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Il danno da karōshi: nuove frontiere della responsabilità civile in Giappone

GIORGIO FABIO COLOMBO

Il danno da karōshi: nuove frontiere della responsabilità civile in Giappone

Le tematiche del karōshi (morte per troppo lavoro)1 e del karōjisatsu (suicido causato dall’eccesso di lavoro)2 sono ben note ai sociologi e agli studiosi di medicina del lavoro. Da qualche anno, tuttavia, la tematica è divenuta di estremo interesse anche per il giurista. Di conseguenza, se i fenomeni vengono osservati attraverso la lente (deformante?) dello studioso di diritto, vi è spazio per alcune nuove riflessioni critiche.

Il presente saggio muove principalmente da una famosa decisione della Corte Suprema del 20003 in tema di karōjisatsu, e dall’analisi del dibattitto dottrinale e giurisprudenziale che tale decisione ha generato. Si è cercato inoltre di estendere la visione alla reazione della stampa e dell'opinione pubblica. Occorre tuttavia premettere che, lungi dal voler essere un'analisi omnicomprensiva del fenomeno,

* Il presente scritto è elaborato anche nell’ambito della ricerca “Alternative Dispute Resolution and Arbitration in Contemporary Japan: New Wine into Old Wineskins” finanziata dalla Japan Society for the Promotion of Science (JSPS).

1 Il termine karōshi è stato probabilmente utilizzato per la prima volta da Uehata Tetsunojō durante il LI Congresso per la Salute nell’industria, tenutosi a Matsumoto nel 1978. Il prof. Uehata presentò una relazione dal titolo Karōshi ni kansuru kenkyū – dai ippō – shokushu no kotunaro jūnana kēsu de no kentō (“Ricerca sul karōshi. Primo report. Studio su diciassette casi in differenti mansioni lavorative). Il prof. Uehata è ora il direttore del Centro di consulenza su karōshi e karōjisatsu ed è autore di contributi fondamentali sull’argomento, come “Karoshi due to occupational stress-related cardiovascular injuries among middle-aged workers in Japan”, Japanese Journal of Industrial Health, 35 (4), 1993, pp. 269–297 e Karōshi sabaibaru (Sopravvivenza al karōshi), Chūōhōki, Tokyo 2007. 2 Si ritiene che la teorizzazione formale del karōjisatsu sia stata elaborata dall’avvocato Kawahito Hiroshi nel suo saggio intitolato appunto Karōjisatsu (Suicidio per il troppo lavoro), Iwanami Shoten, Tokyo 1998. Tale testo è stato poi riveduto e ampliato nel 2006, con il titolo Karōjisatsu to kigyō no sekinin (Suicidio per il troppo lavoro e responsabilità della aziende), Junposha, Tokyo 2006. 3 La decisione del 24 marzo 2000 sul caso 1998 (o), nn. 217, 218, Minshū, Vol. 54, No. 3, at 1155, conosciuta agli studiosi di lingua inglese come Dentsū Karoshi Case, reperibile sul sito Internet della Corte Suprema del Giappone http://www.courts.go.jp/english/judgments/index.html (13/01/2012) e per estratto in Curtis J. Milhaupt, J. Mark Ramseyer, Mark D. West, The Japanese Legal System. Cases, Codes and Commentaries, Foundation Press, New York 2006, p. 567. La traduzione in lingua inglese sul sito della Corte Suprema è particolarmente ben fatta, dal momento che è opera di Oda Hiroshi, Sir Ernest Satow Professor of Japanese Law dell’University College, Londra.

questo scritto intende attenersi a una disamina dal punto di vista della responsabilità civile, con qualche conseguente riflessione di sociologia del diritto: resteranno pertanto esclusi riferimenti ad aspetti di diritto penale,4 e ve ne saranno di limitati al diritto del lavoro e alla procedura civile.

Il caso del 2000 è particolarmente interessante poiché in tale occasione la Corte Suprema non solo ha preso posizione con insolita chiarezza su una serie di questioni problematiche legate allo stress lavorativo e alle sue conseguenze sulla salute, ma anche perché è da molti studiosi considerato il leading case sull’argomento, con cui le decisioni successive si confrontano.5 Nonostante sia una sentenza su un’ipotesi di karōjisatsu, i principi in essa espressi sono la base anche per tutte le successive decisioni in materia di karōshi.

