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Recenti sviluppi del diritto del lavoro giapponese nell'era della flessibilità: la ‘zona grigia’ dei lavoratori ‘atipici’

FABIANA MARINARO

Recenti sviluppi del diritto del lavoro giapponese nell’era della flessibilità: la ‘zona grigia’ dei lavoratori ‘atipici’

Il diritto del lavoro in Giappone

La nascita del Diritto del Lavoro in Giappone si colloca nel periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In precedenza, pur essendo in vigore una normativa base volta a garantire una soglia minima di tutela per la fascia più debole della forza lavoro (donne e bambini), il rapporto di lavoro era visto come una normale relazione contrattuale e, di conseguenza, governata esclusivamente dalle disposizioni del Codice Civile.1 Fu quindi sotto l’occupazione americana, di cui subì l’influenza soprattutto per quel che riguarda la legge sui sindacati, che venne formandosi l’ossatura del diritto del lavoro giapponese.

Quest’ultimo, escludendo le disposizioni in merito contenute nella Costituzione del 1946,2 si compone oggi di tre grandi macrosettori:3 • 個別的労働関係法 (Kobetsuteki Rōdō Kankei Hō): normativa sui rapporti individuali di lavoro (es.: 労働基準法 Rōdō Kijun Hō ‘Legge sugli standard di lavoro’); • 集団的労働関係法 (Shūdanteki Rōdō Kankei Hō): normativa sui rapporti collettivi di lavoro (es.: 労働組合法 Rōdō Kumiai Hō ‘Legge sui sindacati’); • 労働市場法 (Rōdō Shijō Hō): normativa che regola il funzionamento del mercato del lavoro (es.: 職業安定法 Shokugyō Antei Hō ‘Legge sulla sicurezza dell’impiego’).

Tralasciando di occuparci del secondo, che cade al di fuori dello scopo del presente contributo, focalizzeremo l’attenzione sugli altri due, quelli che negli ultimi anni hanno subìto i maggiori interventi da parte del legislatore giapponese causando un notevole cambiamento in quello che, fino a pochi anni orsono, era stato il normale corso nella gestione dei rapporti di lavoro in Giappone.

1 Araki Takashi, Rōdōhō, Yūhikaku, Tokyo 2009, II ed., p. 9. La cosa, peraltro, non è molto dissimile da quanto accaduto in altri paesi europei, Italia compresa. In merito si veda Roccella Massimo, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli editore, Torino 2010, IV ed., cap. I. 2 Artt. 27-28, Nihon Koku Kenpō (Costituzione del Giappone). I diritti riconosciuti sono: diritto/ obbligo ad avere un’occupazione, diritto di associazione e di agire collettivamente. Si veda http://www. houko.com/00/01/S21/000.HTM#s3, (03/01/2012). 3 Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 20-21.

La principale disciplina che regola i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro è la Rōdō Kijun Hō (Legge sugli standard di lavoro) che, entrata in vigore nel 1947, stabilisce gli standard minimi che regolano un rapporto di lavoro subordinato. In essa è, pertanto, contenuta tutta la normativa base in merito a retribuzione minima, orario di lavoro, infortuni, malattia e così via.4

Le disposizioni della Rōkihō (come viene spesso abbreviata), che come detto rappresentano uno standard minimo di trattamento derogabile solo in melius, vengono poi ampliate attraverso i contratti collettivi di lavoro (労働協約 rōdō kyōyaku) stipulati tra il datore di lavoro e l’organizzazione sindacale di riferimento e tramite le cosiddette 職業規則 Shokugyō Kisoku, set di norme poste a governo del rapporto di lavoro a livello aziendale e stabilite dal management in seguito a consultazione con il sindacato aziendale o, in sua assenza, con la maggioranza dei lavoratori.

Su questo ramo principale della normativa lavorativa, il legislatore giapponese ha poi innestato le varie leggi speciali in materia di sicurezza dell’impiego, pari opportunità e tutti gli altri aspetti di un rapporto di lavoro con profili di specialità.

Se si getta uno sguardo al corpus del Diritto del lavoro giapponese nel suo complesso,5 risulta subito evidente che è alquanto difficile riscontravi tracce di quel garantismo che ha caratterizzato, nel secondo dopoguerra, lo sviluppo della legislazione lavoristica in altri paesi industriali, in particolare europei.

In Giappone, il governo ha sempre preferito delegare la protezione dei lavoratori e dell’impiego.6

In primo luogo ai tribunali, che hanno da sempre avuto un ruolo centrale nel colmare le lacune lasciate dal legislatore giapponese.

Volendo dare un esempio tra tutti sul ruolo ricoperto dalle corti basti citare la disciplina in materia di licenziamento. Fino al 2004,7 a livello normativo, il datore di lavoro giapponese non incontrava alcun ostacolo alla sua libertà di licenziare il lavoratore, fatto salvo l’obbligo di preavviso (art. 627 c.c.) e di corresponsione di un’indennità pari a un mese di salario (art. 20 rōkihō). Fu quindi compito della giurisprudenza colmare questo vuoto normativo con una sentenza del 1979 della Corte Suprema che restrinse il campo d’azione del principio di libertà di licenziamento del datore di lavoro vincolandolo all’esistenza di una giustificazione, riconducibile al concetto di giusta causa.8

