GIAPPONE STORIE PLURALI

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ASSOCIAZIONE ITALIANA PER GLI STUDI GIAPPONESI AISTUGIA

Giappone, storie plurali a cura di

Matteo Casari e Paola Scrolavezza

i libri di

EMIL


La pubblicazione di questo volume è stata possibile grazie al contributo di The Japan Foundation e di AISTUGIA Copertina L’enigma del coniglio © Andreina Parpajola I versi riportati sul piedistallo che sorregge la statua sono di Minamoto no Toshiyori (1055-1129). Di seguito se ne riporta la traduzione di Andrea Maurizi: Non avevo certo pregato perché la persona che non ricambia il mio amore fosse con me violenta come le raffiche di vento del monte Hatsuse (Senzaiwakashū, XII: 707) Scritta giapponese del maestro calligrafo e professore dell’Università di Kanazawa: Miyashita Takaharu Sito web dell’Associazione: http://www.aistugia.it

© 2013 Casa editrice Emil di Odoya srl isbn: 978-88-6680-067-5 I libri di Emil Via Benedetto Marcello 7 - 40141 Bologna www.ilibridiemil.it


Indice

Premessa Ringraziamenti

9 10

Cronache, storie, civiltà GIORGIO FABIO COLOMBO

Il danno da karōshi: nuove frontiere della responsabilità civile in Giappone

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MARCO DE BAGGIS

L'introduzione del cristianesimo ortodosso in Giappone e la figura di San Nikolaij

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RONALD P. DORE

Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?

37

SONIA FAVI

Opere relative al Giappone nel Fondo a stampa antico della Biblioteca Nazionale Marciana

49

YACINE MANCASTROPPA

Militari statunitensi e violenze sessuali: il caso di Okinawa (1945-2010)

63

FABIANA MARINARO

Recenti sviluppi del diritto del lavoro giapponese nell'era della flessibilità: la ‘zona grigia’ dei lavoratori ‘atipici’

75

SATŌ DŌSHIN

L'isolamento della società giapponese: l'assimilazione delle culture straniere attraverso gli oggetti, non attraverso le persone

89

MARCO TINELLO

Sul rinvio della missione ryukyuana a Edo del 1858

103


Immaginari narrativi: il periodo classico EDOARDO GERLINI

“Come schiuma d'acqua”. Il concetto di mujō nella poesia Heian tra kanshi e waka

119

GIUSEPPE GIORDANO

Il ruolo di alcune figure retoriche nei principi di associazione e progressione dello Shinkokinwakashū

133

CLAUDIA IAZZETTA

Separazione e ricongiungimento. Storie di genitori e figli negli oyako monogurui

149

MARIO TALAMO

Sull'evoluzione dell'elemento pubblicitario nella narrativa di Jippensha Ikku

161

Immaginari narrativi: il periodo moderno e contemporaneo HAYASHI NAOMI

Il giovane Kobayashi Hideo: l'influenza francese e l'ambiente letterario

179

CATERINA MAZZA

Inoue Hisashi e il parodi būmu

193

ROSSELLA MENEGAZZO

Fotografie e immaginario fotografico nelle silografie dell'ukiyoe Bakumatsu e Meiji

207

TOSHIO MIYAKE

Nazionalismi pop nel Giappone contemporaneo: dal revisionismo storico all'antropomorfismo moe delle nazioni

219

DANIELA MORO

Narrare il “mondo delle maschere”. Kamen sekai di Enchi Fumiko

239

DANIELE RESTA

Metamorfosi del grottesco: riletture contemporanee della leggenda di Shutendōji

253

STEFANO ROMAGNOLI

Identità nazionali e logiche di potere nella narrativa di Kuroshima Denji

267

MARCO SIMEONE

Il jidai shōsetsu fra tradizione e innovazione: kennan jonan e naruto hichō

283


Giapponese e italiano lingue a confronto FABIANA ANDREANI

Verbi deittici di moto in italiano e giapponese: due diverse rappresentazioni del movimento e della soggettività a confronto 299 PAOLO CALVETTI

L'uso dei corpora bilanciati nella compilazione di dizionari bilingui

319

GIUSEPPE PAPPALARDO

Analisi contrastiva dell'inventario fonetico giapponese/italiano. Per una trascrizione fonetica del giapponese standard

335

PATRIZIA ZOTTI

Costruire un corpus parallelo giapponese-italiano. Metodologie di compilazione e applicazioni

351

Profilo autori

365



Premessa

Dal 15 al 17 settembre 2011 si è tenuto a Bologna il XXXV Convegno di Studi sul Giappone organizzato dall’Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi (AISTUGIA) e ospitato dall’Ateneo e dal Comune felsinei. I venticinque relatori del convegno sono stati selezionati da un Comitato Scientifico costituito dai membri del Consiglio direttivo dell’Associazione. Il volume che qui presentiamo prende le mosse da questo primo momento di riflessione e raccoglie i contributi di quanti hanno colto l’invito dei curatori a sviluppare, approfondire e aggiornare le proprie ricerche. Gli esiti di questa ulteriore elaborazione ci hanno permesso di costruire un percorso articolato in cui riteniamo trovi spazio la necessaria pluralità degli sguardi per comprendere il Giappone e la ricchezza della sua cultura declinata attraverso la storia, la letteratura, la lingua, l’arte. Nota dei curatori Nel testo i nomi propri sono riportati secondo l’uso giapponese (cognome-nome). Gli accenti diacritici non sono indicati nei toponimi più comuni (Tokyo, Kyoto e Osaka) a meno che essi non facciano parte di titoli di libri o di nomi di giornali in lingua giapponese oppure di nomi di case editrici. I termini giapponesi ormai in uso in italiano (manga, kanji, kabuki, ecc.) sono in tondo e non più in corsivo. Gli scritti impegnano solo la responsabilità degli autori. Matteo Casari Paola Scrolavezza


Ringraziamenti Cogliamo l’occasione di questa pubblicazione per ringraziare The Japan Foundation, l’Istituto Giapponese di Cultura in Roma, la Scuola di Lingue e Letterature, Traduzione e Interpretazione (già Facoltà di Lingue e Letterature Straniere) dell’Università di Bologna, il Dipartimento delle Arti (già Dipartimento di Musica e Spettacolo) dell’Università di Bologna e il Comune di Bologna che hanno dato il loro contributo al Convegno Aistugia dove sono stati inizialmente discussi i temi oggetto del presente volume. Estendiamo con piacere e riconoscenza i ringraziamenti al personale delle Istituzioni sopra citate e a tutte le altre persone, in particolare agli studenti dell’Università di Bologna, che a vario titolo ci hanno fornito utili consigli e preziosa assistenza tanto nelle fasi organizzative del convegno, quanto nel delicato e complesso lavoro di editing di questo volume. M.C. e P.S.


Cronache, storie, civiltà



Giorgio Fabio Colombo

Il danno da karōshi: nuove frontiere della responsabilità civile in Giappone

Le tematiche del karōshi (morte per troppo lavoro)1 e del karōjisatsu (suicido causato dall’eccesso di lavoro)2 sono ben note ai sociologi e agli studiosi di medicina del lavoro. Da qualche anno, tuttavia, la tematica è divenuta di estremo interesse anche per il giurista. Di conseguenza, se i fenomeni vengono osservati attraverso la lente (deformante?) dello studioso di diritto, vi è spazio per alcune nuove riflessioni critiche. Il presente saggio muove principalmente da una famosa decisione della Corte Suprema del 20003 in tema di karōjisatsu, e dall’analisi del dibattitto dottrinale e giurisprudenziale che tale decisione ha generato. Si è cercato inoltre di estendere la visione alla reazione della stampa e dell'opinione pubblica. Occorre tuttavia premettere che, lungi dal voler essere un'analisi omnicomprensiva del fenomeno, Il presente scritto è elaborato anche nell’ambito della ricerca “Alternative Dispute Resolution and Arbitration in Contemporary Japan: New Wine into Old Wineskins” finanziata dalla Japan Society for the Promotion of Science (JSPS).

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1 Il termine karōshi è stato probabilmente utilizzato per la prima volta da Uehata Tetsunojō durante il LI Congresso per la Salute nell’industria, tenutosi a Matsumoto nel 1978. Il prof. Uehata presentò una relazione dal titolo Karōshi ni kansuru kenkyū – dai ippō – shokushu no kotunaro jūnana kēsu de no kentō (“Ricerca sul karōshi. Primo report. Studio su diciassette casi in differenti mansioni lavorative). Il prof. Uehata è ora il direttore del Centro di consulenza su karōshi e karōjisatsu ed è autore di contributi fondamentali sull’argomento, come “Karoshi due to occupational stress-related cardiovascular injuries among middle-aged workers in Japan”, Japanese Journal of Industrial Health, 35 (4), 1993, pp. 269–297 e Karōshi sabaibaru (Sopravvivenza al karōshi), Chūōhōki, Tokyo 2007. 2 Si ritiene che la teorizzazione formale del karōjisatsu sia stata elaborata dall’avvocato Kawahito Hiroshi nel suo saggio intitolato appunto Karōjisatsu (Suicidio per il troppo lavoro), Iwanami Shoten, Tokyo 1998. Tale testo è stato poi riveduto e ampliato nel 2006, con il titolo Karōjisatsu to kigyō no sekinin (Suicidio per il troppo lavoro e responsabilità della aziende), Junposha, Tokyo 2006. 3 La decisione del 24 marzo 2000 sul caso 1998 (o), nn. 217, 218, Minshū, Vol. 54, No. 3, at 1155, conosciuta agli studiosi di lingua inglese come Dentsū Karoshi Case, reperibile sul sito Internet della Corte Suprema del Giappone http://www.courts.go.jp/english/judgments/index.html (13/01/2012) e per estratto in Curtis J. Milhaupt, J. Mark Ramseyer, Mark D. West, The Japanese Legal System. Cases, Codes and Commentaries, Foundation Press, New York 2006, p. 567. La traduzione in lingua inglese sul sito della Corte Suprema è particolarmente ben fatta, dal momento che è opera di Oda Hiroshi, Sir Ernest Satow Professor of Japanese Law dell’University College, Londra.


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Il danno da karōshi

questo scritto intende attenersi a una disamina dal punto di vista della responsabilità civile, con qualche conseguente riflessione di sociologia del diritto: resteranno pertanto esclusi riferimenti ad aspetti di diritto penale,4 e ve ne saranno di limitati al diritto del lavoro e alla procedura civile. Il caso del 2000 è particolarmente interessante poiché in tale occasione la Corte Suprema non solo ha preso posizione con insolita chiarezza su una serie di questioni problematiche legate allo stress lavorativo e alle sue conseguenze sulla salute, ma anche perché è da molti studiosi considerato il leading case sull’argomento, con cui le decisioni successive si confrontano.5 Nonostante sia una sentenza su un’ipotesi di karōjisatsu, i principi in essa espressi sono la base anche per tutte le successive decisioni in materia di karōshi. I fatti della causa sono i seguenti. Nel marzo del 1990, il sig. K., definito nella sentenza “in salute e vivace”, con “una tendenza al perfezionismo” si laureò in una delle migliori università del Giappone e il 1 aprile dello stesso anno cominciò a lavorare presso una prestigiosa agenzia pubblicitaria. Durante il periodo lavorativo, K. risiedeva nella stessa abitazione dei genitori (i quali agiranno poi giudizialmente a seguito del suicidio del figlio). In base ai regolamenti interni dell'agenzia, elaborati in confrormità con la disciplina giuslavoristica nazionale, erano previsti due giorni di riposo settimanale e un orario lavorativo dalle 9,30 alle 12,00 e dalle 13 alle 17,30, con un limite massimo allo straordinario giornaliero fissato a 6,5 ore, per un totale massimo mensile comunque non superiore alle 60 ore (derogabile sino ad 80 in alcuni mesi). Nella prassi, tuttavia, K. arrivava in ufficio verso le 9,00, riusciva a consumare un rapido pasto alle 19,00 circa e continuava a lavorare, spesso sino alle 2 del mattino. A fronte di questo soffocante ritmo lavorativo, lo straordinario riportato da K. (nella realtà in media di circa 147 ore mensili), pur consistente, veniva dallo stesso ampiamente ridimensionato per conformarsi agli standard aziendali e normativi. Nell'agosto del 1990, in occasione di uno dei periodici resoconti ai propri superiori, K. espresse soddisfazione per la tipologia e il contenuto dei compiti affidatigli, ma lamentò un sovraccarico nella mole di lavoro, segnalando che doveva regolarmente trattenersi in ufficio sino alle 24,00. Nel novembre, i genitori di K., preoccupati per l'eccessivo lavoro del figlio e per il deteriorarsi del suo stato di salute, gli suggerirono di prendere qualche giorno di ferie, ma K. declinò il suggerimento, affermando che in ufficio non c'era nessuno idoneo a sostituirlo e che comunque i suoi diretti superiori non sarebbero stati d'accordo con una richiesta di un periodo, seppur breve, di riposo. Continuò quindi a lavorare con il solito ritmo. 4

Come avviene in molti ordinamenti, il diritto penale giapponese prende in considerazione l’ipotesi del suicidio, in particolare nell’art. 202, ove è previsto che chi induca o assista altri a commettere suicidio sia punito con la reclusione da 6 mesi a 7 anni. 5 Nonostante il Giappone sia un ordinamento di civil law, dove il precedente giudiziale non è formalmente fonte di diritto, per vari motivi (vedi infra) le sentenze della Corte Suprema hanno grande importanza.


Giorgio Fabio Colombo

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Nel febbraio del 1991, nuovamente K. espresse ai propri superiori la sua difficoltà nel gestire l'eccesso di lavoro. Non si ha notizia di una reazione da parte dei diretti interessati. Durante il mese di marzo del 1991, durante una consultazione interna, uno dei referenti di K. fece notare al dirigente della sezione che K. aveva preso l'abitudine di dormire in ufficio, allo scopo di ottimizzare il tempo eliminando le circa due ore di trasporto tra abitazione e luogo di lavoro. Dal momento che questo comportamento non era in linea con le politiche aziendali, il dirigente consigliò a K. di andare a casa tutte le sere ed eventualmente “arrivare in ufficio prima la mattina”. Sempre nel marzo 1991, in sede di consuntivo sull'attività dell'anno precedente, la prestazione lavorativa di K. venne valutata in maniera molto positiva, e venne anche rilevato che, pur avendo diritto a dieci giorni di ferie pagate, K. aveva usufruito solo di mezza giornata. A partire dal luglio 1991, le mansioni affidate a K. vennero incrementate, ed egli venne distaccato dal resto del gruppo di lavoro in modo da poter essere impiegato da più divisioni interne dell'agenzia. Di conseguenza, il numero di giorni in cui K. non faceva ritorno a casa aumentò drasticamente. In quel periodo K. cominciò ad accusare in modo evidente sintomi di malessere psicofisico: insonnia, difficoltà di concentrazione, spossatezza cronica. Aveva ormai perso ogni forma di entusiasmo che aveva caratterizzato i pur faticosissimi primi mesi di attività lavorativa. Tale stato di profondo disagio era evidente a tutti i suoi colleghi e superiori. Il 3-5 agosto del 1991, K. prese un giorno e mezzo di ferie pagate (il primo periodo in assoluto nel 1991, per un totale di due giorni complessivi nella sua intera vita lavorativa). Al ritorno dalla “vacanza”, la sua condizione però, non sorprendentemente, non era affatto migliorata: infatti confidò al dirigente della sua divisione di non avere più fiducia in se stesso, di non avere consapevolezza del suo stesso operato e di non riuscire da tempo a dormire. Il 24-26 agosto K. si recò a Nagano per organizzare un evento: i suoi superiori, in quella circostanza, notarono un comportamento “anormale”. K. lasciò il luogo dell'evento con la propria autovettura alle 17,00 del 26 agosto. Alle 6,00 del 27 agosto, K. arrivò a casa e annunciò al fratello che aveva intenzione di recarsi in ospedale. Alle 9,00 telefonò in ufficio per comunicare che non si sarebbe recato al lavoro causa malattia; alle 10,00 venne trovato morto nel bagno della propria abitazione, dove si era impiccato. I genitori di K. decisero quindi di agire in giudizio contro l'agenzia di pubblicità per ottenere il risarcimento del danno. Per comprendere la decisione della Corte Suprema, è bene avere chiare alcune basilari disposizioni del Codice civile giapponese in tema di responsabilità civile: in particolare, gli articoli 709, 715 e 722 comma II. L'articolo 709 è la previsione basilare in tema di responsabilità extracontrattuale (o, per usare un termine caro ai giuristi italiani, “aquiliana”): chiunque dolosamente


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Il danno da karōshi

o colposamente violi diritti o interessi tutelati altrui sarà responsabile di risarcire ogni danno che possa derivare dalla violazione. Tale disposizione, che trova omologhi nella maggior parte degli ordinamenti, è una clausola molto generale, che la giurisprudenza deve riempire di significato concreto, rilevando, in particolare, il nesso eziologico fra il comportamento e l'evento dannoso e la illiceità della condotta. L'art. 715 sancisce la responsabilità del datore di lavoro per i danni che i suoi dipendenti possano commettere nell'esercizio delle loro mansioni; infine, l'art. 722, comma II, prevede che il giudice abbia il potere di ridurre il risarcimento tenuto conto delle circostanze. In tal senso, una delle ipotesi più frequenti riguarda il caso in cui il danneggiato abbia concorso nel causare o aggravare il danno. La Corte d'Appello (o Alta Corte) di Tokyo, proprio sulla base dell'applicazione congiunta di queste disposizioni era pervenuta a una decisione che aveva accertato il nesso causale diretto e immediato fra l'attività lavorativa di K. e il suo suicidio e anche la colposa omissione da parte dei suoi superiori nel prendere misure idonee per contenere il suo stress psicofisico. I giudici della capitale avevano tuttavia ridotto il risarcimento concesso ai genitori di K. in base a una duplice motivazione: anzitutto, la tendenza al perfezionismo della vittima, e la sua conseguente incapacità di concedersi (o di richiedere) delle pause aveva contribuito ad aggravare la sua situazione; inoltre, gli attori in primo grado (ossia i genitori) avrebbero potuto attivarsi in modo più efficace per cercare di alleviare le condizioni del figlio. Entrambe le parti ricorsero (jōkoku) quindi alla Corte Suprema.6 L’agenzia con ricorso principale chiedendo di essere sollevata da ogni responsabilità; i genitori di K. per vedere riconosciuto il loro diritto a un pieno risarcimento, senza che alcuna censura potesse essere mossa al loro comportamento. La sentenza della Corte Suprema confermò pienamente la responsabilità dell’agenzia. I giudici di vertice statuirono che, in base alle disposizioni lavoristiche e civili, il datore di lavoro ha un vero e proprio dovere, giuridicamente sanzionato, di far sì che la salute fisica e mentale del lavoratore non sia danneggiata dall’eccesso di stanchezza e stress, e che in tale dovere è compresa anche l’assegnazione di mansioni compatibili con l’orario di lavoro ordinario. Da questo punto di vista, la Corte Suprema mise per iscritto alcune nozioni di conoscenza comune nella prassi, ma che assumono particolare rilevanza proprio perché riconosciute come tali dal massimo organo della giustizia, ossia che in Giappone è prassi che i superiori chiedano ai dipendenti di “rispettare l’orario” senza preoccuparsi della congruenza fra carico di lavoro e ore a disposizione: la conse6

Il sistema giuridico giapponese, in modo non dissimile da quello italiano, prevede tre gradi di giudizio: tuttavia, la possibilità di ricorrere alla Corte Suprema è stata via via ristretta, e ora risulta essere molto limitata. Di conseguenza, il supremo giudicante del Giappone (che assomma le funzioni di vertice della giustizia civile e penale ma anche quelle di ultimo giudice della costituzionalità delle norme) è chiamato, ogni anno, a pronunciarsi su un numero di cause comunque notevole, ma piuttosto contenuto se paragonato all’Italia. Sul punto, vedi Oda Hiroshi, Japanese Law, III ed., Oxford University Press, Oxford 2009, pp. 57-66.


