Ronald P. Dore
Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?
Come alcuni di voi forse avranno riconosciuto, il titolo che ho scelto è un riferimento a un libro che diedi alle stampe nel 1987, Taking Japan Seriously, che nel 2000 venne pubblicato nella traduzione italiana con il titolo Bisogna prendere il Giappone sul serio. Dapprima qualche antefatto. Uno dei momenti più stimolanti della mia vita fu nel 1950, quando ero studente all’Università di Tokyo e facevo ricerche sul campo con un team di studenti post laurea giapponesi per valutare la possibilità che il tasso di nascite potesse diminuire. In quel momento in Giappone il tasso di nascite, che tutti allora consideravano disastrosamente alto, era di 35 nuove nascite ogni 1000 abitanti. Erano trascorsi cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ed eravamo all’inizio della guerra di Corea. Mi ricordo di un amico che era stato un giovane ufficiale di fanteria e che manifestava una considerevole soddisfazione nel vedere gli americani, gli Ame-chan, braccati lungo la penisola coreana per opera dei nordcoreani. Tuttavia l’interminabile discussione di tutte le sere ruotava attorno a una questione ben più seria e sofisticata. Che cos’era la vera democrazia? Il Giappone avrebbe potuto evitare di scivolare nel fascismo? e se sì, perché vi era comunque scivolato? Maruyama stava allora tenendo quelle lezioni che sarebbero diventate il suo libro in cui comparava la natura del fascismo tedesco e di quello giapponese, e alcuni suoi allievi facevano parte del nostro gruppo. Uno dei modi in cui la gente esprimeva il proprio sentimento politico consisteva nella parola che sceglieva per descrivere la data del 15 agosto del 1945. Gli ottimisti, che ritenevano che le cose sarebbero proseguite bene, lo chiamavano shusen no hi – “il giorno in cui la guerra è finita”, che era l’espressione standard utilizzata sui giornali. Gli altri, tuttavia, si ostinavano a chiamarlo hai sen no hi – “il giorno in cui abbiamo perso la guerra”. Alcuni di questi ultimi erano ardenti riformatori che volevano cogliere ogni occasione per ricordare all’esercito e ai nazionalisti che lo supportavano quale scempio avessero fatto del loro paese. Alcuni erano nazionalisti essi stessi, totalmente amareggiati dalla sconfitta, e speravano solo che la storia avrebbe dato loro una possibilità di rivincita. Utilizzavano il linguaggio della sconfitta come monito costante per l’umiliazione del Giappone e per la necessità di una rappresaglia che li vendicasse. Chiamiamo i primi shusen gumi, “gruppo dei centristi”; quelli