4 Ibidem, p. 47 e seg. 5 Per una precisa, puntuale e breve panoramica sul diritto del lavoro giapponese si veda Oda Hiroshi, Japanese Law, Oxford University Press, Oxford 2009, III ed., cap. 16. 6 Olivier Passet, “Stability and Change: Japan’s Employment System Under Pressure”, in Peter Auer, Sandrine Cazes (eds.), Employment Stability in an Age of Flexibility, International Labor Office, Geneva 2003, pp. 161-164. 7 Nel 2004, come parte delle riforme concernenti il mondo del lavoro effettuate sotto il governo Koizumi, la Rōkihō venne emendata facendovi confluire il principio di ‘giusta causa di licenziamento’ già esistente nell’interpretazione della giurisprudenza (art. 18, co. 2). Il principio è stato incluso (art. 16) anche nella Rōdō Keiyaku Hō, la legge che dal 2007 regola i contratti di lavoro. 8 Thomas Bredgaard, Flemming Larsen, “Comparing Flexicurity in Denmark and Japan”, Japan Institute for Labour Policy and Training, Report by Visiting Researcher, 2007, p. 18, http://www.jil.go.jp/

Secondo l’interpretazione della corte,9 affinché un licenziamento non venga classificato come ‘illegittimo’ e non risulti pertanto nullo, devono sussistere quattro condizioni:10 • formulazione di un accordo con il sindacato aziendale; • comprovata incompetenza dimostrata dal lavoratore; • violazione dei regolamenti disciplinari dell’azienda; • esigenze connesse allo stato economico-finanziario dell’impresa.11

In secondo luogo alle aziende, tramite quella particolare forma di gestione delle relazioni industriali nota come 終身雇用制度 shūshin koyō seido (sistema dell’impiego a vita). Sviluppatosi durante il periodo di massima espansione dell’economia giapponese che seguì la fine della Seconda guerra mondiale, lo shūshin koyō seido si fonda su rapporti di lavoro a tempo indeterminato12 tra un datore di lavoro e un lavoratore che rimane nella stessa azienda per la sua intera vita lavorativa seguendo percorsi di promozione fondati principalmente sull’anzianità di servizio. Per tanti anni celebrato anche in Occidente, il principale vantaggio offerto dal sistema dell’impiego a vita giapponese è rappresentato da un elevato grado di flessibilità funzionale che, a differenza della flessibilità numerica, si fonda su un’elevata mobilità interna del lavoratore in termini di mansioni, compiti, orario di lavoro, straordinari.13 A questo va poi ad aggiungersi un grado praticamente inesistente di conflittualità con le parti sociali dal momento che le richieste di flessibilità si intendono comunque controbilanciate dai vantaggi di un impiego stabile e con possibilità di promozione, il che ha consentito una gestione estremamente fluida dei rapporti di lavoro.

profile/documents/Denmark_final.pdf. 9 Si noti che la sentenza riguarda esclusivamente il personale regolare dell’azienda. 10 Araki Takashi, Labor and Employment Law in Japan, Japan Institute of Labor, Tokyo 2002, p. 26. 11 L’ultimo requisito, peraltro, richiede che vengano soddisfatte ulteriori quattro condizioni affinché il licenziamento per motivi economici possa essere considerato ‘ragionevole’: 1) necessità inevitabile di una decurtazione del personale; 2) messa in atto di ogni tentativo possibile per evitare il licenziamento (trasferimento, appalto, licenziamento del personale non regolare, ecc.); 3) consultazione preventiva con i rappresentanti sindacali; 4) stesura di standard equi e ragionevoli per la selezione dei dipendenti da licenziare. Ulrike Schaede, Choose and Focus: Japanese Business Strategies for the 21th Century, Cornell University Press, Ithaca 2008, p. 178. È significativo notare che, in anni recenti, alcune corti distrettuali (tribunali di prima istanza in Giappone) hanno modificato l’interpretazione dei quattro requisiti delineati dalla sentenza del 1979. In base alla nuova interpretazione, non è più necessario che le quattro condizioni co-sussistano. Resta da vedere, peraltro, se l’interpretazione delle corti distrettuali riuscirà a soppiantare quella della Corte Suprema, le cui sentenze sono tradizionalmente rivestite di notevole prestigio e autorevolezza. Araki Takashi, Labour and Employment Law…, cit., p. 26. 12 È importante sottolineare che la costituzione di questo sistema di gestione dei rapporti di lavoro, in particolare per ciò che riguarda l’aspetto della durata, non trova riscontro nel diritto del lavoro di fonte statale. Contrariamente ai paesi europei, la durata a tempo indeterminato non ha mai caratterizzato, da un punto di vista normativo, il modello standard di rapporto di lavoro subordinato. La sola disposizione della Rōkihō che faccia riferimento all’elemento della durata si limita a statuire che un contratto a tempo determinato non può superare i tre anni (art. 14). 13 Thomas Bredgaard, Flemming Larsen, “Comparing Flexicurity…”, cit., pp. 20-21.

Questa sinergia di fattori ha dato vita a una realtà di organizzazione delle relazioni industriali mostratasi in grado di garantire un’elevata stabilità (di fatto, se non formale) di impiego per i cosiddetti 正規労働者 seiki rōdōsha14 – vale a dire lavoratori con contratto di lavoro full-time a tempo indeterminato, bonus e possibilità di avanzamento di carriera – lasciando la periferia, i lavoratori atipici appunto, ad assorbire gli urti delle fasi (cicliche) di recessione economica.

