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Donne, Vita e Libertà

GIORGIA TIRALONGO, 4bb; SOFIA MARCANTONI, 4H; VERONICA GUARISCO, 3D

Quante volte, nel corso della storia, abbiamo sentito parlare di libertà? Sicuramente tutti ricordiamo le grandi battaglie del passato, combattute da un popolo per affermare la propria autonomia contro un altro: era proprio la volontà di mantenere una distinta identità culturale e politica che muoveva i greci – e che li ha portati alla vittoria – contro i persiani, che spingeva i comuni dell’Italia del Nord, nel Medioevo, a non piegarsi alle pretese di Federico Barbarossa; lo stesso accadeva nella Francia della Rivoluzione o nell’Italia del Risorgimento. Tutti questi avvenimenti della storia sono accomunati da un fattore importantissimo, la libertà, di cui oggi, grazie ai sacrifici del passato, noi godiamo pienamente. E spesso non ne siamo nemmeno consapevoli. Ogni vestito che scegliamo di indossare, in ogni luogo verso cui ci incamminiamo, qualsiasi carriera vogliamo intraprendere, possiamo farlo senza che nessuno ci obblighi a tornare sui nostri passi. Abbiamo il privilegio di poter far sentire la nostra voce e di non essere condannati per le nostre opinioni. Purtroppo, come abbiamo visto, la realtà vissuta fino ad adesso dalle donne iraniane è ben diversa dalla nostra, e in questo momento stanno combattendo proprio quella stessa battaglia che i greci, i milanesi, i francesi, gli italiani combatteroni nei secoli scorsi: gridando a perdifiato per le strade, pestando i piedi per terra, sopportando in silenzio le sofferenze fisiche, ma non le ingiustizie e gli abusi sociali, queste donne stanno lottando per la loro libertà, prima su tutte la scelta autonoma di indossare il velo, senza rinunciare alla fede religiosa, rendendo così l’hijab, da simbolo di imposizione, uno

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strumento che rappresenta la libertà di scelta. Non a caso il motto delle proteste è diventato “Donne, vita e libertà”, precedentemente coniato dal movimento attivista per la liberazione delle donne curde (un’altra questione spinosa). La situazione è, però, molto più complessa di così. Infatti non sono solo donne a protestare, bensì anche gli uomini si sono uniti alla ribellione contro un sistema socio-politico che limita le libertà di ciascuno e non lascia spazio al singolo. E questo dato ci conferma il fallimento dell’imposizione educativo-ideologica della Rivoluzione Islamica, che ha deformato gli insegnamenti di un’intera religione per controllare e tenere sotto scacco i fedeli. Le proteste, infatti, sono esplose come fiumi in piena anche nelle scuole, dove le ragazze strappano dai libri le foto di Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica e dell’attuale leader Ali Khamenei, e sono approdate addirittura sui social: basti pensare che su Twitter l’hashtag “Mahsa Amini” è rimasto in cima alla classifica per diversi giorni, ma viene da chiedersi se, come spesso accade in queste situazioni, i canali di comunicazione con l’estero non verranni presto ostruiti dal regime. Tutto questo, come si è detto, è il risultato di un accumulo di sofferenze che dura da più di quarant’anni: “La rivoluzione in Iran ha 43 anni. L’8 marzo 1979, appena un mese dopo il successo della Rivoluzione iraniana, le donne scesero in piazza per protestare contro l’hijab e il ripristino del codice di abbigliamento obbligatorio da parte degli ayatollah. Avevo 13 anni. Ma questo scontro tra le donne del Paese e il regime è il più antico e duraturo in Iran. E credo che le donne stiano vincendo”, dichiara la scrittrice iraniano-americana Roya Hakakian. Già nel 2009, il Movimento Verde era sceso in piazza per protestare contro i presunti brogli elettorali di quello stesso anno, e anche in quest’occasione la vittima-simbolo della dura repressione da parte del governo era una donna, Neda Agha-Soltan, brutalmente uccisa dalla polizia iraniana. Ora, invece, sulla lapide di Mahsa è incisa la scritta: “Name-to ramz mishavad”, “il tuo nome diventerà chiave”, e lo è già tutt’ora, perché il ricordo di una giovane vittima innocente infervora gli animi di tutti noi che ci commuoviamo per questi fatti pur non vivendoli dall’interno, ma spinge

