, senza fermarsi solo ai volantini e alla propaganda elettorale, ma impegnandosi attivamente per il raggiungimento di obiettivi concreti.

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DONNE, VITA E LIBERTÀ

Quante volte, nel corso della storia, abbiamo sentito parlare di libertà? Sicuramente tutti ricordiamo le grandi battaglie del passato, combattute da un popolo per affermare la propria autonomia contro un altro: era proprio la volontà di mantenere una distinta identità culturale e politica che muoveva i greci – e che li ha portati alla vittoria – contro i persiani, che spingeva i comuni dell’Italia del Nord, nel Medioevo, a non piegarsi alle pretese di Federico Barbarossa; lo stesso accadeva nella Francia della Rivoluzione o nell’Italia del Risorgimento. Tutti questi avvenimenti della storia sono accomunati da un fattore importan tissimo, la libertà, di cui oggi, grazie ai sacrifici del passato, noi godiamo pienamente. E spesso non ne siamo nemmeno consapevoli. Ogni vestito che scegliamo di indossare, in ogni luogo verso cui ci incam

miniamo, qualsiasi carriera vogliamo intraprendere, possiamo farlo senza che nessuno ci obblighi a tornare sui nostri passi. Abbiamo il privilegio di poter far sentire la nostra voce e di non essere condannati per le nostre opinioni. Purtroppo, come abbiamo visto, la realtà vissuta fino ad adesso dalle donne iraniane è ben diversa dalla nostra, e in questo momento stanno combattendo proprio quella stessa battaglia che i greci, i milanesi, i francesi, gli italiani combatteroni nei secoli scorsi: gridan do a perdifiato per le strade, pestando i piedi per terra, sopportando in silenzio le sofferenze fisiche, ma non le ingiustizie e gli abusi sociali, queste donne stanno lottando per la loro libertà, prima su tutte la scelta autonoma di indossare il velo, senza rinunciare alla fede religiosa, rendendo così l’hijab, da simbolo di imposizione, uno

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POLITICA

strumento che rappresenta la libertà di scelta. Non a caso il motto delle proteste è diventato “Donne, vita e libertà”, precedentemente coniato dal movimento attivista per la liberazione delle donne curde (un’altra questione spinosa). La situazione è, però, molto più complessa di così. Infatti non sono solo donne a protestare, bensì anche gli uomini si sono uniti alla ribellione contro un sistema socio-politico che limita le libertà di ciascuno e non lascia spazio al singolo. E questo dato ci conferma il fallimento dell’imposizione educativo-ideologica della Rivoluzione Islamica, che ha deformato gli insegnamenti di un’intera religione per controllare e tenere sotto scacco i fedeli. Le proteste, infatti, sono esplose come fiumi in piena anche nelle scuole, dove le ragazze strappano dai libri le foto di Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica e dell’attuale leader Ali Khamenei, e sono approdate addirittura sui social: basti pensare che su Twitter l’hashtag “Mahsa Amini” è ri masto in cima alla classifica per diversi giorni, ma viene da chiedersi se, come spesso accade in queste situazioni, i canali di comunicazione con l’estero non verranni presto ostruiti dal re-

gime.

Tutto questo, come si è detto, è il risultato di un accumulo di sofferenze che dura da più di quarant’anni: “La rivoluzione in Iran ha 43 anni. L’8 mar zo 1979, appena un mese dopo il succes so della Rivoluzione iraniana, le donne scesero in piazza per protestare contro l’hijab e il ripristino del codice di ab bigliamento obbligatorio da parte deg li ayatollah. Avevo 13 anni. Ma questo scontro tra le donne del Paese e il regime è il più antico e duraturo in Iran. E credo che le donne stiano vincendo”, dichiara la scrittrice iraniano-americana Roya Hakakian. Già nel 2009, il Movimento Verde era sceso in piazza per protestare contro i presunti brogli elettorali di quello stesso anno, e anche in quest’occasione la vittima-simbolo della dura repressione da par te del governo era una donna, Neda Agha-Soltan, brutalmente uccisa dalla polizia iraniana. Ora, invece, sulla lapide di Mahsa è incisa la scritta: “Name-to ramz mishavad”, “il tuo nome diventerà chi ave”, e lo è già tutt’ora, perché il ricordo di una giovane vittima innocente infervora gli animi di tutti noi che ci commuoviamo per questi fatti pur non vivendoli dall’interno, ma spinge

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soprattutto quelle persone a lottare per cambiare le cose e costruire una società che permetta ad ogni donna di scegliere liberamente. Le lotte e le rivoluzioni citate prima sono spesso associate a grandi nomi della storia. C’è chi sostiene che le at tuali proteste in Iran, invece, non abbiamo un leader unico che faccia capo per tutti, ma che provengano dal grido comune che rivendica una società più inclusiva, e che per questo moti vo abbia buone probabilità di durare ancora a lungo. Per questo bisogna ricordarsi che, anche se sembra un po’ utopico, le grandi rivoluzioni hanno successo grazie alle “piccole” persone e al loro sacrificio.

Da sempre, rivoluzioni così radicali portano con sé scontri e sanguinose repressioni che eliminano chi si batte per i diritti propri ed altrui: Asra, uccisa perché non cantava l’inno, Ilmaz, arrestata perché senza velo e Elnaz Rekabi, della quale, dopo che gareggiò in una gara di arrampicata ai Campionati asiatici in Corea del Sud a capo scoperto, si sono perse le tracce. Loro sono solo tre delle tantissime iraniane che sono scese in piazza a protestare in nome della libertà, ma che la polizia morale ha fermato.

In realtà, l’obbligo di indossare il velo rappresenta solo la punta dell’iceberg di un Paese che discrimina il 50% della popolazione e che sta affrontando la terza ondata di proteste liberali degli ultimi anni, dopo quelle del 2009 e 2019 precedentemente citate. L’Iran, che è stato conosciuto con il nome di Persia fino al 1935, porta sulle spalle l’eredità dell’impero più vasto della storia per percentuale di popolazione su cui governava (stimata essere attor no al 44% dal Guinnes World Record) e una struttura sociale fortemente patriarcale.

Nel dicembre del 1925, dopo un periodo di semi-anarchia a seguito della Prima Guerra Mondiale, Reza Khan, un comandante militare, riuscì a sconfiggere i capi tribali e si proclamò scià, stabilendo l’islam come reli gione ufficiale e fondando la dinastia dei Pahlavi, che per circa sessant’anni ha governato l’Iran. Grazie a lui, il Paese ha subito una grande modernizzazione economica e culturale ispirata a modelli occidentali; tuttavia l’estra zione del petrolio da parte degli stranieri e il tentativo dello scià di importare un nuovo stile di vita ha creato un forte risentimento verso Europei e Americani. Dopo l’invasione mili-

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tare di Regno Unito e Unione Soviet ica nel 1941, Reza Khan fu costretto ad abdicare in favore del figlio Muhammad, il quale sostituì il regime di monarchia costituzionale con un regime autocratico e, interrotta la linea di moderatismo del padre, cominciò a operare una stretta autoritaria. Avendo eliminato ogni partito di opposizione politica, l’unico contestatore fu l’Ayatollah Komheini, guida degli sciiti, che ricevette l’appoggio di praticamente tutta la popolazione: il 30 marzo 1979 un referendum sancì la nascita della Repubblica Iraniana con il 98% dei voti. Di repubblica, però, l’Iran ha avuto soltanto il nome, in quanto era ed è tutt’ora fondata sul rispetto della sharia: tra le tante leggi, il gioco d’azzardo, la prostituzione e l’alcool vengono banditi, la persecuz ione verso gli omosessuali e chiunque sia contrario alla legge musulmana si fa spietata mentre alle donne, che neg li Stati industrializzati acquisiscono sempre più diritti, non viene concessa alcuna emancipazione. Eppure, a ben pensarci, la tradizione di indossare velo non è una prerogativa esclusivamente musulmana: basti pensare ad un affresco quattrocentesco, alle raffigurazioni della Vergine

Maria o alle novelle medievali sull’am or cortese. Le patrizie romane lo indossavano per rimarcare il loro status sociale, le dame di corte se ne adorna vano timidamente il capo come simbolo di riserbo e purezza, e il comun denominatore è sempre uno: rendere “sacre” le parti del corpo che vengono coperte, non solo le teste, ma anche le mani guantate e le gambe inguainate in calze di seta. Con l’avvento della nuova religione, si cercò di promu overe una società meno gerarchica e più equa, dunque anche le schiave, a cui il velo era stato proibito fino a quel momento, poterono finalmente velarsi come le altre. Il suo uso non è obbligatorio, non esiste nel Corano uno scritto che imponga l’obbligo di velarsi il capo, ma è possibile trovare la raccomandazione per le donne di coprire le “parti belle” e per gli uomini di coprire invece le gambe, per aderire ad un decoro pubblico e dignitoso della persona stessa. L’obbligatorietà del velo in Iran risale alla Rivoluzione islamica del 1979, guidata dall’Ayatollah Khomeini: l’hijab, lungi dall’essere semplicemente aderenza a un dettame religioso, divenne il simbolo politico della resistenza contro il regime monarchico

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dello scià Muhammad Pahlavi, per contrapporsi al modello sociale e cul turale filo-occidentale e alla modernizzazione sostenuti dal sovrano, che negli anni Trenta aveva stabilito per legge un dress code, vietando l’uso dell’hijab. Nei primi anni Ottanta, al tempo del la guerra contro l’Iraq, l’imposizione del velo per tutte le donne, iraniane e straniere, indipendentemente dalla loro religione, diventa invece un potente strumento di controllo della vita delle donne da parte delle autorità, una forma di esercizio del potere che non ha nulla a che fare con il credo personale.

Ma mentre in Iran le giovani donne iraniane rischiano la loro vita per togliere il velo e riconquistare la loro libertà, non troppo lontano da noi, in Francia, le donne musulmane protestano per rivendicare i propri diritti indossando il velo, vietato in diversi contesti con il fine di preservare la laicità dello stato. La Francia, infatti, considerata il paese laico per eccellenza nonostante sia sede della più grande minoranza musulmana d’Europa, ha da sempre avuto un rapporto di controversia con la religione e i rispettivi simboli indossa-

ti in pubblico: alcune restrizioni erano già state imposte a Parigi, ad esempio, dove dal 2004 è proibito indossare il velo islamico nelle scuole, mentre nel 2010 venne condannato anche il niqāb nei luoghi pubblici. Nonostante il velo sia parte integrante della cultura islamica, secondo lo stato esso non è conforme ai valori della repubblica francese, che continua imperterrita a limitare la libertà delle don ne musulmane imponendo continue restrizioni: di recente è stato proibito di indossare l’hijab anche alle atlete, e addirittura Marine Le Pen, politica e deputata all’assemblea nazionale francese, esigeva di proibire l’uso del velo negli spazi pubblici, sanzionando con una multa le donne che lo avrebbero indossato.