Deregolamentazione e flessibilità del mercato del lavoro

Con lo scoppio dell’economia della bolla, per il Giappone si concluse quell’epoca dorata caratterizzata da tassi accelerati e costanti di crescita, benessere sociale diffuso e livelli di quasi piena occupazione che erano stati i decenni precedenti. L’ingresso nel primo vero e proprio periodo di recessione economica che si ebbe in seguito alla crisi energetica degli anni Settanta ebbe un riflesso sulla legislazione del lavoro poiché anche in Giappone, in maniera non dissimile da quanto accaduto in diversi contesti nazionali occidentali, prese piede la discussione relativa alla deregolamentazione del mercato del lavoro e flessibilità dell’impiego. L’idea della stabilità del posto di lavoro o, comunque, del pesante intervento dello Stato nell’ambito della gestione dei rapporti di lavoro era venuta formandosi nel periodo di diffusa crescita economica avutasi nella maggior parte dei paesi industriali nel ventennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, già in seguito alla crisi petrolifera del 1973 la prospettiva cambiò e quelle che fino ad allora erano state celebrate come garanzie necessarie poste a tutela di un rapporto contrattuale che non poteva considerarsi sullo stesso piano di altri, iniziarono a essere denunciate come ‘rigidità’ che, vincolando le imprese nella loro organizzazione della forza lavoro, ostacolavano il corretto funzionamento del mercato del lavoro.15

Discorsi di questo tipo non vennero risparmiati neppure in Giappone. Questo nonostante il fatto che, come si accennava, il mercato del lavoro giapponese, da un lato, potesse già definirsi flessibile (flessibilità funzionale); e, dall’altro, mancasse quel pesante garantismo statale che aveva invece caratterizzato le relazioni industriali in altri paesi occidentali avendo, il legislatore giapponese, sempre preferito tenersi ai margini della gestione dei rapporti di lavoro: le rigidità del mercato del

14 Secondo uno studio di Ono, sarebbe in realtà solo un 20 % della forza lavoro giapponese a essere beneficiaria dello shūshin koyō seido (includendo nella stima solo quei lavoratori che sono stati assunti subito dopo la laurea e sono rimasti/si presuppone rimarranno all’interno della stessa azienda fino al pensionamento). Ono Hiroshi, ‘Lifetime Employment in Japan: Concepts and Measurements’, Journal of Japanese and International Economies, 24, 1, 2010, pp. 1-27. Come fanno giustamente notare Bredgaard e Larsen, tuttavia, ciò non significa che la percentuale restante sia costituita interamente da rapporti di lavoro atipici a tempo determinato. Si veda Thomas Bredgaard, Flemming Larsen, “Comparing Flexicurity…”, cit., p. 19. 15 Ronald Dore, “The end of jobs for life? Corporate Employment Systems: Japan and Elsewhere”, Centre for economic performance, occasional paper no. 11, 1996, p. 6.

lavoro giapponese non sono mai state rigidità di carattere legislativo quanto piuttosto rigidità ‘auto-imposte’ tanto da essere definite anche ‘rigidità flessibili’.16

Di conseguenza, nel Paese del Sol Levante, il discorso sulla 規制緩和 kisei kanwa si concentrò essenzialmente su due punti:17 • agire, tramite il rilassamento della normativa, sul mercato esterno del lavoro che, praticamente immobile, impediva il movimento dei lavoratori dai settori in declino ai settori emergenti in questo modo rallentando la ristrutturazione dell’economia; • nuova normativa che portasse a una diversificazione delle tipologie lavorative: da un lato, perché in un contesto economico sempre più globale non poteva tardare ad avvertirsi la concorrenza di paesi con un costo del lavoro più basso;18 dall’altro, come mezzo per contrastare la crescente disoccupazione, soprattutto giovanile.19

Questa spinta verso la deregolamentazione, si tradusse in una serie di interventi legislativi di cui, in questa sede, vorrei prendere in esame quelli che negli ultimi anni hanno causato maggior dibattito: • 労働者派遣法 Rōdōsha Haken Hō; • パートタイム法 Pāto Taimu Hō.

Rōdōsha Haken Hō

In maniera non dissimile da quanto avvenuto in Italia, anche in Giappone il collocamento dei lavoratori è avvenuto per molti anni in un regime di (quasi) totale monopolio statale.20 L’art. 44 della Shokugyō Antei Hō (Legge sulla sicurezza dell’im-

16 “By self-imposed rigidities, I mean the acceptance, by managers, of a wide range of constraints on their freedom of action – lifetime employment guarantees, tight seniority constraints on promotion, acceptance of the need to engineer consent, to maintain close consultation with employees or their unions – that acceptance of constraint being rewarded by a ‘commitment’ on the part of employees which greatly facilitates the firm’s ‘flexible’ adaptation to new technologies and new market opportunities”, Ibidem, p. 8. 17 Araki Takashi, “Changing Japanese Labor Law in Light of Deregulation Drives: a Comparative Analysis”, Japan Institute of Labor Bulletin, Special Topic, 36, 5, maggio 1997, http://www.jil.go.jp/jil/ bulletin/year/1997/vol36-05/06.htm. 18 A cui andava ad aggiungersi peraltro il timore di delocalizzazione all’estero. 19 Il Giappone ha ancora oggi livelli di disoccupazione che, per i paesi europei, sarebbero forse auspicabili sebbene si riconosca che i dati raccolti a cadenza semestrale dal kōsei rōdōshō siano parzialmente falsati dal fatto che spesso le statistiche non tengono conto della percentuale dei 潜在的失業者 senzaiteki shitsugyōsha, persone che vorrebbero un lavoro ma hanno rinunciato a cercarlo nella convinzione di non poterne ottenere uno. Si veda Goka Gazumichi, Koyō no Danryokuka to Rōdōsha Haken [to] Shokugyō Shōkai Jigyō, Ōtsuki shoten, Tokyo 1999, pp. 93-95. Come fatto notare da Passet, peraltro, la percentuale dei ‘disoccupati invisibili’ in Giappone è di gran lunga superiore alla media dei paesi europei e degli Stati Uniti. Si veda Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., p. 188. 20 La logica che in molti paesi ha portato al divieto di mediazione privata nel collocamento era stata dettata da un’esigenza di controllo del mercato del lavoro per evitare prassi discriminatorie e consentire un’equa distribuzione delle opportunità di lavoro.

