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Identità nazionali e logiche di potere nella narrativa di Kuroshima Denji

STEFANO ROMAGNOLI

Identità nazionali e logiche di potere nella narrativa di Kuroshima Denji

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Contadino e antimilitarista. Sono questi i tratti distintivi sistematicamente attribuiti alla figura di Kuroshima Denji (1898-1943) seguendo una ideale divisione in due filoni della sua produzione letteraria: da un lato i racconti incentrati sulla vita rurale, con cui lo scrittore si affacciò sul mondo letterario a partire dal 1925 guadagnandosi una stabile reputazione come autore di nōminbungaku (letteratura contadina). Dall’altro i racconti cosiddetti “siberiani”, rielaborazione della propria esperienza di militare in Siberia. Questa divisione (di cui si è avvalsa anche una parte della critica occidentale)1 non è assolutamente erronea, anche se suggerisce una distribuzione diacronica dei due filoni che, nei fatti, non si ebbe mai, dal momento che Kuroshima continuò a scrivere letteratura “contadina” fino ai primi anni Trenta. Tuttavia essa non tiene conto di una serie di racconti che risalgono agli ultimi anni di attività dello scrittore (dal 1929 al 1932), una produzione consistente e sottesa da una visione politica e letteraria qualitativamente differente rispetto a quanto l’aveva preceduta.

In questo contributo mi propongo di analizzare le due serie di racconti con particolare attenzione alle modalità di descrizione dell’Altro, e di evidenziare il sostrato ideologico che è alla loro base, provando così che la serie più recente costituisce un ciclo a se stante che possiamo considerare come evoluzione di quella siberiana.

I racconti “siberiani” (shiberia mono) sono un gruppo di undici racconti, scritti tra il 1925 e l’inizio del 1929, e basati sull’esperienza diretta dello scrittore sul continente.2 Nel 1919 Kuroshima fu infatti costretto a svolgere il servizio di leva che all’epoca durava tre anni, interrompendo così gli studi universitari da poco intrapresi, e nella primavera del 1921 fu inviato come infermiere militare presso

1 Keene, ad esempio, asserisce che: “Kuroshima’s stories fall into two main groups, those describing people in farm communities, and those related to his experiences in Siberia”. In Donald Keene, Dawn to the West, Japanese Literature of the Modern Era, FICTION, Columbia University Press, New York 1998, p. 605. 2 Kakurishitsu (La stanza di isolamento, ottobre 1925), Kurimoto no fushō (Il ferimento di Kurimoto, settembre 1926), Ryārya to Marūsha (Lyalya e Marusha, dicembre 1926), Yuki no Shiberia (Siberia innevata, marzo 1927), Sori (La slitta, settembre 1927), Uzumakeru karasu no mure (Uno stormo vorticante di corvi, ottobre 1927), Ana (La fossa, maggio 1928), Paruchizan Uorukofu (Il partigiano Volkof, settembre 1928), Sakin (Polvere d’oro, novembre 1928), Hyōga (Il ghiacciaio, gennaio 1929) e Horyo no ashi (Le gambe del prigioniero, gennaio 1929).

l’ospedale dell’esercito di Nikol’sk (l’attuale Ussurijsk), durante l’intervento militare giapponese in Siberia (1919-1922).

Kuroshima mal sopportò la vita in caserma: molte delle pagine del diario che tenne mentre era sotto le armi, pubblicato postumo nel 1953, traboccano di avversione per le routine e le storture del sistema militare; su questa stessa linea si muovono anche i racconti di ambientazione siberiana, che coniugano la descrizione di un contesto profondamente diverso da quello giapponese con un forte messaggio antimilitarista.3 Nella visione di Kuroshima l’ambiente militare siberiano è un micro-universo, un pezzo di Giappone trapiantato in un ambiente estraneo e ostile, attorniato e popolato da individui che “non potevano più rimanere in patria”, o per cui la Siberia rappresenta un luogo “privo di leggi” in cui poter dar sfogo ai propri istinti peggiori. Nella sua organizzazione gerarchica il microcosmo siberiano ripropone la contrapposizione tra classi sociali: quella dominante, qui rappresentata dagli ufficiali, e quella dominata, costituita dai gradi inferiori e dalla popolazione locale. Ogni tentativo di uscire da questa logica di potere, ogni sforzo di ribellione è destinato al fallimento e, molto spesso, conduce alla morte.

A volte poi non si tratta nemmeno di ribellione vera e propria, ma piuttosto di un involontario sconfinamento nel territorio delle prerogative altrui. È questo il caso del più noto racconto della serie, Uzumakeru karasu no mure (Uno stormo vorticante di corvi, ottobre 1927): i protagonisti disturbano inavvertitamente un maggiore che si sta intrattenendo con una ragazza russa, oggetto dell’amore non corrisposto di uno dei due. I due soldati non si rendono pienamente conto dell’accaduto, ma la punizione per aver esposto l’ufficiale alla vergogna, cogliendolo in un momento di debolezza, è inesorabile: la loro compagnia viene inviata verso un presidio isolato. Il drappello perde però la strada e muore assiderato nella neve; quel che ne resta viene ritrovato soltanto in primavera, sovrastato da uno stormo di corvi intento a cibarsi dei cadaveri. I protagonisti sono stati “vittime della lussuria del maggiore”, scrive Kuroshima, ma in realtà questi si è limitato a mandare la compagnia dei due protagonisti al posto di un’altra. La gerarchia militare è sì un sistema perverso che permette la sopraffazione di pochi su molti, ma ciò che Kuroshima qui critica con veemenza è piuttosto la guerra stessa.