Le proteste delle donne francesi di religione islamica non sono tardate ad arrivare: insorte quasi immediata mente , sono state portate avanti soprattutto da ragazze giovani, forti e determinate, che sono riuscite ad ot tenere non solo visibilità, ma anche sostegno di alcuni influencer dei social media, riuscendo così ad avviare una campagna di tendenza con l’hashtag “hands off my hijab”. La diramazione della ribellione è evidente, sempre più

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donne - e anche uomini - stanno diffondendo la loro parola, proclamando ad alta voce la loro indipendenza. Il velo è un’espressione della loro libertà, della devozione verso il profeta Maometto; indossare l’hijab fa parte della loro identità: per questo motivo si sentirebbero umiliate se costrette a toglierselo. Le proteste iraniane contro l’obbligo del velo, invece, sono di tutt’altra na tura e dettate dall’oppressione politica attuale in cui versa lo stato: l’argomento di lotta è sempre il medesimo, tuttavia il contesto storico-politico della nazione non solo incita le persone a mettere in atto un cambiamen to, ma trasforma completamente la loro modalità di agire a seconda della situazione in cui si imbattono, come avviene in questa specifica circostanza: sia l’imposizione che il divieto del velo generano scontri e ribellioni - di natura opposta, è vero - ma in entrambi i casi l’obiettivo della perpetua lotta che da anni caratterizza entram be le nazioni è uno solo: rivendicare la propria libertà.

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NUCLEARE: RISORSA O PERICOLO?

In questo ultimo periodo abbiamo sentito molto parlare di energia atomica, in Italia e all’estero (in modo parti colare in Ucraina a causa delle contese sulla centrale di Zaporizhia, l’impianto con la maggiore produzione di elettricità d’Europa), perciò penso sia necessario fare un po’ di chiarezza sul tema.

Innanzitutto, una centrale nucleare è uno stabilimento dove si produce energia elettrica usando come combus tibile i nuclei di atomi molto pesanti (come l’uranio 235, torio e plutonio) che, colpiti da neutroni ad alta ener gia si rompono, sprigionando grandi quantità di energia. Oltre a questa, danno origine ad altri nuclei (più leggeri) e ad altri neutroni che poi andranno a colpire altri nuclei pesanti, innescando così la cosiddetta

“reazione a catena” – no, non il programma trasmesso su Rai 1, bensì un processo che si ripete in sequenza. La centrale nucleare è composta da diverse parti, la cui fondamentale è il nocciolo: qui avviene la fissione del combustibile nucleare sagomato in barre. Queste sono immerse in una sostanza moderatrice, come l’acqua pesante, che rallenta la velocità dei neutroni; la presenza delle delle barre di controllo, disseminate in tutto il nocciolo, servono a ridurre il numero di tali particelle. La fissione produce energia, sotto for ma di calore, che scalda i tubi circostanti dove scorre acqua, che si trasforma in vapore che a sua volta fa ruotare le turbine del generatore di corrente, collegato poi a un trasformatore e alla rete elettrica. E infine si ha la parte

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caratteristica in tutta la struttura del la centrale, che è la torre di raffreddamento, per abbassare la temperatura dell’acqua che verrà poi riutilizzata nel processo. L’ufficiale inventore di tale procedura è Enrico Fermi, che durante il proget to Manhattan costruì il primo reattore sperimentale; ma se l’inventore è italiano, perché non abbiamo centrali nucleari in Italia?

Nel nostro Paese lo sfruttamento dell’energia nucleare ha avuto luogo tra il 1963 e il 1990. I cinque impianti, quattro funzionanti, (in Piemonte, in Emilia-Romagna e due in Lazio), e uno che doveva essere costruito in provincia di Viterbo, sono stati chiusi o cancellati a seguito del referen dum del 1987, e quello abrogativo del 2011, con cui sono state abrogate diverse disposizioni che favorivano l’insediamento di centrali nucleari. La prima centrale realizzata fu quella di Latina, alla quale seguirono quella si Sessa Aurunca, Trino e Caorso, iniziata il 1° gennaio 1970. In totale questi quattro impianti contribuivano alla produzione nazionale del quasi 5%, e al 1966 l’Italia era terza per pro duzione di energia atomica dopo Stati Uniti d’America e Inghilterra.

Poi giunse la crisi petrolifera del 1973, quando il prezzo del greggio e dei suoi derivati schizzò alle stelle, e l’Italia fu tra le nazioni più colpite, siccome nel decennio precedente la quota di energia elettrica ricavata dall’olio combustibile passò dal 23% (1963) al 59% (1973).

Dopo la crisi l’Enel si accorse della vera vulnerabilità del sistema ener getico italiano e, perciò, propose un ambizioso piano che prevedeva la costruzione di 10 centrali ciascuna con due reattori da 1000 MW. In vista dell’ampliamento del piano nucleare, l’Italia contribuì alla costruzione di un impianto per l’arricchimento dell’uranio in Francia, oltre a pre-acquistare uranio arricchito, che poi rivendette in perdita. Quindi a partire dal 1976 vennero potenziate le centrali ma, a seguito del l’incidente di Three Mile Island (USA) del 1979, le centrali vennero chiuse per migliorarne la sicurezza. E arriviamo al fatidico anno del 1986 quando, a seguito dell’incidente nu cleare di Cernobyl, l’Italia intera fu sconvolta e si fece largo l’idea che il nucleare, in tutte le sue forme, era una sventura, infatti un anno dopo, il referendum abrogativo, che proponeva

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di fermare la produzione di energia elettrica dal nucleare, ha avuto uno schiacciante successo del 80%. L’abbandono del nucleare portò a un maggiore utilizzo di fonti fossili, soprattutto gas e petrolio, ovviamente di importazione straniera. Questo, oltre al non estrarre nel territorio gas naturale, è il principale avvenimento che ci ha portato alla situazione attuale, cioè di totale dipendenza da enti stranieri per l’approvvigionamento di metano. Ma cosa è successo veramente a Cernobyl, e perché?

La centrale sovietica non era solo uno stabilimento di produzione di energia: infatti si solevano condurre esper imenti anche di carattere militare, per questo motivo si accese il reattore numero 4 ad ora tarda per condurre un esperimento in modalità manuale, disattivando i sistemi di sicurezza e limitando il numero di barre di controllo presenti nel nocciolo a 6 (quando il limite imposto era di 15). Queste sono le cause umane, ma numerosi altri fat tori hanno contribuito in maniera più o meno grande, per esempio le barre di controllo erano rivestite di grafite, che inizialmente provoca un incremento della reazione, ma soprattutto la mancanza della struttura di conten

imento del nocciolo. Questo avvenimento in totale provocò quasi 60 morti diretti (dall’esplosione o da esposizione alle radiazioni) ma le vittime delle radiazioni sono stimate tra 4000 e 60000, anche se a questo numero andrebbero aggiunte le quasi 5000 tra gli abitanti delle zone europee contaminate in misura inferiore. Questo fu il disastro nucleare definito come il più grave, che in Italia portò all’abbandono dell’energia atomica, ma un secondo incidente è avvenuto, questa volta in Giappone: l’inciden te di Fukushima. l’11 marzo 2011 il paese del sol levante fu colpito da un violentissimo terremoto, che ha subi to fatto spegnere i reattori e acceso il sistema di raffreddamento ausiliario a diesel, siccome il sisma aveva stacca to la corrente a quello regolare. Il vero problema è stato quando uno tsunami di 14 metri ha scavalcato il muro di 9 metri allagando il piano dove si trovava il generatore. Dunque, 3 generatori si sono fusi, ma essendoci la struttura di contenimento non uscirono le radiazioni direttamente dal nocciolo; d’altra parte, le alte temperature provo carono la formazione di idrogeno che fece reazione con del materiale fissile che era sul tetto a raffreddare. Il risul

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POLITICA

tato fu uno spargimento di radiazioni in aria e acqua notevole, ma pur sempre un decimo di quelle di Cernobyl. Le vittime dell’incidente furono nulle, a causa della esposizione troppo bassa dalle radiazioni. Su internet si trovano moltissime informazioni sul tema ma quali sono le FAQ (frequently asked questions)?

Ma una centrale non rischia di esplodere come una bomba atomica?

In realtà no. L’uranio usato nelle centrali è industriale, cioè fissile al 5%, mentre quello inserito nelle testate lo è al 95%. Inoltre la centrale, con tutti gli apparecchi di sicurezza, non rischia nemmeno lontanamente di esplodere come un missile atomico, nemmeno se nella centrale ci lavorassero delle scimmie particolarmente stupide. Le scorie dove vanno a finire? Ogni anno produciamo rifiuti radioattivi da medicina, ricerca e industria, ed essi sono classificati tra i rifiuti pericolosi insieme ai rifiuti chimici. Le scorie radioattive si dividono in a bassa, media e alta intensità; ogni anno una centrale nucleare produce quasi 3 metri cubi e vengono inseriti in contenitori schermati, che poi vengono portati in depositi temporanei (dei capannoni) in attesa di una siste

mazione definitiva. A differenza dei rifiuti chimici, però, quelli radioattivi decadono e diventano meno perico losi, possono essere riciclati e, per la stessa quantità di energia prodotta, sono nettamente di meno di quelli di una centrale a gas.

Il nucleare è controllato in ogni passo, dalla costruzione alla gestione, e deve superare numerosi test e verifiche seguiti da osservatori internazionali; si tratta di controlli costanti, ben diversi da quelli sporadici di manutenzione che coinvolgono strade e ponti di in teresse solo nazionale. Infatti l’IAEA (International Atomic Energy Agency) garantisce che tutto sia svolto nella maniera più corretta e sicura possibile. Ma se la attaccano si rischia molto. Bisogna partire dal presupposto che una centrale nucleare non è un obbiettivo strategico per dei bombardamenti, anche perché con una fuga di radiazioni rischia di ritorcersi contro, e in un paese ci sono dei punti attaccabili molto più facilmente e molto più vulnerabili, come centri produttivi e centri cittadini; a meno che non venga lanciata una bomba nucleare e allora non c’è più problema se un edificio è strategico o no, tanto butti giù tutto. Ma nell’ultimo caso rischia di

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essere molto un pericolo perché con la situazione attuale potrebbe portare a una guerra atomica, ma quello è un altro discorso. È possibile usare solo le rinnovabili?

Le fonti rinnovabili sono necessarie per uno sviluppo sostenibile ma la loro efficienza dipende dalle condizioni di ogni Paese (soprattutto per quanto riguarda geotermico e idroelettrico) e dalle condizioni atmosferiche (come nel caso di solare e eolico). In Italia l’idroelettrico arriva a produrre il 17% del fabbisogno ma non può crescere più di molto, le uniche ancora largamente sfruttabili sono fotovoltaico e eolico, che però sono intermittenti e, per avere una certa autonomia, necessitano di una mole di batterie molto costose e attualmente ancora inefficienti Inoltre se iniziassimo a usare solo foto voltaico e eolico per coprire il restante 83% del fabbisogno italiano, si inizierebbe ad avere un impatto ambien tale considerevole soprattutto perché le fonti sopra citate richiedono di una grande quantità di materiali soprattutto, come detto, per le batterie. In definitiva, quanto è rischioso e con veniente il nucleare? questo grafico rappresenta i morti per

terawatt ora di energia prodotta (i dati variano in base a anno di raccolta e in base alla zona) e sono compresi tutti i disastri che ci sono stati nella storia dell’uomo di ogni tipo di fonte di energia. se notiamo il carbone, petrolio e bio massa hanno causato più morti in assoluto, anche a causa dei numerosi secoli di utilizzo, ma quello che ci colpisce di più è che il nucleare ha un numero di morti di 0,07, poco superiore all’eolico, idroelettrico e fotovol taico.

Questi dati ci sembrano contro-intuitivi perché si parla poco dei vari disastri delle altre fonti (come quello del Vajont o di Banquiao) e delle emissioni a parità di energia prodotta (non solo nella produzione di energia ma comprendendo tutte le fasi della produzione a partire dalla produzione dei materiali fino alla costruzione dello stabilimento.