piego, 1947) proibiva tassativamente qualsiasi appalto o subappalto di lavoratori tranne che per 29 tipologie lavorative (cuochi, designer, infermieri, ecc.) definite dall’art. 24 dell’ordinanza esecutiva della legge stessa e per le quali era comunque richiesta una licenza da parte dell’allora ministero del lavoro.21 L’iter per ottenere il permesso di effettuare operazioni di mediazione privata era inoltre lungo, complesso e non privo di ambiguità.22 Il divieto venne mantenuto fino alla metà degli anni Ottanta ma, già nel decennio precedente, in seguito alla crisi petrolifera del 1973, lo scenario era andato parzialmente mutando e si iniziò a puntare ai limiti del sistema statale di collocamento dei lavoratori.

La strada che portò alla riforma del sistema venne aperta nel luglio del 1978 da una raccomandazione23 del 行政管理庁gyōsei kanri chō (Agenzia per la gestione dell’amministrazione) che auspicava una parziale apertura ai privati nell’organizzazione del mercato del lavoro che contribuisse a oleare i meccanismi di funzionamento dei servizi per l’impiego, in questo modo rendendo più fluido l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. L’allora ministero del lavoro recepì la raccomandazione e avviò l’iter legislativo24 che portò dapprima alla riforma della Shokugyō Antei Hō con l’abolizione del divieto di mediazione privata previsto dall’art. 44 e, successivamente, all’entrata in vigore, nel luglio del 1985, della Rōdōsha Haken Hō.25 Senza voler entrare nei dettagli della disciplina, basti dire che il regime normativo della legge era inizialmente estremamente rigido: l’attività delle cosiddette 派遣事業 Haken Jigyō veniva consentita secondo un percorso ben controllato di licenze ed era ammessa esclusivamente la somministrazione di lavoratori altamente specializzati, per un periodo non superiore a un anno e solo per 13 tipologie lavorative (sistema della ポシティブ・リストo ‘lista positiva’).

La disciplina, tuttavia, venne con il tempo progressivamente rilassata: • 1996: le tipologie lavorative ammesse vennero portate a 26; • 1999: passaggio dal sistema della ‘lista positiva’ a quello della ‘lista negativa’

21 Araki Takashi, “Changing Japanese Labor…”, cit. 22 Fino alla riforma del 1999, la Shokugyō Antei Hō era stata sovente criticata in quanto predisponeva dei requisiti di licenza alquanto vaghi e consentiva una notevole discrezione da parte del ministero nel suo rilascio. La riforma del 1999 tentò di risolvere, in parte, il problema semplificando le procedure di acquisizione e statuendo che ‘il ministro del lavoro è tenuto al rilascio della licenza quando la richiesta soddisfi i requisiti di legge’ (art. 31). Si veda Araki Takashi, “1999 Revisions of Employment Security Law and Worker Dispatching Law: Drastic Reforms of Japanese Labor Market Regulations”, Japan Institute of Labor Bulletin, Special Topic, 38, 9, settembre 1999, http://www.jil.go.jp/jil/bulletin/ year/1999/vol38-09/06.htm. 23 民営職業紹介事業等の指導監督に関する行政監察結果に基づく勧告 (‘Raccomandazione basata sui risultati dell’ispezione amministrativa relativa alla direzione e controllo delle agenzie private di collocamento’). 24 Come giustamente fatto notare da Imai, peraltro, la riforma nacque soprattutto con l’obiettivo di regolamentare pratiche di somministrazione e appalto dei lavoratori che si erano venute sviluppandosi all’ombra del diritto già a partire dai primi anni Settanta. Si veda Imai Jun, The Transformation of Japanese Employment Relations, Palgrave Macmillan, Basingstoke, Hampshire 2011, pp. 56-58. 25 Goka Gazumichi, Koyō no Danryokuka…, cit., pp. 103-104.

che comportava una sostanziale liberalizzazione dell’attività di somministrazione fatto salvo per le 26 tipologie lavorative stabilite con ordinanza ministeriale; 2003: con la riforma del 2003, sotto il governo Koizumi, il processo può dirsi concluso.26

Questa riforma ha visto, da un lato, la semplificazione del procedimento amministrativo per costituirsi somministratori, portando quindi a un forte aumento del numero di soggetti abilitati ad offrire somministrazione di lavoratori; dall’altro, ha anche dilatato enormemente lo spazio riconosciuto alla mediazione privata: • è caduta la proibizione sulla somministrazione dei lavoratori del settore manifatturiero;27 • il periodo per cui è possibile essere impiegato con un contratto di somministrazione è stato esteso da 1 a 3 anni;28 • legittimazione della somministrazione anche per brevissimi periodi (inizialmente venne consentita la fornitura di manodopera anche per un giorno ma, durante il governo di Abe Shinzō, la disposizione venne eliminata e il periodo minimo di fornitura deve essere oggi di almeno un mese).29

Volendo usare le parole si Massimo Roccella30, l’elemento di ‘atipicità’ estrema del lavoro somministrato consiste nella dissociazione fra il soggetto che assume il lavoratore al solo scopo di appaltarne le prestazioni (派遣元 hakenmoto) e il soggetto che quelle prestazioni andrà a utilizzare (派遣先 hakensaki): da questo punto di vista, si riconosce che l’introduzione di un terzo tra datore di lavoro e dipendente, già parte debole del contratto, rende il rapporto di lavoro ancora più instabile, soprattutto per quello che riguarda la tutela del lavoratore.