soprattutto quelle persone a lottare per cambiare le cose e costruire una società che permetta ad ogni donna di scegliere liberamente. Le lotte e le rivoluzioni citate prima sono spesso associate a grandi nomi della storia. C’è chi sostiene che le attuali proteste in Iran, invece, non abbiamo un leader unico che faccia capo per tutti, ma che provengano dal grido comune che rivendica una società più inclusiva, e che per questo motivo abbia buone probabilità di durare ancora a lungo. Per questo bisogna ricordarsi che, anche se sembra un po’ utopico, le grandi rivoluzioni hanno successo grazie alle “piccole” persone e al loro sacrificio. Da sempre, rivoluzioni così radicali portano con sé scontri e sanguinose repressioni che eliminano chi si batte per i diritti propri ed altrui: Asra, uccisa perché non cantava l’inno, Ilmaz, arrestata perché senza velo e Elnaz Rekabi, della quale, dopo che gareggiò in una gara di arrampicata ai Campionati asiatici in Corea del Sud a capo scoperto, si sono perse le tracce. Loro sono solo tre delle tantissime iraniane che sono scese in piazza a protestare in nome della libertà, ma che la polizia morale ha fermato. In realtà, l’obbligo di indossare il velo rappresenta solo la punta dell’iceberg di un Paese che discrimina il 50% della popolazione e che sta affrontando la terza ondata di proteste liberali degli ultimi anni, dopo quelle del 2009 e 2019 precedentemente citate. L’Iran, che è stato conosciuto con il nome di Persia fino al 1935, porta sulle spalle l’eredità dell’impero più vasto della storia per percentuale di popolazione su cui governava (stimata essere attorno al 44% dal Guinnes World Record) e una struttura sociale fortemente patriarcale. Nel dicembre del 1925, dopo un periodo di semi-anarchia a seguito della Prima Guerra Mondiale, Reza Khan, un comandante militare, riuscì a sconfiggere i capi tribali e si proclamò scià, stabilendo l’islam come religione ufficiale e fondando la dinastia dei Pahlavi, che per circa sessant’anni ha governato l’Iran. Grazie a lui, il Paese ha subito una grande modernizzazione economica e culturale ispirata a modelli occidentali; tuttavia l’estrazione del petrolio da parte degli stranieri e il tentativo dello scià di importare un nuovo stile di vita ha creato un forte risentimento verso Europei e Americani. Dopo l’invasione mili-

tare di Regno Unito e Unione Sovietica nel 1941, Reza Khan fu costretto ad abdicare in favore del figlio Muhammad, il quale sostituì il regime di monarchia costituzionale con un regime autocratico e, interrotta la linea di moderatismo del padre, cominciò a operare una stretta autoritaria. Avendo eliminato ogni partito di opposizione politica, l’unico contestatore fu l’Ayatollah Komheini, guida degli sciiti, che ricevette l’appoggio di praticamente tutta la popolazione: il 30 marzo 1979 un referendum sancì la nascita della Repubblica Iraniana con il 98% dei voti. Di repubblica, però, l’Iran ha avuto soltanto il nome, in quanto era ed è tutt’ora fondata sul rispetto della sharia: tra le tante leggi, il gioco d’azzardo, la prostituzione e l’alcool vengono banditi, la persecuzione verso gli omosessuali e chiunque sia contrario alla legge musulmana si fa spietata mentre alle donne, che negli Stati industrializzati acquisiscono sempre più diritti, non viene concessa alcuna emancipazione. Eppure, a ben pensarci, la tradizione di indossare velo non è una prerogativa esclusivamente musulmana: basti pensare ad un affresco quattrocentesco, alle raffigurazioni della Vergine Maria o alle novelle medievali sull’amor cortese. Le patrizie romane lo indossavano per rimarcare il loro status sociale, le dame di corte se ne adornavano timidamente il capo come simbolo di riserbo e purezza, e il comun denominatore è sempre uno: rendere “sacre” le parti del corpo che vengono coperte, non solo le teste, ma anche le mani guantate e le gambe inguainate in calze di seta. Con l’avvento della nuova religione, si cercò di promuovere una società meno gerarchica e più equa, dunque anche le schiave, a cui il velo era stato proibito fino a quel momento, poterono finalmente velarsi come le altre. Il suo uso non è obbligatorio, non esiste nel Corano uno scritto che imponga l’obbligo di velarsi il capo, ma è possibile trovare la raccomandazione per le donne di coprire le “parti belle” e per gli uomini di coprire invece le gambe, per aderire ad un decoro pubblico e dignitoso della persona stessa. L’obbligatorietà del velo in Iran risale alla Rivoluzione islamica del 1979, guidata dall’Ayatollah Khomeini: l’hijab, lungi dall’essere semplicemente aderenza a un dettame religioso, divenne il simbolo politico della resistenza contro il regime monarchico

