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Metamorfosi del grottesco: riletture contemporanee della leggenda di Shutendōji

DANIELE RESTA

Metamorfosi del grottesco: riletture contemporanee della leggenda di Shutendōji

La storia di Shutendōji (letteralmente “fanciullo beone” o “accolito beone”) è una delle leggende più popolari del Giappone medievale. Lo testimonia il cospicuo repertorio visivo e narrativo che la riprende, un corpus di testi che spazia dagli emaki, che rappresentano i più antichi documenti scritti sulla leggenda, a paraventi (byōbu), ukiyoe e, ancora, testi per il kojōruri, il nō e il kabuki. Assai ricorrente nel repertorio fiabesco dal periodo Meiji in poi, in tempi più recenti la leggenda ha suscitato l’interesse di personalità molto diverse tra di loro, che l’hanno riadattata secondo i canoni delle più svariate forme espressive: dalle consuete rielaborazioni letterarie a quelle cinematografiche, dai manga alle rappresentazioni teatrali, fino a citazioni più o meno dirette nel mondo dei videogame. Di conseguenza, almeno in Giappone, la storia è stata oggetto di studi nelle più svariate discipline, attraendo esperti di letteratura, religione, folclore, arti visive e performative.1

Pur narrando un evento del periodo Heian (794-1185), la leggenda di Shutendōji ha conosciuto forma scritta solo in tempi medievali. Il più antico documento a noi pervenuto, infatti, rimane lo Ōeyama ekotoba, un rotolo illustrato risalente a un periodo compreso tra fine Kamakura (1185-1333) e inizi Nanbokuchō (1336-92), custodito presso il Museo d’Arte Itsuō di Ōsaka. Tuttavia, la grande quantità di testi che riprendono la leggenda, ma soprattutto il numero delle sue varianti, suggeriscono che le sue origini vadano rintracciate in una più antica tradizione orale. D’altronde, l’appartenenza a una tradizione orale precedente è una delle caratteristiche del genere otogizōshi, di cui Shutendōji rappresenta uno degli episodi più significativi e, senza dubbio, meglio noti.2

Il grande repertorio narrativo e visivo concernente la storia di Shutendōji viene sostanzialmente suddiviso dagli studiosi in due parti: le versioni Ōeyama (monte Ōe) e quelle Ibukiyama (monte Ibuki), dal nome della montagna che ospita la

1 Tra i tanti studi in giapponese, si vedano: Satake Akihiro, Shutendōji ibun, Heibonsha, Tokyo 1977; Takahashi Masaaki, Shutendōji no tanjō: mō hitotsu no Nihon bunka, Chūō kōronsha, Tokyo 1992; Komatsu Kazuhiko, Shutendōji no kubi, Serika shobō, Tokyo 1997; Minobe Shigekatsu, Minobe Tomoko, Shutendōji e o yomu: matsurowanu mono no jikū, Miyai shoten, Tokyo 2009. I maggiori contributi in lingue occidentali sono di Noriko T. Reider, raccolti di recente nel volume Japanese Demon Lore: Oni from Ancient Times to the Present, Utah State University Press, Logan 2010. 2 Gli studi sul genere otogizōshi abbondano ormai anche nella produzione scientifica occidentale. Per una discussione in italiano, si veda Roberta Strippoli (a cura di), La monaca tuttofare, la donna serpente, il demone beone. Racconti dal medioevo giapponese, Marsilio, Venezia 2001.

dimora del demone. Tuttavia, è possibile distinguere almeno due varianti della versione Ibukiyama: la prima contiene una sorta di proemio in cui si narrano le origini dell’oni sul monte Ibuki, raccontando del suo successivo peregrinare da un monte all’altro, fino al definitivo stabilirsi ai piedi del monte Ōe. La seconda, invece, seguirebbe sostanzialmente la struttura narrativa delle versioni Ōeyama, conservando tuttavia qualche differenza, come appunto il luogo della fortezza.3

La versione più conosciuta, tuttavia, è quella contenuta nella raccolta di ventitré otogizōshi, dal titolo Goshūgen otogibunko (Biblioteca benaugurante di compagnia, successivamente nota col titolo alternativo di Otogizōshi), ideata nei primi decenni del diciottesimo secolo da un libraio di Ōsaka di nome Shibukawa Seiemon. La versione, strutturata in almeno quattro nuclei narrativi, si apre con una descrizione degli eventi nella capitale, dove in seguito alla continua scomparsa di dame di alto rango viene convocato un indovino, il quale sentenzia che le sparizioni sono opera di un demone che vive sul monte Ōe, nella provincia di Tanba. Su ordine imperiale vengono convocati Minamoto no Raikō e i suoi quattro attendenti, gli shitennō, che, prima di partire alla volta della dimora del demone, si appellano alle divinità, affinché li sostengano nell’impresa. Poi mettono a punto la strategia di combattimento: giungere nella fortezza di Shutendōji travestiti da yamabushi, i monaci itineranti. Con l’inizio dell’estenuante viaggio tra l’impervia montagna si apre il secondo nucleo narrativo, che prevede anche uno dei passaggi più significativi dell’intero otogizōshi, che ne sottolinea il messaggio religioso: le divinità precedentemente pregate si manifesteranno ai valorosi guerrieri, ribadendo il loro aiuto durante la missione. Poco prima di giungere alla fortezza del demone, il gruppo si imbatte anche in una giovane dama, assorta a lavare nel fiume delle vesti insanguinate, che rivela per la prima volta agli uomini – e al narratario – l’orrore antropofago che si compie tra le mura della residenza demoniaca. Dopo aver fornito una dettagliata descrizione della sfavillante dimora, il Castello di Lapislazzuli, la giovane offre una descrizione del terrificante aspetto di Shutendōji. Il terzo nucleo narrativo concerne gli avvenimenti nel castello: una volta accolti, Raikō e i suoi hanno modo di appurare la veridicità delle voci sulla frequente pratica dell’antropofagia da parte del demone che, ben presto, li invita a un tanto singolare quanto raccapricciante banchetto a base di carne e sangue umani. Dopo aver bevuto il sake magico donato a Raikō dalle divinità, Shutendōji, assonnato, si ritira nelle sue stanze, ed è qui che i guerrieri lo raggiungeranno per annientarlo definitivamente, ancora una volta con l’aiuto delle divinità, in un tripudio di sangue, mutilazioni e smembramenti. La narrazione si chiude con il ritorno trionfante dei guerrieri nella capitale, tra il caloroso entusiasmo di abitanti e autorità locali.4