Se si getta uno sguardo al testo della Rōdōsha Haken Hō, si può notare che l’instabilità di questo rapporto di lavoro così come la scarsa tutela del lavoratore è quanto mai evidente ed esasperata dall’estrema ambiguità e approssimazione del dettato normativo. Sebbene, infatti, per quello che riguarda la retribuzione, sicurezza sul lavoro e versamento dei contributi previdenziali (che, peraltro, avviene solo per contratti superiori a due mesi) viene stabilita una forma di responsabilità solidale fra utilizzatore e somministratore, tutta la sfera relativa a parità di tratta-

26 Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 435-438. 27 Rōdōsha haken Jigyō no Tekiseina Un’ei no Kakuho oyobi Haken Rōdōsha no Shūgyō Jōken no Seibi tō ni kansuru Hōritsu, l. 88/1985, Titolo II, Sezione I. Subito dopo lo scoppio della crisi economica del 2008, che vide il licenziamento in massa da parte di molte aziende del settore di haken rōdōsha, un intenso dibattito si era aperto all’interno della Dieta relativamente alla necessità di sottrarre nuovamente il settore manifatturiero al campo d’applicazione della legge. La legge è stata nuovamente modificata nel marzo del 2012, ma il Partito Democratico non è riuscito a far passare la norma che avrebbe nuovamente proibito la somministrazione di lavoro nel settore. Si veda “Labor Situation in Japan and Analysis: Detailed Exposition 2011/2012”, Japan Institute for Labour Policy and Training, 4, p. 4, http://www. jil.go.jp/english/lsj.html. 28 Titolo II, Sezione II, l. 88/1985. 29 Ivi. 30 Massimo Roccella, Manuale…, cit., p. 203.

mento, principio di non discriminazione (in base al sesso, nazionalità, credo ecc.), assistenza socio-sanitaria, infortunio e malattia rimane confinata nell’ambito di 努 力義務 doryoku gimu: in altre parole, in capo all’utilizzatore e al somministratore non viene posto alcun obbligo vincolante ma viene semplicemente chiesto loro di ‘adoperarsi’ per ‘promuovere’ il welfare dello haken rōdōsha (art. 30).31 A rendere la legge ancora più approssimativa, va poi ad aggiungersi la totale assenza di un apparato sanzionatorio in caso di mancato rispetto del doryoku gimu, concetto così aleatorio che è già di per sé estremamente difficile da dimostrare. Sanzioni effettivamente sostanziali sono solo quelle contenute nel Titolo V e si applicano nel caso in cui la somministrazione si svolga a prescindere dalle regole stabilite.32 Queste possono andare da una semplice multa a, nei casi più gravi,33 perdita dei requisiti di licenza e fino a un anno di detenzione. Lo Stato, in ogni caso, si riserva dapprima il diritto di indirizzare ‘consigli’ e ‘raccomandazioni’ ai soggetti interessati e, in caso di mancata recezione, di rendere pubblico il fatto34 (art. 49, co. 2-3).

Nella sua versione originaria, la Rōdōsha Haken Hō non era stata intesa come legge volta alla liberalizzazione delle attività di fornitura di manodopera quanto piuttosto di lavoro altamente specializzato. La riforma del 1999 della legge, tuttavia, ha apportato un notevole cambiamento sotto questo profilo generando il rischio che gli haken rōdōsha vadano a rappresentare una forma di lavoro precario35 a basso costo.36

Pāto Taimu Hō

Rispetto agli haken rōdōsha, la situazione dei lavoratori part time è leggermente diversa e, per certi versi, più stabile in quanto spesso si tratta di lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato,37 tanto che nelle statistiche e indagini con-

31 Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 438-442. 32 Ad esempio, nel caso in cui l’utilizzatore continui ad avvalersi della prestazione del lavoratore anche dopo lo scadere del contratto di somministrazione e senza aver proceduto a fargli un’offerta diretta di lavoro. 33 Ad esempio nel caso in cui allo haken rōdōsha venga assegnato un lavoro che metta in pericolo la salute pubblica o nel caso di somministrazione di lavoratori privi del permesso di soggiorno. 34 Sebbene, in un contesto come quello giapponese, questo possa essere un deterrente quanto mai efficace. 35 La legge, infatti, enfatizza come il rōdōsha haken debba avere carattere esclusivamente temporaneo. 36 Araki Takashi, “1999 Revisions of…”, cit. Peraltro, la voce ‘Ridurre i costi del lavoro’ è la voce più selezionata dai datori di lavoro nelle statistiche governative alla domanda sul perché dell’utilizzo di forme di lavoro atipico. Si veda JILPT, “Labor Situation in Japan…”, cit., p. 4. 37 Oppure, generalmente, con contratto a tempo determinato rinnovato più volte nel tempo. In questo caso, secondo l’interpretazione corrente nella giurisprudenza, il rifiuto di rinnovo può dare adito a procedimento per licenziamento senza giusta causa dal momento che i ripetuti rinnovi danno luogo a una ragionevole aspettativa, da parte del lavoratore, sulla continuazione del rapporto di lavoro.

dotte dal Kōsei rōdōshō vengono spesso inseriti sotto la voce 短時間正社員 Tanjikan Seishain ‘lavoratori regolari a tempo parziale’.