I fatti della causa sono i seguenti. Nel marzo del 1990, il sig. K., definito nella sentenza “in salute e vivace”, con “una tendenza al perfezionismo” si laureò in una delle migliori università del Giappone e il 1 aprile dello stesso anno cominciò a lavorare presso una prestigiosa agenzia pubblicitaria. Durante il periodo lavorativo, K. risiedeva nella stessa abitazione dei genitori (i quali agiranno poi giudizialmente a seguito del suicidio del figlio).

In base ai regolamenti interni dell'agenzia, elaborati in confrormità con la disciplina giuslavoristica nazionale, erano previsti due giorni di riposo settimanale e un orario lavorativo dalle 9,30 alle 12,00 e dalle 13 alle 17,30, con un limite massimo allo straordinario giornaliero fissato a 6,5 ore, per un totale massimo mensile comunque non superiore alle 60 ore (derogabile sino ad 80 in alcuni mesi). Nella prassi, tuttavia, K. arrivava in ufficio verso le 9,00, riusciva a consumare un rapido pasto alle 19,00 circa e continuava a lavorare, spesso sino alle 2 del mattino. A fronte di questo soffocante ritmo lavorativo, lo straordinario riportato da K. (nella realtà in media di circa 147 ore mensili), pur consistente, veniva dallo stesso ampiamente ridimensionato per conformarsi agli standard aziendali e normativi.

Nell'agosto del 1990, in occasione di uno dei periodici resoconti ai propri superiori, K. espresse soddisfazione per la tipologia e il contenuto dei compiti affidatigli, ma lamentò un sovraccarico nella mole di lavoro, segnalando che doveva regolarmente trattenersi in ufficio sino alle 24,00.

Nel novembre, i genitori di K., preoccupati per l'eccessivo lavoro del figlio e per il deteriorarsi del suo stato di salute, gli suggerirono di prendere qualche giorno di ferie, ma K. declinò il suggerimento, affermando che in ufficio non c'era nessuno idoneo a sostituirlo e che comunque i suoi diretti superiori non sarebbero stati d'accordo con una richiesta di un periodo, seppur breve, di riposo. Continuò quindi a lavorare con il solito ritmo.

4 Come avviene in molti ordinamenti, il diritto penale giapponese prende in considerazione l’ipotesi del suicidio, in particolare nell’art. 202, ove è previsto che chi induca o assista altri a commettere suicidio sia punito con la reclusione da 6 mesi a 7 anni. 5 Nonostante il Giappone sia un ordinamento di civil law, dove il precedente giudiziale non è formalmente fonte di diritto, per vari motivi (vedi infra) le sentenze della Corte Suprema hanno grande importanza.

Nel febbraio del 1991, nuovamente K. espresse ai propri superiori la sua difficoltà nel gestire l'eccesso di lavoro. Non si ha notizia di una reazione da parte dei diretti interessati.

Durante il mese di marzo del 1991, durante una consultazione interna, uno dei referenti di K. fece notare al dirigente della sezione che K. aveva preso l'abitudine di dormire in ufficio, allo scopo di ottimizzare il tempo eliminando le circa due ore di trasporto tra abitazione e luogo di lavoro. Dal momento che questo comportamento non era in linea con le politiche aziendali, il dirigente consigliò a K. di andare a casa tutte le sere ed eventualmente “arrivare in ufficio prima la mattina”. Sempre nel marzo 1991, in sede di consuntivo sull'attività dell'anno precedente, la prestazione lavorativa di K. venne valutata in maniera molto positiva, e venne anche rilevato che, pur avendo diritto a dieci giorni di ferie pagate, K. aveva usufruito solo di mezza giornata.

A partire dal luglio 1991, le mansioni affidate a K. vennero incrementate, ed egli venne distaccato dal resto del gruppo di lavoro in modo da poter essere impiegato da più divisioni interne dell'agenzia. Di conseguenza, il numero di giorni in cui K. non faceva ritorno a casa aumentò drasticamente.