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guenza, generalmente accettata, è che il lavoratore svolga “di nascosto” lunghe ore di straordinario. Tale situazione è ovviamente contraria alla normativa in materia di lavoro, e può avere ricadute estremamente nocive per la salute del lavoratore, come è accaduto nel caso di K. La Corte accolse anche il ricorso dei genitori di K. Da un lato, i giudici stabilirono che il carattere di K., e in particolare la sua tendenza al perfezionismo, non potevano essere considerati una concausa del suo suicidio. Essi affermarono infatti che è del tutto normale che un lavoratore voglia svolgere il proprio lavoro al meglio, soddisfando le aspettative di colleghi e superiori. Quindi, a meno che il soggetto non abbia un carattere “anomalo” (definizione della Corte), non è possibile considerare ai fini giuridici una tale predisposizione. Dall’altro, riconobbero che in capo ai genitori di K. non poteva essere riscontrata alcuna responsabilità. La Corte Suprema sentenziò che i genitori, pur conviventi con la vittima, non avevano oggettivamente possibilità di influire in modo sostanziale sul suo stress lavorativo. Per comprendere appieno le conseguenze e la portata della decisione del 2000, occorre analizzare il contesto istituzionale in cui questa decisione è maturata: proprio a partire da quell’anno, infatti, il Governo giapponese (dopo aver negato per decenni il problema) ha dato il via a una campagna di prevenzione dei decessi e dei suicidi da stress lavorativo senza precedenti. Una delle tappe fondamentali di questa iniziativa è stata l’adozione, nel 2001, di uno specifico regolamento ministeriale sul karōshi,7 il cui scopo principale è definire con nitore una serie di parametri in base ai quali un caso può essere definito con certezza karōshi o karōjisatsu senza che sia richiesta un’ulteriore attività di accertamento in sede amministrativa o giudiziale. Tale regolamentazione, pur apprezzabile nello scopo, non riuscì però a conseguire i risultati sperati per una duplica causa: da un lato, un atteggiamento troppo permissivo nei confronti dei datori di lavoro (si accerta una “forte correlazione” fra patologia ischiemico-miocardica e stress lavorativo in presenza di almeno 100 ore di straordinario nel mese precedente al manifestarsi della patologia, ovvero di 80 ore in un periodo di 2-6 mesi), dall’altro le oggettive difficoltà di ricognizione dei fatti (rimarcate anche dalla Corte Suprema) causate dalla tendenza dei lavoratori a registrare meno ore di lavoro rispetto a quelle effettive. Di nuovo nel 2005 il Governo ha preso posizione sul problema dei suicidi, anche in ambito lavorativo, evidenziando come il fenomeno fosse ancora troppo esteso e sollecitando ulteriori sforzi da parte del Lavoro e delle politiche sociali, competente per materia. Infine, nel 2007, sono state elaborate delle linee guida governative generali sulla prevenzione dei suicidi (non solo in ambito lavorativo),8 7

Nō kekkan shikan oyobi kyoketsusei shin shikkan nado no nintei kijun (Normativa per l’accertamento di patologie cardiache di tipo ischemico miocardico o di patologie cerebrovascolari), Ministero della Salute, 2001. 8 Jisatsu sōgōtaisaku taikō (Principi fondamentali in materia di contromisure verso il suicidio), 2007.


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Il danno da karōshi

ed è stato istituito uno specifico centro interministeriale per la promozione e la diffusione di politiche di prevenzione.9 Il motivo per cui è di interesse collocare la decisione della Corte Suprema all’interno di un più ampio programma di azione governativa è che la Corte è da molti studiosi considerata come “conservatrice” e tradizionalmente alleata con (e non controllata da) il potere politico10 e quindi la “sintonia” fra l’agire governativo e la giurisprudenza non è sorprendente, ma anzi conferma una tendenza consolidata. Il supporto del potere giudiziario a quello esecutivo è di grande importanza: come detto,11 nonostante il precedente giudiziale non sia formalmente fonte di diritto in Giappone, le sentenze dell’organo di vertice tendono ad essere rispettate dai giudici di grado inferiore, per un triplice ordine di motivi. Il primo è il prestigio di cui la Corte Suprema gode all’interno della magistratura; il secondo è la sua funzione di nomofilachia (ossia uniformazione del diritto): una decisione che vada contro a quanto statuito dalla Corte sarà probabilmente impugnata con successo in grado superiore; il terzo è che, nonostante le carriere dei magistrati siano formalmente gestite dal Ministero della Giustizia, la Corte Suprema ha grandissima possibilità di condizionare la progressione professionale dei giudici, e pertanto nei tribunali di grado inferiore vi è il timore che eventuali decisioni sgradite alla Corte possano compromettere gli avanzamenti di carriera di chi le ha sottoscritte.12

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Gli sforzi del Governo giapponese sono però considerati da molti inefficaci e permeati da un paternalismo di fondo che rende più complicata una presa di posizione attenta e in linea con i più avanzati studi scientifici sull’argomento. 10 Di recente, David S. Law, “The Anatomy of a Conservative Court: Judicial Review in Japan”, Texas Law Review, vol. 87, 7, 2009, p. 1545. 11 Nota 5. 12 È la stessa Corte Suprema a dichiarare che, in ultima analisi, le carriere dei magistrati sono questione di propria competenza: “The designation of the Chief Justice of the Supreme Court and appointment of other Supreme Court Justices and judges of lower courts are within the purview of the Cabinet. However, the nomination of candidates of lower court judges from among whom the Cabinet appoints, including the Presidents of the high courts, and the assignment of judges to a specific court are reserved for the Supreme Court, which exercises the authority through the resolutions of the Judicial Assembly, provided that, as a rule, the nomination of candidates of lower court judges requires advice of the Advisory Committee for the Nomination of Lower Court Judges. In addition, such matters as the appointment and dismissal of court officials other than judges are within the purview of the judicial administration of the Supreme Court” (fonte: sito Internet della Corte Suprema http://www.courts. go.jp/english/system/system.html#02_1, 18/01/2012). Anche Andrea Ortolani, studioso italiano di diritto giapponese presso l’Università di Tokyo, nel suo blog dirittogiapponese.wordpress.com non ha esitazioni nell’identificare nell’Ufficio risorse umane della Corte Suprema il vero arbitro delle carriere dei magistrati (http://dirittogiapponese.wordpress.com/2011/12/11/i-giudici-della-corte-suprema-i, 18/01/2012) Sul punto, J. Mark Ramseryer, Eric B. Rasmusen, Measuring Judicial Independence. The Political Economy of Judging in Japan, Chicago University Press, Chicago 2003. Il testo, di lettura non del tutto agevole per chi non possieda un bagaglio di studi quantitativi, cerca di stabilire attraverso una funzione matematica una diretta correlazione fra decisioni in linea con i precedenti della Corte Suprema e progressione nella carriera. L’analisi di Ramseyer e Rasmusen, per quanto brillante e ben strutturata, non riesce tuttavia a dimostrare con totale chiarezza quanto asserito dagli autori.


Giorgio Fabio Colombo

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Alla Corte è inoltre riconosciuto un ruolo di “attivismo giudiziale”,13 attraverso il quale i giudici di vertice, talora interpretando la normativa in modo addirittura difforme alla lettera delle leggi, compiono una vera e propria attività di creazione del diritto allo scopo di venire incontro ai nuovi bisogni della società (che ovviamente sono considerati tali secondo l’opinione della Corte stessa). Dalla somma di tutti questi dati e circostanze, si possono svolgere alcune riflessioni, la prima delle quali è più che altro l’avvertenza che si tratta di conclusioni provvisorie: in Giappone si sta assistendo infatti a una magmatica evoluzione della giurisprudenza sul tema, e quindi l’osservazione è da un lato particolarmente interessante, dall’altro estremamente complessa. Una prima osservazione riguarda la chiarezza, al limite della naïveté, con cui la Corte Suprema prende atto di un drammatico scollamento fra regole formali e prassi generali (o, per dirla con un linguaggio caro ai comparatisti, fra law in the books e law in action) nell’ambito del diritto del lavoro. Leggere in una decisione della Corte frasi come “era normale per i dipendenti registrare meno ore di straordinario rispetto a quelle reali” e “era fatto riconosciuto che lo straordinario registrato non fosse in linea con la realtà” è indicativo di quanto in Giappone tali prassi siano diffuse e accettate. Vi è la speranza, tuttavia, che qualcosa stia cambiando. Infatti la seconda notazione che si può fare riguarda l’operato della Corte Suprema che si sta dirigendo verso una “collettivizzazione” dei costi sociali del karōshi e del karōjisatsu, trasferendo le conseguenze economiche del decesso dall’individuo (rectius: dalla sua famiglia) in capo al datore di lavoro. Una responsabilizzazione economica del soggetto competente all’assegnazione delle mansioni lavorative dovrebbe, nell’idea dei giudici, instillare nello stesso una particolare cautela e quindi agevolare il rispetto della normativa lavoristica, ma non solo. Per estensione, il principio giova in generale in caso di persone sottoposte a potere disciplinare o di vigilanza altrui. Tale fenomeno può infatti essere osservato anche in settori liminari, in tema di suicidio: e così, ad esempio, oggetto di sanzioni sono stati ufficiali delle Forze di Autodifesa14 e presidi di istituti scolastici, per non aver preso le giuste contromisure in casi di bullismo. Di nuovo, da problema individuale della vittima la questione sembra migrare nella sfera dell’istituzione competente. Dunque, i soggetti competenti a vigilare cominciano a rispondere in sede giudiziale. Ma in che misura? Una terza osservazione, in tema di quantum, mostra che il 13 Per una visione “politica” dell’attivismo giudiziale della Corte Suprema si veda Itoh Hiroshi, “Judicial Review and Judicial Activism in Japan”, Law and Contemporary Problems, 53, 1-2, pp. 169-179. Di attivismo in senso tecnico come attività non ortodossa di creazione di norme in sede giurispurdenziale tratta Kozuka Sōichirō, “Judicial Activism of the Japanese Supreme Court in Consumer Law: Juridification of Society through Case Law”, Zeitschrif für Japanisches Recht/Journal of Japanese Law, n. 27, vol. 14, 2007, pp. 81-90. 14 http://www.japantoday.com/category/national/view/state-ordered-to-pay-80-mil-yen-over-asdfofficers-suicide, 20/07/2011.


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Il danno da karōshi

Giappone mantiene la sua impostazione di ordinamento europeo-continentale, senza cedere a tentazioni americanofile. Le condanne multimilionarie (in dollari) tipiche dell’ordinamento statunitense (regno dei punitive damages) non si sono fatte strada nel paese, e infatti alle famiglie delle vittime di karōshi e karōjisatsu sinora sono stati concessi risarcimenti non meramente simbolici ma nemmeno esorbitanti.15 Nonostante si sia assistito, nel periodo 2000 – 2012, a una serie di decisioni innovative, in Giappone manca ancora una solida e univoca linea giurisprudenziale che ponga fine all’incertezza, e infatti permangono forti contraddizioni negli orientamenti, con sentenze molto favorevoli16 ma anche con pronunce che negano recisamente il problema.17 Un quarto commento riguarda dunque l’assenza di parametri nitidi in base ai quali giudicare i vari episodi. Sebbene, come detto sopra, siano state elaborate delle linee guida di massima (come detto, molto generose verso i datori di lavoro) manca una specifica e puntuale attenzione alle circostanze ulteriori, come la complessità dell’incarico svolto o la reponsabilità connessa a determinate mansioni.18 Fino a che non ci sarà un contesto normativo, regolamentare, o giurisprudenziale chiaro e definito, si assisterà a una disomogeneità nei giudizi con conseguente rischio di una disparità di trattamento a livello nazionale. Da ultimo, si potrebbe azzardare un’analisi sul cambiamento nell’atteggiamento giapponese verso il contenzioso formale.19 Negli ultimi dieci anni in Giappone il contenzioso giudiziale è cresciuto di oltre il 50%. Numerose spiegazioni sono state date per questo fenomeno: crisi economica, aumento del numero degli avvocati, ecc., ma in ultima analisi non pare improprio ritenere che, da questo punto di vista, la società giapponese stia cambiando. Il diritto del lavoro, come il diritto di famiglia, è universalmente considerato un settore dove il contenzioso giudiziale 15

Nell’ordine dei 600.000 – 900.000 euro, attualizzati al tasso di cambio corrente. Di recente però, in altre materie, si è assitito a decisioni più “americanizzanti”: una signora, a seguito della rottura di una sedia, cadde e si ruppe il bacino; in seguito le venne diagnosticata una forma di depressione, a suo dire conseguente all’infortunio. La signora decise quindi di agire giudizialmente contro l’azienda produttrice. Il 27 gennaio 2011 l’Alta Corte di Fukuoka ha concesso all’attrice un risarcimento di poco meno di sedici milioni di yen (la signora ne aveva chiesti in primo grado 57). Della sentenza hanno dato notizia i principali quotidiani nazionali, ed è anche riportata sul già citato blog http://dirittogiapponese.wordpress.com/2011/12/28/i-giapponesi-che-fanno-causa-iii, 19/01/2012. 16 A mero titolo di esempio fra le molte, se ne segnala una che ha avuto eco anche sulla stampa italiana. “Si uccise per il troppo lavoro. Mazda condannata a risarcire la famiglia”, Corriere della Sera, 1 marzo 2011. 17 “Ammazzarsi di lavoro”, http://dirittogiapponese.wordpress.com/2011/09/01/ammazzarsi-di-lavoro, 19/01/2012. 18 Nella decisione del Tribunale di Osaka commentata da Andrea Ortolani (nota 17), il problema non è solo o tanto quello dell’orario di lavoro, quanto quello della complessità delle mansioni affidate a un lavoratore neoassunto, il quale, sentendosi inadeguato all’incarico, ne aveva riportato uno stress tale da indurlo al suicidio. I giudici di Osaka decisero che i compiti erano “accettabili” e che quindi il suicidio fosse da attribuire a una predisposizione caratteriale del lavoratore. Il padre della vittima ha proposto appello innnazi alla competente Corte di Osaka. 19 Sul tema generale del contenzioso in Giappone mi permetto di rinviare a Giorgio Fabio Colombo, Oltre il paradigma della società senza liti. La risoluzione extra-giudiziale delle controversie in Giappone, CEDAM, Padova 2011.


