21 minute read

L'isolamento della società giapponese: l'assimilazione delle culture straniere attraverso gli oggetti, non attraverso le persone

SATŌ DŌSHIN

L’isolamento della civiltà giapponese: l’assimilazione delle culture straniere attraverso gli oggetti, non attraverso le persone

Il titolo del mio saggio è L’isolamento della civiltà giapponese: l’assimilazione delle culture straniere attraverso gli oggetti, non attraverso le persone. L’espressione “isolamento della civiltà giapponese” è stata ripresa da Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington, di cui parlerò più diffusamente in seguito. I giapponesi sostengono che la cultura autoctona ha sempre accettato e sviluppato le culture straniere, invece Huntington afferma che si tratta di una civiltà isolata. Come si spiega questo divario di interpretazione tra autoanalisi e analisi fatta dall’esterno? Il Giappone è aperto o chiuso?

Il divario fra le diverse concezioni dell’arte giapponese (il Giappone, l’Occidente)

La questione presenta delle affinità con il mio interesse per la diversa immagine che il Giappone e l’Occidente hanno dell’arte giapponese. Per un certo periodo mi sono occupato di belle arti, storia dell’arte, studi di storia dell’arte nel Giappone moderno. Poi, mi è venuta voglia di cercare l’origine di quella differenza nella storia premoderna.

Prima di affrontare il cuore del problema al centro di questo saggio, vorrei accennare ai motivi per cui mi sono interessato della questione delle diverse immagini dell’arte giapponese.

Il mio campo di specializzazione è la storia dell’arte giapponese moderna, e negli ultimi venti anni mi sono concentrato sulle teorie istituzionali dell’arte. Ho iniziato per una ragione molto semplice: venticinque anni fa stavo lavorando a una sorta di inventario delle collezioni d’arte moderna giapponese negli Stati Uniti, quando scoprii che negli USA l’immagine dell’arte giapponese, rappresentata principalmente dalle stampe ukiyo e 浮世絵 e dagli oggetti artigianali, era ben diversa dal Giappone, dove era legata all’arte buddista, alla pittura a inchiostro di china e allo yamato e 大和絵. In particolare per me, in quanto specialista di storia dell’arte moderna, fu un vero e proprio choc scoprire che erano estremamente rare le opere di quegli artisti ritenuti da noi fra i più rappresentativi, fatta eccezione per poche collezioni. Tendenza questa che si evidenzia anche nelle collezioni europee. [Fig.1 e Fig.2]

Fig.1 Taishakuten, Tōji, IX sec. Fig.2 Utagawa Kuniyoshi, Hito wo bakanishita hito da, XIX sec.

Se si trattasse soltanto di una differenza di gusto, sarebbe naturale e non ci sarebbe nemmeno da discuterne. Ma dal punto di vista storico, la differenza di gusto non può rappresentare una risposta soddisfacente, visto che le belle arti, la storia dell’arte e gli studi di storia dell’arte nel Giappone moderno hanno seguito il modello occidentale. Eppure, si è creato un simile divario. Una situazione a rischio, che poteva mettere in dubbio la modernizzazione dell’arte giapponese stessa. Mi convinsi che proseguire gli studi sull’arte moderna tralasciando questo problema, potesse ingigantirlo.

Perché dunque si è creato un simile divario d’immagini della modernità storica e artistica? Dipende dalle opere stesse o è un problema di “valutazione”? È a partire da questi interrogativi che negli ultimi venti anni ho sviluppando le mie ricerche, approfondendo il discorso della gestione dell’arte nel Giappone moderno, del flusso (cioè dell’esportazione) delle opere d’arte all’estero, e dei legami con il japonisme. In poche parole, la conclusione è che l’immagine del Giappone propugnata dal japonisme e quella che l’ideologia nazionale voleva mostrare all’Occidente sono state entrambe abilmente sfruttate, a seconda della situazione. La prima diventò l’immagine dell’arte giapponese in Occidente e la seconda diventò l’immagine dell’arte giapponese in Giappone.

Questo divario, allora, è soltanto una delle immagini scaturite dalle teorie del XIX secolo?