Ed è proprio sulle emissioni che vi è una grande differenza tra l’usare solo fonti rinnovabili, e fonti rinnovabili insieme al nucleare. Infatti l’impatto ambientale, sia visivo che di gas serra, sarebbe molto superiore alla seconda opzione e tra l’altro anche a un costo più alto (secondo l’Agenzia Inter-

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nazionale dell’Energia quasi il 35% in più).

Il nucleare fa paura perché ci appare ancora misterioso, per questo ci ricor diamo di quei due disastri successi in 70 anni di attività mentre non abbiamo quasi mai sentito dell’incidente idroelettrico di Banquiao, con stime che vanno dalle decine di migliaia a 240000 vittime; evento più unico che raro, come Chernobyl ma molte volte più devastante, eppure non abbiamo abbandonato l’idroelettrico, nonos tante incidenti mortali come il Vajont, il Gleno e il Molare.

Le centrali a fonti fossili versano nell’ambiente tonnellate di sostanze tossiche che rimarranno dannose per l’eternità eppure ci preoccupiamo di poche scorie stoccate in barili a prova di bomba che in 70 anni di attività di un Paese occupano un solo capan none.

Ci spaventa l’eventualità, statisticamente bassa, della fuoriuscita di ra diazioni poiché invisibili, mortali e inquinanti, ma non ci spaventa la certezza dell’emissione quotidiana di gas inquinanti, anch’essi invisibili e mortali (come si evince dal grafico), cau sa non solo di malattie ma anche del riscaldamento climatico, a sua volta

causa di eventi catastrofici sempre più pericolosi.

Dopo tutte queste considerazioni vorrei concludere con una frase di Albert Einstein, scritta un po’ di tempo fa ma ancora attuale: “il vero problema non è l’energia nu cleare, ma il cuore dell’uomo”

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MARGARITAS ANTE PORCOS

“Voglio amare questi Americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte.”, Dichiara Mr. Rosewater. Come dite? Troppo in medias res per il primo articolo dell’anno? Ok allora, facciamo un passo indietro. S’immagini un uomo sulla quaran tina, gli si regali un passato familiare radicato nella storia, nel sistema statunitensi: un “classico” avo di qual che generazione precedente che col sudore, l’intraprendenza e la giusta dose d’espedienti non del tutto lega li – insabbiati nel tempo – accumula una ricchezza sproporzionata, magari a discapito di migliaia d’altri cittadini. Il perfetto American Dream. Ah no?

Dunque, si ponga ora che questo nostro quarantenne erediti dal padre la compagnia dell’ipotetico antenato, la Fondazione Rosewater, e disponga d’un capitale di denaro pressoché illimitato e della libertà di farne ciò che vuole. Ecco a voi, miei carissimi let tori di EtCetera, il protagonista della nostra storia, Eliot Rosewater. Ecco a voi le nostre premesse. E cosa credete succederebbe, se dopo un passato da “figlio di papà”, gli eroici trascorsi della Seconda Guerra Mondiale e la prospettiva d’un roseo futuro imprenditoriale, Eliot Rosewater decidesse senza apparente motivo di cimentarsi nella più sacrilega pratica dell’epoca moderna, tanto da allontanare da sé i propri cari ed attirare

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uno stuolo di cùpidi avvocati contro di sé? Come? No, no! Non parlo di malavita, droga, pizza con l’ananas o simili aberrazioni. La sua colpa è ben peggiore, Eliot Rosewater si consacra alla peggiore delle piaghe possibili. Eliot Rosewater decide di a-ma-re incon-di-zio-na-ta-men-te!

E così questo nostro ereditiero rinuncia a qualsiasi attrazione della vita viziosa, luccicante ed elitaria che lo attendeva, e si rifugia invece in uno sporco paesino dell’Indiana, per la precisione nello scialbo e incrostato ufficio da cui, ad ogni ora del giorno e della notte, presta soccorso ai compaesani. Ad ogni ora del giorno e della notte, Mr. Rosewater riceve alcolisti, prostitute, analfabeti, ed ogni specie di lebbrosi del XX(I) Secolo. Ad ogni ora del giorno e della notte, regala in genti somme di denaro, prescrive cure mediche finanziate dalla Fondazione, dispensa consigli e dilapida patrimo ni per un proposito così stupido e démodé: fare del bene. A degli illetterati irriconoscenti!

Che arroganza, che sfacciataggine. Chi crede di essere, San Francesco? Madre Teresa? “(Mr. Rosewater,) Una delle principali attività di questo studio consiste nel prevenire l’esercizio della

santità da parte dei nostri clienti” si sentirà dire dai propri consulenti lega li e finanziari il santone. Ma di certo non resterà impunito: già abbandonato dalla moglie e dal pa dre, il lestofante sarà di comune accordo creduto fuori di senno, ciò che il giovane azzeccagarbugli Norman Mushari tenterà di dimostrare a corte per sfruttare un cavillo legale e rubare parte del patrimonio. Tutti, ad ogni modo, la penseranno una causa già vinta.

L’unica eccezione? I nostri moderni lebbrosi, naturalmente. Vi s’è appena spalancato davanti il mondo di Perle ai Porci, traduzione romantica d’un ben più anonimo ed anglosassone God Bless You, Mr. Rosewater.

E vi dirò con una preterizione sincera e fuor d’ogni retorica – cosa non tanto ossimorica quanto potrebbe parere di primo acchito – cosa stupisce di questo romanzo, pubblicato dallo statu nitense Kurt Vonnegut nel 1965.

Infatti, ciò che rimarrà impresso indelebilmente nella memoria del lettore non sarà certo lo stile inconfondibile dell’autore, asettico e satirico, che trasuda ironia dietro un – appositamente – malcelato velo d’oggettività.

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Non la creatività dell’intreccio, che su un semplice scheletro narrativo genera amare conversazioni, distopicamente realistiche – per rimanere sul tema di ossimori, ahimè, soltanto apparenti –e ricorda aneddoti d’impatto schiacciante: “Be,” disse uno finalmente “non è mica una vergogna essere poveri.” (…) “No,” disse un altro, completando la battuta, “ma tanto varrebbe che lo fosse”. E non sarà nemmeno la profondità rappresentativa con cui i personaggi – dipinti quasi mai come buoni o cat tivi, quasi sempre solo in quanto persone – ci si propongono a vincersi la postazione più indelebile tra le grinze dei nostri ricordi: non la moglie Sylvia, straziata dal senso di inutilità, di vergogna per la ripugnanza che le ispi rano i poveri (…), e da un desiderio sui cida d’ignorare questa ripugnanza, di tornare a Rosewater, di morirvi al più presto per una buona causa; né gli abitanti d’una pretenziosamente utopica cittadina d’ereditieri del Rhode Island, oppressi dalla propria stessa ricchezza, convinti che tutto ciò che c’è di bello al mondo è un regalo fatto ai poveri da loro o dai loro antenati, compromessi nella loro ignorante e/o omertosa complicità al più annientante dei cap-

italismi americani; nemmeno, infine, la messianica figura di Kilgore Trout, misconosciuto scrittore di moltissimi volumetti fantascientifici, il quale, attraverso le proprie opere, bizzarre ma puntuali, e le proprie parole, razionali ma oracolanti, sembra col senno di poi essere l’unico vero alleato del nos tro imprevedibile, ingenuo e geniale – se le false contraddizioni vi stufano, battete un colpo – Mr. Rosewater. Sarà infatti il contenuto a prevalere sulla – pur impeccabile – forma di Perle ai Porci, saranno i retrogusti che ci si attaccheranno al palato dopo la – garantisco, per tutti – vorace lettura: l’inquietudine per il sistema in cui ci si scopre incastrati, la speranza per la scoperta d’un’alternativa, l’ironica amarezza per la contrapposizione tra verosimile e reale che c’impedirà d’esser noi stessi un Eliot Rosewater. La rivoluzione di Vonnegut consiste nell’inscenare una scelta d’amore così semplice e genuina, da assumere paradossalmente dimensioni esorbitanti e sovversive. Si tratta di ridurre tutto ad una minima indispensabile missione: ama. Ci dirà una lettera, firmata Il fu Eliot Rosewater: “Sii generoso. Sii buono. Puoi ignorare tranquillamente le arti e le scienze. (…) Sii un amico dei

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poveri, sincero e premuroso”. Chiaramente, tutto questo non ci sembrerà nuovo. Questo stesso “fu Eliot Rosewater” dirà: “Ma, per l’am or del cielo, (…) nessuno può lavorare con i poveri senza inciampare di tanto in tanto in Karl Marx; o senza incia mpare nella Bibbia, se è per questo”. Ma Eliot non si vota a nessun Credo, nessun ideale fuorché uno solo, quello dell’amore, al punto da superare, apparentemente, quello richiesto dal lo stesso Vangelo: “Non gettate le cose sante ai cani e le perle ai porci, perché non le mettano sotto i piedi e vi si vol gano contro per sbranarvi.” (Mt 7, 6), ci viene ricordato nel Discorso della Montagna da nientemeno che Gesù Cristo; da questa frase derivò poi quel Margaritas ante Porcos che non è un ballo sudamericano o un cocktail eso tico, bensì la locuzione che, ritradotta, ci regalerà il titolo del nostro romanzo.

Ma Mr. Rosewater non se ne cura, e sperpera senza rimorso le proprie perle, tanto più contento quanto più irriconoscente ed abusatore sarà il destinatario, purché queste gli siano d’aiuto. Non ha problemi con quel che faranno cani e porci del suo pa-

trimonio, ed anzi ama gli animali. “

Come amare la gente che non serve a nulla? Se non riusciamo a trovare delle ragioni e dei metodi per far tesoro degli esseri umani in quanto esseri umani, tanto varrebbe, com’è stato suggerito così spesso, cancellarli dalla faccia del la Terra.”, si spingerà a dichiarare ad un certo punto. L’amore di Eliot insiste tanto nell’essere incondizionato, che si leggerà del suo scettico e incomprensivo genitore: “Se Eliot vuole amare tutti, qualunque cosa siano, qualunque cosa facciano, allora quelli di noi che amano speci fiche persone per specifiche ragioni farebbero meglio a trovarsi una parola nuova.” Alzò lo sguardo a un quadro a olio della sua povera moglie, “Per esempio… io amavo lei più dello spazz ino, il che mi rende colpevole del più innominabile dei delitti moderni: la discri-mi-na-zio-ne”. Sono certo che molti di voi, a questo punto, avranno già capito quanto non sia così scontato, così facile parteggia re per il nostro ormai tanto caro quarantenne. Sono certo che molti di voi, a questo punto, capiranno la portata della rivoluzionaria insensatezza, della verosimile inattuabilità del suo agire. E di rivoluzione, infatti, si può parlare

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anche in senso più convenzionale. Non vi sarà di certo risultato difficile, infatti, intuire anche la chiave di lettura socio-politica che questo romanzo – che ricordo avere i natali nell’America dei ’60 – si sforza di nascondere tanto quanto Autoguidovie si sforza di garantire la puntualità delle proprie linee.

La novità? L’innocenza. “Mi sembra terribile il modo in cui la gente, in ques to Paese, rifiuta di spartirsi equamente le ricchezze. Io trovo che è un governo senza cuore quello che permette a un bebè di nascere essendo già il padrone di una grossa fetta del paese, come sono nato io, e di lasciare che un altro bebè venga al mondo nudo e crudo. Il meno che un governo potrebbe fare, secondo me, è dividere equamente le ricchez ze tra i bebè. La vita è già abbastanza dura senza che la gente, per i soldi, debba farci anche una malattia. Ce ne saranno in abbondanza per tutti, in questo Paese, se faremo meglio le par ti.”