Giorgio Fabio Colombo

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ha un carattere molto più clastico rispetto a situazioni più “neutre”, quali rapporti commerciali. In generale, qualunque rapporto che presupponga una lunga durata e una gerarchia nei ruoli assume caratteristiche di “delicatezza” nella relazione che non sono compatibili, nella visione tradizionale, con un comportamento contenzioso. Sono le classiche situazioni in cui lo strumento ideale di risoluzione delle controversie è la molto celebrata conciliazione. Il processo del lavoro, in Giappone, è ulteriormente reso complesso da una preliminare fase di accertamento di tipo amministrativo, a seguito della quale si può decidere di ricorrere al tribunale ma che comunque comporta già una sorta di pre-contenzioso. Occorre dunque superare, oltre alle barriere di tipo culturale, anche un primo sbarramento di tipo tecnico. Se persino in una materia così delicata si assiste a un aumento del contenzioso allora forse è davvero segno di un cambiamento sociale. Un altro parametro, meno scientifico e più difficilmente misurabile, consente di poter ipotizzare un nuovo atteggiamento nei confronti delle rivendicazioni in tema di karōshi e karōjisatsu, ossia come le questioni sono rappresentate sui media e addirittura in forme di intrattenimento popolare come i manga.20 Dal fatto che le decisioni come quella commentata facciano la loro comparsa sui giornali si può ancora inferire che si tratta di ipotesi eccezionali, e come tali meritevoli di un’attenzione qualificata da parte della stampa. Dall’altro però, l’esposizione è sempre più solidale verso le famiglie delle vittime, trattate come persone che hanno subito un grave torto e non come soggetti poco civili che violano l’ordine sociale rivolgendosi alla magistratura; anche i lavoratori coinvolti sono dipinti sempre meno come persone deboli o “anomale” (per usare la definizione della Corte Suprema), ma come esseri umani che hanno vissuto un dramma dal quale non sono riusciti a uscire. La tematica è tuttavia in costante e talvolta discontinua evoluzione nella legislazione, nella giurisprudenza e persino nell’opinione pubblica. Gli anni ci diranno se il Giappone sarà in grado di dare una regolamentazione compiuta, tale da risolvere in modo soddisfacente la situazione. 20 A tale proposito, un riferimento diretto al tema del karōshi e dell’atteggiamento verso il contenzioso è contenuto nel manga di Taniguchi Jiro, Harayuku Sora, Shueisha, Tokyo 2005 (edizione italiana Un cielo radioso, Coconino Press, Bologna, 2008). La storia riguarda un lavoratore di mezza età che muore in un incidente d’auto causato dalla troppa fatica accumulata sul lavoro: la sua anima per un breve periodo trasmigra nel corpo di un ragazzo che era rimasto coinvolto nello scontro. Alle pagine 240-241 si svolge un dialogo che può essere letto alla luce del dibatitto sull’argomento tra la vedova del protagonista e un dirigente della società per cui egli lavorava. Moglie: “Signor Omura, lei doveva conoscere le condizioni di lavoro della sua impresa”. Dirigente: “Eh...beh”. Moglie: “Credo che la causa della morte di mio marito sia l’enorme eccesso di lavoro che gli veniva richiesto in fabbrica...sì, è per colpa della fabbrica che è morto! E ho deciso di chiedere i danni all’azienda per incidente sul lavoro”. Dirigente: “Signora! Mi ascolti...non credo che questo sia il desiderio di suo marito! Se lei fa causa all’azienda di suo marito finirà per disonorarlo, lo sa bene! Siamo il numero uno del settore...provvederemo a pagare tutte le spese causate dall’incidente”. Moglie: “No. Penso che la cosa debba essere affrontata pubblicamente e non semplicemente in modo amichevole...e credo che se mio marito fosse vivo mi approverebbe”.


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Il danno da karōshi

Karōshi Damages: New Frontiers of Civil Liability in Japan The issues of karōshi and karōjisatsu have been studied in depth by sociologists, psychologists and medical doctors. But still there is room for new critical analysis if we observe the matters through the lenses of the lawyer. In fact, (relatively) recently, the Supreme Court of Japan has addressed the following questions in one landmark decision: is the employer bound to pay damages to the heirs if a worker commits suicide as consequence of overwork or overwork-related stress? How can a direct link between suicide and overwork could be assessed? It appears that the Supreme Court is now contributing in giving an admonition to society: employers are warned that if they overexploit their employees they will face legal consequences. However, the lack of precise criteria in assessing the relationship between work and death still makes the issue extremely controversial and debated.

過労死の損害:

日本における民事責任の新しい境地 ジョルジョ・ファビオ・コロンボ

過労死と過労死自殺の問題は、社会学者、心理学者と医師によって深 く研究されてきました。しかし、弁護士の視点からこの事項を見る と、新しい批判的分析をする余地があります。実際には、(比較的) 最近、日本の最高裁判所は、ある先例に次の問いを投げかけました: 労働者が過労や過労によるストレスが原因で自殺をしたら、雇用者は 相続人に損害賠償を払わなければならないでしょうか。自殺と過労の 直接の関係はどのように評価することができるでしょうか。 これは、今まさに、最高裁判所が社会に訓戒することに寄与している と考えられます:雇用者は、従業員を過剰に搾取したら、法的な代償 を払うよう警告されています。しかしながら、仕事と死の関係を評価 するための詳細な基準の欠如は、この問題を未だ非常に論争を呼び起 こすものにしています。


Marco De Baggis

L’introduzione del cristianesimo ortodosso in Giappone e la figura di San Nikolaij

Brevi cenni sull’ortodossia 1 Con questo nome viene indicata la variante del cristianesimo sorella del cattolicesimo e diffusasi nell’Europa orientale e nel medio oriente, e raggruppa tutte quelle chiese nazionali che, dal punto di vista gerarchico, riconoscono il primato onorario del Vescovo di Roma e del Patriarca di Costantinopoli-Nuova Roma. Le differenze sostanziali riguardano principalmente questioni teologiche ma non mancano divergenze su aspetti quotidiani della vita, dal segno della croce al matrimonio per il clero. La diffusione originaria ricalcava l’estensione dell’impero romano d’oriente (principalmente bassi Balcani, penisola ellenica e Asia Minore) e i suoi satelliti culturali (penisola balcanica e mondo slavo, e per lungo periodo anche l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna). La fede cattolica e quella ortodossa sono state indistinte per circa un millennio dalla morte di Cristo, fino a quando, nel 1054, con una scomunica incrociata il Papa e il Patriarca si allontanarono sempre di più. L’ecumene cristiana si trovò quindi divisa in cattolica (dal greco καθολικòς, universale) ed ortodossa (da ορθοδοξία, retta opinione). Curiosamente, la primigenia cristianità si connotava come cattolica e ortodossa allo stesso tempo. La liturgia ortodossa, influenzata dalla corte bizantina, ha fatto suoi molti rituali e modalità di questo ambiente, oltre ad aver mantenuto forme poco o per nulla alterate provenienti più o meno direttamente dal mondo del cristianesimo tardo antico. Invece in occidente la liturgia, rivisitata più volte, è stata influenzata dal rito romano pesantemente rivisitato in chiave franca, prima, e in funzione anti protestante, dopo, oltre ad essere passata attraverso numerosi concili e cambi di rotta ancora fino ai giorni nostri. La chiesa ortodossa giapponese, la sua struttura La chiesa ortodossa del Giappone, Nihon seikyōkai 日本聖教会 oppure Nihon harisutosu seikyōkai 日本ハリストス正教会 (dove harisutosu ハリ ストス sarebbe una sorta di traslitterazione del greco Χριστòς) è una chiesa 1

Due studi utili per la conoscenza dell’ortodossia sono: Hans Dieter Döpmann, Il Cristo d’oriente, ECIG, Genova 1994; Morini Enrico, Gli ortodossi, Il Mulino, Bologna 2002.


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L’introduzione del cristianesimo ortodosso in Giappone e San Nikolaij

autonoma nell’ambito del Patriarcato di Mosca. Durante l’URSS era sotto la chiesa ortodossa d’America. Nel 1970, in corrispondenza dell’allentamento della pressione sovietica, la chiesa russa poté riorganizzarsi, e recuperò la competenza sulla chiesa giapponese,2 alla quale fu dato lo status di chiesa autonoma (status peraltro contestato dal Patriarca di Costantinopoli-Nuova Roma). Attualmente si compone di tre diocesi: Giappone orientale, con sede a Sendai (32 parrocchie), Tokyo (20 parrocchie), dove il vescovo è anche Metropolita del Giappone, e infine il Giappone occidentale, con sede a Kyoto (15 parrocchie); il Metropolita, che risiede a Tokyo, è Nushiro Ikuo, che ha preso il nome di Daniel. Il vescovo di Sendai è Tsujinaga Noboru, Seraphim, mentre il seggio di Kyoto è vacante, ed è retto ad interim dal Metropolita Daniel, peraltro già ex vescovo della diocesi. Il recente terremoto e tsunami nel Tōhoku hanno naturalmente avuto pesanti ripercussioni per la chiesa locale soprattutto, e diverse chiese risultano danneggiate, come la sede vescovile di Sendai, altre completamente distrutte. I fedeli sono circa 30.000. I primi contatti La presenza del cristianesimo in Cina è antica, ma fondamentalmente di matrice nestoriana. Né cattolicesimo, né ortodossia riuscirono a giungere molto più in là della Mesopotamia. L’arrivo in Giappone del cristianesimo, a prescindere dalla confessione, è invece molto tardo, se escludiamo le affascinanti suggestioni del nestorianesimo nel Giappone del VI secolo.3 I contatti con il mondo ortodosso, poi, sono ancora più recenti. Bisognerà, infatti, aspettare che i Russi raggiungano l’estremo oriente, alla fine del XVII secolo.4 I primi ortodossi Giapponesi furono marinai naufragati sulle coste delle Aleutine5 e della Kamchatka, i quali, entrati in territorio russo, in gran parte dei casi non poterono più far ritorno in patria. Preso quindi il battesimo e un nome russo, restarono allora in Russia per il resto dei loro giorni. Non è chiaro quante siano tali persone, ma possiamo conoscere le vicende di alcuni di loro grazie ai diari che hanno scritto.6 Il primo Giapponese in assoluto a comparire nelle cronache russe fu un certo Denbei, povero mercante di Osaka. Egli, partito alla volta di Edo nel 1695, ottavo 2 http://oca.org/history-archives/autocephaly-agreement (20/1/2012), versione online del tomo di autocefalia, con il quale il Patriarcato di Mosca concede alla chiesa d’America di organizzarsi come Patriarcato a tutti gli effetti, all’articolo X, stabilisce che la chiesa ortodossa giapponese rientra sotto la giurisdizione di Mosca, alla quale dovrà fare richiesta per ottenere l’autonomia. 3 http://www.onmarkproductions.com/LostIdentity.pdf, versione elettronica del libro del 2005 Lost identity del sacerdote siro americano Ken Joseph, Kobunsha paperback, Tokyo (20/1/2012). 4 Döpmann, Il Cristo d’oriente, cit, pp. 44-45. 5 Arcipelago attualmente sotto la sovranità degli Stati Uniti d’America (Alaska), ma all’epoca sotto il dominio russo. 6 Ushimaru Yasuo, Nihon seikyōshi, Nihon harisutosu seikyōkaikyōdan, Tokyo 1979.


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anno dell’era Genroku, fu sorpreso da un tifone e giunse l’anno successivo sulle coste della Kamchatka meridionale. Da qui, con il capo dei Cosacchi Vladimir Atrasov, giunse in Russia, nel 1702, e fu presentato allo zar Pietro il Grande il quale, impressionato da quel mercante, fondò una scuola di studi giapponesi a Pietroburgo, dove Denbei divenne insegnante di lingua giapponese. Negatogli nel 1710 il permesso di tornare in Giappone, gli fu ingiunto di battezzarsi, e con il nome di Gavril, egli divenne il primo Giapponese della storia a diventare cristiano ortodosso. È del 1711 una sua esposizione della religiosità nipponica per il governo russo, una sorta di intervista sulle convinzioni religiose dei suoi conterranei, uno scritto in realtà molto semplicistico, vista anche la bassa caratura culturale del personaggio. Nel 1710 fu la volta di un altro Giapponese, Sanima. Egli faceva parte di un gruppo di dieci persone, naufragato sulle coste della Kamchatka. Quella volta però, furono gli indigeni del posto a trovarli per primi, e a massacrare quattro di loro. Poi, ridotti in prigionia, furono acquistati in quattro da alcuni russi, e Sanima venne inviato come insegnante a Pietroburgo. Qui, divenuto aiutante di Denbei, si battezzò e si naturalizzò, prendendo perfino moglie. Non sappiamo quando morirono sia Denbei sia Sanima. Nel 1729 furono alcuni mercanti di Satsuma diretti ad Asaka con un carico di legname e carta, ad essere vittime di un tifone che trascinò tutti ancora una volta in Kamchatka. Dell’equipaggio di 19 persone, dopo 7 mesi, sopravvissero solo due uomini, Gonza, figlio di pescatori, e Sōza, mercante. Nel 1733 incontrarono la zarina Anna Ivanovna, e l’anno seguente si battezzarono e presero nomi russi. Nel 1745 invece fu il turno del gruppo di un certo Takeuchi, che naufragò sulle isole Kurili, presso Onekotan. Tra i legni naufragati lungo le isole Kurili figura anche quello di Daikokuya Kōdayu, che non si convertì, ma che merita menzione per i suoi viaggi nella Russia a contatto stretto con l’ortodossia e perché due dei superstiti della sua nave si convertirono e restarono in questo paese. Egli, a differenza della grande maggioranza dei suoi connazionali, riuscì a tornare in Giappone e ci ha lasciato un buon numero di scritti, i più famosi dei quali sono Hokusa Ibun e Hyōmin goran no ki, opere che, però, non hanno come fine il descrivere le reali condizioni e vicende dei naufraghi giapponesi, e che sono quindi carenti dal punto di vista dell’accuratezza. Egli partì da Shirokochō, a Suzuka, diretto a Edo, nel dicembre del 1782, ma venne travolto da una tempesta, e nel 1783 sbarcò ad Amchitoka. Il suo gruppo aveva già perso un uomo, e nei quattro anni di permanenza sull’isola ne perderà altri quattro. Nel 1787 il gruppo si trasferì in Kamchatka, dove morirono altri tre compagni, poi in Jakuzia. Nel 1789 i sei superstiti giunsero a Irkutsk, in Siberia, dove Shinzō (che sposa anche una donna russa) e Shōzō si convertono. Nel 1791 si recarono a Pietroburgo per ottenere il permesso di tornare in Giappone, e furono ricevuti dalla Zarina Caterina II, che concesse il permesso, ma il solo Daikokuya tornò in Hokkaidō nel 1792, mentre i suoi due compagni convertiti all’ortodossia restarono in Russia. Morì infine a Edo nel 1828.


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L’introduzione del cristianesimo ortodosso in Giappone e San Nikolaij

Possiamo quindi evidenziare come i primissimi ortodossi giapponesi altro non furono che naufraghi che, per convenienza alla vita russa o per convinzione, si battezzarono. Solo alla fine del bakufu l’arrivo di Nikolaij cambierà questo stato di cose. I primi tentativi di presenza stabile: il consolato russo di Hakodate sotto il console Goshkevich Con la fine del sakoku, il Giappone fu costretto ad aprirsi ai commerci e alla diplomazia delle potenze occidentali. I primi stati ad approfittarne furono il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Francia, l’Olanda e la Russia. Quest’ultima, già dal 1858, in virtù degli accordi di Shimoda ottenuti dall’ammiraglio Putyatin aveva un consolato ad Hakodate. Il primo console incaricato fu Iosofovich Antonovich Goshkevich7 che acquistò per il governo russo un pezzo di terra per l’edificio e per una piccola chiesa di legno, completata nel 1859 (la quale è da considerare come la prima chiesa in assoluto costruita in Giappone dall’imposizione del divieto di professare il cristianesimo). Goshkevich, nato nel 1814 a Minsk, si laureò a Pietroburgo nel 1839. Dopo una vita movimentata tra la Russia e l’Asia, incontrò a Shimoda Tachibana Kōsai (nato Masuda Kōsai), un ex samurai e monaco buddista che, divenutogli amico, gli fornì del materiale per la stesura di un saggio comparativo sulle lingue giapponese e russa. Dal canto suo, egli sarebbe stato il padrino per Tachibana quando, giunto in Russia, mutò il suo nome in Vladimir Iosofovich Yamatov (questi ultimi nomi chiari riferimento l’uno al padrino, l’altro alla sua origine giapponese). Yamatov sarà in seguito insegnante di lingua giapponese a San Pietroburgo ma tornerà in Giappone dopo che gli inviati della missione Iwakura lo assicurarono che poteva tornare in patria senza paura di essere condannato per il tradimento al suo daimyō. Morì in Giappone nel 1885. Goshkevich, fortemente credente, apprestò quindi una cappella che avrebbe dovuto avere, come di regola, anche ministri del culto. Il primo sacerdote assegnato ufficialmente fu Vasilij Makhov, coadiuvato dal figlio Ivan Makhov con il ruolo di lettore (che ha il compito di leggere le Scritture), i quali arrivarono a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro nel 1859.8 Vasilij era nato da una povera famiglia di Oboyanski, nel distretto di Kursk. Si laureò in teologia nel 1815 e nel 1823 divenne sacerdote. Nel 1849 gli morì la moglie e nel 1852 su invito del metropolita Isidoro di Kursk si fece monaco a Pietroburgo nel monastero Alexandr Ovskij, ma poco dopo si imbarcò divenendo nel 1853 prete della fregata “Diana”, all’epoca impegnata in una circumnavigazione del Globo sotto il comando dell’ammiraglio Evfemij Valisevich Putyatin. Successivamente, quando questi ebbe il compito di aprire negoziati con il bakufu, egli lo seguì in Giappone e sbarcò con lui a Shimoda. Nel 1855 tornò in Russia, ma nel 1858 gli venne ordi7 8

Nakamura Kennosuke, Senkyōshi Nikolai to Meiji Nihon, Iwanami shōten, Tokyo 1996. Naganawa Mitsuo, “Mō hitori no Makhov”, Roshia techō, 33.