In quel periodo K. cominciò ad accusare in modo evidente sintomi di malessere psicofisico: insonnia, difficoltà di concentrazione, spossatezza cronica. Aveva ormai perso ogni forma di entusiasmo che aveva caratterizzato i pur faticosissimi primi mesi di attività lavorativa. Tale stato di profondo disagio era evidente a tutti i suoi colleghi e superiori.

Il 3-5 agosto del 1991, K. prese un giorno e mezzo di ferie pagate (il primo periodo in assoluto nel 1991, per un totale di due giorni complessivi nella sua intera vita lavorativa). Al ritorno dalla “vacanza”, la sua condizione però, non sorprendentemente, non era affatto migliorata: infatti confidò al dirigente della sua divisione di non avere più fiducia in se stesso, di non avere consapevolezza del suo stesso operato e di non riuscire da tempo a dormire. Il 24-26 agosto K. si recò a Nagano per organizzare un evento: i suoi superiori, in quella circostanza, notarono un comportamento “anormale”. K. lasciò il luogo dell'evento con la propria autovettura alle 17,00 del 26 agosto.

Alle 6,00 del 27 agosto, K. arrivò a casa e annunciò al fratello che aveva intenzione di recarsi in ospedale. Alle 9,00 telefonò in ufficio per comunicare che non si sarebbe recato al lavoro causa malattia; alle 10,00 venne trovato morto nel bagno della propria abitazione, dove si era impiccato.

I genitori di K. decisero quindi di agire in giudizio contro l'agenzia di pubblicità per ottenere il risarcimento del danno.

Per comprendere la decisione della Corte Suprema, è bene avere chiare alcune basilari disposizioni del Codice civile giapponese in tema di responsabilità civile: in particolare, gli articoli 709, 715 e 722 comma II.

L'articolo 709 è la previsione basilare in tema di responsabilità extracontrattuale (o, per usare un termine caro ai giuristi italiani, “aquiliana”): chiunque dolosamente

o colposamente violi diritti o interessi tutelati altrui sarà responsabile di risarcire ogni danno che possa derivare dalla violazione. Tale disposizione, che trova omologhi nella maggior parte degli ordinamenti, è una clausola molto generale, che la giurisprudenza deve riempire di significato concreto, rilevando, in particolare, il nesso eziologico fra il comportamento e l'evento dannoso e la illiceità della condotta.

L'art. 715 sancisce la responsabilità del datore di lavoro per i danni che i suoi dipendenti possano commettere nell'esercizio delle loro mansioni; infine, l'art. 722, comma II, prevede che il giudice abbia il potere di ridurre il risarcimento tenuto conto delle circostanze. In tal senso, una delle ipotesi più frequenti riguarda il caso in cui il danneggiato abbia concorso nel causare o aggravare il danno.

La Corte d'Appello (o Alta Corte) di Tokyo, proprio sulla base dell'applicazione congiunta di queste disposizioni era pervenuta a una decisione che aveva accertato il nesso causale diretto e immediato fra l'attività lavorativa di K. e il suo suicidio e anche la colposa omissione da parte dei suoi superiori nel prendere misure idonee per contenere il suo stress psicofisico. I giudici della capitale avevano tuttavia ridotto il risarcimento concesso ai genitori di K. in base a una duplice motivazione: anzitutto, la tendenza al perfezionismo della vittima, e la sua conseguente incapacità di concedersi (o di richiedere) delle pause aveva contribuito ad aggravare la sua situazione; inoltre, gli attori in primo grado (ossia i genitori) avrebbero potuto attivarsi in modo più efficace per cercare di alleviare le condizioni del figlio.

Entrambe le parti ricorsero (jōkoku) quindi alla Corte Suprema.6 L’agenzia con ricorso principale chiedendo di essere sollevata da ogni responsabilità; i genitori di K. per vedere riconosciuto il loro diritto a un pieno risarcimento, senza che alcuna censura potesse essere mossa al loro comportamento.

La sentenza della Corte Suprema confermò pienamente la responsabilità dell’agenzia. I giudici di vertice statuirono che, in base alle disposizioni lavoristiche e civili, il datore di lavoro ha un vero e proprio dovere, giuridicamente sanzionato, di far sì che la salute fisica e mentale del lavoratore non sia danneggiata dall’eccesso di stanchezza e stress, e che in tale dovere è compresa anche l’assegnazione di mansioni compatibili con l’orario di lavoro ordinario.