Il Giappone moderno non è nato dal nulla, senza nessun vincolo con il passato, quindi il problema sarà legato piuttosto al modo in cui la cultura e l’arte straniere vengono interpretate in Giappone, o meglio al fondamento dell’arte giapponese. È

così che si è formata in me l’idea che proprio da questo poteva nascere un’interpretazione come quella proposta da Huntington.

Oggi tratterò quasi esclusivamente delle epoche precedenti la modernità. Per un paese come il Giappone, circondato dal mare, il che rende difficoltosi i viaggi all’estero, l’assimilazione delle culture straniere era presumibilmente condizionata dai tre seguenti fattori: - Per prima cosa, le modalità dell’assimilazione variano a secondo del tipo di cultura in esame: le arti performative, per esempio la musica, devono essere trasmesse direttamente dalle persone; la cultura materiale, come è il caso delle belle arti, si può apprendere attraverso gli oggetti, per esempio tramite la riproduzione di opere. - In secondo luogo, gli spostamenti di persone e di oggetti sono condizionati in modo significativo dalle relazioni diplomatiche e commerciali. Per quanto riguarda il Giappone e la Cina, il rapporto commerciale è stato continuativo, mentre le relazioni diplomatiche sono state interrotte più volte, e per lunghi periodi. - Terzo punto, la sostanza e la qualità degli spostamenti di persone e oggetti possono variare in misura significativa a seconda che si tratti di rapporti diplomatici o commerciali.

Lo ‘scontro delle civiltà’ di Samuel Huntington

Molti saranno rimasti sorpresi quando è uscito Lo scontro delle civiltà1 di Samuel Huntington nel vedervi annoverata la civiltà giapponese. L’orgoglio di non pochi dei miei connazionali sarà stato sollecitato. Nel suo libro infatti Huntington menziona la civiltà giapponese come una delle più importanti civiltà contemporanee, accanto a quelle occidentale, latino-americana, africana, islamica, cinese, induista, ortodossa e buddista.

Leggendo attentamente però, si scopre che non annovera il Giappone tra le civiltà per la sua estensione o per il suo livello. Ma “perché è un paese isolato che non condivide la propria cultura con nessun’altra società”.

Citando Etiopia e Haiti come esempi, continua:2

Il più importante tra i paesi isolati è il Giappone, che è al contempo lo stato guida, nonché l’unico, della civiltà giapponese. La sua peculiare cultura non è presente in nessun altro paese, e gli immigrati nipponici in altre nazioni o sono numericamente ininfluenti oppure hanno assimilato la cultura dei paesi ospitanti (ad esempio i nippo-americani). Questo isolamento è accentuato dal fatto che la sua cultura è fortemente particolarista e non contempla alcuna religione (cristianesimo, islamismo eccetera.) o ideologia (liberalismo, comunismo) po-

1 Samuel P. Huntington The Clash of Civilizations and Remarking of World order, Simon & Schuster, New York 1991 (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000). 2 Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, cit., p.194.

tenzialmente universale che possa essere esportata in altre società in modo da creare legami culturali con le popolazioni autoctone.

Huntington è un politologo, specializzato in sicurezza internazionale; non è un nipponista né un esperto di civiltà. E, a questo proposito, il Giappone è una civiltà? Di fatto, né l’accezione del termine né i relativi criteri nel libro sono chiari, comunque l’autore stesso, attraverso il confronto con varie teorie, definisce una civiltà come semplice insieme di culture. Di conseguenza, possiamo tranquillamente considerare il Giappone come tale.

A incuriosirmi sono soprattutto i presunti isolazionismo ed esclusivismo della cultura giapponese da lui ribaditi. Questa teoria è in palese contrasto con quella sviluppata dai giapponesi stessi, secondo la quale la cultura autoctona da sempre si è formata attraverso l’assorbimento e la “nipponizzazione” delle culture straniere. Inoltre questo dovrebbe influenzare significativamente l’interpretazione del ruolo giocato dalla pratica dello studio all’estero, che in Giappone è sempre stata fondamentale per l’assimilazione delle culture straniere. In altre parole, se la cultura giapponese è isolata ed esclusiva, o gli studi all’estero e le culture straniere non hanno apportato alcun cambiamento alla nostra cultura o l’hanno resa appunto isolata ed esclusiva. Oppure sono stati semplicemente sfruttati ai fini della cosiddetta “nipponizzazione”. Le interpretazioni possibili sono tante.