Appare chiaro, dunque, che quella di Shutendōji è una storia di bene che trionfa

3 Quitman Eugene Phillips, “The Price Shuten Dōji Screens: A Study of Visual Narrative”, Ars Orientalis, XXVI, 1996, pp. 8-11. 4 Versione contenuta in Ōshima Tatehiko (a cura di), Otogizōshishū, in Nihon koten bungaku zenshū, XXXVI, Shōgakukan, Tokyo 1974. Per una traduzione in italiano, si veda Roberta Strippoli (a cura di), La monaca tuttofare…, cit., pp. 92-110.

sul male, dal chiaro messaggio didattico-religioso: è infatti grazie alle proprie virtù, ma soprattutto alla costante fede nelle divinità, che i guerrieri riescono a liberare il paese da una spaventosa creatura demoniaca. Recenti studi hanno sottolineato come essa non sia semplicemente rappresentativa dell’autorità imperiale e del potere crescente dell’aristocrazia militare, bensì del cosiddetto sistema kenmon (le porte del potere), sistema delle èlite dominanti e delle famiglie influenti.5

La storia di Shutendōji, tuttavia, è più di un mero elogio delle eroiche gesta di Raikō e i suoi uomini, o di una riflessione sul potere dell’autorità imperiale e sull’infinita pietà celeste. Alla sua fortuna nel corso dei secoli, infatti, deve aver pur contribuito l’inusuale abbondanza di curiosi dettagli grotteschi, resi a livello narrativo e visivo. La rappresentazione di un repertorio violento che attinge alle più estreme parafilie sessuali come cannibalismo e vampirismo, ma anche a massacri, mutilazioni e smembramenti, infatti, assume nella storia un rilievo particolare e sembra aver suscitato un notevole interesse fin dalla sua creazione, stimolando la fantasia di un pubblico sempre più eterogeneo e di svariati autori che, con le proprie riscritture, hanno contribuito a tramandare la storia fino ai nostri giorni. Sebbene descrizioni di demoni dediti alla terrificante pratica antropofaga ricorrano in gran misura in opere precedenti, come il Nihon ryōiki, il Konjaku monogatari e lo Ise monogatari, ma anche in altri otogizōshi, come Kibune, l’atto cannibalico viene sempre narrato come la peggiore delle punizioni che queste creature possono infliggere al genere umano, e descritto come qualcosa di veloce, istantaneo, spesso consumato in un solo boccone (ricorrente, nei testi, è l’espressione oni hitokuchi);6 con Shutendōji, invece, ci troviamo per la prima volta davanti a un demone che ricorre incessantemente al consumo di carne umana, dimostrando di provare una sorta di macabro ed indicibile piacere nel farlo.

Shutendōji nel contemporaneo

A questo punto, viene naturale chiedersi in che modo una delle più macabre leggende medievali giapponesi sia stata reinterpretata in tempi più recenti, come i suoi aspetti più truculenti rivivano nella fantasia degli autori contemporanei, e quale veste questi ultimi abbiano deciso di far indossare all’enigmatico demone beone.

Numerose sono le tracce di Shutendōji nel contemporaneo, tanto che sarebbe difficile compilarne un elenco esaustivo. Alcuni di questi lavori sono fortemente incentrati sull’alternanza tra testo ed elementi visivi, quasi continuando, in qualche modo, la tradizione degli emakimono: è il caso di Otogizōshi Shutendōji (1982), di Nosaka Akiyuki, intervallato da esclusive immagini tratte dallo Shutendōji emaki,

5 Irene H. Lin, “The Ideology of Imagination: The Tale of Shuten Dōji as a Kenmon Discourse”, Cahiers d’Extrême-Asie, XIII, 2002, pp. 379-410. 6 Si veda Amano Fumio, “Shutendōji: Nihon kānivarizumu no keifu no naka de”, Kokubungaku: kaishaku to kyōzai no kenkyū, XXII, 16, 1977, pp. 104-105.

un rotolo illustrato custodito presso il Manshuin di Kyōto e non più esposto al pubblico, ma soprattutto di Shutendōji (1999) di Funazaki Yoshihiko, edulcorata rilettura in toni da fiaba, pensata per un pubblico molto giovane e impreziosita dalle illustrazioni di Shimomura Ryōnosuke, la cui penna mitiga notevolmente l’aura austera e sinistra del demone medievale, in funzione di una resa rabbonita e, tutto sommato, quasi goffa.7

Anche il mondo dei manga ha attinto in vario modo alla leggenda, adoperandola spesso come punto di partenza per sviluppare delle storie che procedono in direzione totalmente diversa: ne è un esempio Shutendōji, la saga di Nagai Gō, serializzata inizialmente in nove episodi per la rivista Shūkan Shōnen Magajin tra il 1976 e il 1978, e attorno alla quale figurano almeno un prequel, un sequel, un romanzo e una serie animata in quattro episodi, realizzata nel 1989, a circa un decennio di distanza.8 Ambientata in epoca contemporanea, la storia, dal sapore fantascientifico, propone le avventure di Shutendō Jirō, un ragazzino portato nel mondo degli umani da un mastodontico oni, che lo affida a una giovane coppia con la promessa di tornare a riprenderselo una volta raggiunta la maggiore età. Quando all’improvviso nella sua vita iniziano a verificarsi strani avvenimenti, Jirō capisce da sé di non appartenere al genere umano, ma di essere in possesso di poteri paranormali che lo riallacciano al mondo degli oni, e di avere una missione che lo porterà in viaggio tra diverse dimensioni spaziali e temporali, consacrandolo come una sorta di messia di un nuovo mondo.