Da questo punto di vista, la Corte Suprema mise per iscritto alcune nozioni di conoscenza comune nella prassi, ma che assumono particolare rilevanza proprio perché riconosciute come tali dal massimo organo della giustizia, ossia che in Giappone è prassi che i superiori chiedano ai dipendenti di “rispettare l’orario” senza preoccuparsi della congruenza fra carico di lavoro e ore a disposizione: la conse-

6 Il sistema giuridico giapponese, in modo non dissimile da quello italiano, prevede tre gradi di giudizio: tuttavia, la possibilità di ricorrere alla Corte Suprema è stata via via ristretta, e ora risulta essere molto limitata. Di conseguenza, il supremo giudicante del Giappone (che assomma le funzioni di vertice della giustizia civile e penale ma anche quelle di ultimo giudice della costituzionalità delle norme) è chiamato, ogni anno, a pronunciarsi su un numero di cause comunque notevole, ma piuttosto contenuto se paragonato all’Italia. Sul punto, vedi Oda Hiroshi, Japanese Law, III ed., Oxford University Press, Oxford 2009, pp. 57-66.

guenza, generalmente accettata, è che il lavoratore svolga “di nascosto” lunghe ore di straordinario. Tale situazione è ovviamente contraria alla normativa in materia di lavoro, e può avere ricadute estremamente nocive per la salute del lavoratore, come è accaduto nel caso di K.

La Corte accolse anche il ricorso dei genitori di K.

Da un lato, i giudici stabilirono che il carattere di K., e in particolare la sua tendenza al perfezionismo, non potevano essere considerati una concausa del suo suicidio. Essi affermarono infatti che è del tutto normale che un lavoratore voglia svolgere il proprio lavoro al meglio, soddisfando le aspettative di colleghi e superiori. Quindi, a meno che il soggetto non abbia un carattere “anomalo” (definizione della Corte), non è possibile considerare ai fini giuridici una tale predisposizione.

Dall’altro, riconobbero che in capo ai genitori di K. non poteva essere riscontrata alcuna responsabilità. La Corte Suprema sentenziò che i genitori, pur conviventi con la vittima, non avevano oggettivamente possibilità di influire in modo sostanziale sul suo stress lavorativo.

Per comprendere appieno le conseguenze e la portata della decisione del 2000, occorre analizzare il contesto istituzionale in cui questa decisione è maturata: proprio a partire da quell’anno, infatti, il Governo giapponese (dopo aver negato per decenni il problema) ha dato il via a una campagna di prevenzione dei decessi e dei suicidi da stress lavorativo senza precedenti. Una delle tappe fondamentali di questa iniziativa è stata l’adozione, nel 2001, di uno specifico regolamento ministeriale sul karōshi, 7 il cui scopo principale è definire con nitore una serie di parametri in base ai quali un caso può essere definito con certezza karōshi o karōjisatsu senza che sia richiesta un’ulteriore attività di accertamento in sede amministrativa o giudiziale. Tale regolamentazione, pur apprezzabile nello scopo, non riuscì però a conseguire i risultati sperati per una duplica causa: da un lato, un atteggiamento troppo permissivo nei confronti dei datori di lavoro (si accerta una “forte correlazione” fra patologia ischiemico-miocardica e stress lavorativo in presenza di almeno 100 ore di straordinario nel mese precedente al manifestarsi della patologia, ovvero di 80 ore in un periodo di 2-6 mesi), dall’altro le oggettive difficoltà di ricognizione dei fatti (rimarcate anche dalla Corte Suprema) causate dalla tendenza dei lavoratori a registrare meno ore di lavoro rispetto a quelle effettive.