A quelli che li avevano inviati in Siberia non importava un accidente se loro cadevano preda delle (pallottole), o se venivano (uccisi e) divorati dai lupi. Che due o tre morissero era una cosa scontata. Che i caduti fossero duecento era una cosa da niente. Per loro la morte di un soldato significava meno della morte di

3 Il diario va dal 20 novembre 1919 al 22 aprile 1921 e reca un doppio titolo, in giapponese e in inglese: Jotai no hi made (guntai ikkanenkan no nikki) To the day of the discharge from military service [Fino al giorno del mio congedo dal servizio militare (diario di un anno di servizio militare)]. Venne affidato come testamento spirituale a Tsuboi Shigeji (1897-1975), scrittore e conterraneo di Kuroshima, prima della partenza per la Siberia e fu lo stesso Tsuboi a curarne la pubblicazione postuma, nel 1953, primo passo verso la riscoperta di Kuroshima nel dopoguerra.

un cucciolo di cane. Di rimpiazzi ne avevano quanti ne volevano. Gli bastava un ordine scritto di coscrizione per farne venire altri.4

Questo spirito di denuncia si esaurisce però in se stesso, si concentra sul mondo militare e non diventa qui occasione per un’analisi più approfondita dell’essenza della guerra, e fu proprio questo limite ad essere stigmatizzato nelle critiche mosse allo scrittore dall’intellighenzia dell’epoca, come si vedrà più avanti.

È innegabile che alla base della dinamica oppresso-oppressore vi sia una visione marxista della società, visione che si ritrova anche nel filone tematico incentrato sulle fabbriche e sulle campagne. È una visione che non affiora però in superficie, ma rimane piuttosto l’ossatura portante di una narrativa che, seppur non esplicitamente autobiografica, ha un forte radicamento nell’esperienza di vita dello scrittore. Questa intrinseca “sotterraneità” del messaggio marxista costituisce un punto di differenza rilevante tra il ciclo siberiano e i racconti degli ultimi anni Venti, ed è probabilmente grazie ad essa che alcuni dei racconti siberiani sono scampati al destino di oblio che ha subito la letteratura “proletaria” e sono ancora oggi annoverati tra i capolavori della letteratura pacifista.

Nei racconti “siberiani” emergono due caratteristiche di estremo interesse, la prima delle quali è senza dubbio lo sguardo sull’Altro nella rappresentazione dello straniero. Rispetto ai racconti “contadini”, infatti, l’ambientazione siberiana offrì a Kuroshima l’occasione di introdurre etnie diverse da quella giapponese – russi, naturalmente, e coreani – e di rappresentare l’interazione tra queste etnie e i giapponesi stessi.

L’Altro appare in prima istanza in tutta quella sua diversità fisica che lo rende, appunto, “altro”, in una sorta di esotismo ambiguo. I sensi predominanti sono qui l’olfatto e la vista:

Dentro alle abitazioni c’erano vecchi tavoli e samovar. Vi erano appese tende ricamate. Tuttavia mandavano un odore di strane pellicce e di grasso animale, come fossero delle stalle. Per i soldati giapponesi quello era senza dubbio l’odore dei bianchi.5

I bambini avevano occhi azzurri. Erano avvolti in cappotti laceri di pelliccia ormai consunta, la testa contratta e infossata nel colletto. C’erano delle ragazze. C’erano anche dei ragazzini. Le scarpe erano sfondate e la neve vi entrava dentro come degli aghi.6

4 Tratto da Uzumakeru karasu no mure in Odagiri Hideo, Tsuboi Shigeji (a cura di), Kuroshima Denji zenshū, vol. 2, Chikuma Shobō, Tokyo 1970 [da qui in avanti abbreviato come KDZ], p. 271. Le parti segnate tra parentesi sono censurate nell’originale; per la traduzione si è fatto riferimento alle integrazioni proposte in Nihon puroretaria bungaku shū vol. 9 : Kuroshima Denji shū, Shin Nihon shuppansha, Tokyo 1984. 5 Uzumakeru karasu no mure, in KDZ, vol. 2, p. 256. 6 Ibidem, p. 254.

Yoshida fu gettato a terra e tenuto fermo da un giovane che puzzava di sacchi di juta, e non riusciva quasi a respirare.7

Nel caso dei coreani e, come si vedrà più avanti, anche nel caso dei cinesi – casi in cui la dissomiglianza fisica non è particolarmente evidente – Kuroshima si serve di descrizioni stereotipiche:

Mentre i due parlavano, entrò l’interprete portando con sé un coreano dal volto piatto e dalle sopracciglia cadenti. L’odore dell’oppio gli arrivò penetrante alle narici. Aveva dei baffi sottili e il suo corpo era intriso di un sentore di lurida stamberga. Era un vecchio, sporco di polvere. […] Tra le labbra cadenti si intravedevano i denti gialli, pieni di sudiciume, e l’alito fetido si spandeva tutt’intorno, arrivando fino al suo naso. Ne sentì la sporcizia come se quello gli stesse respirando addosso. […] Il vecchio aveva un volto abbattuto, comune a tutti i coreani. Lui non si era quasi mai avvicinato a dei coreani, al punto che gli sembrava che avessero tutti la medesima espressione. I loro volti esprimevano quella malinconia di persone rassegnate, continuamente sottomesse e soggette ad ogni umiliazione.8

Non è chiaro se si tratti di una scelta cosciente e deliberata e c’è chi ha sostenuto che, per quanto scrittore “proletario” e nonostante le buone intenzioni, l’autore non fosse immune dall’atteggiamento prepotente e oppressivo del Giappone nei confronti dei paesi più deboli; sembra tuttavia un’interpretazione poco plausibile, se si considera anche la produzione successiva e la forte ispirazione all’ideologia marxista in essa evidente.9