La legge sul lavoro a tempo parziale fece la sua prima comparsa in Giappone nel 1993 per venire incontro da un lato alle esigenze delle aziende di rispondere alle fluttuazioni del carico di lavoro giorno per giorno o settimana per settimana; dall’altro, alle necessità dei lavoratori, soprattutto donne, di avere un orario di lavoro flessibile che consentisse di conciliare al meglio vita lavorativa e vita privata. Entrata in vigore nel 1994, la Pāto Taimu Hō è stata totalmente emendata con la riforma del 2007.38

La necessità della riforma era stata dettata dall’esigenza di garantire ai lavoratori part time parità di trattamento rispetto ai colleghi a tempo pieno impiegati nello stesso posto di lavoro. La legge del 1994, infatti, era stata concepita come normativa interamente programmatica che, esattamente come l’attuale Rōdōsha Haken Hō, poneva in capo al datore di lavoro non un obbligo di legge ma un mero doryoku gimu. Dato il forte aumento nell’utilizzo di personale a tempo parziale, che a tutt’oggi rappresenta la percentuale più alta di lavoratori atipici, si sentì il bisogno di una sistematizzazione della normativa che aveva a oggetto questo tipo di rapporto di lavoro, bisogno sfociato, appunto, nella riforma del 2007 ed entrata in vigore nell’aprile del 2008.39

Per certi versi, i pāto rōdōsha sono dotati di uno status legale più definito rispetto a quello degli haken rōdōsha: a fronte di un monte di lavoro al di sopra delle 20 ore settimanali e di un reddito compreso tra 130000 e 180000 yen, hanno diritto al pagamento dell’assistenza sanitaria e dei contributi previdenziali.40 Inoltre, l’attuale disciplina41 prevede l’applicazione anche ai part timer delle shokugyō kisoku (art. 7) così come delle restrizioni al principio di libertà di licenziamento del datore di lavoro. In favore dei pāto rōdōsha, è stato anche previsto un diritto di precedenza (art. 12) che il datore di lavoro deve rispettare a fronte di nuove assunzioni di personale a tempo pieno sebbene, in quest’ultimo caso, ci si trovi nuovamente di fronte a una lacuna normativa dal momento che non viene previsto nessun tipo di sanzione in caso di mancato rispetto dell’obbligo. Altrettanto lacunosa rimane, nonostante le intenzioni del legislatore, tutta la parte relativa al principio del medesimo trattamento del lavoratore part time: gli articoli in merito a retribuzione oraria (art. 9), formazione (art. 10) e benefit (art. 11), anche dopo la riforma del 2007,

38 Araki Takashi, Rōdōhō, cit., p. 425. 39 Ibidem. 40 Il sistema fiscale giapponese di imposta sul reddito, peraltro, crea una sorta di incentivo a non eccedere il limite (almeno nelle ore di lavoro dichiarate), soprattutto da parte di lavoratrici sposate. Per redditi inferiori a 1 milione di yen l’anno, infatti, l’imposta non viene applicata. Si veda Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., p. 194. 41 Si veda Tanjikan Rōdōsha no Koyō Kanri no Kaizen tō i kansuru Hōritsu, l, 76, 1993 o, per una summa, Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 425-429.

continuano a essere norme non tassative e a rimettere la parità del trattamento alla discrezione del datore di lavoro (doryoku gimu).42

Altro punto problematico della Pāto Taimu Hō, inoltre, può essere considerata l’approssimazione della definizione stessa di lavoratore part time. L’art. 2 della legge, infatti, definisce un tanjikan rōdōsha come “un lavoratore che abbia un monte ore settimanale inferiore rispetto a quello di un lavoratore a tempo pieno impiegato nello stesso luogo di lavoro”.43 È proprio questa ambiguità normativa all’origine del fenomeno dei cosiddetti フルタイムパート (o giji pāto 擬似パート): lavoratori di fatto a tempo pieno ma che vengono assunti con uno status da part time con un notevole risparmio di costi per il datore di lavoro.44 Questo perché l’intero trattamento economico dei lavoratori part time, non solo in termini di retribuzione ma anche in termini di malattia, assistenza sanitaria ecc. è riproporzionato a fronte della ridotta entità della prestazione lavorativa.