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nato di tornare in Giappone come cappellano del consolato di Hakodate. Makhov è considerato da alcuni9 il primo ministro del culto ortodosso (seppure per pochissimo tempo) in Giappone, ma è più probabile che questo primato debba andare a Filaret,10 sacerdote il cui nome era per altro già presente nell’elenco di persone che, con Putyatin e Goshkevich, salparono per fondare il consolato. Filaret però è un personaggio molto sfuggente, che forse lasciò Hakodate nel 1860, quando era già stato scelto il successore di Makhov. Un’ipotesi vede Filaret “reggente” del titolo di cappellano in attesa dell’arrivo di Makhov, il che spiegherebbe la sua relativa posizione defilata. Compare poco dopo a Vladivostok un altro Filaret ma non è chiaro se sia la stessa persona. Ad ogni modo di lui si perdono presto le tracce. Dei Makhov, invece, abbiamo diverse informazioni. Dopo appena quattro mesi Vasilij, già sessantenne, a causa di una malattia del cuore, chiese di tornare in Russia per curarsi, e lasciò il Giappone nel 1860, a circa un anno dalla sua venuta. Morì a 69 anni nel villaggio di Radoubeji, nel distretto di Kursk. Il figlio rimase a Hakodate dove però non potè fungere da cappellano non avendo ricevuto l’ordinazione. Ivan, da alcuni considerato non il figlio bensì il genero di Basilij,11 scrisse per i bambini giapponesi un breve testo, Roshiya no iroha ろしやのいろは12 (Pyccкая азбука, ABC della Russia), che è poi il primo testo che mise in comunicazione Russia e Giappone. Si tratta di un semplice testo di 20 pagine (uno, se non il primo testo ad essere stato stampato in Hokkaidō) con alfabeto, sillabe e parole in russo con il corrispettivo in giapponese. Nel 1861, adducendo anch’egli motivi di salute (una malattia alla gola), tornò in Russia e il console Goskevich mandò quindi una richiesta al sinodo russo per un nuovo cappellano capace anche di diffondere l’ortodossia in Giappone. Quest’ultima richiesta sembra strana, visto che in Giappone il divieto di professare il cristianesimo era ancora vigente e lo sarebbe stato ancora per una decina di anni. Forse aveva avuto sentore che prima o poi questo divieto sarebbe caduto. Il candidato ideale sarebbe dovuto essere non solo laureato in teologia, ma versato anche in altre discipline, e capace di lasciare una buona immagine sia ai Giapponesi, sia ai Russi, sia agli altri stranieri presenti in città. Questo per contrastare la presenza di brillanti personaggi presenti nelle ambasciate inglese e francese. Il prescelto sarebbe stato Nikolaij Kasatskin. Nel 1865 Goshkevich lasciò il Giappone e chiuse la sua carriera nel 1867, nondimeno durante questi due anni rimase sicuramente sostenitore dell’attività di propaganda di Nikolaij sia di fronte al sinodo russo, sia con raccolte di fondi.

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Ushimaru Yasuo, Nihon seikyōshi, cit. Shimizu Megumi, “Futari no Makhov to Firaret shisai”, in Hakodate-Roshia: sono kōryū no kiseki, Hakodate nichi ro kōryūshikenkyūkai, 2005. 11 Naganawa Mitsuo, “Mō hitori no Makhov”, cit. 12 http://eprints.lib.hokudai.ac.jp/dspace/bitstream/2115/40196/3/tonai2009_rev.pdf (20/01/2012), interessantissimo studio di Tonai Yuzuru, dell’Università dello Hokkaidō. 10


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L’introduzione del cristianesimo ortodosso in Giappone e San Nikolaij

Nikolaij (Ivan) Kasatkin dalla nascita all’arrivo in Giappone San Nikolaij (1830-1912) nacque come Ivan Dimitrievich Kasatkin Ива́н Дми́триевич Каса́ткин nella regione di Smolensk,13 provincia di Beriskij, villaggio di Beryoza, nella Russia occidentale, da Dimitri Ivanovich Kasatkin, parroco di campagna, e da Xenia Aleksevina Kasatkina, che muore a 35 anni, quando Ivan aveva 5 anni. Fin da piccolo aiutò nelle funzioni della chiesa. Durante la sua giovinezza, la Russia attraversò un periodo turbolento e anche lui subì, come molti giovani della sua età, il fascino della carriera militare. Il padre, però, riuscì a farlo desistere dai suoi propositi e lo fece iscrivere all’istituto superiore di teologia di Smolensk. Ivan è così capace che riesce successivamente ad entrare nella prestigiosissima università teologica di Pietroburgo, che offriva dei corsi molto impegnativi basati sia sulle Scritture, sia su scienze quali la linguistica, la fisica, la geografia, fino ad arrivare alla logica e alle lingue classiche e moderne. Versato in tutti i campi, affinerà soprattutto la conoscenza del Tedesco e del Greco classico, e studierà soprattutto gli autori della Patristica più venerati dalle chiese orientali. Il primo avvicinamento al Giappone Ivan lo ebbe leggendo all’università il libro del capitano di fregata Vasilij Mikhailovich Golovnin Васи́лий Миха́йлович Головни́н (1776-1831), Записки о пребывании в Японии, (Note sul mio soggiorno in Giappone, [Nihon yūshūki 日本幽囚記]), pubblicato nel 1816. È il resoconto del naufragio al largo di Kurashiki della sua nave, e della conseguente deportazione a Hakodate, dove ebbe l’opportunità di conoscere usi e costumi dei Giapponesi. Il libro divenne subito un best seller tradotto in molte lingue ed ebbe un’influenza molto grande sulla visione del Giappone per tutto l’800. Al quarto anno di teologia, poi, Ivan vide per caso un foglio in cui si richiedeva di mandare un nuovo sacerdote in Giappone. Era la lettera con cui il console Goshkevich chiedeva al sinodo russo un sostituto per Makhov. Subito si entusiasmò, pronto a partire, tanto più che un suo compagno di camera, Polikin, che poi prese il nome di Isaia, partì poco dopo per far parte della missione ortodossa a Beijing. Dopo un colloquio con il rettore Nektarios, che provò a distoglierlo dall’intento facendogli intravedere una brillante carriera come studioso e insegnante presso l’Università, poté proporsi. La rosa dei candidati era formata da dodici nomi, ma la candidatura di Nikolaij prevalse nonostante la sua giovane età, anche perché era l’unico a non essere sposato,14 così come ricordato dall’archimandrita e amico di lunga data di Ivan, Bragoravmov, in una lettera. Anche l’appoggio del Metropolita Isidoro, grande nome del clero russo, attivo a Novgorod, Pietroburgo e in Finlandia, (all’epoca parte dell’impero), e impressionato dalle capacità del giovane prete, deve essere stato determinante. Nel 1860 prese quindi i voti, affrontò la cerimonia della tonsura, divenne monaco e cambiò il nome in Nikolaij, “il vincitore”, per poi officiare come diacono ad alcune funzioni presso la 13 14

Takahashi Yasuyuki, Sei Nikolai daishukyō, Nihon Kirisutokyōdan Shuppansha, Tokyo 2000. Kedorov, “Chōshisai guragorāzu ate no tegami ni miru Nikolai daishukyō”, Russkij Archiv 1912, 3.


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cappella dei Dodici Apostoli annessa all’università, il 30 giugno che in Russia è la festa dei Santi Pietro e Paolo.15 Prima della partenza andò a salutare il padre e i fratelli. Tutti rimasero sorpresi da quella decisione, ma lo sostennero. Il padre, in particolare, intagliò per lui una croce di legno e gli diede un’icona molto venerata in famiglia che portò poi in Giappone. Il primo agosto del 1860 intraprende il terribile viaggio attraverso la Siberia, tra boschi e distese infinite per raggiungere Irkutsk, sul lago Baikal, nel cuore della Siberia meridionale, a ridosso dei deserti della Mongolia. Qui, a causa di avversità meteorologiche, rallentò la marcia, e raggiunta Nikolaijesk, si fermò per quasi un anno. Durante il soggiorno forzato, incontrò colui che sarebbe stato poi il Metropolita di Mosca, Innocent (17991879), uomo colto e di grande virtù, proclamato santo nel 1977. La sua influenza su Nikolaij fu di grande importanza: egli, come missionario, recuperò lo spirito dei sacerdoti evangelizzatori bizantini degli Slavi, traducendo in varie lingue i testi sacri, tra cui la lingua degli abitanti delle isole Aleutine, l’arcipelago che congiunge la Kamchatka all’Alaska, attualmente territorio degli Stati Uniti d’America, ma all’epoca zona di espansione russa. La sua influenza positiva lo esortò ad accantonare lo studio delle lingue europee, per dedicarsi quanto più possibile allo studio del giapponese. Fu proprio il suo esempio che portò Nikolaij alla completa padronanza di quella lingua, che gli permise di tradurre numerosi testi sacri ma, soprattutto, di entrare più a fondo con il popolo nipponico. Nikolaij a Hakodate Lo sbarco a Hakodate avvenne il 14 luglio 1861 dalla nave Amur, partita da Nikolaijesk nell’aprile dello stesso anno. All’epoca la città, uno dei pochi porti accessibili agli stranieri, aveva un forte sapore internazionale ed erano molte le presenze di stranieri, seppure guardati con malcelato sospetto. Nell’agosto di quell’anno sarebbe passato in città anche l’anarchico Bakunin.16 Sebbene la prima impressione non fosse delle migliori, a causa delle grandi aspettative che nutriva verso il Giappone, nondimeno subito si impegnò nello studio della lingua, memore dei consigli di Innocent. Fece rapidi progressi anche nello studio della storia e della letteratura, nonché nel buddismo e nei classici confuciani, sotto la tutela del medico e intellettuale confuciano Kimura Kensai. Alla partenza di questo, proseguì gli studi sotto Niijima Shimeta, più noto come Niijima Jō, il fondatore della Dōshisha, che, nonostante numerosi tentativi, però, non riuscì 15

Nikolaij, una volta giunto in Giappone e rafforzata la sua diocesi, scelse, in ricordo proprio della sua prima messa, questa data come giorno per le riunioni annuali del piccolo sinodo giapponese, tradizione ancora oggi seguita dai fedeli giapponesi, sebbene le riunioni siano ormai differenti dai primi incontri, riservati al clero e finanziati dalla Chiesa russa; quelli attuali, aperti ai fedeli laici hanno acquisito un ruolo importante, e sono autofinanziati, già dal 1917, dopo la Rivoluzione di Ottobre in Russia. 16 Sakon Takeshi, “M.a. Bakunin no nihon raikō wo megutte”, in Kyōdō kenkyū roshia to nihon, Tokyo 1990.


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L’introduzione del cristianesimo ortodosso in Giappone e San Nikolaij

mai a convertire. Tra messe e servizi spirituali in larga parte a beneficio di marinai e mercanti russi, visto che i Giapponesi vedevano il cristianesimo come la peggiore forma di malvagità tradotta in religione,17 però, Nikolaij non riusciva a trovare lo sbocco per la sua vera passione, il proselitismo, cosa che gli causò non poche frustrazioni. Un grande risultato lo otterrà, comunque, pochi anni dopo, con Sawabe, un personaggio dai tratti romanzeschi, conosciuto nel 1865 durante un ricevimento. Il primo scambio di battute tra i due sarà all’insegna della conflittualità, poi, a poco a poco, grazie ad assidue visite di Sawabe, maestro di scherma al consolato, a Nikolaij, le cose cambiano, fino alla clamorosa conversione. Per comprendere l’eccezionalità della vicenda, occorre considerare la storia di Sawabe. Egli nacque nel 1833 a Tosa, e poi si trasferì ad Edo. Dopo una giovinezza piuttosto movimentata, si avvicinò al movimento xenofobo son’nō jōi, e partì per Hakodate con altri seguaci del movimento con l’intenzione di creare disordini con atti di violenza contro gli stranieri della città. Curiosamente, tra le sue amicizie ci sono lo stesso Niijima e Sakamoto Ryōma. Allo stesso tempo divenne, in virtù del matrimonio, anche il titolare del piccolo santuario shintō Shinmeisha a Hakodate. Entrò nel consolato russo come maestro di kendō, e qui conobbe Nikolaij. All’epoca egli vedeva i Cristiani come esseri immondi e insopportabili, e un giorno entrò nella stanza di Nikolaij con l’intenzione di ucciderlo per difendere il suo paese dal male del cristianesimo, ma dopo uno scambio di battute non solo desistette, ma diventò il suo primo discepolo. Sawabe, con il suo consueto spirito passionale, inizia a spingere molte persone verso l’ortodossia, ma per molti che lo avevano conosciuto in precedenza sotto la veste di fanatico xenofobo, questa trasformazione sembrava davvero buffa. Una delle sue frasi preferite era: “se volete salvare questo paese, fate come me, convertitevi!”, che unisce un indomito spirito nazionalista a curiose venature apocalittiche. Tuttavia, grazie alla sua azione, un medico di Hakodate, Sakai, e Urano Daizō, diverranno anche loro discepoli di Nikolaij, quando ancora vigeva il divieto di praticare il cristianesimo. Alla caduta del bakufu e al ritorno al potere dell’imperatore, si era creduto che questo divieto sarebbe stato ancora più inasprito e che una nuova ondata di persecuzioni si sarebbe abbattuta. Ma Sawabe e gli altri erano infuocati dallo spirito missionario e, nel 1868, primo anno dell’era Meiji, chiesero a Nikolaij di essere battezzati, e il rito fu compiuto nella stanza del sacerdote e in tutta segretezza. Sawabe prese il nome di Pavel,18 mentre Sakai divenne Ioan. Anche Urano si fece battezzare e prese il nome di Yakov. Dopo il battesimo, questi tre si divisero, Sakai tornò nel suo paese d’origine, a Yamagata, Urano a Kanazawa e Sawabe a Sendai. Nikolaij, invece, tornò in Russia per due anni.

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Pozneiev, Meiji nihon to Nikolaij daishukyō, (tr. Nakamura Kennosuke), Kōdansha, Tokyo 1986. Pavel corrisponde a “Paulus”, in latino, il nome del santo che era partito, proprio come Sawabe, da persecutore dei cristiani, per poi diventare uno dei massimi esponenti. 18


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Nikolaij in Russia per l’ultima volta Il ritorno in Russia ai primi del 1869 fu necessario per un insieme di fattori, e il timore di persecuzioni sicuramente non fu uno di questi (Nikolaij affrontò con coraggio la crisi scoppiata a causa della guerra russo giapponese del 1904-5 restando in Giappone).19 Egli, probabilmente, decise di tornare in patria in questo periodo in quanto la situazione restava bloccata in Giappone e per non perdere tempo, valutò che la sua presenza in Russia sarebbe stata più proficua. Al sinodo della chiesa russa egli presentò i risultati ottenuti fino ad allora, e un dossier sulla situazione religiosa nel paese. Da questa traspare la convinzione che i fedeli delle religioni diffuse in Giappone, buddismo e shintō, fossero in uno stato di incertezza, dovuto all’arrivo del cristianesimo, e che in queste crepe, a patto di una vigorosa azione di evangelizzazione, ci fossero ottime possibilità per diffondere l’ortodossia. In particolare, sono interessanti i giudizi dati sul buddismo e sullo shintō. Per il primo, infatti, egli sembra nutrire una sincera ammirazione, per la profondità della speculazione filosofica e per essere una religione chiaramente organizzata, a differenza dello shintō che è, invece, considerato alla stregua di una superstizione, e quindi più facile da superare.20 Quindi, chiese l’autorizzazione ufficiale alla fondazione di una missione in Giappone. Ottenne il permesso, ma non riuscì ad ottenere la possibilità di inviare in quattro città strategiche (Hakodate, Edo, Kyoto, Nagasaki) altrettanti sacerdoti, come invece stavano facendo gli altri contendenti, cioè i cattolici e i protestanti. Questa decisione provocò un gap che con gli anni divenne praticamente incolmabile: se, infatti, la presenza nel Tōhoku fu assicurata, ciò non si potrà dire delle altre aree del paese, peraltro molto più vivaci e dinamiche. La missione dal punto di vista amministrativo andava a cadere sotto la giurisdizione del vescovado della Kamchatka, mentre in un anno dalla Russia sarebbero arrivati finanziamenti per 6000 rubli, utilizzabili anche per l’architettura sacra. Nel 1870 Nikolaij venne infine nominato archimandrita. Nello stesso anno, quando fu chiaro che la nuova politica avrebbe preso una precisa strada verso l’occidentalizzazione del paese, ritornò in Giappone. Durante la sua assenza l’azione missionaria dei neoconvertiti fu alquanto intensa e ricca di buoni risultati: in breve tempo, Sendai vide nascere una ricca comunità ortodossa intorno al circolo di Sawabe, e anche altri piccoli centri del Tōhoku furono interessati dalla loro azione missionaria. Nel dicembre 1871 giunge ad Hakodate dalla Russia un altro prete, Anatolij, all’arrivo del quale, Nikolaij partì per Tokyo, aprendo un altro grande capitolo per la storia dell’ortodossia in Giappone.

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Nakamura Kennosuke, Meiji no Nihon Harisutosukyōkai Nikolai no hōkokusho, Kyōbunkan, Tokyo 1993. 20 Kasatkin Nikolaij, Nikolai no mita bakumatsu nihon (trad. di Nakamura Kennosuke), Kōdansha, Tokyo 1979.