In Paruchizan Uorukofu (Il partigiano Volkof, settembre 1928) la prospettiva è rovesciata: il punto di vista è quello dei partigiani russi che combattono contro i giapponesi. Partigiani che, significativamente, non sono “comunisti” facinorosi ma semplici contadini e allevatori locali; esasperati e furiosi per il trattamento barbaro e le razzie commesse dall’esercito giapponese, hanno imbracciato le armi e si sono dati alla guerriglia. Lo stesso Volkof, da cui il racconto prende il nome, era il pope, il parroco di un villaggio messo a ferro e fuoco dai giapponesi, causando la morte di gran parte dei suoi abitanti, tra cui suo padre. Nella visione dei partigiani russi e della popolazione locale, i soldati giapponesi – fonte di danno e distruzione – vengono assimilati a cani, facendo convergere nell’epiteto ingiurioso tutto il loro sentimento di ostilità.

La gente del villaggio, in quell’occasione, non si lasciò andare a parole d’odio verso i giapponesi. Il loro sentimento verso questi ultimi aveva oltrepassato l’odio ed era diventato ostilità. Per descrivere i giapponesi cominciarono ad

7 Yuki no shiberia, in KDZ, vol. 2, p. 227. 8 Ana, in KDZ vol. 2, p. 287. 9 Kim Dalsu, “‘Ana’ no buntai to chōsenjinzō”, Geppō 1, KDZ vol. 1.

utilizzare l’epiteto di cani. Ormai erano pressati dal desiderio impellente di sterminare tutti quei cani che intralciavano la loro esistenza.10

È interessante notare a margine l’utilizzo della similitudine canina che, negli anni dell’imperialismo giapponese, diventerà di uso frequente sia con connotazioni positive (si pensi al manga Norakuro di Tawada Suihō o all’espressione cinese Gǒu qù zhū lái11) che negative, come nella propaganda di guerra statunitense, ad esempio.

I protagonisti di una parte dei racconti siberiani sono personaggi che potremmo definire “liminari”: personaggi che vivono e si muovono sul confine tra sé e l’Altro.12 Trasportati dal Giappone in una realtà profondamente diversa e ostile, la soglia su cui sono posti non è però soltanto fisica: è una soglia culturale, e non è un caso che gran parte di loro cerchi di imparare a parlare un po’ di russo (come d’altra parte fece lo stesso Kuroshima durante la permanenza in Siberia), nello sforzo di superare il confine con il mondo dell’Altro.

Ed è proprio nell’aspetto linguistico che risiede la seconda caratteristica interessante del ciclo siberiano: il problema dell’incomunicabilità con l’Altro. Già nei dialoghi frammentati tra la popolazione locale e i soldati, dialoghi in cui si mischiano parole giapponesi e parole russe, l’incomprensione è in agguato. In Uzumakeru karasu no mure, i due protagonisti si informano dalla ragazza su chi sia venuto a farle visita, ma restano perplessi di fronte alla risposta non riuscendo a cogliere il significato del termine russo maǐor, che associano invece al giapponese mai yoru (avvicinarsi danzando).

Un significativo esempio di incomunicabilità si trova anche nel racconto Yuki no Shiberia (Siberia innevata, marzo 1927): due soldati giapponesi di stanza in Siberia cercano un diversivo alla noia andando a caccia di conigli, nella neve. Durante una di queste battute vengono catturati da un gruppo di russi – se si tratti di partigiani o di semplici contadini è volutamente omesso – i quali li spogliano dei loro indumenti e sparano loro contro, incuranti delle loro suppliche.

Il vecchio si avvicinò ai due, immobilizzati da sette, otto mani ostinate, e con lo sguardo di chi dovesse farli confessare chiese con insistenza qualcosa in russo. Né Yoshida né Komura lo compresero. Ma a giudicare dallo sguardo e dalle movenze del vecchio era chiaro che questi sospettava che i due fossero venuti a spiare le loro condizioni, e che cercava di sapere da loro quanti soldati giapponesi stazionassero ora in città.

10 Paruchizan Uorukofu, in KDZ vol. 2, p. 342. 11 Letteralmente “vanno via i cani e arrivano i porci”; si tratta di un’espressione popolare utilizzata a Taiwan per indicare la transizione dal dominio giapponese (i cani, severi ma fedeli) a quello cinese (i maiali, avidi e corrotti). 12 Il termine liminare ha qui un’accezione diversa rispetto a quella utilizzata da Van Gennep e Turner nell’ambito dell’antropologia dei riti di passaggio.