Anche la raffinatissima Kihara Toshie, autrice shōjo nota per i suoi riadattamenti di classici letterari e per i contributi nel genere BL (boys’ love), ha riformulato in maniera molto personale la leggenda del demone beone. In Ōeyama kaden, pubblicato per la prima volta nel 1978 sulle pagine di Shūkan shōjo komikku, lo stesso Shutendōji assume tuttavia un ruolo piuttosto marginale, diventando il padre di Ibarakidōji, braccio destro del demone già nell’otogizōshi, che invece diviene il vero protagonista della storia.9

In questo breve contributo, tuttavia, ci si soffermerà in particolare su due versioni che sembrano non essere state ancora prese in considerazione dagli studiosi in relazione al testo originale, e che invece rappresentano due tra le più originali e singolari riletture della leggenda: il film Ōeyama Shutendōji, diretto da Tanaka Tokuzō nel 1960, affascinante e inconsueto connubio tra jidaigeki e kaijū eiga, e un manga molto più recente, Ōeyama kitan, di Tagame Gengorō, del 2005.

7 Nosaka Akiyuki, Otogizōshi Shutendōji, Shūeisha, Tokyo 1982; Funazaki Yoshihiko, Shutendōji, “Kyō no ehon”, Kankō Iinkai, Kyoto 1994. 8 Successivamente ristampati in Nagai Gō, Shutendōji, voll. 1-6, Fusōsha, 1998. Del manga esiste anche una traduzione in italiano, a cura di Federico Colpi, Nagai Gō, Shutendōji, voll. 1-9, d/visual, Tokyo 2004-2005. 9 Riedita in Kihara Toshie, Ōeyama kaden, Shōgakukan, Tokyo 1997.

Ōeyama Shutendōji (1960)

Diciottesimo dei colossal sulla dinastia Heian della Daiei, il film di Tanaka Takuzō uscì nelle sale nella Golden Week del 1960, in contemporanea con Taiheiyō no arashi (Tempesta sul Pacifico, trad. it. L’ultimo volo delle aquile), di Matsubayashi Shūe, prodotto dalla Tōhō. Capitolo minore nella produzione del regista, ingiustamente trascurato dalla critica e quasi dimenticato dalle cronache del cinema, rappresenta, con molte probabilità, la più nota trasposizione sul grande schermo della leggenda. La pellicola apporta alla storia numerose modifiche, distaccandosi notevolmente dal plot originale. Del resto, l’opera su cui si basa non è il sopra discusso otogizōshi, bensì un suo meno noto riadattamento letterario: Ōeyama Shutendōji ki, 10 di Kawaguchi Matsutarō (1899-1985), scrittore e drammaturgo prolifico, sceneggiatore, nonché figura a lungo legata alla Daiei, presso cui ricoprì anche incarichi di dirigenza.

Come il testo, seppur con qualche differenza, il film introduce personaggi e dinamiche che non compaiono nel repertorio medievale sulla leggenda. 11 Già in apertura, si accenna ad essa con un tono quasi canzonatorio, riproponendone uno degli episodi più rappresentativi, quale il taglio della testa di Shutendōji, per poi introdurre quella che, a discapito di quanto tramandato dagli antichi testi, sarebbe la vera storia del demone beone.

La narrazione si apre, dunque, nella residenza del kanpaku Fujiwara no Michinaga, dove il dispotico statista riceve i rappresentanti delle varie province, che gli consegnano le esorbitanti imposte pagate dalla povera gente. Fin dalle prime scene, Fujiwara viene descritto come avido e prepotente, e in questo il film, seppur con qualche imprecisione, si mantiene fedele a quanto solitamente riportato dalle cronache storiche.12

Michinaga (Ozawa Eitarō), tuttavia, è afflitto da un grande tormento: che Nagisa (Yamamoto Fujiko), la sua amata consorte, possa essere rapita dai malvagi demoni che infestano la capitale. La sua apprensione, del resto, è motivata: durante una danza che la dama esegue per il coniuge e i suoi ospiti, dal cielo appare un mostro, dalle fattezze di un bufalo, che tenta di portarsela via. Il fulmineo intervento di Sakata no Kintoki (Hongō Kōjirō) sventa il rapimento. Nagisa viene dunque affidata alla custodia del più valoroso dei guerrieri, Raikō (Ichikawa Raizō VIII), che vive

10 Inizialmente apparso sulle pagine di Shōsetsu shinchō, fu ripubblicato nello stesso anno in Kawaguchi Matsutarō, Sarome no oshiroi, Kōdansha, Tokyo 1960. 11 Per un’analisi del film in relazione al testo di Kawaguchi si veda Daniele Resta, “Shutendōji no kurosumedia: Kawaguchi Matsutarō, Tanaka Tokuzō, Kihara Toshie no hyōgen o megutte”, in Teramura Masao (a cura di), Nihongo gakka nijū shūnen kinen ronbunshū, Daitō Bunka Daigaku Nihongo gakka, Tokyo 2013, pp. 54-63. 12 Fujiwara no Michinaga (966-1027) fu il più influente membro del clan dei Fujiwara e, grazie alla politica matrimoniale che gli permise di essere in stretta parentela con molti imperatori, tra le più potenti figure politiche dell’intero periodo Heian. Nonostante fosse noto con l’appellativo di Midō kanpaku, in realtà non ricoprì mai la carica di kanpaku (consigliere), bensì quella di sesshō (reggente), e solo per circa quattordici mesi, tra il 1016 e il 1017. Durante il regno di Ichijō (986-1011), e cioè nel periodo in cui è ambientata la leggenda di Shutendōji, arrivò a ricoprire la carica di sadaijin.