Viceversa, possiamo anche negare il punto di vista di Huntington. Tuttavia che il Giappone abbia un carattere chiuso, non lo sostiene solo lui; anzi spesso questo tratto è stato ed è oggetto di critiche da parte dei paesi esteri e degli stranieri che soggiornano nel nostro paese. Anche noi giapponesi ne siamo consapevoli. I primi a rendersene conto sono stati probabilmente proprio i giapponesi che hanno studiato all’estero. Come ho accennato in precedenza, anche l’immagine dell’arte giapponese in Giappone è totalmente differente rispetto all’Occidente, ed è chiusa.3 In ogni modo, a quanto pare il Giappone riesce a gestire questo divario, ma non sta prendendo una posizione.

Ma il Giappone è aperto o chiuso, vuole aprirsi o rimanere chiuso? Penso che l’internazionalizzazione di cui si parla a livello ufficiale e l’impressione della chiusura siano entrambe delle realtà. Questi due fatti normalmente vengono collegati in una prospettiva evoluzionista, secondo la quale il Giappone non avrebbe ancora raggiunto l’internazionalizzazione. Sarà vero? In realtà, può darsi che “non voglia aprirsi”, che queste due realtà convivano in modo ambiguo. Se così fosse, che ruolo e funzione avrebbero avuto la diplomazia, gli studi all’estero e gli scambi commerciali? Confrontando le varie culture del mondo sull’atlante geografico-storico, come ha fatto Huntington, la cultura giapponese si rivela relativamente isolata. Pare che questa sia un tema inevitabile per il Giappone quando affronta sua auto-definizione e l’internazionalizzazione. Vorrei, adesso, discutere dell’arte e della cultura giapponese dal punto di vista delle relazioni internazionali.

3 Satō Dōshin, Nihon bijutsu Tanjō, Kōdansha, Tokyo 1996.

Il Giappone e il sinocentrismo – diplomazia, studi all’estero, commercio internazionale

Nel Giappone del periodo pre-moderno ci fu un imperatore o uno shōgun, o comunque un capo di governo, con esperienza di studi all’estero? Penso di no. Ovviamente in epoca Meiji, quando il paese affrontava una veloce occidentalizzazione, la maggior parte dei Primi Ministri aveva fatto un’esperienza di studio all’estero o aveva visitato uno o più paesi stranieri (5 ministri su 7).4 Questo perché i rapporti con l’estero erano diventati una questione di vitale importanza, tale da decidere le sorti del paese. Vediamo insieme come la diplomazia abbia influito sull’esportazione del patrimonio culturale e sugli studi all’estero.

Le relazioni internazionali in Asia prima dell’età moderna erano basate sul sinocentrismo. Tra l’epoca Asuka (VII secolo) e la fine dell’epoca Edo (metà del XIX secolo ca.), il Giappone inviò tre missioni ufficiali in Cina: Kenzuishi, Kentōshi, Kenminshi.

Kenzuishi 600-622 6 volte 23 anni Kentōshi 630-894 6 volte 265 anni Kenminshi 1371-1386 10 volte 16 anni 1401-1549 19 volte 149 anni

Indubbiamente le missioni ebbero grande importanza; a testimonianza di questo, Kūkai, Saichō, Ennin, Sesshū (famoso per i suoi dipinti a inchiostro di china), tutti si recarono in Cina accompagnando altri inviati e importarono alcuni aspetti della cultura cinese. In particolare le delegazioni dei primi periodi svolsero contemporaneamente attività diplomatiche, studio e di commercio. Più tardi il commercio guadagnò importanza e cominciò a rendersi autonomo, assumendo la gestione dell’importazione del patrimonio culturale. Per quanto riguarda lo studio, era praticamente impossibile organizzarsi privatamente, per questo motivo credo che molti si unissero alle missioni diplomatiche o commerciali. E nel periodo Edo, quando vigeva il divieto sui viaggi all’estero, diventò impossibile.