La veemenza? L’ironia. “Se il fiume Denaro non esiste, come ho fatto io oggi a guadagnare diecimila dollari solo grattandomi e sonnecchiando, e rispondendo ogni tanto al telefono?” “È ancora possibile, per un Americano,

costruirsi una fortuna.” “Certo, pur ché quando è ancora giovane qualcu no gli dica che il fiume Denaro esiste, che in questo non c’è nulla di giusto, che farebbe solo bene a scordarsi del duro lavoro, del criterio meritocratico, dell’onestà e di tutte quelle cagate, e ad andare dove scorre il fiume. ‘Va’ dove si trovano i ricchi e i potenti,’ gli direi, ‘e imparane i costumi. È possibile lusing arli ed è possibile far loro paura (…), e una notte senza luna si porteranno un dito alle labbra, esortandoti a non far rumore. E nel buio ti guideranno sino al fiume di ricchezze più largo e pro fondo che l’uomo abbia mai visto. Ti mostreranno il tuo posto sulla riva, e ti consegneranno un secchio tutto per te. Bevi finché vuoi, ma cerca di non fare troppo chiasso. Un povero potrebbe sentirti’”.

E in definitiva, a prescindere dal forte schieramento sull’asse politico, la lezione più importante estrapolata ha valore universale: se il nostro amore per l’altro ha davvero la pretesa d’essere indiscriminato come vogliamo, la prima cosa da cui dovremo emanciparci sarà la solida dicotomia di produttività e insensatezza, guadagno e anonimia, e soprattutto di dignità e ignoranza, va lore e incompetenza, merito e irrico-

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noscenza.

Di nuovo, qui la rivoluzione rischia di rivelarsi tale, l’incomprensione si fa più palpabile e condivisibile, un radi cato sistema di valori minaccia di cadere.

Voi da che parte state? Può dirsi ques to il ripetuto cliché d’una contrapposizione tra progressismo e conservatorismo?

Cosa scegliere, tra un bene scomodo e insensato e un male razionale e “necessario”?

La scelta sta a voi, e a voi soltanto. Sapete già, d’altra parte, qual è quella di Mr. Rosewater: “Voglio amare ques ti Americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte”.

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SAMURAI

LA MITICA FIGURA DEL SOL LEVANTE

ALESSANDRO BALOSSI, 5A

Tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo sentito parlare dei Samurai, imperturbabili guerrieri dell’Oriente caratterizzati dalla loro armatura e dall’uso della Katana (il termine più corretto sarebbe “Uchigatana”). Poco però se ne parla, meno ancora se ne sa, qui a scuola.

Il nome “Samurai” deriva dal verbo “Saburau”, cioè servire; dunque, si può tradurre come “servitore”. In fatti, ogni Samurai era legato ad un “Daimyo”, un padrone, tipicamente un potente aristocratico che neces sitava di soldati. Il Samurai giurava eterna fedeltà al suo signore: difatti la lealtà era un elemento molto importante nel codice d’onore dei Samurai. Questo codice è il “Bushido” (letteral mente “la via del guerriero”), basato su 7 princìpi:

1) Rettitudine o Giustizia (Gi): La Giustizia non proviene dall’esterno ma dal Samurai stesso: sia egli scru-

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CULTURA

polosamente onesto e non abbia mai indecisioni su cosa sia giusto e cosa sia non giusto.

«È il potere di decidere una condot ta secondo ragione, senza vacillare; morire quando è giusto morire, colpire quando è giusto colpire».

2) Eroico Coraggio (Yū):

Elevarsi al di sopra delle masse e compiere azioni pericolose e rischiose, senza però cadere in un coraggio cieco bensì in uno eroico e ben motivato.

«Avere coscienza di ciò che è giusto» (Confucio)

3) Benevolenza (Jin):

Il Samurai attraverso l’addestramento si distingue dagli altri e diventa potente: questa abilità va usata in favore dei più deboli, specialmente donne e bambini, e in favore del bene comune.

«Ci sono molti esempi, nel passato e nel presente, di guerrieri che possedevano soltanto l’audacia, mancando di com passione. Essi, però, perirono misera mente.» (Hagakure)

4) Rispetto (Rei):

Un Samurai non deve essere crudele, ma è gentile anche con i propri nemici. Altrimenti, sarebbe pari ad una bestia.

«Il miglior combattimento è quello evi tato.»

5) Sincerità (Makoto):

Per un Samurai, parlare e agire sono la medesima cosa. La sincerità e la veridicità assoluta hanno aiutato i Samurai a dimostrare la loro lealtà.

Il vero samurai disdegnava il denaro, credendo che “gli uomini provano ran core per il denaro, perché la ricchezza ostacola la saggezza”.

6) Onore (Meiyo):

Dignità personale e valore sono lo specchio del Samurai: egli non può nascondersi da sé stesso ed è allo stesso tempo giudice di sé.

«Il nostro dovere è far capire al mondo, attraverso la pratica e la nostra stessa vita, il significato della parola onore e di ciascuna delle pieghe del Bushido che indossiamo ad ogni pratica.»

7) Lealtà e dovere (Chūgi): Il Samurai deve essere fedele al suo padrone fino alla morte. Egli diventa proprietario delle azioni svolte e se ne assume la completa responsabilità.

«È pronto a sacrificare la propria vita verso ciò di cui è responsabile, si tratti di azioni compiute o di persone a cui è legato.»

Nel caso di un grave disonore o della morte del “Daimyo” (il padrone), lo spadaccino diventava un “Ronin” (lett. “uomo alla deriva”), quindi un

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Samurai decaduto e generalmente vis to con disprezzo. Questo codice, nonostante il declino dei Samurai e la loro scomparsa come casta sociale nel XX secolo, rimane nella cultura giapponese come sistema di valori della stessa importanza di quelli religiosi qui in Europa.

Altro elemento rinomato di questi cavalieri orientali è l’”Harakiri” o “Seppuku”, il rituale con il quale essi si uccidevano volontariamente in caso di grave colpa personale o per sfuggire alla cattura da parte del nemico. La sede dell’anima era ritenuta essere nel

ventre, dunque il Samurai (rigorosa mente in ginocchio, in modo da cadere onorevolmente in avanti) tramite un coltello (il “Tantō”) si infilzava nel basso addome mentre un fidato compagno (il “Kaishakunin”, l’amico più fidato e più abile con la spada) decap itava il Samurai in modo che il suo volto non venisse sfigurato dal dolore. Purtroppo, con l’avvento della polvere da sparo e della guerra moderna, i Samurai dovettero cedere il passo al pro gresso e alla modernità. Certo però, rimarranno onorevolmente un segno indelebile nella lunga e consunta per gamena della storia.

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RICERCA ED ANALISI STORIOGRAFICA SOPRA GLI EVENTI E LE CAUSE DELLA COSIDDETTA RIVOLTA CESANESE TENUTASI NEL 1229

Nel 1229 gli abitanti di Cesano, capeggiati da tale Domenico dell’Ac qua, abbatterono le torri difensive e riempirono il fossato come protesta contro il monastero benedettino delle suore di Orona di Milano, che almeno dal 1081 (anno in cui a seguito di un incendio che probabilmente distrusse l’archivio del monastero venne riconfermata la prerogativa monasteriale del locus cesanese) deteneva l’honor et districtus – distretto – , ossia i diritti di bassa giustizia in ambito civile detenuti nelle proprie terre dai signori territori ali. Infatti i cesanesi sono stati sempre restii a cedere all’autorità benedettina, che li governava da lontano, o almeno lontano dal punto di vista dei rustici; in particolare nel XII e XIII secoli il centro abitato è stato protagonista di

varie controversie e contenzioni con il monastero, rifiutandosi più volte di pagare i tributi, e violando alle suore il distretto: in particolare nel 1179 si ha una lite, risoltasi presso i conso li di Milano, tra i rustici di Cesano e Binzago e la Badessa per “questioni di distretto”. A seguito ci furono varie al tre dispute minori, fino a quando nel 1224, presumibilmente a causa delle loro difficoltà nel governare i terreni, la Badessa li cedette a livello – un tipo di contratto di affitto medievale – per ventinove anni a tre procuratores di Milano, presumibilmente indebolendo l’autorità di Orona. Dopo di questo, arriviamo alla presunta rivolta violenta, seguita dall’invio di soldati e un notaio dalla città per reprimerla, e l’ingiunzione a Domenico dell’Ac-

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OLIVER ZOCCO, 5H; SILVIA VIOLATO, 5aa; MATTEO GALBIATI, 5H

qua di ricostruire quanto distrutto. Per lo meno, questa è la versione dei fatti che ci viene fornita, seppur qui espansa con informazioni solitamente assenti, da tutte le fonti sin dal 1858, anno di pubblicazione della “Grande Illustrazione del Lombardo-Veneto” di Cesare Cantù, fino ai giorni nostri. In questo libro la vicenda viene brevemente menzionata nella sezione riguardo a Cesano Maderno, anche conosciuto come Cesano Borromeo ai tempi. Da lì in avanti sembra che ogni fonte successiva ripeta semplicemente le poche informazioni dateci: “nel secolo XIII, e atterrarono il forte e colmarono il fossato; ma i consoli di Milano condannarono Domenico Dell’ Acqua, capo della sommossa, che vole va insignorirsi del luogo, a rifare il cas tello, il fossato e le mura.“ Fu addirittura trascurata l’ambizione di Domenico in menzioni future. Ma la natura violenta della cosiddetta “sommossa” non ha basi solide: nell’in giunzione originale del 17 luglio 1229 si chiede sì di ricostruire il castello, le mura, il fossato, oltre che varie altre richieste, non si ha però nulla che indichi una rivolta violenta come causa dei danni; inoltre i rustici, insofferenti com’erano al dominio monasteriale,

erano altamente recettivi a un governo locale, come dimostrato nel 1179, cosa che avrebbe ridotto il bisogno di una sommossa violenta e della distruzione descritta in seguito; ulterior mente, quando la Badessa aveva fatto inviare un piccolo drappello di soldati e un notaio per ordinare ai Cesanesi di non affittare le terre del monastero (Atti del Comune di Milano, 20 maggio 1229), ubbidirono agli ordini dei soldati, come dimostrato dal fatto che il processo di Domenico fu poco meno di due mesi dopo, ed avvenne senza il bisogno di inviare rinforzi, cosa assai improbabile se ci fosse sta ta una sommossa violenta contro una guarnigione poco prima, che avrebbe potuto opporre resistenza ai pochi sol dati milanesi. Il reale motivo della richiesta di “ricostruire” il castello, le mura, la porta, il fossato e l’inferriata viene suggerito nel libro “Memorie spettanti alla storia al governo” del 1760, scritto da Giorgio Giulini: il potere di obbligare gli abitanti delle terre a rifare il castello ed altre strutture dell’infrastruttura pubblica era un diritto appartenente al distretto, ed era imponibile sia in caso di distruzione per cause violente, sia terremoti.

