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Margaritas ante porcos

PIETRO CATTANEO, 4bb

“Voglio amare questi Americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte.”, Dichiara Mr. Rosewater. Come dite? Troppo in medias res per il primo articolo dell’anno? Ok allora, facciamo un passo indietro. S’immagini un uomo sulla quarantina, gli si regali un passato familiare radicato nella storia, nel sistema statunitensi: un “classico” avo di qualche generazione precedente che col sudore, l’intraprendenza e la giusta dose d’espedienti non del tutto legali – insabbiati nel tempo – accumula una ricchezza sproporzionata, magari a discapito di migliaia d’altri cittadini. Il perfetto American Dream. Ah no? Dunque, si ponga ora che questo nostro quarantenne erediti dal padre la compagnia dell’ipotetico antenato, la Fondazione Rosewater, e disponga d’un capitale di denaro pressoché illimitato e della libertà di farne ciò che vuole. Ecco a voi, miei carissimi lettori di EtCetera, il protagonista della nostra storia, Eliot Rosewater. Ecco a voi le nostre premesse. E cosa credete succederebbe, se dopo un passato da “figlio di papà”, gli eroici trascorsi della Seconda Guerra Mondiale e la prospettiva d’un roseo futuro imprenditoriale, Eliot Rosewater decidesse senza apparente motivo di cimentarsi nella più sacrilega pratica dell’epoca moderna, tanto da allontanare da sé i propri cari ed attirare

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uno stuolo di cùpidi avvocati contro di sé? Come? No, no! Non parlo di malavita, droga, pizza con l’ananas o simili aberrazioni. La sua colpa è ben peggiore, Eliot Rosewater si consacra alla peggiore delle piaghe possibili. Eliot Rosewater decide di a-ma-re incon-di-zio-na-ta-men-te! E così questo nostro ereditiero rinuncia a qualsiasi attrazione della vita viziosa, luccicante ed elitaria che lo attendeva, e si rifugia invece in uno sporco paesino dell’Indiana, per la precisione nello scialbo e incrostato ufficio da cui, ad ogni ora del giorno e della notte, presta soccorso ai compaesani. Ad ogni ora del giorno e della notte, Mr. Rosewater riceve alcolisti, prostitute, analfabeti, ed ogni specie di lebbrosi del XX(I) Secolo. Ad ogni ora del giorno e della notte, regala ingenti somme di denaro, prescrive cure mediche finanziate dalla Fondazione, dispensa consigli e dilapida patrimoni per un proposito così stupido e démodé: fare del bene. A degli illetterati irriconoscenti! Che arroganza, che sfacciataggine. Chi crede di essere, San Francesco? Madre Teresa? “(Mr. Rosewater,) Una delle principali attività di questo studio consiste nel prevenire l’esercizio della santità da parte dei nostri clienti” si sentirà dire dai propri consulenti legali e finanziari il santone. Ma di certo non resterà impunito: già abbandonato dalla moglie e dal padre, il lestofante sarà di comune accordo creduto fuori di senno, ciò che il giovane azzeccagarbugli Norman Mushari tenterà di dimostrare a corte per sfruttare un cavillo legale e rubare parte del patrimonio. Tutti, ad ogni modo, la penseranno una causa già vinta. L’unica eccezione? I nostri moderni lebbrosi, naturalmente. Vi s’è appena spalancato davanti il mondo di Perle ai Porci, traduzione romantica d’un ben più anonimo ed anglosassone God Bless You, Mr. Rosewater. E vi dirò con una preterizione sincera e fuor d’ogni retorica – cosa non tanto ossimorica quanto potrebbe parere di primo acchito – cosa stupisce di questo romanzo, pubblicato dallo statunitense Kurt Vonnegut nel 1965. Infatti, ciò che rimarrà impresso indelebilmente nella memoria del lettore non sarà certo lo stile inconfondibile dell’autore, asettico e satirico, che trasuda ironia dietro un – appositamente – malcelato velo d’oggettività.