È da notare che, malgrado il sinocentrismo, il Giappone inviò missioni diplomatiche ufficiali soltanto per 453 anni sul totale dei tre periodi. Con la dinastia Song, Yuan e Qing (durante l’epoca Edo) infatti, intrattenne rapporti commerciali ma non diplomatici. Considerando i 1250 anni dalla Kenzuishi nel 600 all’apertura del bakufu nel 1854, per circa 800 anni, cioè due terzi dell’intero periodo, il Giappone non ebbe relazioni ufficiali con la Cina (la stipula del trattato d’amicizia tra i due paesi risale al 1871, il quarto anno dell’epoca Meiji)

Questo richiama la presunta propensione a chiudersi politicamente a lungo termine, assicurandosi però i vantaggi commerciali. In altre parole, il Giappone

4 I sette Primi Ministri dell’epoca Meiji (dal diciottesimo anno di Meiji [1885] in poi): Itō Hirofumi (4 volte Primo Ministro), Kuroda Kiyotaka (1), Yamagata Aritomo (2), Matsukata Masayoshi (2), Ōkuma Shigenobu (1 nel Meiji e 1 nel Taishō), Katsura Tarō (2 nel Meiji, 1 nel Taishō), Saionji Kinmochi (2). Cinque su Sette avevano fatto esperienza all’estero. Itō, Katsura e Saionji come studenti, Kuroda e Yamagata come osservatori.

cercava cautamente di bloccare potenziali ingerenze della Cina, che esercitava una grande influenza data la sua posizione centrale in Asia. In particolare, nel corso dell’epoca Edo, grazie alla distanza garantita dalla politica di isolamento, riuscì a imporsi come paese sovrano nei confronti delle Ryūkyū e della Corea, con le quali mantenne rapporti diplomatici. Potremmo considerare questa politica di fatto il proporsi come una “piccola Cina”, una sorta di “sinocentrisimo alla giapponese”.5 Lo stesso che ha guidato il Giappone moderno verso una politica coloniale. Analizziamo ora l’estensione “della chiusura” dall’interno verso l’esterno. [Fig.3 e Fig.4]

Fig.3 Kibino Otodo Nitō emaki, XII sec., Museum of Fine Arts, Boston

Fig.4 Shinnyodō engi, XVI sec.

Importazione del patrimonio culturale sotto la guida del commercio internazionale

Non dobbiamo dimenticare che la chiusura politica non implica automaticamente la chiusura culturale. Al di fuori delle relazioni diplomatiche, il commercio internazionale continuò per tutto il periodo, e di conseguenza si continuarono a importare prodotti culturali. Si discute spesso se nell’epoca Edo, dominata da una

5 Kim BognJin, “Kindai Nihon to higashi Ajia”, in Kindai ni okeru higashi Ajia chiiki chitsujo no saikōchiku, Chikuma shobō, Tokyo 1995; Arano Ysunori, Kokushi daijiten dai 11 kan, Nicchō Kankei (kaikō izen), Yoshikawa Kōbunkan, Tokyo 1990; Satō Dōshin, Bijutsu no Aidentitī, Yoshikawa Kōbunkan, Tokyo 2007.

politica isolazionista, si possa parlare o meno di questo genere di importazione, ma sarebbe più corretto pensare che l’isolamento riguardava solo la diplomazia.

Allora, che differenze ci sono per quel che riguarda l’importazione di cultura e lo studio all’estero fra i momenti in cui la diplomazia e il commercio procedono in parallelo come all’epoca della missione Kentōshi, e quelli in cui il commercio è autonomo?

Tra le missioni Kenzuishi, Kentōshi, Kenminshi, soltanto con la Kenminshi il Giappone si pose nei confronti della Cina come stato satellite di fronte a uno stato sovrano. Tuttavia, secondo Ashikaga Yoshimitsu lo scopo di tale scelta politica era ottenere un riconoscimento e quindi il monopolio del diritto di commercio (kangō bōeki 勘合貿易), un obiettivo molto diverso da quello della missione Kentōshi, tramite la quale si era tentato di importare il sistema e la cultura cinese in toto. Nel caso delle missioni Kenzuishi e Kentōshi, il Giappone non si era posto come stato satellite dal punto di vista commerciale, pur offrendo un tributo alla Cina (una sorta di riconoscimento). Ma vediamo insieme nel dettaglio quali oggetti culturali e quali merci si scambiavano le missioni giapponesi e la Cina.