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Oltre a quello, sebbene ci fu un terremoto potentissimo nel 1222 che colpì il nord Italia, la codifica scritta delle consuetudini (termine dell’epoca usato per indicare le leggi) riguardanti il distretto, risalente al 1216, non fu influenzata da esso. Perciò Giulini postula che i terremoti all’epoca fossero ben più comuni di quanto non lo fossero più recentemente, oltre che com portare un rischio maggiore. Da ciò si può evincere che l’obbligo a ricostruire il castello fosse probabilmente in vocato semplicemente a seguito del terremoto del 1222, o di un altro terremoto minore e più localizzato, ma poi ignorato o non completato a causa della presa di potere di Domenico dell’Acqua e delle tensioni generali tra i rustici e il monastero, di cui ne chiesero nuovamente l’adempimento nel processo. È possibile anche pensare che la richiesta di ricostruzione sia a titolo punitivo, in cui si chiede di riparare la semplice degradazione causata dal tempo alle strutture difensive, e non di ricostruire interamente gli edifici. A causa delle precedenti motivazioni, la ricostruzione più probabile degli eventi è la seguente: nel 1179 i Ce sanesi e Binzaghesi ricevono la prima

ingiunzione a seguito di dispute di distretto; continuano a disubbidire agli ordini e all’autorità del monastero, fino a quando nel 1224 le benedettine cedono a livello i territori di Cesano e Binzago, presumibilmente a causa della destabilizzazione avvenuta a seguito delle azioni militari nel nord Italia di Federico Barbarossa. Questo tentativo fu inefficace, perché nel 1229 un tale Domenico dell’Acqua prese potere in maniera prevalentemente pacifica, o per lo meno non distruttiva, venendo deposto e detenuto poco dopo da un piccolo drappello di soldati inviato dalle benedettine. A Domenico fu ordinato di rispettare il distretto della Badessa, oltre che varie altre consuetudini. Come penitenza fu costretto a dover venire di fronte alla Badessa se chiamato, a rispettare i loro ordini per tinenti al territorio di Cesano, così come quello di Milano e a scacciare tutti gli animali eccetto quelli stretta mente necessari dal castello. Quest’ultimo punto probabilmente causato dal fatto che in circostanze normali introdurre animali nel castello non era obbligatorio, e anzi comportava il pagamento di un tributo per averne il permesso. Inoltre, gli fu richiesto

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di riparare l’infrastruttura difensiva, presumibilmente per motivi punitivi o per riparare danni causati dal terremoto del 1222.

In conclusione è improbabile che la rivolta cesanese sia stata tanto distruttiva quanto suggerito da fonti recenti, a partire da Cesare Cantù, non essen doci praticamente menzione di violenza o demolizioni in fonti più vicine ai fatti.

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S.A.L.M.O.

SAMUELE NAVA, 4C

Se dovessimo nominare i cantanti che hanno dominato la scena musicale italiana negli ultimi anni non possiamo lasciare fuori Salmo. Ed è per questo che oggi voglio parlare di lui, del rapper di Olbia. Si avvicinò al rap a 13 anni, cominciando a comporre i primi versi nel ‘97. Si chiamò Salmo per omaggiare il cantante dei Duran Duran, Simon Le Bon sopran nominato SalmonLebon. La passione del ragazzo era tale che già dopo due anni, nel ‘99, pubblicò due demo as sieme ai suoi amici, i rapper Bigfoot e Scascio, con i quali aveva formato i PeD; chiamarono questi esperimenti Premeditazione e Dolo vol. 1 e 2, seguiti dal volume 3 nel 2002. Questi primi tentativi furono un trampolino di lancio per la sua carriera da solista, che iniziò nel 2004 con l’album Sotto Pelle, seguito a distanza di un anno da Mr Antipatia. Da allora militò in al-

cuni gruppi rap, metal e hardcore fino al 2011, l’anno della svolta. il rapper olbiese pubblicò infatti il suo primo album in studio The Island Chainsaw Massacre. Salmo stesso è la motosega del titolo: con questo disco, aggressivo e violento, fa a pezzi le hit del momento imponendosi sin da subito nella scena rap italiana. L’album spazia tra i generi dal drum’n’bass al metal anche se in genere rientra nell’hardcore. I testi hanno molti significati ma più che altro esprimono rabbia verso un sistema che premia i clichè e sputa su chi è davvero talentuoso. Non so quale sia il mio brano preferito, si contendono il primato Nella Pancia dello Squalo, Il senso dell’Odio e Un dio personale con testi a tratti autobiografici che es primono una profonda critica verso la tv italiana, la scena musicale e la Chiesa.

Pino Scotto insultò pesantemente

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l’artista perché ne Nella pancia dello Squalo dice “odio Vasco Rossi, Pino Scotto e Ligabue, tutti sti stronzi non fanno un artista in due”, e tra i due si scatenò una piccola guerra; le polemiche al rapper di Olbia sono sempre state tante, dalla lite con Matteo Sal vini (dicendo che è illogico che chi lo ascolta voti il segretario leghista) fino ad arrivare a quella con Fedez, con cui si è riappacificato pochissimo tempo fa.

Nel 2012 Salmo si trasferì a Milano dove firmò per Tanta Roba (l’etichetta di Gué Pequeno) e con questa pubblicò Death USB. Un disturbo del sonno, assieme a una precisa scelta dell’artista, ha reso questo secondo album an cora più violento, cupo e horror del primo. In questo LP Salmo dimostra che ha ancora tanto da dire, non è un bluff come molti pensavano e anzi è un vero talento. Personalmente non apprezzo molto l’album, tuttavia se dovessi dire quali sono le canzoni che preferisco direi Il Pentacolo e L.fast & D.Young.

Parallelamente alla carriera solista Salmo portava avanti il progetto Machete; nello stesso 2012 assieme ad altri rapper dell’underground come Madman

e En?gma pubblicò Machete Mixtape il cui brano più figo è King’s Supreme in cui il rapper di Olbia canta il ritornello mentre Gemitaiz sfoggia un vero talento nell’extrabeat. Salmo, Gemitaiz e MadMan collaborarono ancora per Killer game, sesta traccia di Mid nite, terzo disco di Salmo uscito nel 2013. Oltre a KG troviamo altri brani spaziali come Russel Crowe e The island quest’ultimo frutto di una collaborazione con Hell Raton, En?gma e DJ Slait. Il disco è meno violento dei precedenti; l’atmosfera è energica e coinvolgente ma lascia trasparire una maggiore umanità (come in Faraway) che attira anche chi preferisce un sound più leggero. L’anno successivo il cantante decise di lasciare Tanta Roba dopo aver pubblicato l’album live S.A.L.M.O. Docu mentary seguito a ruota dal Machete Mixtape III, 24 brani di pura follia horror. A dicembre 2015 fece uscire il singolo 1984 che anticipò Hellvisback, il quarto album che deve il proprio nome alla storpiatura di Elvis, tornato dagli inferi mixato a qualcosa di più moderno. I toni si fanno sempre meno pesanti, spaziando tra molti generi dal blues di 1984 al reggae de Il Messia passando per l’elettronica

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CULTURA

di Daytona. Con Hellvisback, Salmo conclude il periodo più “dark” della propria carriera iniziando una fase (più commerciale) di sperimentazi one con Playlist. Nel 2017 il cantante fece uscire i singoli Estate dimmerda e Perdonami, mentre l’anno successivo dopo una lunga e particolare campagna promozionale (aprì un canale su Pornhub e rappò a Milano travestito da senzatetto) fece uscire il sopracitato quinto disco, Playlist. Le tracce sono tutte differenti sia nel ritmo che per i testi in modo che l’ascoltatore ritrovi almeno un brano in cui si rispec chia. All’album si aggiungono Charles Manson e Salmo23 uscite con Playlist live. Le tracce più conosciute e am ate sono certamente 90min e Il cielo nella stanza: la prima è una fotografia dell’Italia mentre la seconda lascia spazio ai sentimenti. Ho paura di uscire passò in sordina anche se il suo seguito è riconoscibile ovunque: Ho paura di uscire 2 è infatti la traccia più nota del Machete Mixtape 4 e, assieme a Il cielo nella stanza”, dell’intera dis cografia di Salmo. Il rapper partecipò al mixtape sia come produttore che come cantante, contaminando prati camente tutti i 18 brani. Arriviamo infine al 2021: dopo prati-

camente due anni di pausa Salmo an nuncia Flop, “il suo disco peggiore”. L’album segue la falsariga di Playlist: non si respira più l’aria cupa e arrab biata che contraddistingue i primi dischi; il rapper è molto più umano e “fragile”, come rivelano Marla, l’An gelo Caduto e Kumite, anche se non mancano dei pezzi molto movimentati ed energici come Flop e Aldo Ritmo. Rimane anche lo spirito anticlericale come vediamo in YHWH e in A dio, anche se a mio parere non esprime una vera riflessione, sembrano piuttosto delle prese in giro ignoranti. La canzone più nota credo sia Kumite ma personalmente preferisco Antipatico, che è più in linea col vecchio stile di Salmo.

Salmo dunque è un artista eccezionale, che nel tempo ha saputo rinno varsi e raggiungere più persone: partendo dalle strade della Sardegna, è riuscito a imporsi nel panorama ital iano, entrando di diritto nell’olimpo della musica.

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IL MITO DI MEDUSA IERI E OGGI

In una delle versioni del mito, Medusa è descritta come una donna bellis-sima, votata a una delle divinità più importanti dell’Olimpo: Atena, dea della saggezza e della strategia militare, di sicuro non conosciuta per la sua ca-pacità di perdonare. Medusa è devota e leale, farebbe qualsiasi cosa per la gloria della dea. Una notte, al tempio, sente qualcuno entrare: altri non è che Poseidone, dio del mare, odiato e amato da Ate na. Odiato perché tra i due c’è sempre stata una grande rivalità, ma allo stesso tempo amato per l’attrazione che li lega, entrambi troppo orgogliosi per poterla ammettere. Poseidone rispecchia i peccati dell’es sere umano, e vuole appropriarsi di una donna che non gli appartiene. Vuole una donna bella, che lo può

soddi-sfare: come ad ogni divinità, non gli importa di ricevere un rifiuto, ha biso-gno di qualcosa per colmare i suoi desideri egoistici.

E Medusa viene violentata. Viene privata della cosa più importante che conserva, perde il rispetto delle persone e di se stessa.

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CULTURA

Viene violentata, ma nessuno prende le sue difese.

Al contrario, colei a cui ha dedicata la sua vita, colei che ha giurato di pro-teggerla, la punisce per aver infranto il voto di castità che aveva pronunciato quando era entrata a far par te della vita del tempio, e per averlo infranto con il suo rivale.

Medusa è distrutta a causa di quello che è successo - spaesata, spaven-tata, imbarazzata, umiliata.

Sperava forse nel conforto che la dea le avrebbe potuto dare?

Al contrario delle sue aspettative, Atena ha fatto l’esatto opposto.

Non le importa se Medusa ha infranto il voto per volontà sua o meno, le importa solamente come la sua sacer dotessa lo abbia spezzato. Una umana così semplice che attrae tanto il signore dei mari, il suo acer-ri mo nemico. È invidiosa, e non lo nasconde.

Atena maledice Medusa, la trasforma in una mostruosa creatura con i ser penti al posto dei capelli e con la capacità di trasformare in statue di pietra se la si guarda negli occhi. Non si pente di aver condannato una donna innocente, anzi ne è soddisfatta.

Quello di Medusa non è di certo l’unico mito in cui una dea, in preda alla gelosia, condanna e maledice una donna se considerata più bella o at traen-te di lei da parte di un dio. Una serie di storie in cui divinità puniscono delle donne per qualcosa di cui non hanno alcuna colpa, donne che vengono ac-cusate ingiustamente per peccati commessi da un uomo, per qualcosa che loro non hanno il potere di cambiare e decidere. Spesso il peggior nemico delle donne sono le donne stesse.

Ci si dimentica di come siamo state unite nella lotta per l’emancipazione, ci dimentichiamo di come dovremmo sostenerci tra di noi, in qualsiasi occa-sione, senza stare a guardare con invidia chi consideriamo migliore. In una delle versioni alternative del mito di Medusa si parla di una diversa reazione della dea: Atena vendica Medusa, la aiuta, la sostiene, non la ab-bandona. Questo dovremmo fare, aiutarci e sostenerci ad ogni costo, non lasciandoci intimorire dai pregi udizi o dall’invidia: se siamo uniti siamo forti, se siamo forti, nessuno può farci del male.