dello scià Muhammad Pahlavi, per contrapporsi al modello sociale e culturale filo-occidentale e alla modernizzazione sostenuti dal sovrano, che negli anni Trenta aveva stabilito per legge un dress code, vietando l’uso dell’hijab. Nei primi anni Ottanta, al tempo della guerra contro l’Iraq, l’imposizione del velo per tutte le donne, iraniane e straniere, indipendentemente dalla loro religione, diventa invece un potente strumento di controllo della vita delle donne da parte delle autorità, una forma di esercizio del potere che non ha nulla a che fare con il credo personale. Ma mentre in Iran le giovani donne iraniane rischiano la loro vita per togliere il velo e riconquistare la loro libertà, non troppo lontano da noi, in Francia, le donne musulmane protestano per rivendicare i propri diritti indossando il velo, vietato in diversi contesti con il fine di preservare la laicità dello stato. La Francia, infatti, considerata il paese laico per eccellenza nonostante sia sede della più grande minoranza musulmana d’Europa, ha da sempre avuto un rapporto di controversia con la religione e i rispettivi simboli indossati in pubblico: alcune restrizioni erano già state imposte a Parigi, ad esempio, dove dal 2004 è proibito indossare il velo islamico nelle scuole, mentre nel 2010 venne condannato anche il niqāb nei luoghi pubblici. Nonostante il velo sia parte integrante della cultura islamica, secondo lo stato esso non è conforme ai valori della repubblica francese, che continua imperterrita a limitare la libertà delle donne musulmane imponendo continue restrizioni: di recente è stato proibito di indossare l’hijab anche alle atlete, e addirittura Marine Le Pen, politica e deputata all’assemblea nazionale francese, esigeva di proibire l’uso del velo negli spazi pubblici, sanzionando con una multa le donne che lo avrebbero indossato. Le proteste delle donne francesi di religione islamica non sono tardate ad arrivare: insorte quasi immediatamente , sono state portate avanti soprattutto da ragazze giovani, forti e determinate, che sono riuscite ad ottenere non solo visibilità, ma anche sostegno di alcuni influencer dei social media, riuscendo così ad avviare una campagna di tendenza con l’hashtag “hands off my hijab”. La diramazione della ribellione è evidente, sempre più

donne - e anche uomini - stanno diffondendo la loro parola, proclamando ad alta voce la loro indipendenza. Il velo è un’espressione della loro libertà, della devozione verso il profeta Maometto; indossare l’hijab fa parte della loro identità: per questo motivo si sentirebbero umiliate se costrette a toglierselo. Le proteste iraniane contro l’obbligo del velo, invece, sono di tutt’altra natura e dettate dall’oppressione politica attuale in cui versa lo stato: l’argomento di lotta è sempre il medesimo, tuttavia il contesto storico-politico della nazione non solo incita le persone a mettere in atto un cambiamento, ma trasforma completamente la loro modalità di agire a seconda della situazione in cui si imbattono, come avviene in questa specifica circostanza: sia l’imposizione che il divieto del velo generano scontri e ribellioni - di natura opposta, è vero - ma in entrambi i casi l’obiettivo della perpetua lotta che da anni caratterizza entrambe le nazioni è uno solo: rivendicare la propria libertà.