Da quanto detto, risulta evidente che, rispetto agli haken rōdōsha, i part timer sono collocati all’interno di un rapporto di lavoro certamente più stabile e sicuro derivante anche in parte dal fatto che sono spesso assunti con contratto a tempo indeterminato o con contratti a termine ripetutamente rinnovati. C’è poi da aggiungere che, a differenza di altri hitenkei rōdōsha, i pāto rōdōsha stanno iniziando a essere parzialmente organizzati sindacalmente. Per molti anni i sindacati giapponesi, sia quelli aziendali sia le grandi confederazioni come la Rengō, si erano sempre rifiutati di includere i part timer, e in generale tutte le altre categorie di lavoratori atipici, nelle loro attività. Ultimamente, almeno per quello che riguarda i lavoratori a tempo parziale, la situazione è andata parzialmente mutando: in alcuni settori, i sindacati aziendali hanno iniziato a organizzare i part timer e ad avviare negoziazioni con il management per dare il via a percorsi di carriera ad hoc che prevedano promozioni, relativi aumenti di stipendio e bonus.45

42 Il divieto di trattamento discriminatorio è invece tassativo (‘差別的取扱いをしてはならない’) nel caso di lavoratori part time assunti a tempo indeterminato che svolgano le stesse mansioni e abbiano lo stesso grado di responsabilità di un lavoratore a tempo pieno assunto nello stesso posto di lavoro (art. 8, co. 1). È tuttavia molto difficile che queste condizioni vengano soddisfatte. 43 『この法律において「短時間労働者」とは、一週間の所定労働時間が同一の事業所に 雇用される通常の労働者の一週間の所定労働時間に比し短い労働者をいう』 44 Hartmut Seifert, “Atypical Employment in Japan and Germany”, Japan Institute of Labour Policy and Training, reports by visiting researchers, maggio 2010, p. 10, http://www.jil.go.jp/profile/documents/Seifert.pdf. Circa il 30% di lavoratori part time in Giappone rientra nella categoria dei giji pāto. 45 Si veda Arjan B. Keizer, “The Dynamics between Regular and Non-Regular Employment: Labour Market Institutionalisation in Japan and the Netherlands”, Japan Institute for Labour Policy and Training, reports by visiting researchers, febbraio 2008, pp. 17-25, http://www.jil.go.jp/profile/documents/ Keizer.pdf. C’è peraltro da sottolineare che l’inversione di tendenza è forse più una questione di necessità che di libera scelta. Soprattutto in alcuni settori, come quello delle vendite e dei servizi, i part time rappresentano di gran lunga la maggioranza dei lavoratori e ciò fa sì che i sindacati si trovino per forza di cose costretti a includerli. La cosa sembrerebbe peraltro confermata dal fatto che lo stesso atteggiamento non si riscontra nei confronti degli altri lavoratori irregolari, con il rischio di generare ulteriori disparità e segmentazioni all’interno della forza lavoro irregolare.

Questo, tuttavia, non li rende meno esposti a condizioni di lavoro nettamente inferiori rispetto ai loro colleghi a tempo pieno. Come è stato fatto notare, inoltre, la situazione è complicata dal fatto che negli ultimi anni si è registrato un cambiamento nella composizione della forza lavoro a tempo parziale. Fino agli anni Novanta, infatti, erano soprattutto donne sposate che erano uscite dal mondo del lavoro a causa della nascita dei figli e vi rientravano una volta che questi erano cresciuti (le cosiddette パート妻 pāto tsuma) a rappresentare la più alta percentuale di lavoratori part time. Con l’ingresso nel nuovo millennio, invece, si è registrato un notevole aumento di lavoratori a tempo parziale i cui guadagni rappresentano anche la sola fonte di reddito per la propria famiglia.46

Sviluppi, questi, che renderebbero quindi ancora più necessaria da parte del governo giapponese una sistematica politica del lavoro in grado di indirizzare i nuovi sviluppi cui si assiste nel mercato del lavoro nipponico.

La ‘zona grigia’ dei lavoratori ‘atipici’

Pur avendo limitato il nostro discorso a due sole categorie di lavoratori atipici, ritengo risulti abbastanza chiaro perché si è deciso di collocarli in quella che definisco come una ‘zona grigia’.

Negli ultimi vent’anni, nonostante la percentuale di hitenkei koyōsha sia quasi raddoppiata raggiungendo la quota del 34,9% nel 201047 il legislatore giapponese sembra aver fatto – voler fare – ben poco per promuovere la parità di trattamento di questi lavoratori che, pertanto, a differenza dei seiki rōdōsha, rimangono ‘scoperti’ su due fronti: • da un lato, la loro tutela resta affidata a pure e semplici norme programmatiche che nulla fanno in termini di garanzie e stabilità dell’impiego preferendo, il governo giapponese, conservare il suo tradizionale posto in una zona ai margini della gestione delle relazioni industriali; • dall’altro, gli hitenkei koyōsha rimangono comunque esclusi dal sistema di protezione dell’impiego garantito dalle aziende da cui vengono utilizzati non solo e non tanto come cuscinetti di flessibilità, come si è spesso ritenuto, ma piuttosto come ammortizzatori del costo del lavoro e questo, spesso, proprio per mantenere in essere la tenuta dello shūshin koyō seido per il nucleo della propria forza lavoro rappresentato dai seiki rōdōsha.48

46 Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., pp. 176-177 e Araki Takashi, Rōdōhō, cit., p. 410. 47 Sōmushō, Rōdōryoku chōsa – shōsai shūkei – Heisei 22, p. 1, http://www.stat.go.jp/data/roudou/ sokuhou/4hanki/dt/pdf/05500.pdf. 48 Arjan B. Keizer, “The Dynamics between Regular and Non-Regular…”, cit., p. 18.