Di nuovo nel 2005 il Governo ha preso posizione sul problema dei suicidi, anche in ambito lavorativo, evidenziando come il fenomeno fosse ancora troppo esteso e sollecitando ulteriori sforzi da parte del Lavoro e delle politiche sociali, competente per materia. Infine, nel 2007, sono state elaborate delle linee guida governative generali sulla prevenzione dei suicidi (non solo in ambito lavorativo),8

7 Nō kekkan shikan oyobi kyoketsusei shin shikkan nado no nintei kijun (Normativa per l’accertamento di patologie cardiache di tipo ischemico miocardico o di patologie cerebrovascolari), Ministero della Salute, 2001. 8 Jisatsu sōgōtaisaku taikō (Principi fondamentali in materia di contromisure verso il suicidio), 2007.

ed è stato istituito uno specifico centro interministeriale per la promozione e la diffusione di politiche di prevenzione.9

Il motivo per cui è di interesse collocare la decisione della Corte Suprema all’interno di un più ampio programma di azione governativa è che la Corte è da molti studiosi considerata come “conservatrice” e tradizionalmente alleata con (e non controllata da) il potere politico10 e quindi la “sintonia” fra l’agire governativo e la giurisprudenza non è sorprendente, ma anzi conferma una tendenza consolidata. Il supporto del potere giudiziario a quello esecutivo è di grande importanza: come detto,11 nonostante il precedente giudiziale non sia formalmente fonte di diritto in Giappone, le sentenze dell’organo di vertice tendono ad essere rispettate dai giudici di grado inferiore, per un triplice ordine di motivi. Il primo è il prestigio di cui la Corte Suprema gode all’interno della magistratura; il secondo è la sua funzione di nomofilachia (ossia uniformazione del diritto): una decisione che vada contro a quanto statuito dalla Corte sarà probabilmente impugnata con successo in grado superiore; il terzo è che, nonostante le carriere dei magistrati siano formalmente gestite dal Ministero della Giustizia, la Corte Suprema ha grandissima possibilità di condizionare la progressione professionale dei giudici, e pertanto nei tribunali di grado inferiore vi è il timore che eventuali decisioni sgradite alla Corte possano compromettere gli avanzamenti di carriera di chi le ha sottoscritte.12

9 Gli sforzi del Governo giapponese sono però considerati da molti inefficaci e permeati da un paternalismo di fondo che rende più complicata una presa di posizione attenta e in linea con i più avanzati studi scientifici sull’argomento. 10 Di recente, David S. Law, “The Anatomy of a Conservative Court: Judicial Review in Japan”, Texas Law Review, vol. 87, 7, 2009, p. 1545. 11 Nota 5. 12 È la stessa Corte Suprema a dichiarare che, in ultima analisi, le carriere dei magistrati sono questione di propria competenza: “The designation of the Chief Justice of the Supreme Court and appointment of other Supreme Court Justices and judges of lower courts are within the purview of the Cabinet. However, the nomination of candidates of lower court judges from among whom the Cabinet appoints, including the Presidents of the high courts, and the assignment of judges to a specific court are reserved for the Supreme Court, which exercises the authority through the resolutions of the Judicial Assembly, provided that, as a rule, the nomination of candidates of lower court judges requires advice of the Advisory Committee for the Nomination of Lower Court Judges. In addition, such matters as the appointment and dismissal of court officials other than judges are within the purview of the judicial administration of the Supreme Court” (fonte: sito Internet della Corte Suprema http://www.courts. go.jp/english/system/system.html#02_1, 18/01/2012). Anche Andrea Ortolani, studioso italiano di diritto giapponese presso l’Università di Tokyo, nel suo blog dirittogiapponese.wordpress.com non ha esitazioni nell’identificare nell’Ufficio risorse umane della Corte Suprema il vero arbitro delle carriere dei magistrati (http://dirittogiapponese.wordpress.com/2011/12/11/i-giudici-della-corte-suprema-i, 18/01/2012) Sul punto, J. Mark Ramseryer, Eric B. Rasmusen, Measuring Judicial Independence. The Political Economy of Judging in Japan, Chicago University Press, Chicago 2003. Il testo, di lettura non del tutto agevole per chi non possieda un bagaglio di studi quantitativi, cerca di stabilire attraverso una funzione matematica una diretta correlazione fra decisioni in linea con i precedenti della Corte Suprema e progressione nella carriera. L’analisi di Ramseyer e Rasmusen, per quanto brillante e ben strutturata, non riesce tuttavia a dimostrare con totale chiarezza quanto asserito dagli autori.

Alla Corte è inoltre riconosciuto un ruolo di “attivismo giudiziale”,13 attraverso il quale i giudici di vertice, talora interpretando la normativa in modo addirittura difforme alla lettera delle leggi, compiono una vera e propria attività di creazione del diritto allo scopo di venire incontro ai nuovi bisogni della società (che ovviamente sono considerati tali secondo l’opinione della Corte stessa).