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Nikolaij a Tokyo, lo sviluppo della missione, la morte Il governo Meiji lentamente allentava, ma non eliminava, i divieti alle religioni imposti dal bakufu, tanto che nel 1872 ci fu un improvviso quanto inaspettato ritorno di severità contro i cristiani di tutte le fedi. Durante questa brevissima, e a tutt’oggi ultima “persecuzione” nel paese, furono imprigionati anche alcuni ortodossi giapponesi, tra i quali, naturalmente, Sawabe. Tuttavia il clima era sereno sotto il nuovo regime, e ormai evidente la diffusione dell’ortodossia del Tōhoku, Nikolaij tentò quindi la carta di Tokyo. Nel gennaio del 1872 partì per Yokohama, affidando la reggenza della sede di Hakodate al nuovo arrivato Anatolij. Giunto nella nuova capitale a febbraio, potè vedere direttamente i progressi delle altre confessioni cristiane, così come aveva fatto già a Yokohama. A Tokyo non ebbe subito vita facile: costretto a cambiare dimora diverse volte, alla fine trovò, nel quartiere di Irifune, un alloggio di fortuna e divise il tempo tra l’opera missionaria e le lezioni di russo. Un interessante trafiletto del 1872 apparso sul Tōkyō nichi nichi shinbun del 10 aprile, parla di lui e soprattutto del suo impegno nello studio dei classici del pensiero cinese al famosissimo shiba no zōjōji. Durante la opera di proselitismo casa per casa, trovò anche il luogo dove poter costruire la chiesa della capitale. Il luogo prescelto era a Surugadai, attuale Kandachō, ad Ochanomizu.21 Era una vecchia stazione dei pompieri usata fino alla fine del bakufu, in posizione alta per l’epoca. Nel 1872 Il terreno e la struttura furono comprati tramite dei prestanome, in quanto all’epoca vigeva il divieto di acquistare terreni da parte di stranieri, e fu subito costruita una scuola missionaria che in breve divenne il fulcro dell’ortodossia giapponese, attirando studenti da tutto il paese. Successivamente, grazie all’intervento diplomatico russo, il terreno fu rilevato dall’ambasciata russa che lo “prestò” alla chiesa e solo a metà degli anni ‘50 del ‘900 la proprietà passò definitivamente sotto la chiesa ortodossa giapponese. I lavori iniziarono nel 1884, grazie ai generosi fondi raccolti durante la permanenza in Russia e terminarono nel 1891. La cattedrale fu dedicata alla Resurrezione e si presentava come una chiesa a croce greca con un alto campanile davanti all’entrata, di chiara matrice russa. La cupola poggiava direttamente sul corpo dell’edificio. Fu progettata da Michael A. Shchurupov un architetto russo al momento in Giappone, in collaborazione con l’architetto britannico Josiah Conder, e costruita dalle maestranze di Nagasato Taisuke, e fu un landmark per molti anni, prima che il terremoto del Kantō22 e poi l’urbanizzazione della zona circostante la assorbissero. Alla cattedrale furono affiancati una biblioteca e un colleggio maschile e femminile, quest’ultimo di notevole importanza in quanto una delle poche istituzioni di istruzione per ragazze di matrice cristiana in Giappone. Questi anni furono cruciali anche per l’organizzazione gerarchica della diocesi: nel 21

Seraphim, Tōkyō fukkatsu daiseidō ga taterareta toki, Seikyō jihōsha, Tokyo 2002. Durante il terremoto andrà distrutta la biblioteca, e il campanile rovinerà sulla cupola, distruggendola. All’atto della ricostruzione, fu abbassato il campanile e la cupola fu poggiata su di un tamburo e rifatta in uno stile più marcatamente bizantino. Gli interni furono fortemente semplificati.

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1874 venne indetto il primo concilio della chiesa ortodossa giapponese, mentre ancora più importante fu il secondo concilio durante il quale il vescovo Pavel della Siberia orientale ordina sacerdote Sawabe e Sakai come diacono,23 realizzando così uno dei punti cardine del progetto di Nikolaij, cioè quello di creare una chiesa che fosse sempre più autosufficiente dal punto di vista pastorale. In questi stessi anni si organizzò anche il coro della cattedrale di Tokyo e venne creato un corpus di canti in giapponese24 su melodia russa.25 Nel 1880 fu fondata la scuola missionaria di Tokyo unificando i precedenti istituti di istruzione con la missione, e nello stesso anno Nikolaij fu ordinato finalmente vescovo di Revel, dell’arcidiocesi di Riga, e nel 1882 consacrò il suo primo sacerdote, curiosamente un cinese, da avviare alla diocesi di Beijing. Nel frattempo, nel 1881 era stata inviata in Russia la pittrice Yamashita Rin con l’intenzione di creare un atelier pittorico di icone.26 Nel 1891 l’ufficiale del ministero degli esteri Soejima27 contattò Nikolaij in quanto serviva un interprete per il principe imperiale Aleksander nella sua sfortunata visita in Giappone quando fu ferito al volto ad Otsu. Secondo Ushimaru fu per l’intercessione di Nikolaij presso il principe ferito che si evitò lo scontro armato con la Russia. Ad ogni modo, il prestigio di Nikolaij era incontestabile, e fu anche grazie al suo interessamento che il figlio di Soejima e un amico dell’imperatore Meiji fecero un viaggio di studio in Russia. Tuttavia lo scontro tra i due paesi era diventato inevitabile e durante la guerra del 1904-5 tra Russia e Giappone, i fedeli ortodossi furono visti con disprezzo e sospettati di essere spie russe. Nikolaij si astenne dalle funzioni in pubblico ritenendo disdicevole il fatto sia che un Russo pregasse per la sconfitta del proprio paese, sia che egli, a capo della chiesa ortodossa giapponese, pregasse per la sconfitta del suo paese adottivo, ma si rifiutò recisamente di lasciare il Giappone. Finita la guerra, in realtà, la chiesa ortodossa fu molto utile nei rapporti con il grande numero di prigionieri russi (70.000 uomini) caduti in mano giapponese. I vari sacerdoti e fedeli che avevano imparato il russo aiutarono i prigionieri e diedero loro assistenza spirituale, in modo che la loro condizione sfavorevole fosse alleviata. Questo fece sì che il prestigio della chiesa ortodossa fosse ripristinato ed anzi risultasse aumentato agli occhi del popolo e della politica. Nel 1906 lo ieromonaco Andronik diventa vescovo di Kyoto e vicario di Nikolaij, ma restò molto poco in sede per problemi di salute: due anni dopo è già stato sostituito da Sergij. Ma di tutte queste date, sicuramente la più importante è il 1907, quando Nikolaij divenne arcivescovo, creando, così, la diocesi indipendente nell’ambito del Patriarcato di Mosca della Chiesa del Giappone. Con il passare degli anni, tuttavia, la salute di Nikolaij peggiorò sempre di più, crollando nel 1910 quando gli fu diagnosticata una malattia cardiaca, tanto 23

In quanto archimandrita, Nikolaij non poteva ancora ordinare sacerdoti. Seikyo-Shinpo, pp. 318, 1894. 25 http://www.orthodox-jp.com/maria/English-index.htm (20/01/2012). 26 Nakamura Kennosuke, Senkyōshi Nikolai to Meiji Nihon, cit. 27 Aleksej Potapov, Meijiki Nihon no bunka ni okeru Tōhōseikyōkai no ichi oyobi eikyō, Nihon Harisutosuseikyōkaikyōdan, Tokyo 2004. 24


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che nel 1912 fu costretto al ricovero. Nonostante questo, dal letto continuò a lavorare su progetti editoriali quali la pubblicazione di traduzioni dal russo e dal cinese di testi religiosi e di notiziari. Terminati gli ultimi lavori urgenti, uscì dall’ospedale per tornare al suo alloggio. Qui scrisse ancora delle brevi note, l’ultima delle quali, “con animo tranquillo andate e fate il vostro lavoro. Anch’io in un posto tranquillo continuerò l’opera…”, è da considerare il suo testamento spirituale. La sera del 16 febbraio il suono delle campane ruppe il silenzio circostante e tutti quelli che conoscevano Nikolaij capirono quello che era successo. Il 22 febbraio si celebrarono i funerali in una chiesa affollatissima. Il funerale fu celebrato da Sergij,28 che divenne subito dopo il nuovo, e sfortunato, arcivescovo e che sarebbe stato a capo della chiesa fino al 1941. La sua sarà probabilmente la figura più tragica di tutta la storia dell’ortodossia in Giappone. Tra le numerose ghirlande, spiccò quella inviata personalmente dall’imperatore Meiji, che sarebbe scomparso pochi mesi dopo, un fatto eccezionale visto che di tutti i grandi personaggi stranieri che aveva conosciuto e che erano morti durante il suo lungo regno, solo a Nikolaij fu inviato un dono ufficiale.29 Con il titolo di eguale agli apostoli ed evangelizzatore del Giappone, Nikolaij viene canonizzato dal Patriarcato di Mosca nel 1970. Nikolaij e la sua attività di traduzione La Chiesa Ortodossa fin dalle origini ha sempre considerato fondamentale l’opera di traduzione nella lingua locale dei testi sacri e di uso liturgico, e la chiesa giapponese non si comportò diversamente. Già durante i primi anni Nikolaij si impegnò nella traduzione, ma una grossa accelerazione fu data al suo ritorno dalla Russia. Durante l’assenza di Nikolaij dal Giappone, Sawabe, Ono, Sasagawa e altri, essendo in larga parte ex samurai, usarono testi in kanbun, tra cui il Tōkyōshūkan – Dōngjiàozōngjiàn 東教宗鑑, “Lo specchio della religione orientale”, che è una traduzione dal russo di un semplice catechismo (1863). La Sacra Bibbia fu pubblicata nel 1865 a Shanghai, e presto divenne un oggetto prezioso anche per i Giapponesi, e fu utilizzata fino a che a Yokohama non fu pubblicata un’edizione in kanbun annotato, di più facile comprensione. In cinese fu pubblicata a Beijing (estate del 1866) una traduzione dal russo del Nuovo Testamento, in due volumi, con il nome di Shin’ishōseikei – xīnyízhàoshèngjīng, poi via via altre raccolte di scritti cristiani si sono aggiunte, e tutte pare siano state in possesso degli studiosi ortodossi giapponesi. Gran parte di questi testi furono pubblicati dalla missione russa di Beijing, all’epoca molto attiva e che annoverava tra le sue fila grandi nomi di missionari come gli archimandriti Joakin Bukhurin, Palladii Katharov e Gury Karpov. Le loro opere furono diffuse dall’Amur al Giappone, ed ebbero una forte influenza su Sawabe e la sua cerchia. Finalmente, 28

Ushimaro Yasuo, Kami no mi mune ni ikita gekidō no shimobetachi, Nihon harisutosu seikyōkai kyōdan, Tokyo 1987. 29 Pozneiev, Meiji nihon to Nikolaij daishukyō, cit.


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in concomitanza con il rigoglio della missione di Hakodate e Sendai, anche in Giappone vennero pubblicati testi sul cristianesimo: nel 1873 il Tōkyōshūkan, tradotto da Ivan Imada, ma pubblicato con il titolo di Kyō no kagami 教之鑑 da Ivan Ono e Satō, all’epoca residenti a Edo. Ancora, gli studiosi ortodossi ricopiavano i Vangeli dal cinese per farne testi di studio, così come gli appunti presi dalle conversazioni e gli insegnamenti di Nikolaij. Al suo ritorno in Giappone, Nikolaij portò con sé le matrici per la stampa di opuscoli e preghiere, e fu felice di vedere i progressi della comunità. Comprendendo poi l’importanza di avere dei testi tradotti, Nikolaij decise di approfondire lo studio dei classici cinesi, e fece giungere dalla regione di Sendai il grande studioso confuciano Naoyama Onji. Grazie a questa decisione di Nikolaij, gli studi ortodossi giapponesi presero una propria fisionomia. Intanto, Ono Shōgorō e altri decidono di imparare il russo per poter leggere i libri originali, mentre Nikolaij fece tradurre a Naoyama testi sacri dal cinese al giapponese. Ancora, con la formazione di Giapponesi che parlano russo, Nikolaij, con Ono e Naoyama, scrisse il dizionario Russo-Giapponese. Questo fu il primo dizionario di questo tipo, e sarebbe stato largamente in uso fino al 1881, quando il Ministero dell’Istruzione russo darà alle stampe uno proprio. Con il miglioramento delle tecniche, iniziarono ad essere stampate anche icone per uso privato familiare, e alcune di queste si possono ancora ammirare nelle chiese di Kurashiki, Shirakawa, etc. Nelle immagini degli Evangelisti, i Vangeli hanno i testi in cinese, un tipo di raffigurazione assolutamente inedita in Giappone. Il Nichizukyō 日図教 è invece un libro che contiene numerose preghiere e, essendo la prima opera di traduzione in giapponese, è diventato un classico anche per quanto riguarda il linguaggio specifico della teologia. Infine, proprio in questo periodo nasce il temine seikyōkai 正教会 scritto con i kanji attuali (prima era usato hijiri 聖 al posto di tadashii 正, una resa del vero significato di ortodossia del tutto inadeguato). Tra le traduzioni fatte da Nikolaij, ci sono anche le opere complete dei santi Giovanni Crisostomo, Cirillo, del siriano Isacco e dell’egiziano Macario.


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The Intoduction of Christian Orthodoxy in Japan and Saint Nikolaij The first known Japanese Orthodox was Denbei in XVIII century. When the Russians were granted a permit to build its consulate in Hakodate, it was during the late Edo period, and due to the law banning they had no opportunity to spread their faith. But everything changed with Nikolaij Kasatkin. He, with the fall of the bakufu, was able to start evangelizing. The first convert was a Shinto priest named Sawabe. The Church grew steadily, and in 1872 Nikolai came to Tokyo where he constructed the Holy Resurrection Cathedral. Many other churches were opened in the north, as well as in Osaka and Kyoto. He died in 1916. He was a very active evangelist who learnt Japanese in order to translate as many religious texts as he could.

After his death he was sainted by the Japanese and Russian churches. 日本における正教会の普及と聖ニコライについて

マルコ・デ・バッジス 一番最初の正教会の日本人はでんべい(漢字不明)でした。しかし、 本当の日本正教会の歴史はすでに幕末から始まっていました。幕末 に、函館にロシア領事館、領事館近くに小さな教会がそれぞれ建設さ れました。この教会では何人かの司祭を経て、聖ニコライが186 1年から司祭を勤めました。当時、幕府の命令により、キリスト教の 話は禁じられていましたが、聖ニコライは3人の日本人を洗礼しまし た。明治初期には、彼はロシアに戻って約2年間滞在し、日本の正教 会を全国に普及する為の資金及び教会や他の司祭達の援助が必要だと 大司祭に訴えました。その後、彼は日本の函館に戻り、東京へ行きま した。東京では大聖堂を建設以降、多くの日本人が入会しました。日 本における正教会の基礎を築きあげ、1912年に亡くなりました。


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Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?

Come alcuni di voi forse avranno riconosciuto, il titolo che ho scelto è un riferimento a un libro che diedi alle stampe nel 1987, Taking Japan Seriously, che nel 2000 venne pubblicato nella traduzione italiana con il titolo Bisogna prendere il Giappone sul serio. Dapprima qualche antefatto. Uno dei momenti più stimolanti della mia vita fu nel 1950, quando ero studente all’Università di Tokyo e facevo ricerche sul campo con un team di studenti post laurea giapponesi per valutare la possibilità che il tasso di nascite potesse diminuire. In quel momento in Giappone il tasso di nascite, che tutti allora consideravano disastrosamente alto, era di 35 nuove nascite ogni 1000 abitanti. Erano trascorsi cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ed eravamo all’inizio della guerra di Corea. Mi ricordo di un amico che era stato un giovane ufficiale di fanteria e che manifestava una considerevole soddisfazione nel vedere gli americani, gli Ame-chan, braccati lungo la penisola coreana per opera dei nordcoreani. Tuttavia l’interminabile discussione di tutte le sere ruotava attorno a una questione ben più seria e sofisticata. Che cos’era la vera democrazia? Il Giappone avrebbe potuto evitare di scivolare nel fascismo? e se sì, perché vi era comunque scivolato? Maruyama stava allora tenendo quelle lezioni che sarebbero diventate il suo libro in cui comparava la natura del fascismo tedesco e di quello giapponese, e alcuni suoi allievi facevano parte del nostro gruppo. Uno dei modi in cui la gente esprimeva il proprio sentimento politico consisteva nella parola che sceglieva per descrivere la data del 15 agosto del 1945. Gli ottimisti, che ritenevano che le cose sarebbero proseguite bene, lo chiamavano shusen no hi – “il giorno in cui la guerra è finita”, che era l’espressione standard utilizzata sui giornali. Gli altri, tuttavia, si ostinavano a chiamarlo hai sen no hi – “il giorno in cui abbiamo perso la guerra”. Alcuni di questi ultimi erano ardenti riformatori che volevano cogliere ogni occasione per ricordare all’esercito e ai nazionalisti che lo supportavano quale scempio avessero fatto del loro paese. Alcuni erano nazionalisti essi stessi, totalmente amareggiati dalla sconfitta, e speravano solo che la storia avrebbe dato loro una possibilità di rivincita. Utilizzavano il linguaggio della sconfitta come monito costante per l’umiliazione del Giappone e per la necessità di una rappresaglia che li vendicasse. Chiamiamo i primi shusen gumi, “gruppo dei centristi”; quelli