Non la creatività dell’intreccio, che su un semplice scheletro narrativo genera amare conversazioni, distopicamente realistiche – per rimanere sul tema di ossimori, ahimè, soltanto apparenti – e ricorda aneddoti d’impatto schiacciante: “Be,” disse uno finalmente “non è mica una vergogna essere poveri.” (…) “No,” disse un altro, completando la battuta, “ma tanto varrebbe che lo fosse”. E non sarà nemmeno la profondità rappresentativa con cui i personaggi – dipinti quasi mai come buoni o cattivi, quasi sempre solo in quanto persone – ci si propongono a vincersi la postazione più indelebile tra le grinze dei nostri ricordi: non la moglie Sylvia, straziata dal senso di inutilità, di vergogna per la ripugnanza che le ispirano i poveri (…), e da un desiderio suicida d’ignorare questa ripugnanza, di tornare a Rosewater, di morirvi al più presto per una buona causa; né gli abitanti d’una pretenziosamente utopica cittadina d’ereditieri del Rhode Island, oppressi dalla propria stessa ricchezza, convinti che tutto ciò che c’è di bello al mondo è un regalo fatto ai poveri da loro o dai loro antenati, compromessi nella loro ignorante e/o omertosa complicità al più annientante dei capitalismi americani; nemmeno, infine, la messianica figura di Kilgore Trout, misconosciuto scrittore di moltissimi volumetti fantascientifici, il quale, attraverso le proprie opere, bizzarre ma puntuali, e le proprie parole, razionali ma oracolanti, sembra col senno di poi essere l’unico vero alleato del nostro imprevedibile, ingenuo e geniale – se le false contraddizioni vi stufano, battete un colpo – Mr. Rosewater. Sarà infatti il contenuto a prevalere sulla – pur impeccabile – forma di Perle ai Porci, saranno i retrogusti che ci si attaccheranno al palato dopo la – garantisco, per tutti – vorace lettura: l’inquietudine per il sistema in cui ci si scopre incastrati, la speranza per la scoperta d’un’alternativa, l’ironica amarezza per la contrapposizione tra verosimile e reale che c’impedirà d’esser noi stessi un Eliot Rosewater. La rivoluzione di Vonnegut consiste nell’inscenare una scelta d’amore così semplice e genuina, da assumere paradossalmente dimensioni esorbitanti e sovversive. Si tratta di ridurre tutto ad una minima indispensabile missione: ama. Ci dirà una lettera, firmata Il fu Eliot Rosewater: “Sii generoso. Sii buono. Puoi ignorare tranquillamente le arti e le scienze. (…) Sii un amico dei

poveri, sincero e premuroso”. Chiaramente, tutto questo non ci sembrerà nuovo. Questo stesso “fu Eliot Rosewater” dirà: “Ma, per l’amor del cielo, (…) nessuno può lavorare con i poveri senza inciampare di tanto in tanto in Karl Marx; o senza inciampare nella Bibbia, se è per questo”. Ma Eliot non si vota a nessun Credo, nessun ideale fuorché uno solo, quello dell’amore, al punto da superare, apparentemente, quello richiesto dallo stesso Vangelo: “Non gettate le cose sante ai cani e le perle ai porci, perché non le mettano sotto i piedi e vi si volgano contro per sbranarvi.” (Mt 7, 6), ci viene ricordato nel Discorso della Montagna da nientemeno che Gesù Cristo; da questa frase derivò poi quel Margaritas ante Porcos che non è un ballo sudamericano o un cocktail esotico, bensì la locuzione che, ritradotta, ci regalerà il titolo del nostro romanzo. Ma Mr. Rosewater non se ne cura, e sperpera senza rimorso le proprie perle, tanto più contento quanto più irriconoscente ed abusatore sarà il destinatario, purché queste gli siano d’aiuto. Non ha problemi con quel che faranno cani e porci del suo patrimonio, ed anzi ama gli animali. “Come amare la gente che non serve a nulla? Se non riusciamo a trovare delle ragioni e dei metodi per far tesoro degli esseri umani in quanto esseri umani, tanto varrebbe, com’è stato suggerito così spesso, cancellarli dalla faccia della Terra.”, si spingerà a dichiarare ad un certo punto. L’amore di Eliot insiste tanto nell’essere incondizionato, che si leggerà del suo scettico e incomprensivo genitore: “Se Eliot vuole amare tutti, qualunque cosa siano, qualunque cosa facciano, allora quelli di noi che amano specifiche persone per specifiche ragioni farebbero meglio a trovarsi una parola nuova.” Alzò lo sguardo a un quadro a olio della sua povera moglie, “Per esempio… io amavo lei più dello spazzino, il che mi rende colpevole del più innominabile dei delitti moderni: la discri-mi-na-zio-ne”. Sono certo che molti di voi, a questo punto, avranno già capito quanto non sia così scontato, così facile parteggiare per il nostro ormai tanto caro quarantenne. Sono certo che molti di voi, a questo punto, capiranno la portata della rivoluzionaria insensatezza, della verosimile inattuabilità del suo agire. E di rivoluzione, infatti, si può parlare