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CI PENSI MAI

Ci pensate mai agli abbracci? Pensate mai a quell’ultimo abbraccio? Quell’ultimo inaspettato momento di contatto fisico. Non sapremo mai quando daremo il nostro ultimo abbraccio a quella persona. La vita è imprevedibile. A meno che non sia di nostra spontanea volontà, non sappiamo quando chiuderemo i rapporti con una persona.

Ci sono un sacco di variabili: la distan za, la differenza di interessi, un cambiamento di carattere, non frequentare più gli stessi posti. C’è anche un’altra variabile, molto rara e strana, che mi viene in mente: la mancanza totale di abbracci. Nella mia breve vita da diciassettenne ho sperimentato tutte queste casistiche. Una mia amica che abitava nella mia città si è trasferita a Milano. Ogni tanto uscivo con una ragazza, la conoscevo grazie alla scuola. Ma non avevamo gli

stessi interessi e con il passare del tempo abbiamo entrambe cambiato carattere. Ho conosciuto tante persone neg li ambienti che frequento. Con poche sono rimasta veramente in contatto. Ora non le vedo più; hanno lasciato la scuola o non vengono più in oratorio. Infine quest’estate ho conosciuto un ragazzo. Abbiamo passato per quasi un mese tutte le nostre giornate insieme. Ma non ci siamo mai abbracciati. Lui mi annegava in piscina, mi nascondeva le scarpe, mi aiutava quando la mia bicicletta si inceppava mentre io gli facevo il solletico, lo stuzzicavo o gli mettevo le mani sulle spalle quando stava male. Ma mai di più. Se improvvisamente le nostre strade dovessero separarsi, non dovrei mai pensare al nostro ultimo abbraccio. Ci pensate mai alle farfalle nello stomaco? Penso che siano una delle più belle sensazioni di sempre. Non parlo sol

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tanto di quando siamo nei corridoi e vediamo la persona che ci interessa che ci sorride. Di quando due fidanzati si scambiano un bacio. Di quando si legge un romanzo rosa o si vede un film. Parlo di tutte quelle cose che ci piacciono e ci fanno sentire vivi. Mi vengono le farfalle nello stomaco quando ascolto la musica. Quando scrivo. Prima di fare una nuova bel lissima esperienza. Quando la nonna cucina il mio piatto preferito. Abbassare il finestrino dell’auto, sentire il vento in faccia e le orecchie fischiare. Quando sono ricoperta di vestiti dalla testa ai piedi e l’aria gelida mi colpisce talmente forte da farmi diventare le guance e il naso rossi. Vedere le conseguenze delle proprie azioni, in par ticolar modo se sono state compiute mettendoci tutto l’impegno possibile. Quando la lezione diventa così noio sa che preferisco farmi film mentali su tutto. Correre al freddo. Non sono una persona molto sportiva, ma correre più veloce che posso, fino a sentire i polmoni bruciare a causa dell’aria glaciale e le gambe cedere, beh quello sì che mi fa sentire viva. Soprattutto quando mi fermo e riprendendo fiato non posso fare a meno di ridere. Ci pensate mai agli stereotipi? Non vi

fate mai domande? Per esempio, chi ha deciso che questa cosa deve essere uno stereotipo e un’altra no? Vi faccio un esempio che mi è venuto in mente al mare. Tutti gli stereotipi sulla pelle o il peso. Le persone considerate più attraenti sono quelle abbronzate. Se hai la pelle pallida, ti danno della mozzarella o del vampiro. Sulle riviste di moda i corpi considerati perfetti sono quelli a forma di clessidra, con la pancia piatta oppure quelli tonici, pieni di muscoli e con gli addominali. Se sei una persona in carne o con quel rotolino di pancia in più, non verrai mai considerato perfetto dalla società. Ep pure un tempo non era così. Sapete chi erano quelli con i corpi più magri, con i muscoli e la pelle abbronzata? I pov eri, i contadini. Quelli che lavoravano tutto il giorno nei campi, a zappare la terra sotto il sole cocente che a casa trovavano un misero pasto. Indovinate chi erano quelli con la pelle candida e quei chili di troppo. I nobili. Loro che passavano le giornate a corte, al chiuso, al riparo dal sole e che banchettavano tutti i giorni con portate sontuose. E l’aristocrazia, al tempo, era il modello da seguire, da aspirare. Ci pensate mai al vostro potenziale segreto?

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Ho sempre pensato che in ognuno di noi si nasconda un potenziale, il quale è unico per ognuno di noi. Potrà anche essere dello stesso tipo di qualcun altro, ma è il nostro e noi stessi lo rendiamo unico con il nostro essere. I cantanti hanno tutti il dono della voce, ma è il loro stile a renderli particolari. Gli scrittori sono tutti benedetti da Apollo, ma è quello che scrivono e come lo scrivono che li rendono speciali. Il mio potenziale segreto è la fantasia, l’immaginazione. Ne ho talmente tanta che potrei venderla in bottiglie e diventare ricca. Se c’è qualcosa che mi interessa e mi vedete distratta, non preoccupatevi. Vi auguro solo di non fare un viaggetto nella mia mente, perché potreste trovarvi in un ciclone di pensieri, domande, idee, scenari. Qualche giorno fa mia sorella e mia cugina mi hanno detto che, secondo loro, soffro di disturbo dell’attenzione. Non ho potuto negare. Dicono che ho impiegato tre minuti per for mulare una frase. Una volta mi sono bloccata perché alla radio è partita una canzone che mi piace molto, che mi ha ricordato una cosa e che me ne ha fatta pensare un’altra. Una seconda volta mi sono fermata perché guardando fuori dal finestrino ho visto delle persone

e ho iniziato a farmi delle domande. Poi mentre parlo, mi dimentico quel lo che stavo dicendo semplicemente perché anche se la mia bocca dice una cosa la testa ne pensa altre cento nello stesso momento. In poche parole la mia mente non ha freni, non sta ferma un secondo. Neanche di notte. I miei sogni possono essere veramente strani, contorti e trame di film.

Ci pensate mai al perché fate certe cose? O per chi le fate. Perché studiate, perché scrivete, perché leggete, perché mangiate, perché fate quello sport. Vi sembrano domande stupide? Non mi interessa. Non sono stupide. Nessuna domanda è stupida. Perché studio? Perché voglio diventare un ottimo medico e direi che sen za studiare è difficile. Per chi studio? Questa domanda ha una risposta più complicata. Molti di voi studiano per se stessi, per i genitori, per i professori o solo per non fare i mantenuti a trent’anni. Anche se, tecnicamente, se avete scelto un liceo è perché volete continuare i vostri studi. Io non studio solo per me stessa, per cultura perso nale. Studio per il futuro dei miei figli. Lo abbiamo già detto, penso veramente troppo. Ma pensando alla mia vita non riesco a non pensare a dei futuri fig-

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li. Vorrei dare a loro quello che, in un certo senso, io non ho avuto. Vorrei che avessero una casa grande, con una camera ciascuno. Vorrei che venissero da me a chiedermi di comprargli più mensole per la libreria, un computer, una sedia girevole. Vorrei che organizzassero feste quando sono fuori per lavoro. E più di tutto, vorrei che fossero fieri di me.

Ci pensate mai ai piccoli dettagli, scaturiti dalle conseguenze di determinate azioni? Quest’estate, all’oratorio, ho conosciuto un sacco di persone che vengono qui al Majorana. Ed ora, quando giro nei corridoi o la mattina davanti alla fermata del bus, li vedo dappertutto. E tutte le volte che li vedo mi chiedo sempre “Come ho fatto gli anni passati a non accorgermi di loro?” Ho conosciuto anche persone del Fermi e mi ritrovo a cercare bici familiari nel parcheggio del tecnico o vedere le persone passare per prendere l’autobus. Se non li avessi conosciuti, probabilmente quest’anno sarebbe stato un’altro anno noioso.

Ci pensate mai al primo incontro? Ritengo che spesso, in un’amicizia o relazione, le persone non diano la giusta importanza al primo incontro. “Ah sì, abbiamo iniziato a parlarci e diventare

amici dopo una partita di calcio” “Noi invece abbiamo iniziato a frequentarci dopo esserci conosciuti a scuola” Sì ok, tutto molto interessante. Ma non sto parlando di questo. Parlo del primo incontro. Quello vero, che merita questo titolo. Può essere stato giorni, mesi, anni prima della prima volta che vi siete veramente parlati, guardati, toccati. Anche io ho molti esempi come quelli citati prima. “Abbiamo iniziato ad uscire a dicembre, dopo il concerto di natale” “Ho iniziato a parlare con quella persona dopo l’oratorio feriale di settembre” “Questa mia amica mi ha fatto conoscere questa persona”. Ma quando ci penso, sento che questi non sono i veri primi incontri. Non con tutti almeno.

Il primo vero incontro che ho avuto con la prima persona, non è stato al ter zo anno ma al primo. Poche settimane dopo l’inizio della scuola, era venuto in classe per fare propaganda al coro. Quello è stato il nostro primo incontro. È vero, abbiamo iniziato a parlarci più frequentemente e seriamente solo due anni dopo. Ma il primo incontro è stato quello. Oppure con il secondo soggetto. È vero, l’ho notato e ho iniz iato a parlarci a settembre. Ma andando a scavare, ho scoperto che era anche

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all’oratorio feriale di giugno-luglio. La mia ricerca è finita lì. Cioè, è andata avanti ovviamente. Ma il risultato si ferma lì. Le possibilità che io l’abbia visto prima di quest’estate sono veramente basse. Con la terza persona, invece, quello è stato veramente il primo incontro. Ora penserete, chi è così pazzo da farsi tutti questi complessi mentali? Beh, io. Come vi ho già detto, la mia mente non si riposa mai. Ma vorrei che an che gli altri ci facessero caso. Magari vengono a galla cose sconvolgenti, sia positive che negative. Ci pensate mai al tempo? Potrei scrivere un saggio sul tempo. È uno di quei misteri della vita affascinanti e dubbio si allo stesso tempo. Ho tante domande su di esso. È una mia impressione o il tempo sta passando troppo velocemente? Mi ricordo come se fosse stato due giorni fa il mio esame di terza media. Come se fosse ieri l’inizio delle superiori, una nuova avventura. L’inizio del covid. La DAD a settimane alterne della secon da. Le ore in laboratorio di chimica e il PCTO a Torino di terza. Come se fosse successo stamattina, le settimane di oratorio estivo. Ed ora sono qui, in quarta superiore. In un soffio. Se guar-

do indietro vedo la me dodicenne che mi sorride. Se guardo avanti vedo il test di medicina che mi aspetta a fine anno. La maturità della quinta. Quan do penso “La verifica di storia dell’arte è tra due settimane” ma quelle settimane si scioglieranno come burro sul fuoco. Però passa anche troppo lentamente. Seguendo il mio ragionamento, arriverò ai trent’anni in un batter di ciglia. Eppure sono ancora diciassettenne. Sono ancora minorenne, sono ancora alle superiori, non ho la patente e vivo ancora con i miei. Non mi ricordo cosa pensavo a sette anni. A tren ta non ricorderò quello che pensavo a venti. Scrivere serve anche a questo, a ricordarsi. Come cambiano i luoghi con il tempo, vero? Con i cambiamenti, con le abitudini. Pensate alla strada che percor rete tutti i giorni per arrivare a scuola o dalla fermata del bus a casa vostra. Ora pensate alla stessa strada la prima volta che l’avete percorsa per venire a scuola. Mio padre la mattina mi lascia al parcheggio delle piscine. Percorro la stra dina tra le piscine e i campi da tennis, salgo sul marciapiede che sta sotto gli alberi, attraverso la strada e mi trovo alle fermate dei bus davanti al campo da calcio attaccato alla scuola. Semplice.