Normalmente il paese tributario offriva prodotti tipici del proprio paese, sulla base del gusto del destinatario. La corte cinese contraccambiava con merci in quantità superiore. Tali regali simboleggiavano il potere dell’impero cinese, quindi presumibilmente erano notevoli sia per la natura intrinseca sia per la qualità. Dovevano ostentare il ruolo della Cina come centro del mondo, l’intenzione a istruire i paesi tributari, shii 四夷 (paesi limitrofi).

Nel caso del commercio invece a contare erano richiesta e offerta di mercato, quindi si trattavano i prodotti che si vendevano. In questo caso, l’acquisto e l’importazione riflettevano il gusto dei giapponesi. Si dice che era questione di gusto se la pittura a inchiostro di china giapponese seguiva lo stile della scuola Nanshū, mentre i dipinti della scuola Rikaku non arrivavano quasi mai in Giappone (almeno fino all’epoca moderna). Da un certo punto di vista probabilmente è proprio così, ma le opere d’arte erano anche merci d’importazione e il loro commercio era un affare, il che influiva in modo significativo sulla selezione. Se si fosse trattato di scambi diplomatici, sarebbero arrivati molti più dipinti della scuola Rikaku.

Si può quindi dedurre che il fatto che in epoca Nara non solo gli articoli importati dalla Cina ma anche quelli esportati dal Giappone fossero di gusto cinese sia da ricondurre a un sistema impostato per dare priorità alla politica più che al gusto, e alla diplomazia più che al commercio. Al contrario, in epoca Muromachi gli articoli d’importazione e d’esportazione in teoria erano tributi della missione Kenminshi e regali da parte dell’imperatore Ming, ma in realtà erano chiaramente di gusto giapponese perché il commercio internazionale aveva già assunto un’importanza rilevante. Il forte gusto sinizzante del terzo shōgun Muromachi, Ashikaga Yoshimitsu, scaturisce proprio dal fiorire del commercio. Infatti, il suo gusto addirittura esaspera quello cinese, e simboleggia l’esultanza di Yoshimitsu per aver ottenuto il titolo di “re del Giappone” grazie al monopolio sui commerci e al prestigio diplomatico.

Importazione e assimilazione della cultura attraverso gli oggetti materiali, non attraverso le persone

Storicamente in Giappone, per quanto riguarda i prodotti culturali, l’importazione ha sempre ecceduto l’esportazione. La scelta di importare cultura mediante gli studi all’estero (persone) o mediante il commercio (oggetti) poteva dipendere dal genere, cultura materiale o performance.

La cultura materiale infatti si può apprendere tramite gli oggetti, mentre performance come musica e teatro, per essere comprese necessitano di essere viste o ascoltate, e per essere apprese hanno bisogno di un insegnamento diretto. In altre parole, generalizzando, le belle arti si possono studiare anche mediante gli oggetti, mentre la cultura di tipo performativo si apprende solo dalle persone. Di conseguenza possiamo dedurne che nel secondo caso la necessità di studiare all’estero era molto più forte (in altre parole, era fondamentale il ruolo delle persone che avevano studiato all’estero e degli stranieri residenti in Giappone).

Il che suggerisce che lo stesso gap potrebbe ripresentarsi anche nel caso della cultura buddista, cioè tra monaci, e scultori o pittori di soggetti buddisti. I monaci sentivano maggiormente la necessità di recarsi all’estero per apprendere direttamente la lettura dei sutra, le regole del galateo, i mantra, eccetera, mentre gli scultori e i pittori potevano imparare anche tramite sculture, dipinti o repertori di immagini. Infatti, sappiamo di molti monaci che si recarono a studiare all’estero, ma di pochi scultori e pittori.