contornato dai fedeli shitennō, capitanati anche qui da Watanabe no Tsuna (Katsu Shintarō). I subbugli nella capitale, però, non hanno fine: approfittando degli impegni di Raikō, il brigante Hakamadare Yasusuke (Tazaki Jun) e i suoi assaltano la residenza del Secondo Consigliere Ikeda e ne rapiscono la figlia, la principessa Katsura.13 Tsuna, invece, viene aggredito da Ibarakidōji, ma riesce a tagliargli un braccio; tuttavia, l’astuto demone, che nel film assume connotati femminili (interpretato da Hidari Sachiko), riesce in seguito a riprenderselo. Michinaga ordina quindi a Raikō di procedere alla tanto temuta spedizione verso il monte Ōe, dal quale nessuno ha mai fatto ritorno. Per riparare alle mancanze del fratello Tsuna, la giovane Kotsuma (Nakamura Tamao) parte, in segreto, con Kintoki, alla volta della dimora del demone. I due verranno ben presto catturati, ma intanto Nagisa rivela a Raikō la vera identità di Shutendōji (Hasegawa Kazuo): non un efferato demone, ma Bizen no Suke Tachibana no Tomotada, un tempo nobile guerriero abile nel combattimento, ma soprattutto suo felice consorte, fino a quando la donna non le era stata sottratta dal prepotente Kanpaku, invaghitosi di lei. Da allora, rinominatosi Shutendōji, aveva deciso di unirsi a Ibarakidōji, l’allora capo dei demoni del monte Ōe, per assisterlo nel suo ambizioso progetto di combattere il clan dei Fujiwara ed eliminare il prepotente Michinaga, diventando la sovrana del paese.

In chiusura, la consueta spedizione dei guerrieri verso il monte Ōe: tuttavia, il tripudio gore che caratterizza la disfatta del demone nel repertorio medievale, lascia spazio a una più pacata resa volontaria di Shutendōji, amaramente colpito dalla notizia del suicidio della sua amata Nagisa.

Questa resa cinematografica di Shutendōji, dunque, lo spoglia delle mostruose vesti di spietato demone cannibale, proponendolo come un personaggio tutto sommato positivo, un guerriero leale e virtuoso in lotta contro l’arroganza dei Fujiwara. Questa rilettura avvalora l’ipotesi degli studiosi che sostengono che il tropo dell’oni veniva usato, storicamente, per indicare coloro soppressi o esclusi dal potente clan; non a caso il regno di Ichijō, che rappresenta il culmine della reggenza dei Fujiwara, viene riconosciuto come il periodo di massimo splendore dell’oni. 14

Uno sguardo al film nel contesto delle tante riletture sulla leggenda, inoltre, ci permette di comprendere l’essenza del processo di riscrittura e, soprattutto, in che misura questo sia stato contaminato dagli altri rifacimenti. Particolarmente significativa, in questo senso, si rivela la riproposta del combattimento tra Tsuna e Ibarakidōji, descritto nel film come segue.

Nel cuore della notte, Tsuna incontra una misteriosa dama che si aggira tutta sola nei pressi di un ponte; le si rivolge con fare protettivo, avvertendola dei pericoli a cui va incontro andando in giro da sola a tarda ora, ma scorgendo il suo riflesso nello stagno, capisce che si tratta di un demone. La dama prova a sedurlo, ma

13 Anche il bandito Hakamadare è un personaggio a metà tra finzione e realtà storica. Protagonista cattivo di opere letterarie, stampe, drammi teatrali e film, viene talvolta identificato con Fujiwara no Yasusuke (?-988). 14 Baba Akiko, Oni no kenkyū, San’ichi Shobō, Tokyo 1971, p. 150.

Tsuna le ordina di palesare la sua vera identità. La donna, dunque, che in realtà è il demone Ibarakidōji, si trasforma e lo assale, afferrandolo per il collo, con l’intento di portarselo in volo verso la propria dimora; ma il guerriero riesce a sferrare un colpo di spada alla malvagia creatura, mozzandole un braccio. A decidere sulla sorte dell’arto, viene convocato lo onmyōji Abe no Seimei, il quale sentenzia che se questo rimarrà custodito in una scatola per tre giorni di fila, perderà tutti i suoi poteri. E così, nella dimora di Tsuna, viene organizzata una serratissima veglia al braccio mozzato. Quasi allo scadere dei tre giorni, Tsuna riceve una visita da una anziana signora che dice di essere sua zia. Inizialmente, Tsuna si mostra inflessibile, per poi cedere pian piano ai ricatti della vecchia, che lo accusa di essere diventato inumano, nonostante il successo delle sue prodezze. A tale insinuazione, Tsuna non regge e lascia entrare la donna che dapprima riesce a farsi mostrare il braccio, e poi, assunte le sue vere sembianze demoniache, se lo riprende, volando via dal tetto.