Conclusioni e prospettive future

Questo il quadro delineato, le conclusioni parziali che si possono trarre sono: • la normativa sul lavoro atipico, concepita dal legislatore giapponese come strumento per rendere più flessibile il mercato (esterno) del lavoro, ha generato un proliferare di tipologie di lavoro c.d. ‘non-standard’ che vengono utilizzate dalle imprese principalmente per ridurre i costi del lavoro. Questo, a sua volta, sembra aver portato a un superamento della tradizionale natura duale del mercato del lavoro giapponese, che risulta oggi estremamente frammentato in base a qualifiche (possedute dal singolo lavoratore), sesso ed età;49 • l’aumento della percentuale di hitenkei koyōsha non sembra finora aver intaccato la logica dello shūshin koyō seido50 anzi viene spesso utilizzato come mezzo complementare per mantenerlo in essere,51 cosa dimostrata dal fatto che sono soprattutto i giovani e le donne52 a essere confinati, spesso involontariamente, in rapporti di lavoro atipici che comportano necessariamente standard di lavoro più bassi;53 • tutto questo contribuisce a far aumentare, in particolare tra i neolaureati, il senso di insicurezza (不安 fuan) e precarietà riguardo al posto di lavoro, nonostante il Giappone conservi ancora una posizione molto alta nelle statistiche OCSE per ciò che riguarda la stabilità dell’impiego.54

È difficile azzardare ipotesi sul modo in cui andrà evolvendosi il mondo del lavoro in Giappone nei prossimi anni. Quel che è certo è che, a fronte dei cambiamenti che si sono avuti in seguito allo scoppio della bolla e del continuare dell’instabilità economica, sarebbe forse auspicabile, per non dire necessario, un ripensamento del modo con cui i rapporti di lavoro sono stati finora gestiti nel Paese del Sol Levante. Un ripensamento che veda un ruolo più attivo da parte dello Stato, non solo in termini di politiche attive del lavoro ma anche in termini di predisposizione di un apparato di tutela del lavoratore in caso, per esempio, di perdita dell’impiego.55

49 Si veda Imai Jun, The Transformation of…, cit., cap. 3. 50 Quantomeno per quello che è sempre stato il ‘nucleo’ della forza lavoro giapponese. 51 Arjan B. Keizer, “The Dynamics between Regular and Non-Regular…”, cit., p. 25. Secondo le statistiche, la percentuale di impiego regolare si è mantenuta costante tra il 1987 e il 2007 mentre la percentuale totale di impiego è aumentata del 10%, a indicare che l’aumento è probabilmente dovuto a un espansione nell’utilizzo di lavoro non standard. In merito si veda Imai Jun, The Transformation of…, p. 66. 52 Le donne, in quanto tradizionali escluse dal sistema dell’impiego a vita. I giovani, invece, in quanto molte aziende hanno contratto le nuove assunzioni preferendo ricorrere a forme di lavoro temporanee per tutte le attività non rientranti nel ‘core business’. 53 Si veda Goka Gazumichi, “Koyō no Danryokuka to Rōdō Kijun”, Kanagawa Daigaku Keizai Gakubu Ronshū, 20, 2, marzo 2000. 54 Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., p. 161. Per uno studio più esteso e dettagliato sul punto si veda Genda Yūji, A Nagging Sense of Job Insecurity: the New Reality Facing Japanese Youth, IHouse Press, Tokyo 2006. 55 I sussidi di disoccupazione in Giappone (significativamente chiamati Koyō Hoken ‘assicurazione per l’impiego’) hanno una durata che va da un minimo di 90 giorni a un massimo di 360. L’eligibilità varia

Recent Developments in Japanese Employment Law in the Era of Flexibility: the ‘Gray Zone’ of Atypical Workers

Over the last thirty years, almost all mature economies of post-industrial countries have experienced a general shift towards the diffusion of ‘non-standard’ forms of employment, due to a widespread call for deregulation of labour markets. Japan seems to have been no exception to this rule. After a brief introduction to Japanese labour legislation and the way labour relations have been managed in past years, the article analyzes two of the most debated pieces of legislation promulgated by the Japanese government to revitalize the Japanese external labour market, the Rōdōsha Haken Hō and the Pāto Taimu Hō. It then tries to draw some conclusions on the way this legislative changes have been translated into labour market behaviour and the effects they seem to have had on the composition of the workforce.

弾力化の時代における日本労働法の近時の発展

マリナーロ・ファビアーナ

非典型雇用者の状況を中心に長期に渡り経済が成長していた日本はい わゆるバブル経済崩壊後1990 年代から不況になり、規制緩和が政府の 政策の機軸におかれて、労働分野においても規制緩和に関する法律が 制定されてきた。例えば、この時期に改正された法律としては、短時 法と労働者派遣法がある。短時法改正により、短時間労働者の果たす 役割の重要性が増大し、労働者派遣法改正では労働者派遣事業に関す る規制を緩めることにより派遣労働者が活用され、その活躍の範囲が 大幅に広げられた。この様な法律の施行は日本の労働市場に影響を与 え始め、現在は日本の企業の多くが非正社員を活用している。 本稿の目的は、上述の法律を分析する上で、非正規社員の中でパート と派遣労働者を取り上げ、非正規社員の活用の事態と均衡処遇の問題 を検討することである。

a seconda dell’età, del numero di anni per cui si è versato il contributo relativo così come dalle ragioni alla base dello stato di disoccupazione. Il sussidio non è in genere superiore a più del 60% dell’ultimo stipendio e la sua erogazione è subordinata alla condizione che il disoccupato dimostri di star attivamente cercando un nuovo lavoro (artt. 10-14, Koyō Hoken Hō, l, 116/1974). Impegno che è tutto a carico della persona che ha perso il posto di lavoro data la scarsità delle misure governative volte a favorire, per esempio, la riqualificazione professionale. Si veda Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., pp. 204-205.