In secondo luogo, se la cultura materiale può essere importata tramite il commercio (importazione di oggetti), nel caso della cultura performativa questo è praticamente impossibile (eccetto oggigiorno, tramite CD). Per commercio internazionale qui si intende fondamentalmente la compravendita di beni che possono essere legalmente spostati, posseduti, acquistati, venduti, convertiti in denaro contante. Invece nel caso della performance, si può guadagnare dallo spettacolo, ma non è un “prodotto” adatto al commercio internazionale. Se nell’epoca Meiji l’arte ebbe un ruolo nell’acquisizione di valuta estera grazie alle esportazioni in Occidente negli anni del boom del japonisme, è proprio perché si rattava di oggetti materiali, cioè trasportabili. Quindi, nel caso dell’arte, è sufficiente avere rapporti commerciali per importare cultura materiale (arte), anche in assenza di relazioni diplomatiche.

Considerando che storicamente i rapporti commerciali sono sempre esistiti, al di là delle relazioni diplomatiche, l’arte straniera fu trasmessa in Giappone attraverso gli oggetti più che attraverso le persone.

Probabilmente lo stesso può dirsi della cultura linguistica. Fino alla modernità, il cinese classico rimase il fondamento dell’istruzione: si imparava a leggerlo e scriverlo, ma pochi lo sapevano parlare. Il che dimostra che era stato importato attraverso gli oggetti, non attraverso le persone (cioè tramite i libri e non tramite la conversazione). E ancora oggi nell’apprendimento delle lingue straniere è rimasta la tendenza a concentrare l’insegnamento sullo scritto piuttosto che sul parlato. È un modello radicato in Giappone, e attivo anche nell’assimilazione delle culture.

Riproduzione e libera interpretazione – I due volti dell’assimilazione attraverso gli oggetti

L’apprendimento dell’arte straniera attraverso gli oggetti ha generato due tendenze o modelli interpretativi. Il primo è l’interpretazione “libera”, in senso positivo e negativo, vale a dire malinteso e fraintendimento passivo o attivo; il secondo è l’opposto del precedente, la “riproduzione”. Entrambi sono frutto del tentativo di interpretazione e di approccio a un’opera muta.

L’interpretazione libera si fonda sul presupposto che la situazione non permetta la comprensione precisa del background storico, ideologico e sociale. In tale situazione, le motivazioni sono la curiosità, l’interesse, l’immaginazione e l’intenzione di quanti si trovano di fronte all’opera, e più forti sono le motivazioni più facilmente la plasticità e il significato di un’opera si trasferiscono in un altro contesto. In altri termini, non comprendendo a fondo l’opera (oppure ignorando intenzionalmente questo aspetto) ma nel contempo avendo forti curiosità e interesse, si riesce a modificare il contesto. Probabilmente, la cosiddetta nipponizzazione rientra in questo caso. [Fig.5 e Fig.6]

Si parla invece di riproduzione quando si cerca di comprendere l’opera appieno. Nell’epoca moderna nella quale si attribuisce grande valore all’originalità, le eccellenti tecniche di riproduzione sviluppate in Giappone hanno perso credito. Tuttavia, in realtà, la copia è in stretto rapporto con la storia dell’assimilazione delle culture altre tramite gli oggetti. In altre parole, nel caso in cui mancassero maestri o istruzioni scritte che illustrassero le tecniche di pittura o di creazione, la riprodu-

Fig.5 Mokkei, Kannon-enkakuzu (gru), XIII sec. Fig.6 Hasegawa Tōhaku, Chikukakuzu, XVI sec.

zione rappresentava il metodo più efficace e rapido per comprenderle. E questo non accadeva soltanto prima della modernità, ma lo ritroviamo anche per esempio nel trapianto della tecnologia del telaio in epoca Meiji, o in quella del televisore e del computer in epoca Shōwa. Smontandoli in pezzi e poi riassemblandoli e riproducendoli uno a uno, se ne apprendeva il meccanismo.