L’episodio, spesso presente nelle più recenti rielaborazioni della leggenda di Shutendōji,15 in realtà fa riferimento a un’altra storia: quella della caccia al demone di Rashōmon, che risale a testi come il Konjaku monogatari, lo “Tsurugi no maki” (Capitolo delle spade) dello Heike monogatari e il Taiheiki. Alcuni dettagli della storia differiscono da un testo all’altro: il nome del demone, le modalità del suo palesamento, la durata della veglia al braccio mozzo, il rapporto di parentela tra il demone e il guerriero di turno, l’identità del guerriero stesso, ma soprattutto il luogo teatro del duello, che varia da Ichijō Modoribashi a Rashōmon.16 Nell’otogizōshi Shutendōji, l’episodio viene citato molto vagamente nella parte centrale, durante l’aberrante convito a base di sangue e carne umana che Shutendōji offre ai suoi commensali, e manca del particolare della veglia all’arto mozzato:

Solo una cosa mi preoccupa: un guerriero malvagio di nome Yorimitsu, conosciuto da tutti nella capitale, la cui forza in Giappone non teme rivali. Al suo seguito ci sono Sadamitsu, Suetake, Kintoki, Tsuna e Hōshō, e tutti quanti eccellono nelle due vie delle lettere e delle armi. Questi sei mi danno pensiero. La scorsa primavera, quando mandai un mio servo, il demone Ibaraki, alla capitale, questi si scontrò con Tsuna nel Settimo Viale, all’altezza di Horikawa. Ibaraki prese sembianze femminili, e avvicinatosi a Tsuna gli afferrò i capelli con l’intenzione di catturarlo, ma Tsuna in un lampo sfoderò la sua spada di tre shaku e cinque sun e senza sforzo alcuno gli tagliò un braccio. Con uno stratagemma Ibaraki si riprese il braccio e da allora non ci sono stati più incidenti, ma costoro sono veramente malvagi e io stesso cerco di non recarmi troppo spesso alla capitale.17

15 Il modo straordinariamente simile in cui viene riproposto in Ōeyama kaden, di Kihara Toshie, porta a pensare che il film abbia avuto un peso notevole nella riscrittura dell’autrice shōjo. Si veda Daniele Resta, “Shutendōji no kurosumedia…”, cit., pp. 54-63. 16 Per un excursus sull’evoluzione della storia fino al periodo Meiji si veda Sasaki Kiichi, “Rashōmon oni taiji setsuwa no keisei to Tsuna emaki”, Kokugo kokubun, LXXII, 4, 2004, pp. 17-34. Un po’ datato, ma sorprendentemente ricco di informazioni è Shimazu Hisamoto, Rashōmon no oni, Shinchōsha, Tokyo 1929 (riedito nel 1975 dalla Heibonsha). 17 Roberta Strippoli (a cura di), La monaca tuttofare…, cit., p. 103.

L’ispirazione maggiore nel caso del film, tuttavia, pare venire, più che dalle fonti letterarie classiche, dal repertorio kabuki. In particolare, due drammi hanno avuto una notevole influenza sulla messa in scena, riscontrabile in costumi, musiche, e nell’interpretazione degli attori: Ibaraki (1883) e Modoribashi (1890), entrambi di Kawatake Mokuami (1816-1893).18 Parte dello Shinko engeki jisshu (Dieci tipi di drammi vecchi e nuovi), raccolta di drammi tra i più rappresentativi dei periodi Bakumatsu e Meiji, vengono frequentemente messi in scena ancora oggi. Modoribashi, posteriore di qualche anno, segue gli avvenimenti iniziali della vicenda, ovvero l’incontro tra Tsuna e la donna demone e la lotta che ne consegue. Ibaraki, invece, concerne la veglia all’arto, e la susseguente visita del demone nelle vesti della vecchia zia. Entrambi sono dei matsubamemono, 19 un genere di kabuki che trae ispirazione diretta dai nō o dal kyōgen.20

L’impronta kabuki, tuttavia, non è limitata a questa scena, ma è tangibile in tutto il film, dal momento che parte del cast, Hasegawa e Raizō in primis, proveniva da quel mondo. Più avanti nella pellicola, inoltre, si accenna a un’altra leggenda legata alle prodezze di Raikō e degli shitennō: quella degli tsuchigumo, i mastodontici ragni di terra. Tra le tante versioni della storia, la prescelta è proprio quella dell’omonimo dramma kabuki di Mokuami: Raikō, in preda a un malanno, viene raggiunto da un misterioso monaco che si offre di praticargli un rito per guarirlo; quasi ipnotizzato, riesce a svegliarsi appena in tempo per evitare che il monaco, che in realtà è Tsuchigumo, lo annienti tra le trame di una ragnatela. Le tracce di sangue lasciate dalla creatura consentiranno ai guerrieri di raggiungere il suo rifugio, dove l’imponente ragno verrà sterminato, in una straordinaria scena dal sapore kaijū.

L’uso di mostri giganti in un jidaigeki è un’altra delle peculiarità della pellicola, e in questo senso, il film segna una sfida della Daiei alla roccaforte del genere tokusatsu, la Tōhō. Di notevole impatto risulta l’operato di Ōhashi Fuminori, a capo degli studi Ōhashi Kōgeisha di Kyōto e pioniere degli effetti speciali in Giappone. In un affascinante contributo contenuto nell’edizione LD del film,21 Murata Hideki sve-