[…] Yoshida disse in russo qualcosa che ricordava di aver sentito: “ne ponimaju” (non capisco). Il vecchio li scrutò per un po’, con sguardo insistente. Un ragazzo con un cappello indaco si intromise e disse qualcosa. “Ne ponimaju” ripetè Yoshida. “Ne ponimaju”. Il tono si fece involontariamente supplichevole. Il vecchio disse qualcosa ai giovani, e immediatamente quelli si misero a spogliare i due dai pesanti indumenti invernali: l’uniforme, la biancheria, la calzamaglia, le scarpe e persino le calze. … I due furono fatti rimanere in piedi in mezzo alla neve, completamente nudi. Si resero conto che presto li avrebbero fatti fuori con un colpo di arma da fuoco. Due o tre dei ragazzi stavano frugando ad una ad una le tasche delle uniformi che avevano tolto loro. Altri due si incamminarono verso un punto poco distante, con il fucile in spalla. Yoshida pensò che gli avrebbero sparato e, involontariamente, disse in russo: “Aiuto! Aiuto!”. Ma le parole che ricordava non erano esatte. Avrebbe voluto dire “aiuto” (spasite) ma nelle sue parole riecheggiava, piuttosto, “grazie” (spasibo). I russi non sembravano ascoltare le suppliche dei due. Gli occhi feroci del vecchio li guardavano ora senza alcun interesse. I due che si erano allontanati imbracciarono i fucili. Allora Yoshida, che se ne stava buono in piedi, nella neve, scattò improvvisamente in avanti e iniziò a correre. Al che anche Komura gli andò dietro correndo. “Aiuto!” “Aiuto!” “Aiuto!” gridavano i due correndo sulla neve. Ma le loro grida suonavano alle orecchie dei russi come: “Grazie!” “Grazie!” “Grazie!” … fu un attimo: due colpi di fucile risuonarono per tutta la vallata.13

L’incapacità di esprimersi correttamente in russo non è intrinsecamente fatale per i due (possiamo immaginare che la loro fine sia comunque già decisa nel momento in cui vengono catturati); nella sua tragicomicità, tuttavia, il bisticcio marca in modo estremamente efficace il contatto fra due realtà tra cui non può esservi comprensione alcuna.

Un terzo e ultimo esempio è tratto dal racconto Ana (La fossa, maggio 1928); qui il protagonista – un soldato semplice, interrogato dalla polizia militare perché trovato in possesso di una banconota falsa – viene a sua insaputa messo a confronto con un vecchio coreano oppiomane, che una spia ha indicato come il falsario. L’incontro tra due persone, due individui di nazionalità diversa ma ugualmente

13 Yuki no Shiberia, in KDZ vol. 2, pp. 227-228.

“oppressi” dal sistema, si risolve nella drammatica impossibilità di comunicare, di avvicinarsi, di capirsi, nemmeno tramite una lingua franca (il russo).

La lingua coreana, sentita parlare da lì accanto, suonava densa di irritazione e sembrava che persino i segni di interpunzione venissero urlati. Toni che suonavano buffi venivano pronunciati dal vecchio con un’espressione seria. [...] Poco dopo anche l’interprete uscì. Nella stanza rimasero soltanto lui e l’anziano coreano. Si guardarono a vicenda, e ognuno osservò il volto e il corpo dell’altro. [...] Lui non sapeva dire nient’altro che “obuso” [Non c’è / Non ho], in coreano. Quindi non poteva parlarci. «Dove vivi?» provò a chiedere, in russo. Il vecchio disse qualcosa, mostrando i denti gialli. Il tono era miserevole e l’aria sconsolata. Le labbra si muovevano e con loro si alzavano e abbassavano i baffi sottili. La risposta era in russo, ma non riuscì a capirne il significato. «Perché sei venuto qui?» chiese di nuovo in russo. Il vecchio piegò la testa mostrando di non aver compreso, e continuò a guardarlo con esitazione, con occhi interrogativi e tristi. Anche lui rimase lì a fissarlo.14

Nel gennaio 1929 il racconto Horyo no ashi (Le gambe del prigioniero) chiude la serie dei racconti “siberiani”. Da qui in avanti la produzione anti-bellica di Kuroshima prende una direzione diversa: forte della reputazione ormai consolidata di scrittore “antimilitarista” si rivolge dal passato al presente e cerca di farsi interprete degli sviluppi storico-politici a lui contemporanei. Sono gli anni in cui la politica giapponese verso la Cina, nello sforzo di proteggere i propri interessi sul continente, innesca il processo che porterà, nel 1931, all’invasione della Manciuria. Tra il 1929 e il 1932 Kuroshima scrive una serie di racconti brevi, alcuni articoli e un racconto lungo, tutti incentrati sulle dinamiche che coinvolgono militari e popolazione civile nel continente. Una produzione che, in un parallelo con quella precedente, potremmo definire racconti “cinesi”.

Kuroshima cerca anche di sistematizzare, in uno sforzo teorico, la sua visione della letteratura anti-bellica. Nasce così Hansenbungakuron (Saggio sulla letteratura di opposizione alla guerra, maggio 1929), un’opera unica nel panorama della letteratura “proletaria” e pilastro concettuale dei racconti “cinesi”.

Il saggio è diviso in tre parti; nella prima, dal titolo Hansenbungaku no kaikyūsei (Classismo della letteratura di opposizione alla guerra), vengono passati in rassegna diversi esempi di letteratura antimilitarista giapponese e straniera, elogiando quelli di matrice ideologica “proletaria” e stigmatizzando quelli di matrice borghese in cui, per quanto si manifesti opposizione alla crudeltà della guerra, non vi è alcuna volontà di estirparla definitivamente. Il pacifismo borghese, sostiene Kuroshima, non mira altro che a preservare lo status quo.

14 Ana, cit., pp. 287-288.

Nella seconda parte (Puroretariāto to sensō, il proletariato e la guerra) Kuroshima riflette sul significato che ha la guerra per il proletariato, e sul ruolo della letteratura in questo rapporto. Non tutte le guerre sono sbagliate: quella del proletariato è una lotta giusta e necessaria.