Il problema in questo caso, sia che si tratti di un’opera d’arte che di una macchina, è che si dava troppa importanza all’apprendimento utilitaristico delle tecniche materiali. Si poteva magari arrivare a conoscere con estrema precisione i materiali e le tecniche di pittura tramite un quadro, ma rimaneva il limite alla corretta comprensione dello sfondo storico, ideologico e sociale; e da questo punto di vista si trattava quasi di un’interpretazione libera. Su queste basi, si può dedurre che il tratto caratteristico dell’approccio giapponese alle culture straniere tragga origine dal sistema d’importazione culturale tramite oggetti e non tramite persone. Bisognerebbe tener conto della possibilità di una scelta volontaria, il rovescio della medaglia della “chiusura”. E mi sembra che questo assuma un’importanza ancora maggiore quando si parla del moderno-contemporaneo, un’epoca teoricamente “aperta”.

L’identità e il senso dell’uchi (dentro)

Finora abbiamo trattato del trapianto di culture straniere in Giappone attraverso gli oggetti, guidato principalmente dai rapporti commerciali, più che dalla diplomazia o dagli studi all’estero. Allora perché ancora oggi, nel post-moderno, nonostante la pratica dello studio all’estero sia ormai generalizzata, il Giappone rimane chiuso, come sostiene Huntington?

Uno delle ipotesi è che, malgrado molti vadano all’estero per motivi di studio, prevalga ancora la modalità di assimilazione tramite gli oggetti. Nel caso delle belle arti, rientrano in questo modello anche coloro che all’estero si concentrano sullo studio delle opere e dei testi, e trascurano le persone e la vita del posto, la storia, le abitudini. Apparentemente è un atteggiamento professionale e ortodosso, ma rispetto al vantaggio di “studiare all’estero”, cioè alla possibilità di comprendere una cultura straniera a trecentosessanta gradi tramite l’esperienza diretta, rientra sempre nello schema abituale.

A un esame più approfondito, possiamo concludere che il problema è che la “coscienza” rimane chiusa. La difficoltà maggiore è che ancora oggi la percezione dell’identità del “Giappone” non si basa né sulla religione né su un’ideologia, ma sul senso di uchi (forse l’ultimo baluardo della giapponesità?). È un tratto dell’indole molto intimo, e profondamente radicato dal punto di vista sociale. Gli studenti giapponesi che vanno all’estero portano con sé l’uchi e il “Giappone”, mentre in Giappone, nonostante le numerose iniziative a livello nazionale volte a richiamare gli studenti stranieri, la società ha difficoltà ad accoglierli veramente.

Tutto questo è evidente nelle espressioni come ijin異人 (persona diversa, straniero) in uso negli ultimi anni dell’epoca Edo e agli inizi dell’epoca Meiji, l’attuale

gaijin 外人(persona di fuori, straniero); Bankokuhakurankai 万国博覧会 (Expo internazionale) e Naikokukangyōhakurankai 内国- (Expo industriale nazionale) in uso nell’epoca Meiji; gaimushō 外務省 (Ministero degli Affari Esteri) e naimushō内務 省(Ministero dell’Interno) eccetera. In luogo delle parole foreign e domestic world, in Giappone si usano outside e inside. Per gli studenti inviati all’estero grazie alla politica dell’epoca Meiji, lo studio dell’Occidente era vincolato all’interesse del paese, era cioè in funzione del “dentro”. E ancora oggi, nonostante molti studino all’estero privatamente, il senso di “dentro” e “fuori”, “Giappone” e “paesi stranieri” è molto forte.

Confrontando il significato delle parole gaikokujin 外国人 (persone di un paese straniero), gaijin e ijin, emerge il meccanismo nihonjin日本人 (giapponese)=naijin内人(persone dell’interno)=dōjin同人(persone uguali, membri). Il confine tra dentro e fuori non è definito dalla differenza di identità ma è piuttosto il risultato di un bisogno subconscio e spontaneo di garanzia, stabilità e salvaguardia della stessa. Dovrebbe essere questo il motivo per il quale il Giappone viene identificato come “civiltà” isolata e particolarista, come dice Huntington.

Inoltre, i tratti della cultura giapponese di cui abbiamo già parlato – è forte nella tecnologia, nella produzione e nel commercio internazionale, ma è debole nella diplomazia e nei rapporti con l’estero – derivano dal suo atteggiamento storico nei confronti dei paesi stranieri, che dava la priorità all’assimilazione attraverso gli oggetti.