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Ora. Ricordo la prima volta che mio padre mi fece vedere su Google Maps la strada. Panico. Ero certa al 100% che mi sarei persa, eppure ora mi sem bra così semplice. Una volta rischiai pure di essere investita ed ora guardo due volte a destra e due a sinistra prima di attraversare. Oppure le sale in oratorio. Ero abitu ata a vedere un’aula dell’oratorio centrale della mia parrocchia con i tavoli messi in fila a coppie. L’ho sempre e solo vista così. Poi quest’estate abbiamo cambiato la disposizione, spostando i tavoli ai lati per avere più spazio dove passare. Mi sono abituata a quella visione, ora che sono tornati come prima, puliti, in ordine e senza tutte le cianfrusaglie dell’oratorio estivo sopra, non li riconosco più. I rapporti con le persone sono quelle che cambiano di più. In male o in bene, piccoli o grandi che siano, i cambiamenti con le persone sono a parer mio i più significativi. Indicano il passare del tempo con una unità di misura diversa da quella dei secondi. L’esem pio più banale sono i nostri compagni di classe. In prima per me erano tutti degli sconosciuti. Ora non più. I com pagni di banco: chi è fortunato, come me, non ha un solo compagno di ban-

co ma addirittura due. Ora siamo una piccola famiglia: parliamo durante le lezioni, ci disegnamo sui libri, attacchiamo sticker ai banchi, ci chiedi amo gli appunti. E in prima? Posso dirvi con assoluta certezza che i primi mesi di scuola non ho mai pensato che queste due persone sarebbero diventate così importanti per me. Quando mi chiedono della scuola, ancor prima di pensare a tutto il gruppo classe penso a loro.

Vi è mai capitato di pensare “Perché non l’ho conosciuto prima?” oppure “Perché non ci siamo mai parlati così prima d’ora?” Certe volte penso a quelle persone che ho conosciuto per tanto tempo e per altrettanto tanto tempo ho ignorato o ci siamo limitati a saluti occasionali. Poi arriva quel momento in cui iniziate ad aprirvi, ad uscire assieme, a parlare senza sosta. Passate con loro il vostro tempo migliore. Vi affezionate. E poi il countdown arriva al termine. Per cause di forze maggiori, le vostre strade si separano. Non vi vedete più tutti i giorni. Non parlate più fino all’ultimo respiro. Ognuno prende la sua strada. Rimanete in contatto, vi aggiornate sulle vostre vite. Ma quando vi vedrete di nuovo? Se vi foste aperti prima, il vostro rapporto sareb-

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be stato diverso?

Pensate alle cose che vi fanno stare bene. Sempre. La vostra priorità è stare bene. Mentalmente, emotivamente e psicologicamente. Fate tutte quelle cose che vi fanno venire le farfalle nello stomaco, che lasciano dei segni positivi alla vostra esistenza, che vi fanno sentire vivi. Ballate. Non sapete ballare? Fatelo completamente a caso. In camera da soli o con qualcuno che emani la vostra stessa energia. Con la musica sparata nelle orecchie o con la cassa al massimo. Cantate. Storpiate le parole, fate facce buffe, cambiate i toni della voce senza un senso logico. O fatelo con il cuore, facendo risonare dentro di voi ogni nota, mettendo ogni res piro nelle parole, improvvisando un concerto. Non siate troppo seri, tornate un po’ bambini. Facciamo gli sce mi con quella persona, senza filtri, senza giudizi. Apriamoci, raccontiamoci l’uno dell’altro. Mettiamo da parte i problemi del mondo e godiamoci del tempo senza preoccupazioni. Non accontentatevi mai. Trovatevi chi vi fac cia stare bene al 100% e fidatevi, non ve ne pentirete. Penso troppo, siamo alla fine di ques to testo e credo lo abbiate capito tutti. Io e tutte le persone come me abbia-

mo bisogno di quella persona che ci fa girare la testa talmente forte che non possiamo pensare ad nient’altro che loro. Non possiamo accontentarci. Io per fortuna l’ho trovata, dopo tanto tempo. È la mia migliore amica, che purtroppo abita a Verona. Quando siamo in chiamata, quando parliamo non penso a nient’altro. Il tempo vola con lei. Quando ci siamo viste la prima volta non volevo più lasciarla andare via. Sono la referente del Majocoro. Ci sono dentro dalla prima superiore ed è la mia vita, nonostante abbia perso un anno e mezzo per il covid. Ma gli incontri tutti i lunedì con il maestro, scegliere le canzoni, arrangiarle e sentire l’emozione in tutto il corpo quan do realizzi quanto è venuta bene una canzone. Sono esperienze impagabili. Mi fa sentire bene, viva. E anche se ora siamo in quattro gatti, letteralmente, per me possiamo farlo comunque il coro. Perché non voglio rinunciarci. Nella vita pensiamo tanto. Mille domande e dubbi ci assalgono. C’è chi pensa di più. Chi pensa di meno. La morte non mi spaventa, ma le persone che non pensano sì. Ve lo richiedo. Ci pensate mai a quell’ultimo abbraccio?

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PALLAVOLO, GIOCO DI FANTASIA

MARCO FANTASIA, 3E; LUIGI SALA, 3cc; ANDREA PIROTA, 3cc

Majorani, siamo lieti di presentarvi il progetto Zona Νίκη (Nike), nel quale tratteremo temi e curiosità dal mondo sportivo. Questo mese, in occasione della XIX edizione del Mondiale di pallavolo femminile che si è svolta in Polonia e Paesi Bassi dal 23 Settembre al 15 Ottobre 2022 e ha visto trionfare la Serbia davanti a Brasile e Italia, abbiamo deciso di intervistare Marco Fantasia, commentatore per RaiSport dell’Italvolley femminile. Gli abbiamo posto delle domande inerenti sia alla sua professione sia alla competizione in ternazionale appena terminata.

Cosa rappresenta per te la pallavolo e come ti ci sei avvicinato?

A sedici anni fui inviato a seguire un torneo internazionale femminile per

conto della radio di Genova per la quale lavoravo. Lo sport e l’ambiente mi sono piaciuti subito, tanto che ho continuato a frequentare la squadra locale, la VBC Genova del compianto presidente e dirigente FIPAV Gian Luigi Corti, fino a prendere il patenti no di allenatore. Dopo qualche anno mi sono “messo in proprio” e ho continuato ad allenare squadre a Genova e provincia. In seguito ho avuto la fortuna di far diventare il volley un lavoro vero e proprio, abbinandolo alla mia attività giornalistica, inizialmente alla sede regionale Rai della Liguria. Dal 2012 sono passato a RaiSport e questo mi ha permesso di alzare la mira, cominciando a occuparmi dei campi onati di serie A maschile e femminile e, più recentemente, della nazionale femminile.

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Quali emozioni provi a commentare la nostra Nazionale?

Molto forti, perché è un gruppo che ci sta dando grandi soddisfazioni e ancora ce ne darà, per molto tempo. Alle Olimpiadi la loro frustrazione per la sconfitta è stata un po’ anche la mia, perché sapevamo che il potenziale della squadra non era stato espresso. È stato però un passaggio necessario, perché dopo è subentrata una cons apevolezza nuova che ha permesso di raggiungere obiettivi come gli Europei e la Volleyball Nations League. La gioia nel commentare questi successi (la finale degli Europei contro la Serbia a Belgrado, la VNL in Turchia contro il Brasile dopo aver superato la squadra di casa in semifinale) è stata enorme. Bella anche la fresca medaglia di bronzo mondiale, nonostante avessimo tutti - squadra compresa - aspettative più grandi.

La squadra azzurra è composta da atlete esperte, già affermate nel panorama internazionale, e da giovani pallavoliste con grande voglia di vincere. Cosa ne pensi di questo gruppo? E quali sono i suoi punti di forza?

È un gruppo che si è molto compat-

tato dopo la delusione di Tokyo e la reazione si è vista subito, con la con quista del titolo europeo contro la Serbia a Belgrado, quindi in casa loro, in un palasport che ribolliva di 20mila persone sicure di vincere. Quest’estate la semifinale di Volleyball Nations League si è giocata ad Ankara contro la Turchia ed è stato un altro successo. Quindi si può dire che il carattere a queste ragazze non manchi di certo. Peccato per la semifinale dei mondiali, dove abbiamo in parte vanificato tanti mesi di duro lavoro, viaggi e par tite, ma l’età media è piuttosto bassa e questo ci permette di sperare in un ciclo sufficientemente lungo, che ci porterà almeno fino alle Olimpiadi di Parigi 2024.

Ogni Mondiale racconta tante storie, curiosità e sorprese: qual è stata la squadra che ti ha colpito di più dal punto di vista tecnico?

Repubblica Dominicana e Thailandia avevano cominciato molto bene il torneo e si erano proposte come pos sibili sorprese, poi sono calate. Alla fine sono rimaste in lizza le più forti. Pensavo che dopo la sconfitta all’Eu ropeo dell’anno scorso e l’addio alla nazionale della loro palleggiatrice,

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fortissima, la Serbia avrebbe impiegato più tempo per tornare ai vertici. Invece eccole di nuovo campionesse del mondo grazie a un tecnico preparato come Santarelli, che con la stima della quale gode ha convinto un paio di veterane a tornare in nazionale e ha subito ricostruito un gruppo vincente. La Cina si sta ricostruendo ed è già fortissima, come da tradizione. Siamo state bravissime a batterle due volte al Mondiale. Mi hanno deluso gli Stati Uniti, che consideravo favoriti e invece si sono fermati ai piedi del podio. Ma rispetto alle Olimpiadi avevano assenze pesanti.

Queste competizioni sono occasioni che permettono anche ad atleti emergenti di mettersi in mostra: quali credi possano fare la differenza in breve tempo?

A parte le nostre ragazze più giovani, diciamo entro i 22 anni, come Elena Pietrini, che già conosciamo bene, ab biamo visto alcuni elementi interessanti come la brasiliana Kisy, la cinese Li, la giapponese Ishikawa. Ma sono tante le giovani impiegate in questo mondiale a testimonianza di un movimento vivo in tutto il mondo. Anche Kenya e Camerun hanno alcune raga-

zze interessanti, qualcuna perfino ancora minorenne. La pallavolo africana merita un piano di sviluppo che effet tivamente la federazione internazionale sta portando avanti. Ogni gruppo che si rispetti possiede sempre dei leader all’interno del proprio spogliatoio. Oltre ai già noti nomi di Paola Egonu e di capitan Sylla, quale atleta ritieni sia il leader “nascosto” della Nazionale?

Non ha bisogno di nascondersi Monica De Gennaro. È senza dubbio lei l’eminenza grigia del gruppo. Le sue incredibili doti tecniche e l’esperien za, unite a un carattere riservato ma determinato, ne fanno un punto di riferimento fondamentale. È il libero più forte del mondo e nel volley chi difende un pallone in più vale quanto chi lo mette a terra. Poi direi Caterina Bosetti.

Nell’Italvolley maschile Daniele Lavia era stato identificato come l’anima del gruppo. Secondo te chi è l’elemento cardine della Azzurre?