18 I testi di entrambi i drammi sono contenuti in Toita Yasuji et al. (a cura di), Ie no gei shū, in Meisaku kabuki zenshū, XVIII, Tōkyō Sōgensha, Tokyo 1969. 19 Matsubame indica il fondale fisso del teatro nō su cui è dipinto un pino. Il palcoscenico è decorato dal pino dipinto sul fondo e dai bambù dipinti sui lati, mentre sul lato sinistro del palcoscenico (rispetto alla platea) scende una tenda a cinque colori, simile all’agemaku del nō, da cui entrano gli attori. I costumi e i soggetti stessi delle danze sono ricavati direttamente da nō e kyōgen. Molti matsubamemono oggi rappresentati sono opere che risalgono al periodo Meiji (1868-1912), quando si è cercato di conferire al kabuki dignità d’arte imitando i modi “colti” ed elevati del nō. Si veda Bonaventura Ruperti, “L’estetica del mutamento continuo e della decadenza: il kabuki”, Sipario, 501, 1990, pp. 16-20. 20 Il dramma nō a cui si rifà Modoribashi è, appunto, il sopraccitato Rashōmon. Nel caso di Ibaraki, invece, sebbene non esistesse un dramma nō a cui ispirarsi, l’accoppiata Onoe Kikugorō V e Mokuami riuscì ugualmente ad ottenere un matsubamemono traendo spunto dal nagauta Tsuna yakata. Si veda James R. Brandon, Samuel L. Leiter (a cura di), Kabuki Plays On Stage: Restoration and Reform, 18721905, University of Hawai’i Press, Honolulu 2003. 21 Murata Hideki, “Ōeyama Shutendōji tokushu satsuei yomoyamabanashi”, Daiei tokusatsu supekutakuru Box, Jeneon Entateinmento, 1999. Nel 2006, il film è stato ripubblicato in versione dvd dalla

la i retroscena della fabbricazione di queste monumentali creature: il sopraccitato Tsuchigumo, alto due metri e lungo dieci in totale, ottantaquattro chili di peso, fu ricavato da un’armatura di ferro, ricoperta da un rivestimento in lattice cosparso di finissima polvere di madreperla, che risplendeva di uno sfavillio sinistro sotto le luci di scena. Le sue zampe si estendevano per circa cinque metri ciascuna, e tutte e otto venivano manovrate tramite corde di piano fatte pendere dal soffitto. Per realizzare le ragnatele, invece, vennero utilizzate delle corde di plastica incollate con gomma arabica, che ne migliorava l’adesione. Il congegno veniva manovrato da una persona all’interno, e lo sportello per entrarci è, in effetti, visibile anche nel film. Inoltre, tra gli altri artifici di scena, vi era l’uso sul set di paraffina liquida, riscaldata e fatta passare allo stato gassoso per ottenere un effetto miasma più realistico del semplice fumo. Una testimonianza che sorprende e affascina, e che riporta tutto il gusto dell’artigianalità degli effetti speciali prima dell’avvento della computer graphics.

Ōeyama kitan (2005)

Il secondo lavoro qui discusso, Ōeyama kitan, si contraddistingue, invece, non solo per essere uno dei più recenti riadattamenti della leggenda ma, con molte probabilità, il più eclettico e controverso. Il suo autore è Tagame Gengorō (1964-), esponente di spicco della subcultura gay giapponese. La sua opera si colloca principalmente nel genere del manga gay, storie sostanzialmente concepite, realizzate e “consumate” all’interno della comunità GLBT, e in particolare, nella sottocategoria ero SM. 22 Dal debutto nel 1986, le sue storie sono apparse in diverse riviste queer, come Sabu, Badi e G-Men, per poi essere in seguito ristampate in volumi singoli. Negli ultimi anni, Tagame si è fatto notare anche all’estero, come testimoniano le numerose traduzioni e le mostre dedicategli, in particolare in Francia. In patria, il suo talento non è sfuggito all’occhio attento di Tsutsui Yasutaka, che lo ha voluto nel suo Tsutsui manga tokuhon futatabi (2010), secondo capitolo di un progetto che raccoglie manga realizzati da diversi autori, ispirati a opere dello scrittore.

Tuttavia, il suo nome è ancora sconosciuto a molti: non sorprende che non figuri nei più noti dizionari biografici sui mangaka, 23 e che il numero di studi accademici dedicatigli sia, ad oggi, estremamente esiguo. I suoi lavori vengono spesso fin troppo facilmente etichettati come mera pornografia, nella variante più cruda e violenta. Nelle sue pagine, d’altronde, che pullulano di abusi di ogni tipo, trovano espressione le più recondite parafilie sessuali, dallo stomping all’urofilia, passando persino per la coprofagia, ma soprattutto gli scenari misteriosi e suadenti degli am-

Kadokawa eiga. 22 Si veda William S. Armour, “Representations of the Masculine in Tagame Gengoroh’s Ero SM Manga”, Asian Studies Review, XXXIV, 4, 2010, pp. 443-465. 23 Nagatani Kunio, Nippon mangaka meikan, Dētahausu, Tokyo 1994; Manga seek e Nichigai Asoshiētsu Henshūbu (a cura di), Mangaka jinmei jiten, Nichigai Asoshiētsu, Tokyo 2003.

bienti sadomasochistici, di cui l’autore stesso dichiara di essere un cultore.24 I suoi personaggi sono estremamente virili: muscolosi e irsuti, non sono dissimili da quelli del collega europeo Tom of Finland, con l’eccezione che nel caso di Tagame si tratta quasi sempre di uomini giapponesi.

Apparso per la prima volta nell’edizione del gennaio 2005 di Kinniku otoko, rivista indirizzata, come il titolo eloquentemente suggerisce, agli amanti del genere muscle, 25 Ōeyama kitan riflette palesemente le caratteristiche del genere a cui appartiene, nonché le aspettative della readership della rivista.26

Nella sua rilettura, Tagame sceglie di confinare la storia geograficamente e dal punto di vista temporale nella residenza di Shutendōji, conferendogli, tuttavia, nuovi connotati: lo sfavillante Castello di Lapislazzuli lascia infatti posto a una modesta caverna, che ben si sposa con l’insolita veste data al demone stesso: un possente cavernicolo caucasico, barba e capelli rossastri, il corpo statuario avvolto in una pelle d’animale legata ai fianchi, e una grossa clava in mano, come nelle più tradizionali rappresentazioni dell’uomo delle caverne. Anche se visibilmente accigliato, il suo è un volto umano, non demoniaco come quello della sinistra creatura degli emaki.