anche in senso più convenzionale. Non vi sarà di certo risultato difficile, infatti, intuire anche la chiave di lettura socio-politica che questo romanzo – che ricordo avere i natali nell’America dei ’60 – si sforza di nascondere tanto quanto Autoguidovie si sforza di garantire la puntualità delle proprie linee. La novità? L’innocenza. “Mi sembra terribile il modo in cui la gente, in questo Paese, rifiuta di spartirsi equamente le ricchezze. Io trovo che è un governo senza cuore quello che permette a un bebè di nascere essendo già il padrone di una grossa fetta del paese, come sono nato io, e di lasciare che un altro bebè venga al mondo nudo e crudo. Il meno che un governo potrebbe fare, secondo me, è dividere equamente le ricchezze tra i bebè. La vita è già abbastanza dura senza che la gente, per i soldi, debba farci anche una malattia. Ce ne saranno in abbondanza per tutti, in questo Paese, se faremo meglio le parti.” La veemenza? L’ironia. “Se il fiume Denaro non esiste, come ho fatto io oggi a guadagnare diecimila dollari solo grattandomi e sonnecchiando, e rispondendo ogni tanto al telefono?” “È ancora possibile, per un Americano, costruirsi una fortuna.” “Certo, purché quando è ancora giovane qualcuno gli dica che il fiume Denaro esiste, che in questo non c’è nulla di giusto, che farebbe solo bene a scordarsi del duro lavoro, del criterio meritocratico, dell’onestà e di tutte quelle cagate, e ad andare dove scorre il fiume. ‘Va’ dove si trovano i ricchi e i potenti,’ gli direi, ‘e imparane i costumi. È possibile lusingarli ed è possibile far loro paura (…), e una notte senza luna si porteranno un dito alle labbra, esortandoti a non far rumore. E nel buio ti guideranno sino al fiume di ricchezze più largo e profondo che l’uomo abbia mai visto. Ti mostreranno il tuo posto sulla riva, e ti consegneranno un secchio tutto per te. Bevi finché vuoi, ma cerca di non fare troppo chiasso. Un povero potrebbe sentirti’”. E in definitiva, a prescindere dal forte schieramento sull’asse politico, la lezione più importante estrapolata ha valore universale: se il nostro amore per l’altro ha davvero la pretesa d’essere indiscriminato come vogliamo, la prima cosa da cui dovremo emanciparci sarà la solida dicotomia di produttività e insensatezza, guadagno e anonimia, e soprattutto di dignità e ignoranza, valore e incompetenza, merito e irrico-

noscenza. Di nuovo, qui la rivoluzione rischia di rivelarsi tale, l’incomprensione si fa più palpabile e condivisibile, un radicato sistema di valori minaccia di cadere. Voi da che parte state? Può dirsi questo il ripetuto cliché d’una contrapposizione tra progressismo e conservatorismo? Cosa scegliere, tra un bene scomodo e insensato e un male razionale e “necessario”? La scelta sta a voi, e a voi soltanto. Sapete già, d’altra parte, qual è quella di Mr. Rosewater: “Voglio amare questi Americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte”.