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invece tra gli haisen gumi che usavano la sconfitta come argomento in favore della pace e della democrazia, “gruppo dei riformatori” e “ gruppo dei nazionalisti” coloro per i quali “la sconfitta era un monito alla necessità di vendetta”. Avanziamo velocemente fino al 1979. C’era stato il decennio della crescita economica a due cifre, negli anni ’60, in concomitanza con le celebri Olimpiadi di Tokyo e con l’Esposizione Mondiale di Osaka e l’ammissione alle Nazioni Unite. Poi, negli anni ’70, una ragguardevole ripresa dallo shock petrolifero – una caduta dell’inflazione e una riduzione del rapporto tra l’utilizzo energetico e il prodotto nazionale loro (PNL) più veloce e con meno disagi sociali di qualsiasi altra nazione leader. Le esportazioni di automobili e di stabilimenti automobilistici crescevano regolarmente e incrementalmente grazie alla qualità delle auto più che al loro prezzo basso. Le frizioni commerciali con i sempre più agitati Stati Uniti erano oggetto di negoziazioni pazienti e senza fine. Fu alla fine degli anni ’70, proprio nel 1979, che Ezra Vogel, professore ad Harvard, pubblicò il suo Japan as Number One: Lesson for America, un libro che analizzava con ammirazione vari aspetti della società giapponese, la sua istruzione, la gentilezza verso il prossimo, la mancanza di crimine, la qualità della sua burocrazia, la politica industriale, l’organizzazione e l’innovazione tecnologica, ecc. Tutto era implicitamente o esplicitamente giudicato in confronto con gli Stati Uniti, a svantaggio di questi ultimi. Ero in genere ben disposto verso le tesi di Vogel, come scrissi in una recensione per il New York Times, tuttavia ero personalmente un po’ disturbato dal modo in cui il successo economico giapponese stesse attribuendo una crescente influenza in Giappone a coloro che ho appena etichettato come “i nazionalisti”. E conclusi la recensione scrivendo: “voglia Dio proteggere Vogel tanto dagli amici che si farà in Giappone quanto dai nemici che potrebbe farsi criticando l’America”. E infatti Japan azzu nannba wan (la traduzione del libro di Vogel, NdT) divenne un grande best seller in Giappone. Fu seguito negli anni ’80 da numerosi libri di professori di business school americane con titoli come The Art of Japanese Management, Zen and Japanese Management, Japanese Management: Tradition and Transition, Total Quality Control in Japanese Management, ecc. Molti dei quali venivano orgogliosamente tradotti in giapponese. Ogni business school americana doveva avere un corso in management giapponese. Negli Stati Uniti e in Europa, si stava sviluppando un fiorente movimento dei “Circoli Qualità” per imbrigliare con idee innovative i lavoratori. La stessa Fiat assoldò un team di consulenti giapponesi per farsi dire come riorganizzare il proprio sistema di produzione. Nella prima metà degli anni ’80 stavo lavorando in un istituto di ricerca a Londra denominato Technical Change Centre per fare alcuni studi sul campo nelle fabbriche britanniche e capire che cosa la Gran Bretagna avrebbe potuto imparare veramente dal Giappone. Bisogna prendere il Giappone sul serio è stato un prodotto di quegli anni: trattava cose diverse come l’addestramento industriale, la con-


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trattazione dei salari, la politica dei redditi, la corporate governance, la contabilità nazionale, i sistemi pensionistici, i contratti di subappalto, le regole del mercato azionario e così via. Il tema comune era questo: quanto ampie fossero le differenze tra Giappone e Gran Bretagna in materia di organizzazione istituzionale che potessero essere modificate per mezzo della legge o della prassi manageriale ed essere così facilmente trapiantate da una società all’altra. E fino a che punto fosse una questione di cultura, indole comportamentale, motivazione, carattere nazionale o - in qualunque modo la vogliate chiamare – quella dimensione in cui, per sommi capi, si può tracciare un contrasto tra una Gran Bretagna individualistica e un Giappone non individualistico. Il sottotitolo nella traduzione de Il Mulino era Un saggio sulla varietà dei capitalismi, ma nell’originale era Una prospettiva confuciana riguardante alcuni dibattiti economici. Iniziavo con la contrapposizione fra due visioni fondamentali della condizione umana: una, quella cristiana, prevalente nelle società dell’ottocento – quando la disciplina dell’economia politica è stata creata – che vede l’individuo gravato dal peccato originale. E l’altra, quella di Mencio, che vede l’uomo come un essere di originaria virtù, spesso peccatore, ma sempre capace di ritrovare la propria bontà. Due filosofie, e anche due ricette per l’organizzazione della società. Secondo l’una, la gente lavora solo per il proprio utile individuale. Se volete una società pacifica e prospera, limitatevi a creare delle istituzioni che funzionano in modo da mobilitare l’interesse individuale di ciascuno, e lasciate che la mano invisibile del mercato faccia tutto il resto. Proprio la ricetta applicata dalla Thatcher e da Reagan all’inizio degli anni ottanta. Come ha detto il poeta inglese-americano T.S. Eliot, loro cercavano di creare “una società così perfezionata che non c’è nessuna necessità di essere buoni”. Secondo l’altra ricetta, invece, i motivi per i quali la gente lavora, sono sempre misti. Oltre all’utile personale, c’è sempre la possibilità di invocare l’amicizia e la fratellanza, nonché la lealtà e il senso di appartenenza – alla propria comunità, alla propria impresa, alla propria nazione. Un esempio è quello che nelle fabbriche inglesi si chiama “suggestion schemes”, schemi per incentivare gli operai a fornire proposte ai manager per il miglioramento dei prodotti o dei processi. In Inghilterra le idee proposte vengono esaminate da un comitato di ingegneri che decidono se valga o meno la pena di adottarle. Se adottate, vengono calcolati il risparmio o il valore aggiunto da ottenere in un periodo di uno o due anni. L’impresa paga al lavoratore una percentuale, di solito la metà, di quella somma. Cioè l’impresa compra l’idea dall’operaio, visto come soggetto indipendente. In Giappone, non era così. Vi era una scala di premi. L’autore della nuova idea, otteneva un primo premio, un secondo, un terzo premio o una menzione d’onore. Se era un’innovazione brevettabile, diventava di proprietà dell’impresa. Il valore monetario dei premi era poco elevato, e di solito non ne rimaneva molto dopo aver fatto la festa obbligatoria, offrendo da bere a tutti i compagni di lavoro per celebrare


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l’onore ricevuto. Si ritiene che sia il riconoscimento da parte della comunità dei membri dell’impresa che costituisca in sé la ricompensa più importante. Ho detto “si ritiene”. Avrei dovuto dire “si riteneva”, perché il 1987 è già lontano. Il decennio degli anni ’90 ha cambiato il Giappone in modo più radicale di quanto abbia cambiato qualsiasi altro paese industriale, cambiamenti in particolare nella corporate governance e nel diritto del lavoro. Per rimanere nell’ambito degli schemi di incentivazione e delle invenzioni da parte dei dipendenti, una pietra miliare nella storia è stata nel gennaio del 2003 una sentenza del Tribunale Distrettuale di Tokyo. Ha imposto a Nichia, un’azienda relativamente piccola dello Shikoku, di pagare 20 miliardi di yen (circa 200 milioni di euro, poco meno del totale dei profitti dell’azienda nel periodo di sei anni 1995 - 2001) a un suo ex ricercatore, Nakamura Shuji, che in quel momento era professore all’Università della California, a Santa Barbara. L’invenzione di Nakamura era il Blue LED, un diodo emittente luce. Era un diplomato di un’università di provincia che si era impiegato nella piccola azienda dello Shikoku appena laureato. Il Blue LED era considerato da tutti un prodotto desiderabile, ma nessuno sapeva come farlo. Nel 1988, Nakamura decise di affrontare la sfida e l’azienda lo mandò per un anno all’Università della Florida a imparare una tecnologia particolarmente importante e gli acquistò il macchinario costoso che quella tecnologia richiedeva. Nel 1990 fece la sua scoperta e inventò un processo per produrre i diodi emittenti luce azzurra. La somma venne considerata il “giusto prezzo” (che la Legge sul Brevetto giapponese stabilisce debba essere pagato ai dipendenti) per la sua proprietà intellettuale. Tali diritti di proprietà egli li aveva trasferiti automaticamente, come si usa universalmente, al datore di lavoro, che rivendicò e ricevette la titolarità del brevetto, ma la legge utilizzò anche le parole tratte dal diritto dei brevetti anglosassone che prevede che l’azienda avrebbe dovuto pagare al dipendente il “giusto prezzo”. Il caso era andato avanti per qualche anno ed era stato dibattuto con particolare acredine. Nakamura era un laureato della Università di Tsukushima nello Shikoku, e era stato assunto nel 1979 al dipartimento ricerche della Nichia, un’azienda locale di circa 200 dipendenti produttrice soprattutto di illuminazione fluorescente. Undici anni dopo, nell’autunno del 1990 egli fece la sua scoperta. L’azienda immediatamente fece richiesta per il brevetto e, dopo qualche difficoltà e la riscrittura delle specifiche, questo venne registrato nel 1997. La società aveva una serie di regolamenti in base ai quali i dipendenti ricevevano un compenso per le loro invenzioni. Nakamura ricevette quanto gli era dovuto: 20.000 yen (circa 60 euro) nel momento in cui venne fatta la richiesta per il brevetto, e il corrispettivo di altri 60 euro quando venne registrato. Nel frattempo ulteriori lavori nei quali Nakamura ebbe parte, e ulteriori brevetti a tutela, portarono allo sviluppo di un processo di produzione di massa nel quale l’azienda investì pesantemente, riuscendo così a conquistare una quota importante di un mercato mondiale che si stava espandendo rapidamente. La fama di Nakamura e le sue relazioni americane evidentemente si ampliarono.


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Simultaneamente il suo senso di lealtà alla Nichia si attenuò, e nel 1999 partì alla volta della California. Sembrò a un certo punto che la Nichia stesse intentando, o pensasse di intentare, una causa contro di lui per violazione del segreto industriale, ma egli controdenunciò l’azienda, facendo causa per il “giusto prezzo” della sua idea. Poteva fare questo sulla base di una legge sui brevetti da lungo tempo promulgata, ma raramente applicata, che permetteva al giudice di fare direttamente i suoi calcoli, che in questo caso tennero conto degli extra profitti di lungo termine dell’azienda poi divisi per due. La sentenza non ebbe, nel complesso, il favore della stampa. Molti manager del settore Ricerca e Sviluppo manifestarono il loro allarme per il precedente che si era creato. Come si può fare uno sviluppo razionale della Ricerca e Sviluppo se hai sempre in agguato sullo sfondo la possibilità che dieci anni dopo potresti dover pagare a qualche dipendente scontento milioni di yen? Il presidente dell’Associazione dei Dirigenti Industriali disse che l’episodio avrebbe potuto avere un effetto rovinoso sulla competitività giapponese.1 Il presidente di Honda a sua volta la ritenne una sentenza bizzarra, ma aggiunse che, per quanto gli incentivi materiali per i ricercatori non fossero una brutta cosa, non riusciva a immaginare che razza di azienda avrebbe offerto degli irrisori 120 euro.2 I membri dei dipartimenti di ricerca aziendale che si sentivano poco apprezzati furono rincuorati dalla sentenza, e durante un simposio un professore dell’Università di Tokyo rilevò come nell’industria le retribuzioni complessive di una vita di lavoro dei laureati in scienze e in ingegneria fossero di gran lunga al di sotto di quelle dei laureati in arte e scienze sociali, e che sarebbe stata una buona cosa se si fosse provveduto a ristabilire l’equilibrio.3 Ma naturalmente la controversia si spense presto, e oggi il sistema di compensazione per gli inventori non è molto diverso da quello che regola la materia negli Stati Uniti e in Europa. Un sintomo che il Giappone è diventato (a) una società molto più individualistica e (b) una società nella quale il motivo del profitto è più forte. Un’altra statistica: con tutti i cambiamenti nella corporate governance sopravvenuti durante gli anni ’90, il sistema dei salari nelle società giapponesi è cambiato in molti modi, con gli stipendi mensili meno legati all’anzianità e più alle prestazioni. Ma una cosa che è rimasta costante è che, in aggiunta ai loro stipendi mensili, la maggior parte dei dipendenti riceve un bonus annuale di un importo compreso tra una volta e mezza e quattro volte il salario stesso, a seconda di quanto stia andando bene l’azienda. Gli amministratori ricevono a loro volta un bonus calcolato non come costo - come i bonus dei dipendenti – ma come porzione dei profitti della società al netto delle tasse. Ma nonostante questa differenza formale, per un quarto di secolo, dal periodo successivo alla crisi petrolifera fino al 1999, nelle grandissime società con un capitale 1

Nihon Keizai Shinbun, 3 febbraio 2004. Nihon Keizai Shinbun, 4 febbraio 2004. 3 Shokuin hatsumei kitei kaiseian ni nokoru gimon, (Proposta per la revisione della legge relativa alle invenzioni dei dipendenti: dubbi rimanenti) http.chizai.nikkeibp.co.jp/chizai/gov/20040223.html. 2


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sopra il miliardo di yen, il reddito complessivo degli amministratori – stipendio più bonus – era coerentemente appena sopra o sotto il doppio di quanto percepito dai loro dipendenti. In altri termini, i dati riflettevano la concezione che i top manager avevano dell’azienda come una comunità stabile, con uno stabile rapporto di equi compensi dipendenti dalla posizione gerarchica occupata. Tuttavia quel vincolo sulle decisioni dei manager su quanto pagare se stessi oggi non è più così stringente come era una volta. Nel 2005, appena prima di una delle ultime crisi, un amministratore percepiva in media quattro volte il compenso medio di un dipendente. Molto lontano dalle 800 – 900 volte di molte aziende americane, ma su quella strada. Permettetemi di elencare, più o meno a caso, alcune delle altre differenze tra il Giappone nel 1990 e il Giappone oggi. Il sistema educativo era qualcosa di cui la nazione era orgogliosa nel 1990. A parte avere dei buoni punteggi nei test di profitto internazionali, era ancora ritenuto quello di un paese che aveva un alto livello di uguaglianza di opportunità di istruzione. Seppure non più con una percentuale così alta come nel 1970, ancora nel 1990 almeno la metà degli studenti che superavano gli esami di ingresso alle migliori università nazionali venivano dalle scuole superiori pubbliche. L’anno scorso la percentuale di questi studenti che sono entrati in quella che è riconosciuta essere la migliore università, l’Università di Tokyo, era un mero 7%.4 Torniamo alla politica. è una strana coincidenza che, fra gli scienziati della politica, nel 1990 Italia e Giappone fossero noti come esempi primari di “sistemi a un partito e mezzo”. E una coincidenza altrettanto strana è che quelli che erano stati sistemi stabili per un quarto di secolo, fino alla fine della guerra fredda, in entrambi i paesi crollarono nel 1992. In Italia avvenne a causa dell’implosione del Partito Comunista e di tangentopoli; in Giappone come risultato delle ambizioni personali disgregatrici di un politico particolare, Ozawa, che sembrava finalmente aver perso la sua influenza personale sulla politica giapponese nelle elezioni del Partito democratico due settimane fa,5 ma che ha fatto un impressionante ritorno mettendo due suoi uomini al controllo dei fondi del partito e delle nomine elettorali. Nel Giappone di prima del 1990, il partito e mezzo – cioè i liberaldemocratici, LDP, con un più o meno stabile 60% dei voti, e i due partiti socialisti con circa un terzo – da lungo tempo avevano stabilito un patto in cui evitavano un confronto violento in parlamento come quello che aveva avuto luogo negli anni ’60. La promulgazione delle nuove leggi (come in ogni altro paese industriale, sempre più nuove leggi ogni anno rispetto a quello precedente) veniva effettuata attraverso negoziazioni nascoste istituzionalizzate che enfatizzavano il compromesso e la moderazione. Il LDP era, naturalmente, il partito del mondo degli affari, ma evitava una produzione legislativa che avrebbe infastidito troppo i sindacati, che erano la risorsa chiave del potere elettorale dei socialisti. 4

Devo al Prof. Takehiko Kariya questa stima dei dati del 1990, e a Wikipedia e al Sunday Mainichi i dati relativi al 2009. 5 Settembre 2011, n.d.c.