L’intento ironico e sovversivo dell’opera appare evidente fin dalle prime battute, dove si vede lo hoshikabuto, l’elmetto magico tanto celebrato nel repertorio medievale, cadere bruscamente da una scatola insieme ad altre cianfrusaglie. “È così che pensavate di annientare il demone, travestendovi da yamabushi?”,27 dice un’irriverente voce fuoricampo a tre uomini feriti, visibilmente affaticati, il cui volto tradisce una certa espressione di disfatta. Pur accennando in modo esplicito ad aspetti peculiari della leggenda, Tagame sceglie deliberatamente di privilegiare la libertà espressiva del manga alla rigorosa osservazione della verità storica: è così che, ad esempio, il numero degli shitennō di Raikō viene dimezzato, e che le acconciature dei guerrieri risultano ben diverse da quelle in voga nel periodo Heian.28

Poco dopo, ritroviamo Raikō e i suoi due attendenti seminudi, resi nel perfetto stile grafico dell’autore: corpi dai muscoli guizzanti, possenti, le caviglie e il torace cinti da solide corde che li tengono appesi a un palo; una scena che richiama la più classica delle sessioni di bondage. Nella stessa pagina compaiono anche i primi riferimenti al cannibalismo e al vampirismo di Shutendōji: la “disgustosa carne

24 Wim Lunsing, “Yaoi Ronsō: Discussing Depictions of Male Homosexuality in Japanese Girls’ Comics, Gay Comics and Gay Pornography”, Intersections: Gender and Sexuality in Asia and the Pacific, XII, 2006, p. 22, http://intersections.anu.edu.au/issue12/lunsing.html (30/01/2011). 25 Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan”, Kinniku otoko, XI, Kōsai shobō, Tokyo 2005; poi riedito in Tagame Gengorō, Tenshu ni sumu oni/Gunji, Furukawa shobō, Tokyo 2005, pp. 51-82. 26 Sulla rigorosa categorizzazione del mondo gay giapponese secondo tipologie specifiche di immaginario erotico, riscontrabile anche nelle riviste di settore, si vedano Mark McLelland, Male Homosexuality in Modern Japan, Curzon, Richmond 2000, pp. 113-129; Erick Laurent, “Homosexualités masculines dans le Japon contemporain”, in Nadine Lucas e Cécile Sakai (a cura di), Japon Pluriel 4, Picquier, Arles 2001, pp. 299-310. 27 Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan”, Tenshu ni sumu oni/Gunji, cit., p. 51. 28 Ivi, p. 83

animale” (ozomashii jūniku) che mangia, e il “nauseante colore rosso” della bevanda nel suo calice (ano magamagashii akai iro).29

In risposta alle accuse di Raikō, Sven, così si chiama il cavernicolo, sferra un colpo di spada alle funi che legano il generale, facendolo cadere al suolo. Poi, strattonandolo per i capelli, lo porta in disparte e gli si mostra completamente al nudo: “Guardami, non siamo forse uguali?”, gli dice. E in effetti, la descrizione grafica non lascia dubbi: Sven si distingue dai suoi “ospiti” solo per il colore della pelle e dei capelli, per la forma degli occhi e per la maggiore prestanza fisica. Ma la riluttanza di Raikō è forte, e così il cavernicolo ricorre, ancora una volta, alla violenza: al di là di ogni previsione, stupra il guerriero, umiliandolo davanti ai suoi compagni che basiti assistono alla scena. Il suo modo di fare, tuttavia, è ben diverso da quello degli stupratori sadici e autoritari che spesso compaiono nei manga di Tagame. L’amplesso, infatti, sembra fornire a Sven l’occasione per diventare più intimo con Raikō, aprendogli il proprio cuore. Così come Shutendōji nell’otogizōshi, in preda all’effetto euforico e disinibitorio del sake magico, raccontava della propria infanzia e dei propri punti deboli, Sven narra del suo passato, delle sue origini da vichingo nella terra di Birka, e di come aveva scelto di dare una svolta alla propria esistenza da navigatore sempre in cerca di nuovi posti da conquistare, stanco delle violenze che una simile vita comportava. È così che aveva optato per diventare un mercante, sempre in rotta per nuove mete da esplorare, da Occidente a Oriente. Un giorno, nel tragitto dalla Korea al Vietnam, la sua imbarcazione era accidentalmente naufragata al largo del monte Ōe. Per la realizzazione del monologo, Tagame ha dichiarato di essersi ispirato a una delle più celebri sequenze della storia del cinema: il soliloquio del replicante Roy Batty, interpretato da Rutger Hauer, nel film Blade Runner, di Ridley Scott (1982), che si apre con la celeberrima battuta: “Ho visto cose che voi umani non potete immaginare…”.30

Il coito continua, ma dopo un primo orgasmo, Raikō persiste a mostrarsi restio, a tal punto da insinuare che il calice di vino che Sven gentilmente gli offre contiene del sangue umano. A quelle parole, Sven ironizza sull’atteggiamento provinciale della sua vittima, frutto dell’ignoranza di una persona che ha sempre vissuto relegata sull’isola in cui è nata, rifiutando il confronto con il diverso e ignorando la sua stessa sessualità. La sua provincialità, infatti, è enfatizzata dalla sua inesperienza sessuale, e dal fatto che Raikō non ha neppure imparato a trarre piacere dal proprio corpo. I due riprendono a copulare, ma questa volta Raikō si abbandona totalmente al piacere della penetrazione, fino a mutare in modo radicale l’atteggiamento nei confronti del suo carnefice. L’aria di disgusto e il timore iniziali, infatti, lasciano gradualmente spazio a un’attrazione che si tramuterà presto in innamoramento devoto.