Se volessimo modificare questo tratto isolazionista e particolarista, dovremmo convertire il paradigma dell’identità. In tal caso, la cosa più importante sarebbe privilegiare l’apprendimento attraverso le persone, nonostante viviamo ormai in una società altamente orientata dall’informazione. Comprendere e apprendere in modo diretto è semplice e fondamentale, ma, come abbiamo visto, è un metodo storicamente non percorso in Giappone, forse addirittura volutamente evitato. In altre parole, la questione è molto complessa.

[traduzione di Haruka Arakawa]

The Isolation of Japanese Civilization: Assimilation of Foreign Cultures Trough Objects, not Through People.

Japanese people state that their country has always accepted and developed foreign cultures, whereas Samuel Huntington maintains that Japanese civilization is an isolated one. Is Japan open or closed, then? Indeed, its geographical conditions - Japan is surrounded by the sea, that makes traveling abroad quite difficult - seem to have considerably affected the relationship with foreign cultures. It is no coincidence that Japanese people still prefer material objects as means of knowledge. Proficient in technology, manufacturing and trade, but weak in diplomacy and relations with foreigners: probably they derive these characteristics from their historical behavior towards foreign countries.

孤立した日本文明灯-人よりモノ媒体の外国文化理解

佐藤道信

「日本はつねに外来文化を受容し展開してきた」と日本は言い、サミ ュエル・ハンチントンは逆に、日本は「孤立した文明」だという。日 本は開いてきたのか、閉じてきたのか。 文化がまったく変わらずに伝播し、理解されることはありえない。と くに日本における外国文化理解の場合、「外国」と「海外」が同義で あるように、周囲を渡航困難な海に囲まれた地理的条件が、その理解 のしかたにかなり大きく影響しているように見える。そもそも、学び 方や教え方じたい、ジャンルによってかなり違う。音楽のようなパフ ォーマンス文化は、人から直接学ぶ対人伝授が中心になるが、美術の ようなモノ文化は、模写のようにモノから学ぶことも可能だ。ならば 日本の場合、人とモノの海外との間の移動は、歴史的にどのような状 況下にあり、それが日本での外国文化の理解のしかたに、どのように 影響しているのか。 人とモノの移動には、外交と貿易関係の有無が大きな意味をもつ。飛鳥 時代から江戸時代まで(7C初め~19Cなかば)の約1250年間に、日本が 公式の外交関係を持った中国の歴代王朝は、隋・唐・明のみである( 宋・元・清とはなし)。使節の派遣期間は、総計でもわずか450年間、 3分の1の期間しかない。しかし、貿易はほぼ一貫して行なわれてい た。外交なら中国王朝からの贈品も入ってきたはずだが、貿易での輸入 品なら、日本側の趣味が初めからフィルターとして介在した、交易地で の買い付け品が中心だったと思われる。そしてこの貿易によるモノ(文 物)の輸入が継続されていることからすれば、日本の中国美術理解は、 大局的には人よりモノ媒体で行なわれてきたと考えられる。 ところが、人よりモノ媒体の理解の場合、教わる人がいないわけだか ら、目的であれ結果であれ、文物のもつ歴史的・思想的・社会的背景 への正確な理解は、困難だったと思われる。そのため、日本美術や日

本文化に顕著なコピー性や、真逆の自由解釈という二つの理解パター ンも、モノ媒体の理解に起因する表裏の現象だったのではないかと思 われる。読み書きはできてもなかなか話せない、現在にまでいたる日 本での外国語理解も、人(会話、口語)より書籍(モノ、文語)を介 しているからだ。 近代以降、外交・貿易両者をともなう人とモノの交流がふえて なお、人よりモノ媒体の理解が優先するパターンは続いてい る。技術・モノ作り・貿易に長け、外交や外国人との人づきあ いに不得手な日本の特徴も、こうした長い対外姿勢の歴史の上 にあると思われる。ただ、人・モノ・情報が動いても、最後は 「日本」をささえるいまなお重要なアイデンティティーである 「内」意識がどう動くかが、ポイントになるかもしれない。