Vi sono molti generi di guerra. Ci sono le guerre di aggressione, volte a soggiogare. Ci sono le guerre di difesa. Ci sono anche le guerre di liberazione nazionale e, ancora, c’è la rivoluzione. [...] L’atteggiamento del proletariato verso la guerra deriva da principi profondamente diversi da quelli dei pacifisti borghesi, degli anarchici e di tutti gli altri scrittori antimilitaristi che provengono da tali ideologie. La lotta della classe dominata contro quella dominante è una lotta necessaria ed ha un valore in termini di progresso. Le lotte degli schiavi contro i padroni, dei servi contro i signori feudali, dei lavoratori contro i capitalisti sono lotte necessarie. Le guerre si accompagnano ad atrocità, azioni brutali, povertà e miseria ma ciò nonostante vi sono state nella storia delle guerre utili per abolire dei sistemi malvagi, perniciosi e reazionari. Queste guerre devono avere la nostra approvazione in virtù del loro contributo nello sviluppo del genere umano.15

Le guerre contemporanee sono guerre imperialiste e come tali vanno condannate, dal momento che l’imperialismo non è animato da una volontà di progresso bensì dall’obiettivo di soggiogare tutti i popoli. La guerra imperialista può però essere trasformata in rivoluzione del proletariato contro la borghesia, ed è questo il compito che si deve prefiggere la classe operaia. La letteratura deve quindi dispiegare la sua potenzialità propagandistica per esortare contadini e operai alla lotta di classe e alla rivoluzione.

Nella terza ed ultima parte, Hansenbungaku no kōjōsei (La costanza della letteratura anti-bellica), lo scrittore sottolinea la necessità di produrre letteratura antimilitarista prima che scoppi la guerra e non solo durante i conflitti. Per il capitalismo, infatti, non esiste la pace ma solo l’intervallo tra una guerra e l’altra: il tempo di pace è in realtà tempo necessario a preparare la guerra successiva. È quindi necessario produrre letteratura antimilitarista, che renda manifesta la vera essenza del militarismo.16 Lo scopo della letteratura proletaria, dice Kuroshima, è infatti quello di “smascherare l’imperialismo e il militarismo”, e allo stesso tempo di “sollevare le masse dei lavoratori”, ed è questo un compito che va portato avanti incessantemente.

Queste istanze teoriche erano perfettamente in linea con le tesi del Comintern sul Giappone del 1927, in particolare per quanto riguarda la condanna dell’imperialismo giapponese in Cina, che costituiva una minaccia per l’Unione Sovietica.17

15 Hansenbungakuron, in KDZ vol. 3, p. 127. 16 Kuroshima opera qui una distinzione tra hansenbungaku (letteratura di opposizione alla guerra) e hangunkokushugi bungaku (letteratura antimilitarista). 17 Per un’esauriente trattazione dell’argomento si veda Germaine Hoston, Marxism and the crisis of development in prewar Japan, Princeton University Press, Princeton 1986, pp. 55-75.

Kuroshima non si limitò però a dotare di una struttura ideologica più consistente la sua narrativa ma, nei racconti “cinesi”, si impegnò in un tentativo ambizioso di produrre qualcosa di nuovo, tanto nel contenuto che nello stile e nella struttura diegetica.18 Questo sforzo è evidente fin dal primo racconto della serie, Jinan (maggio 1929), basato sull’omonimo “incidente” del maggio 1928: Kuroshima giustappone, in uno stile narrativo che è a mio avviso estremamente filmico (una tendenza, questa, già presente negli ultimi racconti del ciclo siberiano, e in particolare in Paruchizan Uorukofu), sette scene che sembrano apparentemente scollegate.19 Ma proprio attraverso questi singoli episodi si vanno componendo i due messaggi che l’autore tenta di trasmettere ai lettori. Il primo è di natura interpretativa, una differente lettura della realtà contemporanea: il presunto massacro di residenti giapponesi a Jinan è stato di fatto perpetrato dall’esercito giapponese, in modo da creare un pretesto per l’occupazione militare della città. Il secondo è invece ideologico: la ribellione a questo modus operandi, e in senso lato alla guerra imperialista, può nascere dall’interno del sistema ad opera dei soldati stessi, e a differenza del ciclo siberiano questa ribellione non è più un qualcosa di individuale ma assume un carattere collettivo.

Tematiche analoghe si ritrovano in tutti i racconti del ciclo, e ad esse si accompagna la descrizione delle sofferenze che la guerra civile e l’ingerenza giapponese provocano nella popolazione cinese. “Il proletariato” aveva scritto Kuroshima, abbracciando il messaggio dell’internazionalismo proletario, “deve rifiutare categoricamente di ferirsi e annientarsi a vicenda, di uccidersi tra poveri, tra compagni, tra persone dal diverso colore della pelle [...]”.20 Cinesi e coreani residenti in Cina vengono descritti in conformità a questa linea di pensiero. Tratteggiandone le condizioni miserevoli, lo scrittore aspira a mettere in evidenza le responsabilità del capitalismo giapponese che, non soddisfatto di sfruttarne la manodopera, li vessa con una guerra di aggressione; Kuroshima cerca in questo modo di veicolare l’affinità tra il proletariato giapponese e quello cinese e coreano, in pieno spirito internazionalista.

Nell’esempio che segue, tratto dal racconto Heihi (Soldati e farabutti, dicembre 1930), Kuroshima descrive dei cinesi che vanno a cercare fortuna in Manciuria. Si tratta di individui che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi in seguito alle razzie degli eserciti dei vari signori della guerra, e sono emigrati, spinti dalla necessità. Lo scrittore calca la mano sulle caratteristiche fisiche che rendono evidente la loro miseria di profughi.