Mi ripeterei citando ancora Monica De Gennaro, allora sposto il tiro e vado sulla centrale Anna Danesi. Ha avuto una crescita formidabile e sta attraversando il momento di massima

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maturità della sua carriera.

Quale pallavolista ha avuto maggiore crescita in questo Mondiale?

È stato molto bello assistere a due grandi partite di Marina Lubian con tro la Cina. Lei che parte spesso dalla panchina, in genere per dei cambi in battuta, è stata chiamata a sostituire Cristina Chirichella in un momento caldissimo del torneo ed è stata pienamente all’altezza della situazione. Molto bene anche Sylla, migliorata parecchio nel fondamentale della ricezione, che in passato era stato il suo tallone d’Achille.

Ci sono state diverse critiche sui social per l’insolita formula del Mondiale 2022. Cosa ne pensi di questo nuovo format?

Tutto il peggio possibile. Pur di mantenere sul proprio territorio le squadre dei Paesi organizzatori hanno creato questo formato che è diventato una specie di doppio torneo chiuso. È as surdo che si sia giocato per due volte contro le stesse due squadre (nel nostro caso Cina – a distanza di tre giorni - e Giappone) e ci si sia confrontati con una sola squadra dei gruppi polacchi e solo in finale. E poi non condivido un

certo scivolamento verso lo spettacolo, a discapito del gioco. I palazzetti sono stati trasformati in discoteche (o night club) a seconda del momento, con dj indemoniati che hanno sparato musica a volumi assurdi, disturbando le telecronache (e pazienza) ma soprattutto le squadre in campo. In un caso, durante la prima fase ad Arnhem, la musica non si è interrotta nemmeno con l’azione già ripresa. Spero che la FIVB freni lungo questa strada e torni alle origini del gioco.

Ringraziamo Marco Fantasia per la disponibilità e per la gentilezza; in conclusione ci complimentiamo con le Azzurre per il risultato ottenuto.

Da Zona Νίκη è tutto, ci vediamo prossimamente!

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Majorana Ottobre
2022 - N° 2 SPORT

OTTOBRE

di Svevia perde la capoccia a Napoli

usa per la prima volta il simbolo dell’integrale (∫)

la Corce Rossa Internazionale

Turchia diventa una repubblica

utilizzo della penna a sfera

storia

fumetti di Asterix

mercato

Europea, daje

50EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 OGGI, NELLA STORIA IL 29
TUCIDIDE, 5B 1268 Corradino
1675 Leibniz
1863 Nasce
1923 La
1945 Primo
1958 Prima
a
1988 Sega Mega Drive lanciata sul
2004 Firmata la Costituzione

ANIMALE DEL

LA VACCHETTA DI MARE

L’animale che rappresenterà l’oscuro mese di Halloween e l’inizio di un nuovo anno scolastico è la vacchetta di mare. Qualcuno potrebbe intuire dall’appellativo che si tratti dell’ennesimo mammifero marino di grandi dimen sioni o di un pesce dai facili costumi, ma in realtà l’animale di questo mese

è un umile mollusco di 15 centime

La denominazione “vacchetta” deriva dal manto singolare: bianco candido con macchie bruno-rossastre che la fanno appunto somigliare al celebre bovino da latte o ad un terribile cos tume di Halloween dell’ultimo momento.

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MESE

ANIMALE DEL MESE

Per quanto la sua fisionomia sia semplice, il carattere di questo an imale è molto misterioso; infat ti, la vacchetta di mare è difficile da avvistare, poiché questo essere è solito rifugiarsi in piccole grotte o nell’oscurità dei fondali marini delle coste mediterranee e dell’Atlantico come un Gollum ermafrodi ta. Nonostante la sua riservatezza nei confronti degli esseri umani, la vacchetta di mare è un animale sociale, infatti è alta la probabilità di incontrare un gruppo di più elementi pascolare felicemente tra spugne e rocce. Tuttavia, il fenom eno della solitudine tra vacchette di mare è molto frequente, soprattutto tra gli esemplari più anziani o quelli di grandi dimensioni. Quindi, se incontrerete mai una vacchetta di mare da sola, sappiate che si tratterà o di un matusalemme marino o di un The rock che pascola tra le rocks. Inoltre, ricordatevi che, se siete in decisi su che travestimento indossare per Halloween, basta armarsi di un lenzuolo bianco e un pennarello mar rone così da diventare la più stilosa tra le lumache di mare.

LO SAPEVI CHE: un’altra caratter istica che accomuna la vacchetta di mare al mese di ottobre è la sua pro pensione nel riprodursi durante ques to periodo LO SAPEVI CHE: questo animale si nutre principalmente di spugne

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SPICCHI DI NARRATIVA

Si mise a sedere, alzò la mano e indicò l’albero di limone che, possente e maestoso, si ergeva alle nostre spalle: “Vedi” disse rompendo il magico silenzio che si era creato “la nostra vita è come una canestra di frutta”. “Capita di prendere il frutto sbagliato” spiegò lui scrutando la mia espres sione perplessa. “A volte ti ritrovi con delle fragole mature che allietano la tua giornata, ma altrettanto spesso in cappi in una mela acerba o in un’albicocca troppo matura”.

Tacque e tornò a sdraiarsi per scrutare il cielo limpido che lasciava spazio alla notte nera. “E cosa mi dici dei limoni?” domandai, stupendomi di quanto apparissi ingenua al suo fianco. Rise, per un attimo ebbi paura che si stesse prendendo gioco di me. “Sai, i limoni, più di tutti i frutti, sono l’emblema dei nostri errori” mi spiegò “quando ti trovi di fronte ad una decisione spes-

so scegli quella che appare più allettante, proprio come la scorza lucente di questo limone. Ti è mai capitato di soffermarti a guardare questo frutto e pensare che abbia il colore del sole?” Alzai le spalle: “Forse, credo”. Sembrò deluso dagli scarsi risultati che il suo ragionamento aveva sul mio entusias mo. “Eppure capita che questa decisione si riveli aspra, proprio come il limone, e ti ritrovi in bocca un sapore che non si avvicina neanche lontanamente alle tue aspettative”. Pensai che aveva ragione, una dopo l’altra mi passarono davanti tutte quelle esperienze che erano stati i miei “limoni”, si accatastarono in un an golo della mia mente; solo allora mi resi conto della moltitudine di agrumi che aveva caratterizzato la mia vita, eppure, nonostante tutto, ero ancora in piedi.

“E cosa dovrei farci?”. Si alzò, colse

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NARRATIVA

un frutto e me lo mise sul palmo della mano. “non ho intenzione di cadere nella banalità e risponderti di farci una limonata o di chiederti di dimenticarli. Ama i limoni che caratterizzano il tuo percorso, perché alla fine sono i sapori nuovi ad aprire orizzonti sconfinati; non nasconderli in un anfratto della tua mente, ma mostrali come qualcosa di cui andare fiera, perché siano sempre un punto da cui spiccare il volo.”

so; ma non accadde subito. Lentamente una nebbiolina densa e argentata avvolse il paesaggio, tanto da farmi sentire sola. Cercai la sua mano, ma invano, tutto stava divenendo sfuocato.

Poi sentii una superficie solida sotto di me e spalancai gli occhi. Eccolo lì, davanti a me, l’ennesimo limone della mia vita. Ma questa volta ero preparata, questa volta l’avrei affrontato a testa alta. Proprio davanti a me stava

54EtCetera Majorana
Ottobre
2022 - N° 2

TORMENTO INTERIORE

“Tornare a vivere, fa piú male che sopravvivere. “

L’anima vola via. Col vento che soffia in tempesta. Perdo di vista la luce dei miei occhi. Brillo di notte, sotto un cielo di stelle distrutte. Mi perdo nelle pagine di un libro: mille parole, dette con nostalgia. Il rumore mi spaventa. Il silenzio mi conforta. Mi spezzo, come il mio cuore infranto.

Le tue parole mi trafiggono. Il tuo respiro mi calma. Le spine, mi pungono con una rosa che mi regalasti.

Tutto ciò che ci completa Ci distrugge.

55EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 POESIA

HAIKU SUL MARE

FILIPPO CONTE, 3cc

Il Mare urla

Le Sirene cantano

Il sol Sibila

Scie di navi

Le impronte antiche

Da lor lasciate

Odor di sale

Sale negli animi Profumo acre Il pescatore

Si disseta a riva Gusta il mare

Grano di sabbia

Che leviga lo scoglio

Duro da troppo

56EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 POESIA
57EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 GIOCHI
58EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 GIOCHI (
Edoardo Turconi, 3A)

ORIZZONTALI

1 - Autoblindo anticarro italiano di ultima gener azione

8 - Il Kampf di Hitler

- La morte programmata di una cellula

- Frutto simile alla ciliegia

- Un liquore francese

- È stato attuato dalla NATO dopo l’invasione dell’Ucraina

- Montesquieu ne predicava la divisione

- Un noto club filantropico

27 - Era famoso quello di Delfi

- È succeduta alla Società delle Nazioni

29 - Ricopre il pane siciliano

- Brigate Rosse

- Franco …, moneta usata nelle ex-colonie fran cesi dell’Africa

- Materiale per serramenti

- Parti posteriori delle chiese

- Organo di giustizia amministrativa

- Impedisce il surriscaldamento del motore

- Riparate in modo approssimativo

- Mettere a proprio comodo

- Lo erano gli ultimi re di Roma

- A volte non dista molto dalla fantasia

- Unità di misura della luminanza

- Lo studio dei rilievi terrestri

- Il globo terrestre

- Research and Development

- Ci sono quelli sociali

- Una delle prime eresie

- Sfortuna, malasorte

- I discendenti dei nostri immigrati oltreoceano

- Materiale per sacchi

- Compongono il film

- Si beve caldo o freddo

- Sono famosi quelli di Oscar Wilde

- Uno storico canale musicale

- Si aggiunge all’acqua delle piscine

- L’Adda è uno dei suoi tanti affluenti

- A …: in grande quantità

- Antica città della Toscana

VERTICALI

1 - CiccioGamer89 lo è dei suoi paguri

2 - Perdite copiose di sangue

3 - Generata, partorita

4 - Un tipo di acconciatura

5 - Sistema di segnalazione per facilitare l’atterrag gio ai piloti

6 - Indipendente dalla volontà altrui

7 - Contrario di fitto

8 - Terribile divinità fenicia

9 - Lo Schiele pittore austriaco

10 - All’…: può esserlo il naso

11 - Network Address Translation

13 - Si dice durante il brindisi

14 - Zero Uno

15 - Lo è l’anatra

16 - Composizione musicale per pochi strumenti

17 - Il prefisso per “lo stesso”

18 - Il figlio inglese 20 - Caltanissetta 21 - Un quartiere storico di Algeri 24 - C’è quello di nozze 26 - Un differenziale finanziario 30 - Ricoperti d’oro e pietre preziose

- Assortimento di lastre, lenti e cristalli

- Può esserlo un vino

- Più che antico

- Il generico “dei tali”

- Uniti da una forza magnetica

- Opera d’arte in coppia

- Tempesta di neve

- Il Gino cantautore

- Abitano gli stagni

- Spingeva inutilmente un masso su un pendio

- Non lo è tutto ciò che luccica

- Il percorso della legge

- Si contrappongono ai monti

- È meglio non perdere quello della ragione

- La fine dell’intestino

- Stazione spaziale internazionale

- Lontano antenato

- Il maestro del western all’italiana (iniziali)

- Congiunzione avversativa

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61EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 GIOCHI
62EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 DISEGNI ALESSIA
BONOFIGLIO, 4D
63EtCetera Majorana Ottobre 2022 - N° 2 ANNUNCI
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