A questo punto, i toni della narrazione passano dal pornografico al romantico. Ritroviamo i due cullarsi nella tenera e intima atmosfera di una grotta, a scambiarsi promesse d’amore, in uno scenario idilliaco destinato, purtroppo, a infrangersi di lì a

29 Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan”, cit., p. 53. 30 Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan ni tsuite”, cit., p. 83.

poco: gli shitennō, infatti, riescono a liberarsi e irrompono sulla scena, e proprio Tsuna, il più fedele di essi, scaglia una freccia contro il povero Sven, colpendolo a morte. La storia si conclude con un breve accenno all’ultima unità narrativa dell’otogizōshi, ovvero il viaggio di ritorno nella capitale. In questo caso, tuttavia, non ci sono carri festosi e strade colme di gente pronta ad accogliere calorosamente i guerrieri trionfanti; l’atmosfera è quella lugubre e struggente di un funerale, con Raikō, silente e distaccato dai suoi uomini, chiuso nel dolore della perdita. Nel finale, poi, un breve flashback riporta agli ultimi istanti di vita di Sven, quando, prima di spirare, svela il suo vero nome a Raikō, pregandolo di non dimenticarlo mai, allorché solo così tutti avrebbero capito la sua vera natura di essere umano, e non di oni.

Appare chiaro, dunque, che l’opera di Tagame è una riflessione sul confronto con il diverso, incentrata sulla fortunata idea di rendere Shutendōji come un forestiero ai margini della società. Una scelta, questa, ispirata da un precedente rifacimento manga della leggenda, Onimaru taishō (1969), di Tezuka Osamu,31 ma che in realtà coincide con una teoria ancora in voga nei circoli accademici giapponesi all’inizio del ventesimo secolo, secondo cui Shutendōji sarebbe potuto davvero essere un occidentale, probabilmente tedesco o russo, naufragato sulla costa nei pressi del monte Ōe.32

La personalissima riscrittura di Tagame è fortemente mitigata da elementi tipici del suo stile e delle convenzioni che contraddistinguono il genere narrativo in cui opera. È in questa chiave che vanno lette l’introduzione di abbondanti pagine di sesso, infarcito quasi sempre di elementi sadomasochistici, la trascurata attenzione ai dettagli storici, e la totale eliminazione della presenza femminile, che già nella versione originale della leggenda trovava ben poco spazio, figurando in un ruolo passivo e marginale come quello della damigella in pericolo: rapita, mutilata, talvolta cannibalizzata, e nel migliore dei casi, passivamente salvata e riportata alla propria famiglia dagli eroici guerrieri uomini. La natura sovversiva del manga viene infine ribadita dal processo di ridimensionamento di Minamoto no Raikō (948-1021), figura storica i cui trattamenti letterari e folcloristici precedenti hanno sempre decantato valore, coraggio e abilità nel combattere. Il Raikō di Tagame, invece, è un uomo fragile, doppiamente umiliato, incapace di dialogare con l’altro, ma facilmente sedotto da esso, al punto da rinunciare a potere, onore e posizione sociale, nell’illusione di un amore effimero che svanisce con la stessa rapidità con cui è nato.

In conclusione, che sia un distinto guerriero che ha subito un grave torto, o uno straniero erroneamente naufragato in Giappone, lo Shutendōji contemporaneo è spesso un essere incompreso ed emarginato, posto in una situazione di liminalità da severe convenzioni sociali o logiche politiche. Nel dare un nuovo volto al demone beone, gli autori contemporanei sembrano preferire la via del riscatto, liberando il demone medievale dall’aura di inquietante mostro antropofago, e ponendo maggiore enfasi sulla sua natura di reietto ai margini di una struttura sociale e politica conformista e spesso troppo omologante.

31 Ivi, p. 83. 32 Takahashi Masaaki, Shutendōji no tanjō…, cit., pp. 3-5.

Metamorphosis of the Grotesque: Contemporary Retellings of the Shuten Dōji Legend

The demon Shuten Dōji is the subject of one of the best known Japanese oni legends. Set in the Heian period (794-1185), the story seems to have found written form only in medieval times, and has since then inspired, with its horde of macabre imagery, a number of works of art and literature. This paper will focus on contemporary renderings of the legend, analysing in particular two of them: Tanaka Tokuzō’s film Ōeyama Shuten Dōji (1960), an unusual and fascinating combination between jidaigeki and kaijū eiga, and the short story Ōeyama kitan (2005), by SM homoerotic manga cult-author Tagame Gengorō. Particular attention will be devoted to the process of rewriting that, I argue, is rarely neutral and often influenced by factors as diverse as the authors’ ideology, the conventions of the medium and the genre they choose to work in, and the expectations of the specific audience to which the works are addressed.

グロテスクの変身-酒呑童子説話の現代改作

ダニエーレ・レスタ

酒呑童子説話は、平安末期を舞台とした源頼光による鬼退治伝説であ り、日本における有名な説話の一つに数えられる。現存する最古の酒 呑童子絵巻である逸翁美術館所蔵・重要文化財『大江山絵詞』に続い て、江戸期の版本、明治期以降の絵本、能、歌舞伎の演劇などの主題 となり、さまざまな展開の様相をみせる。更に現代においては、小 説、マンガ、アニメ、映画、ビデオゲームに再生産されていることが 確認できる。 本論文は現代の「酒呑童子」像をたどり、その変遷の様相を整理す る。主に、時代劇と怪獣映画の珍しい組合せである田中徳三監督『大 江山酒天童子』(1960)、田亀源五郎『大江山綺譚』(2005)を考察 の対象とした。さらに、変遷の所以についてあきらかにする。