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Oggi il Giappone ha un sistema a due partiti. I politologi locali sono orgogliosi di questo fatto. Ammiratori della democrazia anglosassone hanno cercato per molti anni di porla in essere. Fortunatamente per il Giappone, i due partiti non sono così ideologicamente differenti, o brutalmente conflittuali come i Democratici e i Repubblicani negli Stati Uniti. Il problema è l’opposto, i due partiti sono in incessante competizione per il potere, ma, molto più che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ideologicamente più o meno identicamente eterogenei. Un leader politico del DPJ, ad esempio, Maehara, che sarebbe diventato primo ministro se il disgregatore Ozawa, che ho menzionato sopra, non avesse condizionato le elezioni, è, in politica economica, in politica estera e per istinto politico generale, ben più a destra del leader del LDP Tanigaki. Ci sono ancora residui, all’interno del partito di governo, il DPJ, dei socialisti che si unirono ad esso un decennio fa e che mantengono qualche relazione con il Rengo, l’impotente sindacato nazionale. Tuttavia essi hanno sulla politica un’influenza rapidamente decrescente. Passiamo ai media. Ci sono ancora, come nel 1990, gli stessi quattro quotidiani nazionali con tirature in milioni, l’Asahi, il Mainichi, il Nikkei e lo Yomiuri. Nel 1990 avevano caratteristiche politiche distintive, con l’Asahi e il Mainichi scettici sul valore del Trattato sulla sicurezza Stati Uniti-Giappone, e il Nikkei e lo Yomiuri entusiasticamente in suo favore; con l’Asahi e il Mainichi custodi degli ideali di uguaglianza delle opportunità educative del dopoguerra, e lo Yomiuri e il Nikkei, preoccupati principalmente di massimizzare il contributo delle scuole in funzione della supremazia economica del Giappone. I primi due facendo la voce grossa per il contenimento del bilancio della difesa all’uno per cento del PIL, gli altri invocando il riarmo. Oggi tutti parlano invece con la stessa voce neoliberale, con l’eccezione occasionale del Mainichi, invocano più deregolamentazione, un governo più ridotto, e sono tutti parimenti terrorizzati dalla Cina e invocano relazioni per la difesa più strette con l’America. Tuttavia, se la la convergenza ha i suoi meriti, suppongo stia nel fatto che tutti hanno colorati supplementi domenicali. La ricchezza, in questo caso, sono sicuro, non è stata nemica del buon gusto. Gli articoli sugli anime, i film, la musica digitale, la cucina francese e sugli ultimi ritrovamenti archeologici sono di raffinatezza molto maggiore rispetto a quanto erano soliti essere un tempo e di pari valore culturale, comunque lo si misuri. E sull’Asahi del lunedì si può ancora trovare la gara di poesia waka, di cui Ishikawa Takuboku è stato il giudice iniziatore proprio 101 anni fa.6 E c’è ancora la soap opera per famiglie tutte le mattine sulla NHK, una rappresentazione di teatro nō recitata alla domenica mattina, e un opulento sceneggiato storico la domenica sera. Non ho visto molti film, ma ricordo che il bambino innocente che ho dentro di me si è enormemente divertito e meravigliato con To6

Devo a Suzuki Fujikazu queste e altre informazioni sui media giapponesi, e negli anni molte altre informazioni rivelatrici.


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nari no Totoro e con Sen to Chihiro no Kamikakushi di Miyazaki. Ma ricordo anche alcuni film orribili e gratuitamente violenti di Beat Takeshi, e recentemente ho fatto l’esperienza di concedere un’intervista per un cosiddetto programma-dibattito del quale era il presentatore, montata in modo scandalosamente disonesto.7 Ma prima che continui a esporre i miei rancori e mal informati pregiudizi letterari e mi lanci in paragoni tra – per dire – i racconti realistici sulla società del dopoguerra di Ishikawa e le eroine nevrotiche di Murakami Haruki, fatemi tornare al mondo dell’economia che conosco un pochino di più. Nel 1990 il Giappone era ancora generalmente conosciuto come il paese dell’impiego a vita. Shushin koyō. Ogni generazione che usciva dalla scuola superiore o dall’università faceva a gara per entrare nella migliore azienda o nel migliore dipartimento possibile all’interno del governo, dai più brillanti laureati dell’Università di Tokyo che competevano per entrare al Ministero delle Finanze o alla Mitsubishi, ai non così brillanti laureati delle università di provincia, come quel Nakamura che ho menzionato prima, che competevano per entrare nelle migliori piccole aziende locali, ai diplomati delle scuole superiori che puntavano ai migliori impieghi come operai nelle grandi compagnie. L’ottanta percento di loro ce la faceva. Trovavano lavori che promettevano sicurezza, una retribuzione lentamente crescente e una buona pensione. Molti di loro lasciavano il loro primo impiego nei primissimi anni, ma trovavano lavori migliori e altrettanto sicuri. La maggior parte delle persone aveva una varietà di opportunità prima di impegnarsi a diventare membro a vita di una particolare azienda. Meno del venti percento della popolazione era occupata in lavori temporanei o a tempo determinato e molti di loro erano persone che non volevano lavori da dipendente, che preferivano la libertà alla sicurezza. Oggi, al contrario, la sicurezza sembra essere quello che ognuno vuole, ma che molti non possono ottenere. Il precariato rappresenta un terzo della forza lavoro e una larga percentuale di esso è costituito da persone deluse che hanno provato a ottenere un lavoro permanente, ma hanno fallito. Il problema del hiseiki, come il precariato viene chiamato, è largamente ritenuto un problema sociale serio. Quel che lo rende ancora più serio è il fatto che viene riconosciuto come problema e che viene molto discusso. In questo modo un terzo dei giovani si sente stigmatizzato come fallito, mentre nel 1990 il venti percento di coloro che non avevano lavori permanenti non si sentiva mai particolarmente stigmatizzato. Temo di annoiarvi con le mie geremiadi, pertanto lasciatemi provare per un momento a fare lo studioso piuttosto che l’editorialista da giornale, e chiedermi perché tutti questi cambiamenti hanno avuto luogo. Un’ovvia parte della risposta è che si tratti di uno straripamento della rivoluzione neoliberale che è dilagata in America e Gran Bretagna, i cuori del capitalismo anglosassone, dai giorni di Reagan e della Thatcher. I meccanismi principali di trasmissione erano stati le business school e i 7

Nippon Terebi, 21 febbraio 2011.


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dipartimenti post laurea di economia e scienze politiche delle università americane. Centinaia, probabilmente migliaia, di giapponesi erano stati spediti negli anni ’60 e ’70 a prendersi diplomi americani. Entro il 1990 i ministeri o le grandi compagnie che avevano pagato per la loro istruzione all’estero, li stavano nominando a posizioni decisionali potenti nelle loro aziende, nei dipartimenti all’interno del governo e nelle università. Nei dipartimenti di economia delle università giapponesi questi economisti formatisi in America rimpiazzarono i marxisti che avevano dominato nelle università nell’immediato dopoguerra, e cominciarono a produrre in proprio i loro economisti fautori del libero mercato. Matsushita, il famoso produttore degli articoli Panasonic, creò nel 1979 il suo Matsushita Seikeijuku, l’Istituto Matsushita di Governo e Management, e cominciò a formare politici orientati al libero mercato. Venticinque dei suoi diplomati sono attualmente membri del partito di governo nella Dieta, compresi il primo ministro e Maehara che ho menzionato prima per essere ben più a destra del leader dell’opposizione conservatrice. L’effetto di questi processi di trasmissione ideologica, o di americanizzazione se vi piace chiamarla così (perché Gran Bretagna, Australia o Canada, gli altri paesi principali del capitalismo anglosassone, avevano molto poco a che fare con essa) furono molto più profondi che in Italia, Germania o Francia. Una ragione va ricercata nel contesto internazionale. Al fine di liberarli dell’occupazione americana attraverso il Trattato di Pace di San Francisco del 1951, i giapponesi erano stati messi sotto pressione per firmare contemporaneamente un trattato sulla sicurezza che consentiva agli americani di continuare a occupare Okinawa e anche di mantenere proprie basi militari in Giappone. Essi avevano cooperato militarmente con gli Stati Uniti negli anni ’50 con qualche riluttanza, successivamente sostituita da un entusiasmo crescente dal momento che l’accordo originario di affitto delle basi venne trasformato in un’alleanza, vista come un mezzo essenziale di difesa, per un Giappone non dotato di armi nucleari, contro l’Unione Sovietica. Oggi, gli obiettivi di difesa comuni sono naturalmente contro la Cina anziché contro la Russia. Il Giappone con la sua enorme superiorità tecnologica ha sfruttato estremamente bene le fasi iniziali dell’industrializzazione in Cina, con joint venture e investimenti in fabbriche interamente di sua proprietà che si avvantaggiarono del costo del lavoro cinese molto più basso. Ora che la Cina sta recuperando sotto il profilo tecnologico a un tasso molto più veloce di quanto il Giappone abbia fatto negli anni sessanta e settanta, è molto meno riconoscente per gli investimenti e il know how giapponesi. E in Cina gli stipendi stanno crescendo rapidamente. Inoltre è ovvio che la Cina, non il Giappone, sarà economicamente e diplomaticamente la nazione più potente in Asia, e quasi altrettanto ovvio che sarà anche militarmente la potenza dominante. Appena due settimane fa, un politologo di Princeton in un controeditoriale apparso sul New York Times, avvertiva che, a meno che l’America non aumenti, invece di tagliare, le spese per la difesa, incorrerà nell’ovvio pericolo di perdere il controllo del Pacifico occidentale. Perderebbe in tal modo la fiducia dei suoi alleati nell’area, perché diventerebbe incapace di difenderli. Suona come un argomento che sarebbe


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attraente per i repubblicani sciovinisti, ma non abbastanza da convertire i membri del Tea Party in sostenitori di maggiore deficit e di tasse più alte. Come andrà a finire la relazione triangolare Stati Uniti-Giappone-Cina è troppo presto per dirlo, ma un fattore che non può essere escluso nel lungo periodo è la comune eredità confuciana che Cina, Giappone e Corea condividono. Fatemi raccontare solo un episodio che mi si è fissato nella mente a proposito dell’ultimo primo ministro giapponese che aveva la possibilità di sviluppare con i leader cinesi un tipo di relazione personale che ricordasse in fiducia e franchezza la relazione personale tra Berlusconi e Putin o, per dire, tra la Merkel e Sarkozy, Fukuda. Quando visitò la Cina nel 2007, andò al luogo natale di Confucio. Le fotografie lo immortalarono mentre mostrava uno striscione che aveva vergato nella sua calligrafia piuttosto rispettabile con una quasi citazione dai Dialoghi di Confucio. L’aforisma originale era “Promuovi la tradizione e comprendi il nuovo”. Fukuda sostituì “comprendi” con “crea”. Egli infatti creò molte cose durante quella visita, comprese le premesse per un accordo per l’esplorazione congiunta dei giacimenti di petrolio sotto il mare dove le acque territoriali di Giappone e Cina si incontrano. Se non avesse dovuto abbandonare dopo un anno il ruolo di primo ministro, le recenti discordie sulle isole Senkaku non avrebbero mai raggiunto la dimensione che hanno avuto. Ma l’accordo è stato abbandonato dal suo successore sciovinista che molto semplicemente ha adottato la visione americana secondo la quale “la crescita della Cina” è una minaccia per l’Occidente. Credo sia ora di spiegare che cosa volessi dire con quell’“ancora” nel mio titolo. Un significato è sfortunato. Nel 1990, prendere il Giappone seriamente significava imparare dalle ammirevoli caratteristiche della società giapponese. Oggi significa, più probabilmente, non fare quel che ha fatto il Giappone. Imparare da quelli che ora sono visti come gli errori in politica economica del Giappone nel lasciare che la deflazione si radicasse, nel permettere alla domanda di contrarsi, alla disoccupazione di crescere e alla crescita economica di stagnare o di arretrare. Il New York Times di una settimana fa8 iniziava così il suo commento economico: “Giapponizzazione” è in breve il trascinarsi verso il mix malsano di bassa crescita e debito alto di quel paese. L’ultimo numero dell’Ekonomisuto del Mainichi ha intitolato la sua copertina “Iyo iyo hajimatta Beikoku no nihonka”. 9

Il Giappone è diventato quello che i giapponesi chiamano hannmen kyoshi. Purtroppo sembra che nessun governo al mondo stia prendendo a cuore quella lezione, sono tutti troppo occupati a tentare di calmare i mercati obbligazionari parlando di riduzione del deficit e del debito. Hannmen kyoshi in un senso forse, ma anche zenmen kyoshi, nella misura in cui ci dà lezioni su come minimizzare le conseguenze sociali negative derivanti dal seguire 8

Alan Wheatley, “Time to act to rescue the euro zone”, International Herald Tribune, 6 settembre 2011. 9 Ekonomisuto, 6 settembre 2011.


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queste politiche e dall’aver creato tale depressione economica. La disuguaglianza è infatti cresciuta in Giappone come ho descritto. Ma in confronto con gli Stati Uniti o con la Gran Bretagna, i redditi più alti non sono schizzati via dalla mediana come hanno fatto nei paesi anglosassoni. Il Giappone ha tenuto la disoccupazione attorno al cinque percento perfino nel momento più profondo della recessione dei tardi anni ’90 e degli ultimi tre anni. E questo in gran parte a causa di una umana riluttanza a licenziare i dipendenti perfino dopo che il loro lavoro era diventato non più necessario a causa della caduta della domanda. Ho citato precedentemente i dati per il 2005, quando il rapporto tra i redditi dei top manager e quello dei dipendenti ordinari è raddoppiato. Ma dal 2005, con l’insorgere della crisi economica, il rapporto è sceso nuovamente. In altre parole, i top manager stavano apportando tagli ai loro compensi e ai bonus più cospicui di quelli dei dipendenti – nuovamente un evidente contrasto con gli Stati Uniti dove il gap dirigente/dipendente è andato sempre ampliandosi anche grazie al salvataggio da parte del governo, delle grandi banche e della General Motors. Ma quel che ha portato il Giappone sulle prime pagine dei nostri giornali quest’anno è, naturalmente, il terremoto, il terribile tsunami e gli eventi successivi. Una volta ancora il popolo giapponese ha mostrato la sua forza nell’affrontare le avversità. è molto difficile valutare la risposta burocratica e politica, perché i resoconti sono stati distorti dalla caccia al capro espiatorio, i politici biasimando le compagnie energetiche, le compagnie energetiche biasimando i burocrati e i giornalisti biasimando chiunque, ma la mia impressione è che quel disastro nucleare sia stato gestito nell’unico modo possibile. Per quanto riguarda il fatto se sia stato un errore all’origine costruire delle barriere antitsunami alte solo 11 metri, quando alcuni archeologi sostengono che un migliaio di anni fa, nel periodo Nara, ci fu uno tsunami di 13 metri, (ebbene) nessuna società può vivere senza accettare qualche rischio. Ma la cosa più impressionante riguardante il disastro, è stato il modo in cui le persone normali hanno cercato di aiutarsi l’una con l’altra, sia la preoccupazione per il prossimo che hanno mostrato sia la loro efficienza nel canalizzarla. Ho ricevuto un e-mail da un amico che descriveva come la gente nei centri per i rifugiati non stesse aspettando passivamente gli aiuti ufficiali, ma creasse le proprie organizzazioni autonome e si dividesse il lavoro necessario per rendere le loro vite più vivibili, ed egli ha così commentato “il senso di comunità, che sembrava essersi così attenuato dopo trent’anni di neoliberalismo, sembra essere rinato”. Se appunto dobbiamo pensare seriamente a qualcosa che c’è in Giappone che dovremmo cercare di emulare, mi sembra che sia questo. Come costruire istituzioni che lavorino per dare alla gente un senso di appartenenza a una comunità densa di significato, e come fare in modo che esse sentano la responsabilità verso i loro concittadini e verso loro stesse. [Traduzione di Luca B. Fornaroli]


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Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?

Should We Still Take Japan Seriously? Twenty years ago il Mulino published my Bisogna prendere il Giappone sul serio? [Taking Japan Seriously]. Everybody, from Fiat to the government of Malaysia talked about “learning from Japan”. Today, the only thing people want to learn from Japan is: how to avoid the mistakes Japan made that got it into twenty years of deflationary stagnation? But what those mistakes actually were is hotly in dispute. I offer my version.

今なお日本を真剣に 受け止めるべきか。 ロナルド・ドーア 20年前ムリノ出版から私の著書「Bisogna prendere il Giappone sul serio?(日本を真剣に受け止めるべきか。)」が刊行された。かつて フィアットからマレーシア政府まで誰もが「日本から学ぶ」ことを意識 していた。だが現在、人々が日本から学ぼうとしているのは唯一、日 本を20年間に渡るデフレ不況に導いた同国が犯した失敗をいかにして 避けるか、である。しかしながら、実際のところ日本の犯した過ちと は何であったかについてはいまだ論争が続いている。それについて私 の見解を述べたい。


Sonia Favi

Opere relative al Giappone nel Fondo a stampa antico della Biblioteca Nazionale Marciana

La Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, con i suoi 13.117 manoscritti in volume, 4639 manoscritti non legati, 2887 incunaboli e 24.060 cinquecentine, conserva uno fra i maggiori patrimoni librari antichi del territorio italiano.1 Tale patrimonio include una ricca varietà di fonti, dirette ed indirette, sull’Asia, in cui trovano spazio materiali di carattere storico, geografico, religioso, etnografico e linguistico, legati al Giappone. I suddetti materiali furono acquisiti dalla biblioteca nell’arco di cinque secoli, attraverso le diverse circostanze che contribuirono alla crescita delle sue consistenze.2 Un primo fattore fu la Legge sul diritto di stampa, promulgata l’11 maggio 1603 dal Senato Veneto, la quale stabiliva che, per ogni libro pubblicato sul territorio della Repubblica, un esemplare venisse depositato, in rilegatura di pergamena, presso la biblioteca.3 Un secondo contributo venne dall’incorporazione di biblioteche private situate sul territorio della Repubblica e, dopo la caduta di quest’ultima nel 1797, dall’acquisizione di parte delle collezioni degli ordini religiosi soppressi durante l’era napoleonica. Fra queste, la biblioteca dei Domenicani della Chiesa dei Gesuati alle Zattere (che includeva una ampia porzione della collezione libraria del letterato 1

I dati citati riguardo al patrimonio librario sono disponibili presso il sito istituzionale della Biblioteca Nazionale Marciana, alla seguente pagina: http://marciana.venezia.sbn.it/internal.php?codice=769 (25/01/2012). Il criterio convenzionalmente applicato dalla Biblioteca Marciana per discriminare le proprie consistenze antiche da quelle moderne, seguito anche nel presente articolo, è di carattere strettamente cronologico: viene catalogata come antica qualsiasi opera antecedente al 1851. 2 Il nucleo originario della biblioteca fu il lascito del Cardinale Giovanni Bessarione: 885 codici (548 greci e 337 latini) e 27 incunaboli, che vennero donati alla Città di Venezia il 31 Maggio 1468, per essere posti a disposizione della popolazione. La biblioteca, che aprì ufficialmente i battenti nel 1560, venne immediatamente concepita come Pubblica Libreria della Repubblica di Venezia, il che diede forte impulso alla sua crescita. Per una trattazione approfondita della storia della biblioteca, si rimanda a Marino Zorzi, La Libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Mondadori, Milano 1987. 3 Una simile disposizione non era mai stata posta in atto, prima, in uno Stato italiano, e non avrebbe trovato paralleli in nessun altro territorio della penisola, sino al Diciannovesimo secolo. A Venezia, seppur non sempre applicato con rigore, il provvedimento rimase in vigore fino al 1866, per poi essere temporaneamente annullato, e ripristinato in via definitiva dallo Stato italiano solo a partire dal 1910. Zorzi, La Libreria di San Marco, cit., p. 207.