“Questo è il mio bagaglio”: i ragazzi, che si presentavano masticando semi di cocomero, con un sacco di juta e un materasso bisunto, emanavano un odore di

18 Odagiri Hideo, Kaisetsu, in KDZ vol. 2, pp. 355-356. 19 L’incidente di Jinan, del 3 maggio 1928, fu un conflitto armato tra l’esercito giapponese, arrivato nella città nell’ambito del cosiddetto dai ni santō shuppei (la seconda spedizione nello Shandong), e le forze del Guomindang. Negli scontri perirono anche dei residenti giapponesi. 20 Hansenbungakuron, cit., p. 129.

sporco dalle parti basse, e una puzza d’aglio che feriva il naso. Erano contadini, i cui villaggi erano stati devastati. Vittime quotidiane dei saccheggi, non avevano più la pazienza di sopportarli.21

Lo sfruttamento della manodopera cinese da parte delle industrie giapponesi sul continente, realizzato con la connivenza e il favore dell’esercito imperiale, è uno dei temi portanti di Busō seru shigai (Sobborghi armati, novembre 1930), l’unico racconto lungo scritto da Kuroshima. Si tratta di una ricostruzione romanzata della situazione a Jinan prima del conflitto armato del 3 maggio e delle cause di quest’ultimo, e rappresenta probabilmente la migliore espressione della sua nuova politica letteraria. Lo scrittore non risparmia feroci critiche a nessuno: zaibatsu, esercito imperiale, faccendieri giapponesi, cinesi e persino statunitensi, e non è un caso che il racconto abbia subito delle censure non soltanto nel 1930, immediatamente dopo la sua uscita, ma anche nell’immediato dopoguerra, sotto l’occupazione americana. Di estrema efficacia e drammaticità sono le descrizioni delle condizioni disumane dei lavoratori-schiavi nelle fabbriche, e il brano che segue ne è un esempio particolarmente rappresentativo.

I cinesi venivano in città portando i bambini piccoli nelle ceste sulle spalle, quelli un po’ più grandi li facevano camminare, e li vendevano. Una buona metà [dei bambini che lavoravano nella fabbrica] erano stati comprati per sette o dieci yuan. Ce n’erano anche di molto piccoli. Dal momento che erano bassi, non riuscivano a lavorare seduti in fila con gli operai e le operaie: le loro mani non sarebbero arrivate al bancone. Perciò si facevano mettere dei vassoi per terra, ci poggiavano sopra degli sgabelletti, ci si sedevano e riempivano le scatole con le loro manine graziose. I loro volti avevano assunto il colore della terra, un giallo cinereo. La punta delle loro dita, ulcerata ed ustionata a causa della combustione spontanea dei fiammiferi e della polvere di vetro che era attaccata sui due lati delle scatole, era avvolta in bende nere di polvere. Gli era vietato chiacchierare, o scambiarsi qualche frase durante il lavoro, fino al momento di fare pausa. Per sei ore muovevano soltanto le mani come piccoli robot sordi e muti.22

L’opera è, nel suo insieme, eterogenea e la fruizione è complicata dalla narrativa “episodica” che caratterizza lo stile di Kuroshima e che qui, a differenza dei racconti brevi, mina irrimediabilmente l’unitarietà della storia.

La propensione di Kuroshima per la rappresentazione dell’Altro raggiunge nei racconti di questo ciclo, e in particolare in Busō seru shigai, la sua massima espressione, sostenuta dall’apparato teorico di cui si è detto e rafforzata dall’ambientazione continentale. Nella provincia dello Shandong e nella città di Jinan erano molte le etnie che vivevano fianco a fianco: cinesi, giapponesi, coreani, russi e anche qualche

21 Heihi, in KDZ vol. 2, p. 166. 22 Busō seru shigai, in KDZ vol. 3, pp. 4-5.

americano, e ognuno, nei confronti dell’altro, cova pregiudizi, nutre aspettative o prova ostilità.

I personaggi “liminari” che qui compaiono presentano caratteristiche di notevole interesse. A differenza dei loro omologhi nel ciclo siberiano si tratta infatti di individui che non sono più “sulla soglia” ma che l’hanno invece attraversata e sono divenuti affini all’Altro, snaturando se stessi. A spingerli non è più l’interesse verso l’Altro, ma il tornaconto personale; in altre parole questi personaggi si fanno “altri” per prevaricare o sfruttare chi li circonda.

È il caso di Yamazaki, un faccendiere giapponese che si adopera come spia, il cui modo di parlare, vestire e muoversi lo rende indistinguibile da un cinese:

Si faceva un vanto del fatto che il suo modo di parlare, il suo aspetto e il modo in cui camminava non differissero affatto da quelli dei cinesi. Non si faceva problema a soffiarsi il naso con le dita e gettare per terra il muco che vi rimaneva attaccato. Indossava un cappello nero privo di bordo, con un bottone sulla sommità, e i vestiti e le scarpe erano le stesse dei cinesi. Imitava persino la loro abitudine di farsi crescere le unghie. Soltanto l’eccessivo stacco tra l’iride e il bianco dell’occhio, un occhio troppo definito, costituiva l’unica imperfezione; un difetto di cui non si rendeva conto.23

È significativo che sia proprio questa sua natura duplice a procurargli la morte. Nel momento in cui passa davanti ad un posto di guardia giapponese, compreso in un sentimento di forte appartenenza al Giappone, dimentica il suo aspetto esterno da cinese e si comporta come un giapponese: non si ferma all’alt. Lo sfasamento tra le due identità gli è fatale: la sentinella gli spara e lo uccide.