Dalla somma di tutti questi dati e circostanze, si possono svolgere alcune riflessioni, la prima delle quali è più che altro l’avvertenza che si tratta di conclusioni provvisorie: in Giappone si sta assistendo infatti a una magmatica evoluzione della giurisprudenza sul tema, e quindi l’osservazione è da un lato particolarmente interessante, dall’altro estremamente complessa.

Una prima osservazione riguarda la chiarezza, al limite della naïveté, con cui la Corte Suprema prende atto di un drammatico scollamento fra regole formali e prassi generali (o, per dirla con un linguaggio caro ai comparatisti, fra law in the books e law in action) nell’ambito del diritto del lavoro. Leggere in una decisione della Corte frasi come “era normale per i dipendenti registrare meno ore di straordinario rispetto a quelle reali” e “era fatto riconosciuto che lo straordinario registrato non fosse in linea con la realtà” è indicativo di quanto in Giappone tali prassi siano diffuse e accettate.

Vi è la speranza, tuttavia, che qualcosa stia cambiando. Infatti la seconda notazione che si può fare riguarda l’operato della Corte Suprema che si sta dirigendo verso una “collettivizzazione” dei costi sociali del karōshi e del karōjisatsu, trasferendo le conseguenze economiche del decesso dall’individuo (rectius: dalla sua famiglia) in capo al datore di lavoro. Una responsabilizzazione economica del soggetto competente all’assegnazione delle mansioni lavorative dovrebbe, nell’idea dei giudici, instillare nello stesso una particolare cautela e quindi agevolare il rispetto della normativa lavoristica, ma non solo. Per estensione, il principio giova in generale in caso di persone sottoposte a potere disciplinare o di vigilanza altrui. Tale fenomeno può infatti essere osservato anche in settori liminari, in tema di suicidio: e così, ad esempio, oggetto di sanzioni sono stati ufficiali delle Forze di Autodifesa14 e presidi di istituti scolastici, per non aver preso le giuste contromisure in casi di bullismo. Di nuovo, da problema individuale della vittima la questione sembra migrare nella sfera dell’istituzione competente.

Dunque, i soggetti competenti a vigilare cominciano a rispondere in sede giudiziale. Ma in che misura? Una terza osservazione, in tema di quantum, mostra che il

13 Per una visione “politica” dell’attivismo giudiziale della Corte Suprema si veda Itoh Hiroshi, “Judicial Review and Judicial Activism in Japan”, Law and Contemporary Problems, 53, 1-2, pp. 169-179. Di attivismo in senso tecnico come attività non ortodossa di creazione di norme in sede giurispurdenziale tratta Kozuka Sōichirō, “Judicial Activism of the Japanese Supreme Court in Consumer Law: Juridification of Society through Case Law”, Zeitschrif für Japanisches Recht/Journal of Japanese Law, n. 27, vol. 14, 2007, pp. 81-90. 14 http://www.japantoday.com/category/national/view/state-ordered-to-pay-80-mil-yen-over-asdfofficers-suicide, 20/07/2011.

Giappone mantiene la sua impostazione di ordinamento europeo-continentale, senza cedere a tentazioni americanofile. Le condanne multimilionarie (in dollari) tipiche dell’ordinamento statunitense (regno dei punitive damages) non si sono fatte strada nel paese, e infatti alle famiglie delle vittime di karōshi e karōjisatsu sinora sono stati concessi risarcimenti non meramente simbolici ma nemmeno esorbitanti.15

Nonostante si sia assistito, nel periodo 2000 – 2012, a una serie di decisioni innovative, in Giappone manca ancora una solida e univoca linea giurisprudenziale che ponga fine all’incertezza, e infatti permangono forti contraddizioni negli orientamenti, con sentenze molto favorevoli16 ma anche con pronunce che negano recisamente il problema.17 Un quarto commento riguarda dunque l’assenza di parametri nitidi in base ai quali giudicare i vari episodi. Sebbene, come detto sopra, siano state elaborate delle linee guida di massima (come detto, molto generose verso i datori di lavoro) manca una specifica e puntuale attenzione alle circostanze ulteriori, come la complessità dell’incarico svolto o la reponsabilità connessa a determinate mansioni.18 Fino a che non ci sarà un contesto normativo, regolamentare, o giurisprudenziale chiaro e definito, si assisterà a una disomogeneità nei giudizi con conseguente rischio di una disparità di trattamento a livello nazionale.

Da ultimo, si potrebbe azzardare un’analisi sul cambiamento nell’atteggiamento giapponese verso il contenzioso formale.19 Negli ultimi dieci anni in Giappone il contenzioso giudiziale è cresciuto di oltre il 50%. Numerose spiegazioni sono state date per questo fenomeno: crisi economica, aumento del numero degli avvocati, ecc., ma in ultima analisi non pare improprio ritenere che, da questo punto di vista, la società giapponese stia cambiando. Il diritto del lavoro, come il diritto di famiglia, è universalmente considerato un settore dove il contenzioso giudiziale

15 Nell’ordine dei 600.000 – 900.000 euro, attualizzati al tasso di cambio corrente. Di recente però, in altre materie, si è assitito a decisioni più “americanizzanti”: una signora, a seguito della rottura di una sedia, cadde e si ruppe il bacino; in seguito le venne diagnosticata una forma di depressione, a suo dire conseguente all’infortunio. La signora decise quindi di agire giudizialmente contro l’azienda produttrice. Il 27 gennaio 2011 l’Alta Corte di Fukuoka ha concesso all’attrice un risarcimento di poco meno di sedici milioni di yen (la signora ne aveva chiesti in primo grado 57). Della sentenza hanno dato notizia i principali quotidiani nazionali, ed è anche riportata sul già citato blog http://dirittogiapponese.wordpress.com/2011/12/28/i-giapponesi-che-fanno-causa-iii, 19/01/2012. 16 A mero titolo di esempio fra le molte, se ne segnala una che ha avuto eco anche sulla stampa italiana. “Si uccise per il troppo lavoro. Mazda condannata a risarcire la famiglia”, Corriere della Sera, 1 marzo 2011. 17 “Ammazzarsi di lavoro”, http://dirittogiapponese.wordpress.com/2011/09/01/ammazzarsi-di-lavoro, 19/01/2012. 18 Nella decisione del Tribunale di Osaka commentata da Andrea Ortolani (nota 17), il problema non è solo o tanto quello dell’orario di lavoro, quanto quello della complessità delle mansioni affidate a un lavoratore neoassunto, il quale, sentendosi inadeguato all’incarico, ne aveva riportato uno stress tale da indurlo al suicidio. I giudici di Osaka decisero che i compiti erano “accettabili” e che quindi il suicidio fosse da attribuire a una predisposizione caratteriale del lavoratore. Il padre della vittima ha proposto appello innnazi alla competente Corte di Osaka. 19 Sul tema generale del contenzioso in Giappone mi permetto di rinviare a Giorgio Fabio Colombo, Oltre il paradigma della società senza liti. La risoluzione extra-giudiziale delle controversie in Giappone, CEDAM, Padova 2011.

ha un carattere molto più clastico rispetto a situazioni più “neutre”, quali rapporti commerciali. In generale, qualunque rapporto che presupponga una lunga durata e una gerarchia nei ruoli assume caratteristiche di “delicatezza” nella relazione che non sono compatibili, nella visione tradizionale, con un comportamento contenzioso. Sono le classiche situazioni in cui lo strumento ideale di risoluzione delle controversie è la molto celebrata conciliazione.

Il processo del lavoro, in Giappone, è ulteriormente reso complesso da una preliminare fase di accertamento di tipo amministrativo, a seguito della quale si può decidere di ricorrere al tribunale ma che comunque comporta già una sorta di pre-contenzioso. Occorre dunque superare, oltre alle barriere di tipo culturale, anche un primo sbarramento di tipo tecnico. Se persino in una materia così delicata si assiste a un aumento del contenzioso allora forse è davvero segno di un cambiamento sociale.