Un caso analogo è presente nel racconto Senjin (Coreano, maggio 1931). Qui un vecchio contadino coreano viene investito da un giapponese in bicicletta (sempre indicato nel testo come yōfuku no shinshi, il distinto signore in abiti occidentali). Questi, anziché scusarsi, lo copre di insulti e lo minaccia in giapponese, senza che l’altro capisca. Il tempestivo intervento di un giovane coreano svela l’inaspettata verità: l’uomo non è affatto giapponese, bensì coreano, e la folla che sopraggiunge inferocita lo lincia.

E ancora, un impiegato della Mantetsu24 che gira per i villaggi spacciandosi per un cinese, e cerca di reclutare forza lavoro da inviare in Manciuria con l’illusoria prospettiva di lauti guadagni e ottimo trattamento, riesce a ingannare gli adulti ma non un gruppo di bambini, che lo riconoscono come giapponese e gli chiedono qualche spicciolo in elemosina.

… Già, in Cina i vestiti erano la cosa fatta meglio! Questo era quanto pensava Mihara, in base alla sua esperienza, entrando nel villaggio. In Cina i vestiti erano

23 Busō seru shigai, cit., p. 7. 24 Abbreviazione per Minami Manshū tetsudō kabushikigaisha, Compagnia ferroviaria della Manciuria meridionale.

la cosa migliore. Erano ottimi non solo come protezione contro la polvere ma anche per non farsi riconoscere come [censura]; come membri di uno stesso gruppo etnico che condivideva la medesima pelle gialla, il naso schiacciato e il volto con gli occhi neri, bastava vestirsi nel loro stesso modo e conoscere bene la lingua. E questo gli tornava utile per occultare il fatto che, [censura] della Mantetsu, si affaccendava in giro per raccattare forza lavoro a basso costo. […] «Riben ren [giapponese], caccia una moneta!» Gli occhi dei bambini erano più acuti di quelli degli adulti nel riconoscere le persone. Mihara, sicuro di sé quando si trattava di camuffarsi da cinese, rimase sconcertato. «Che dici? Non sono un riben ren! Sono un zhongguo ren [cinese], io!» «Racconti balle, giapponese [censura]!» «Idiota! Sono cinese! Stai zitto!» Mihara prese una moneta di rame e la lanciò sulla strada polverosa, distante cinque o sei ken [10/12 metri]. I bambini si fiondarono all’assalto di quell’unica moneta, gettata a tre di loro, contendendosela.25

Sono questi alcuni dei molti esempi che si ritrovano nei racconti del ciclo cinese. La liminarità che caratterizzava positivamente alcuni personaggi dei racconti siberiani si ripresenta qui in versione negativa. Kuroshima è come sempre avaro di spiegazioni, ma è ragionevole supporre che questa caratterizzazione vada interpretata alla luce dell’internazionalismo che anima Hansenbungakuron: l’unica motivazione condivisibile nell’avvicinarsi all’Altro è il desiderio di riconoscervi qualcosa di noi stessi, vedendo in lui un nostro simile, oppresso e sfruttato. Non vi deve essere tornaconto, ma soltanto solidarietà umana. E a ben vedere sono proprio queste le caratteristiche del protagonista di Busō seru shigai, Kantarō, impiegato come supervisore degli operai cinesi nella fabbrica di fiammiferi giapponese. Kantarō si pone in contrapposizione con il gruppo dirigente, non approvando la politica disumana nella gestione dell’azienda. Si sente “più vicino ai cinesi che non ai giapponesi” (anche per via di una difficile situazione familiare, che lo relega ai margini della comunità dei residenti giapponesi), familiarizza con gli operai ed è un personaggio “liminare” positivo, alla maniera dei racconti “siberiani”. Nel panorama dei racconti di questo ciclo, si tratta però di un caso isolato.

Per uniformità di ambientazione e soprattutto sistematicità di tematiche, entrambi i gruppi di racconti costituiscono due cicli intrinsecamente coerenti e, come emerge da quanto si è detto, il ciclo “cinese” costituisce un’evoluzione più consapevole del ciclo “siberiano”.

Ne è una prova anche l’ultimo racconto del ciclo, Zenshō (L’avamposto, 1932) in cui all’incomunicabilità dei racconti siberiani viene contrapposta, se non proprio la comunicazione, la cooperazione: soldati giapponesi e cinesi, posizionati in due avamposti remoti che si fronteggiano, cominciano a scambiarsi cibo e alcolici, stringendo un legame che trascende la comunicazione verbale. All’arrivo del resto

25 Heihi, cit., pp. 168-169.

della guarnigione, il comandante intima ai soldati del presidio di sparare subito ai nemici, ma questi rivolgono invece le proprie armi contro l’ufficiale, proponendo una ribellione risolutiva che in nuce si era già vista nel racconto Sori (La slitta, 1927) del ciclo siberiano.

I racconti “cinesi” hanno avuto una sorte piuttosto ingrata. Già all’epoca della loro pubblicazione molti vennero censurati, talvolta anche in modo da compromettere la comprensione di interi passaggi; Busō seru shigai e Zenshō furono integralmente censurati non appena dati alle stampe. All’intervento censorio si aggiunse anche uno scarso apprezzamento da parte dell’intellighenzia proletaria dell’epoca, e in particolare di Miyamoto Kenji, che nel famoso articolo “Verso il superamento degli indugi e dell’arretramento nella letteratura proletaria scrisse:

Ciò che fa difetto a queste opere è che Kuroshima non restringe in esse la natura concreta di quella guerra, non discostandosi di molto dalla cognizione generica di “spedizione siberiana”, e che la “guerra” viene concepita come una mera competizione sul campo di battaglia e non vi è alcuna consapevolezza del fatto che, nell’ambito della situazione nazionale e internazionale dell’epoca, essa fosse una guerra di interferenza del Giappone imperialista contro l’Unione Sovietica. […] La guerra è un’estensione del potere borghese. La cosa essenziale è quindi chiarire che collegamento essa abbia con la vita quotidiana degli operai, degli agricoltori e dei lavoratori, e mostrare quale interesse essa rivesta per il proletariato, non come un’idea generica ma come una realtà che interessa tutti quanti. Tutto questo manca tuttavia nelle opere di Kuroshima. Il fatto che il racconto della ribellione da parte dei soldati si risolva semplicemente in una rabbia spontanea, che non ne venga menzionata la motivazione sociale, e che in tutto questo non venga sottolineata l’azione d’avanguardia del proletariato, tutto ciò forma nel suo complesso una grossa pecca. Anche in Jinan e nelle altre opere recenti ciò è lampante.26

La sua critica, in sostanza, si risolve nel biasimare l’insufficiente esplicitazione di quelle che erano le istanze ideologiche del Comintern e dell’Unione Sovietica. In altre parole, per Miyamoto la narrativa di Kuroshima non era abbastanza “proletaria”, e non era conforme alle nuove linee guida del movimento (la cui tragica fine era, peraltro, prossima).

Zenshō fu l’ultimo racconto scritto da Kuroshima; censurato dal governo e osteggiato dai suoi sodali, si ritirò dalla scena letteraria e trascorse i suoi ultimi dieci anni di vita nel villaggio natale, dedicandosi all’agricoltura. Nel dopoguerra vi fu una riscoperta della sua opera, a cominciare da tre articoli pubblicati sulla rivista Shin nihon bungaku nell’agosto 1949. Uzumakeru karasu no mure fu ripubblicato nel 1951 all’interno del primo volume dedicato alla letteratura proletaria del Gendai

26 Miyamoto Kenji, “Puroretaria bungaku ni okeru tachiokure to taikyaku no kokufuku e” (1932), in Miyamoto Kenji bungei hyōron senshū, vol. 1, Shin Nihon shuppansha, Tokyo 1980, pp. 206-207.

nihon shōsetsu taikei, e nel 1953 Tsuboi Shigeji curò la pubblicazione dei diari tenuti da Kuroshima mentre era sotto le armi.

Tuttavia, fino al 1970 (data di uscita del primo zenshū), nessun racconto del ciclo “cinese” rivide la luce, con la sola eccezione di Busō seru shigai. L’immagine di Kuroshima che si andò creando in quegli anni fu quindi strettamente legata alla produzione antimilitarista dei racconti siberiani, e c’è chi ha sottolineato il ruolo fondamentale che ebbero Tsuboi, Odagiri e altri esponenti del mondo letterario nella creazione di questa immagine, in cui avrebbero riversato i loro ideali pacifisti.27

È singolare che il ciclo dei racconti cinesi sia stato giudicato non abbastanza “proletario” all’epoca della sua pubblicazione, e che nel dopoguerra gli siano state preferite altre opere meno schierate, ascrivendo sì Kuroshima alla corrente della letteratura “proletaria” ma accentuando il carattere antimilitarista della sua produzione. Stemperando insomma l’etichetta di scrittore proletario.

Eppure Kuroshima non solo ha saputo coniugare il messaggio politico con la ricerca di un’espressività efficace dal punto di vista letterario, riuscendo abilmente a scansare il rischio di trasformare la propria letteratura in mera propaganda marxista. È stato anche un attento osservatore della realtà a lui contemporanea, una realtà osservata in prima persona e attentamente ponderata, nello sforzo di trovare un modo per trasmetterla al pubblico attraverso l’espediente narrativo. I racconti del ciclo cinese rappresentano senza dubbio il punto di arrivo di questo percorso.

27 Tano Shin’ichi, “Kuroshima Denji ni okeru hansenshōsetsu no ronri”, Shakaibungaku, XXII, 2005, p. 90.

National Identities and Power Dynamics in Kuroshima Denji’s Fiction

The works of Kuroshima Denji (1898-1943) are usually divided into two main groups. On the one hand the works of nōminbungaku (rural literature), written by Kuroshima from 1925, which granted him the acknowledgment and the appraisal of the literary establishment. On the other hand the short stories based on the author’s experience as a soldier during the Siberian Intervention (1918–1922), filled with antimilitarism. However, this subdivision does not take into account a series of works written between 1929 and 1932 and set in the mainland (China, Korea, Manchuria). In this paper I analyze comparatively these works by Kuroshima and his Siberian stories, focusing on the issue of otherness and elucidating their founding ideology. This will prove that the former series, which we can refer to as “China stories”, is an intentional development of the latter, endowed with its own consistency and underlying literary and political outlook.

黒島伝治の作品における国家アイデンティティーと権力力学

ステファノ・ロマニョーリ

黒島伝治の作品は普通二グループに分けられている。一方は黒島が 文壇に出た頃好評を博し、1925年から執筆された農民小説である。も う一方にはシベリア出兵における従軍の体験を基に書かれた、反戦主 題に満ちた「シベリアもの」という短編小説群がある。しかしこの分 別は、1929年から1932年にかけて執筆された大陸を背景にした小説を 除外してしまい、その作品を通しての統一性や、一貫した文学的・社 会的な観点を無視してしまう結果となる。 本稿では、「シベリアもの」とその作品を対照的に分析し、その特 徴(特に他者の描写に関わる表現)とその差異を検討し、その基盤と なるイデオロギーを明らかにする。その結果、後者、つまり「支那も の」は一貫性のある一続きの小説であることや「シベリアもの」の進 化であることなど解説した。

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