Un altro parametro, meno scientifico e più difficilmente misurabile, consente di poter ipotizzare un nuovo atteggiamento nei confronti delle rivendicazioni in tema di karōshi e karōjisatsu, ossia come le questioni sono rappresentate sui media e addirittura in forme di intrattenimento popolare come i manga.20 Dal fatto che le decisioni come quella commentata facciano la loro comparsa sui giornali si può ancora inferire che si tratta di ipotesi eccezionali, e come tali meritevoli di un’attenzione qualificata da parte della stampa. Dall’altro però, l’esposizione è sempre più solidale verso le famiglie delle vittime, trattate come persone che hanno subito un grave torto e non come soggetti poco civili che violano l’ordine sociale rivolgendosi alla magistratura; anche i lavoratori coinvolti sono dipinti sempre meno come persone deboli o “anomale” (per usare la definizione della Corte Suprema), ma come esseri umani che hanno vissuto un dramma dal quale non sono riusciti a uscire.

La tematica è tuttavia in costante e talvolta discontinua evoluzione nella legislazione, nella giurisprudenza e persino nell’opinione pubblica. Gli anni ci diranno se il Giappone sarà in grado di dare una regolamentazione compiuta, tale da risolvere in modo soddisfacente la situazione.

20 A tale proposito, un riferimento diretto al tema del karōshi e dell’atteggiamento verso il contenzioso è contenuto nel manga di Taniguchi Jiro, Harayuku Sora, Shueisha, Tokyo 2005 (edizione italiana Un cielo radioso, Coconino Press, Bologna, 2008). La storia riguarda un lavoratore di mezza età che muore in un incidente d’auto causato dalla troppa fatica accumulata sul lavoro: la sua anima per un breve periodo trasmigra nel corpo di un ragazzo che era rimasto coinvolto nello scontro. Alle pagine 240-241 si svolge un dialogo che può essere letto alla luce del dibatitto sull’argomento tra la vedova del protagonista e un dirigente della società per cui egli lavorava. Moglie: “Signor Omura, lei doveva conoscere le condizioni di lavoro della sua impresa”. Dirigente: “Eh...beh”. Moglie: “Credo che la causa della morte di mio marito sia l’enorme eccesso di lavoro che gli veniva richiesto in fabbrica...sì, è per colpa della fabbrica che è morto! E ho deciso di chiedere i danni all’azienda per incidente sul lavoro”. Dirigente: “Signora! Mi ascolti...non credo che questo sia il desiderio di suo marito! Se lei fa causa all’azienda di suo marito finirà per disonorarlo, lo sa bene! Siamo il numero uno del settore...provvederemo a pagare tutte le spese causate dall’incidente”. Moglie: “No. Penso che la cosa debba essere affrontata pubblicamente e non semplicemente in modo amichevole...e credo che se mio marito fosse vivo mi approverebbe”.

Karōshi Damages: New Frontiers of Civil Liability in Japan

The issues of karōshi and karōjisatsu have been studied in depth by sociologists, psychologists and medical doctors. But still there is room for new critical analysis if we observe the matters through the lenses of the lawyer. In fact, (relatively) recently, the Supreme Court of Japan has addressed the following questions in one landmark decision: is the employer bound to pay damages to the heirs if a worker commits suicide as consequence of overwork or overwork-related stress? How can a direct link between suicide and overwork could be assessed? It appears that the Supreme Court is now contributing in giving an admonition to society: employers are warned that if they overexploit their employees they will face legal consequences. However, the lack of precise criteria in assessing the relationship between work and death still makes the issue extremely controversial and debated.

過労死の損害: 日本における民事責任の新しい境地

ジョルジョ・ファビオ・コロンボ

過労死と過労死自殺の問題は、社会学者、心理学者と医師によって深 く研究されてきました。しかし、弁護士の視点からこの事項を見る と、新しい批判的分析をする余地があります。実際には、(比較的) 最近、日本の最高裁判所は、ある先例に次の問いを投げかけました: 労働者が過労や過労によるストレスが原因で自殺をしたら、雇用者は 相続人に損害賠償を払わなければならないでしょうか。自殺と過労の 直接の関係はどのように評価することができるでしょうか。 これは、今まさに、最高裁判所が社会に訓戒することに寄与している と考えられます:雇用者は、従業員を過剰に搾取したら、法的な代償 を払うよう警告されています。しかしながら、仕事と死の関係を評価 するための詳細な基準の欠如は、この問題を未だ非常に論争を呼び起 こすものにしています。