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veneziano Apostolo Zeno)4 e parte dei materiali conservati presso la biblioteca di S. Michele di Murano, fra cui il Mappamondo di Fra’ Mauro (1459), la più antica carta geografica europea ad includere una raffigurazione del Giappone. Un terzo fattore furono le donazioni di privati. Fra di esse, la più significativa fu certamente quella del linguista Emilio Teza (1831-1912). Studioso e docente di fama internazionale, attivo nelle università di Bologna, Pisa e Padova, Teza coltivò nei suoi anni di attività accademica interessi variegati, muovendo dalla filologia greca, alla russologia, agli studi sull’Asia Orientale. Tali interessi lo portarono ad accumulare una ampia raccolta di testi, circa trentamila opere fra volumi ed opuscoli, che spaziavano dalla glottologia, alla filologia, alla storia delle civiltà orientali, agli studi di letteratura. Nel 1911, lo studioso dispose che la Biblioteca Marciana ricevesse in lascito tale collezione, e così avvenne l’anno successivo, dopo la sua morte.5 I materiali relativi al Giappone, così variamente entrati a far parte del patrimonio della biblioteca, non risultano di conseguenza organizzati in una singola collezione, ma distribuiti fra differenti fondi, in accordo con le differenti circostanze e tempistiche della loro acquisizione. Lo scopo del presente articolo è quello di presentarli in modo organico: si illustreranno le diverse tipologie di materiali esistenti, si fornirà per ognuna un numero di esempi significativi e si ragionerà sul loro valore in quanto fonti, in un’ottica testuale-contenutistica e al contempo bibliografica.6 Il gruppo di gran lunga più ricco, fra le opere relative al Giappone conservate nel fondo antico della Biblioteca Nazionale Marciana, è quello delle fonti datate dalla seconda metà del Sedicesimo secolo alla prima metà del Diciassettesimo secolo. Si tratta delle opere prodotte nel contesto del primo incontro culturale fra Europa e Giappone, promosso dai missionari cristiani che vissero e operarono sull’arcipelago a partire dallo sbarco di Francesco Saverio a Kagoshima, il 15 agosto 1549. Le più antiche opere europee a includere menzione del Giappone, in effetti, precedono tale data. Già Il milione di Marco Polo faceva riferimento all’arcipelago, nominandolo “Cipangu” e dipingendolo come una sorta di terra dell’oro.7 E riferimenti più frequenti iniziarono a comparire sia nella letteratura di viaggio che in 4

La raccolta comprendeva una ricca collezione di materiali cartografici, fra cui un’edizione del 1603 dell’atlante di Abraham Ortelius, di cui si tratterà in seguito. 5 Zorzi, La Libreria di San Marco, cit., pp. 387-389 e pp. 401-402. 6 Lo scopo dell’articolo sarà limitato alle fonti a stampa. Per un’analisi dei materiali manoscritti, si rimanda ad Amalia Pezzali, “Il fondo orientale della Biblioteca Nazionale Marciana”, Miscellanea marciana di studi bessarionei, Antenore, Padova 1976, pp. 469-510. 7 Né Polo né le altre fonti europee antecedenti la metà del Sedicesimo secolo sono tuttavia chiare riguardo alla posizione dell’arcipelago. Per una trattazione più specifica delle più antiche fonti europee relative al Giappone si rimanda a Donald Lach, Asia in the making of Europe, Volume I: The Century of Discovery, The University of Chicago Press, Chicago 1965.


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quella di carattere storico-geografico della prima metà del Sedicesimo secolo, quando cioè i mercanti Portoghesi iniziarono a solcare i mari dell’Asia Orientale, dopo che la stipula del Trattato di Tordesillas assegnò l’area all’influenza della corona portoghese. Si tende a concordare sul 1543 come data del primo sbarco di mercanti portoghesi in territorio giapponese,8 ma è più che probabile che viaggiatori europei avessero avuto modo di incontrare nativi giapponesi in diverse località dell’Asia anche in precedenza, e che non solo avessero localizzato geograficamente il Giappone, identificandolo con il “Cipangu” di Marco Polo, ma avessero accumulato una quantità ragguardevole di notizie indirette riguardo all’arcipelago. La Biblioteca Nazionale Marciana conserva alcuni titoli rappresentativi di questo genere di fonte antica. Ad esempio, l’Isolario di Benedetto Bordoni,9 testo che si propone di presentare tutti i paesi insulari conosciuti. L’opera include, nella parte dedicata a quello che viene definito “Mare Orientale”, una descrizione in tre pagine del Giappone. L’autore, con evidente richiamo a Marco Polo, identifica l’arcipelago come Cimpagu e pone l’accento sulla sua ricchezza, ma ne traccia anche posizione geografica e dimensioni, includendo menzione dei due falliti tentativi di invasione da parte dei Mongoli. Sia il numero dei materiali circolati in Europa in questa fase che la quantità e la qualità delle informazioni che questi recano sono, tuttavia, inferiori rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare nel contesto storico in cui furono prodotti. È probabile, come rilevato da Donald Lach,10 che molte informazioni non venissero divulgate nelle opere messe a stampa in Europa in conseguenza di una deliberata politica, da parte della corona portoghese, volta limitare la fuga di informazioni verso possibili concorrenti commerciali. A metà del Sedicesimo secolo, tuttavia, il monopolio commerciale portoghese in Asia Orientale aveva ormai preso a vacillare. I mercanti portoghesi non contribuirono mai significativamente alla diffusione di notizie sul Giappone in Europa, ma l’allentarsi delle limitazioni alla circolazione delle informazioni rese possibile ai missionari gesuiti, una volta giunti sull’arcipelago giapponese, la divulgazione di notizie sulla loro missione. La maggioranza dei materiali conservati presso la Biblioteca Marciana per il periodo che va dalla metà del Sedicesimo alla metà del Diciassettesimo secolo consiste

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Per un elenco delle ragioni che rendono improbabile un precedente avvicinamento delle navi portoghesi alle coste giapponesi, si rimanda a Derek Massarella, A world elsewhere. Europe’s Encounter with Japan in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, Yale University Press, New Haven-London 1990, pp. 15-24. 9 Benedetto Bordoni, Isolario di Benedetto Bordone, nel qual si ragiona di tutte l’isole del mondo, con li lor nomi antichi et moderni, historie, fauole, et modi del loro viuere, et in qual parte del mare stanno, et in qual parallelo at clima giaciono. Con la gionta del Monte del Oro nuouamente ritrouato, Venezia, 1534. 10 Lach, Asia in the making of Europe, cit., pp. 151-154.


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in effetti in edizioni a stampa di lettere e resoconti di natura ufficiale, compilati dai missionari gesuiti di stanza in Giappone. Le missive, giunte in Europa attraverso un sistema di corrispondenza istituzionalizzato, che garantì un flusso senza precedenti di notizie dall’Asia, erano concepite per essere fatte circolare, in forma manoscritta, nei vari collegi gesuiti d’Europa, come fonti di informazione sulla missione e guida per i futuri missionari, ma anche come strumenti per l’edificazione dei membri della Compagnia. Una selezione di esse venne inoltre disposta, dopo essere stata sottoposta a debita censura, alla pubblicazione e distribuzione commerciale.11 Le edizioni venivano normalmente date alle stampe, pressoché contemporaneamente, sia a Lisbona, nella lingua originale, portoghese o spagnola, dei manoscritti, sia a Roma, in traduzione italiana. Come si evince da bibliografie come quella di Wenckstern-Pages,12 le edizioni italiane godettero della maggior fortuna in Europa, dando vita a un numero di successive traduzioni in latino o in altre lingue volgari. La Biblioteca Marciana conserva, spesso in più di un’edizione, più di 70 lettere pubblicate in lingua italiana, alcune edite singolarmente, altre incluse in raccolte sotto il titolo generico di “Avvisi”. Di queste, circa un terzo risale alla fase della missione gesuita antecedente all’arrivo in Giappone di Alessandro Valignano, nel 1579. Appartengono a questo gruppo alcune fra le lettere inviate da Francesco Saverio prima, durante e immediatamente dopo la sua permanenza in Giappone, che illustrano gli eventi che lo spinsero a viaggiare fino all’arcipelago e descrivono le tappe dello stabilirsi della missione.13 Ve ne sono poi altre firmate dai Padri che assunsero la gestione della missione immediatamente dopo la sua partenza, nel 1551 (Cosme de Torres, Balthasar Gago, Gaspar Vilela, Luis Almeida, Francisco Cabral, Organtino Gnecchi-Soldo e Francesco Stefanoni) e una firmata da un convertito, il Fratello Lourenço, primo laico giapponese a essere ricevuto all’interno della Compagnia di Gesù.14 11

Il sistema di corrispondenza gesuita è descritto nel dettaglio da Lach, Asia in the making of Europe, cit. pp. 314-323. 12 Friedrich von Wenckstern, Leon Pages, A bibliography of the Japanese empire, to which is added a facsimile-reprint of Leon Pages, Bibliographie Japonaise depuis le 15. siecle jusqu’a 1859, Brill, Leiden 1895-1897. 13 Una lettera del 1549 da Cochin, inclusa nei Nuovi Avisi dell’Indie di Portogallo, Riceuuti dalli Reuerendi Padri della compagnia di Giesu, tradotti dalla lingua Spagnuola nell’Italiana, Terza parte, Tramezzino, Venezia 1562; e due lettere, una del 1549 da Kagoshima e una del 1552 da Cochin, incluse nei Diversi avisi particolari dall’Indie di Portogallo riceuuti, dall’anno 1551 sino al 1558. dalli Reuerendi padri della compagnia di Giesv. Dove s’intende delli paesi, delle genti, et costumi loro, et la grande conversione di molti popoli, che hanno riceuuto il lume della santa fede, et religione Christiana. Tradotti nuouamente dalla lingua Spagnuola nella Italiana, Tramezzino, Venezia 1558. 14 Il resoconto è incluso nei Nuovi Avisi dell’Indie di Portogallo, Venuti nuouamente dalli R. Padri della Compagnia di Giesu, et tradotti dalla lingua Spagnuola nella Italiana, Tramezzino, Venezia 1565. Si tratta dell’unica traduzione italiana della lettera, il cui originale è andato perduto. Ebisawa Arimichi, “Irmão Lourenço, the First Japanese Lay-Brother of the Society of Jesus and his Letter”, Monumenta Nipponica, 5, 1942, p. 225.


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Le restanti relazioni risalgono invece interamente agli anni nei quali la missione fu sotto la direzione di Valignano (1579-1603), ad eccezione di un gruppo di lettere annali datate negli anni Venti del Diciassettesimo secolo (1621, 1622, 1625, 1626 e 1627). Le missive testimoniano l’iniziale fortuna della missione gesuita e quindi il suo veloce declino, con l’arrivo degli altri ordini religiosi e l’inizio delle persecuzioni. In termini di contenuto, le relazioni mostrano un’evoluzione che si accorda con il graduale definirsi e strutturarsi della strategia missionaria gesuita in Giappone. Le lettere più antiche, pur includendo incidentali riflessioni sulla società giapponese e su questioni linguistiche,15 tendono a focalizzarsi su eventi strettamente legati alla missione. Per quelle più tarde, invece, è pratica comune arricchire la narrazione con osservazioni legate alla cultura, alle credenze religiose, alle pratiche sociali e ai contemporanei eventi politici giapponesi.16 Tale tendenza si accorda con il progressivo affermarsi di un approccio missionario volto ad approfondire il background linguistico, sociale e culturale della popolazione giapponese, come premessa strategica per una conversione fondata sulla ragionevole persuasione, piuttosto che sulla coercizione; un approccio di cui Alessandro Valignano fu uno dei principali sostenitori.17 Legata alla missione gesuita in Giappone è anche un’ulteriore tipologia di opere che trova rappresentanza presso il Fondo Antico della Biblioteca Marciana: i testi a stampa legati alla cosiddetta ambasceria dell’Era Tenshō (Tenshō no shisetsu, 天正の使節). L’ambasceria, pianificata da Valignano e formata da quattro giovani legati, inviati in Europa nel nome di tre Signori feudali del Kyūshū (Ōtomo Yoshishige, Arima Harunobu and Ōmura Sumitada), venne ricevuta in pubblica udienza dal Papa nel 1585, e accolta da alcuni fra i maggiori esponenti dell’aristocrazia europea dell’epoca. Il significato ed effettivo impatto dell’evento sul pubblico europeo sono stati oggetto di dibattito da parte degli storici,18 ma ciò che è certo è che essa diede vita a un non trascurabile caso editoriale, portando alla pubblicazione di più di 80 titoli, fra pamphlet, gazzette e libretti, dati alle stampe nell’arco di pochi anni in varie parti d’Europa, e per la maggior parte riediti in rapida successione.19 15

Approfondite in particolar modo nella lettera, datata 23 settembre 1555, del padre Balthasar Gago, incaricato di studiare un modo per rendere i termini religiosi in lingua giapponese. La lettera è inclusa nei Diversi avisi particolari dall’Indie di Portogallo, cit. 16 Si annoverano persino esempi di lettere prive di riferimenti diretti alla missione, e interamente incentrate sulla narrazione di vicende politiche. Ad esempio, il racconto della morte del neo nominato kanpaku-dono composto da Luis Frois nel 1595. Raggvaglio della morte di Qvabacondono, scritta dal P. Luigi Frois della Compagnia di Giesù, dal Giappone nel mese d’Ottobre del 1595, Zannetti, Roma, 1598. 17 Per una trattazione dettagliata delle strategie e degli obiettivi missionari di Valignano, si rimanda ad Adriana Boscaro, Ventura e sventura dei gesuiti in Giappone (1549-1639), Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2008. 18 Un quadro generale del dibattito è tracciato in Judith C. Brown, “Courtiers and Christians: The First Japanese Emissaries to Europe”, Renaissance Quarterly, 47, 1994, p. 872. 19 Adriana Boscaro, Sixteenth century European printed works on the first Japanese mission to Europe: a descriptive bibliography, Brill, Leiden 1973.


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La Biblioteca Marciana detiene 23 opere legate all’ambasceria, alcune in più edizioni. I titoli più antichi, datati 1585, comprendono per lo più pamphlet recanti notizie riguardo ai legati e ai loro movimenti in Europa. Alcuni si limitano a riportare gli atti della pubblica udienza concessa dal Papa,20 mentre altri contengono resoconti più dettagliati riguardo al viaggio dei legati e spesso includono brevi descrizioni del Giappone.21 Datate 1586 sono poi le Relationi della venuta degli Ambasciatori Giaponesi a Roma, di Guido Gualtieri.22 Si tratta del lavoro di gran lunga più dettagliato riguardo all’ambasceria: include una lunga descrizione del Giappone e un resoconto di tutte le tappe del viaggio dei legati, e raccoglie e riorganizza tutte le informazioni contenute nelle precedenti pubblicazioni. Un segno della esaustività dell’opera è il fatto che non risultino ristampe di precedenti pamphlet edite dopo la sua pubblicazione. Le opere più tarde riguardo all’ambasceria consistono in edizioni a stampa delle missive portate dai legati in Europa, o in lettere di missionari di stanza in Giappone che includono resoconti relativi al viaggio di ritorno dei legati verso l’arcipelago.23 Il peso rivestito nelle lettere missionarie, e in minor misura nei pamphlet dedicati all’ambasceria, dalle descrizioni della cultura e dalla società contemporanee giapponesi le rendono fonti di grande valore per la storia del periodo Azuchi-Momoyama e del primo periodo Edo. Ovviamente, le lettere non possono essere approcciate, come documenti storiografici, senza considerare il loro contesto intellettuale di produzione: le relazioni, in particolare quelle a stampa, erano concepite come strumenti per l’edificazione del pubblico, votate a evidenziare i successi della religione cattolica in Asia Orientale in contrapposizione alle perdite subite a seguito della Riforma Protestante in Europa, e rispondevano dunque, più che a moderni criteri di oggettività, a studiati meccanismi retorici. D’altra parte, in quanto fonti non ufficiali e spesso focalizzate su eventi storici geograficamente estremamente localizzati, esse offrono una prospettiva unica sulla 20 Sia in italiano, come nella Breve relatione del consistoro pvblico, Dato à gli Ambasciadori Giapponesi, dalla bona memoria della Santità di Papa Greg. XIII. In Roma, il di 23 di marzo 1585, Osmarino, Roma 1585, sia in latino, come negli Acta consistorii publice ehxibiti a s.d.n. Gregorio Papa XIII Regvm Iaponiorvm Legatis Romae die XXIII. Martii. MDLXXXV, Meietto, Padova 1585. 21 Ad esempio, gli Avisi venuti novamente da Roma delli XXIII di marzo 1585 dell’entrata nel publico concistorio de due Ambasciatori mandati da tre Rè potenti del Giapone, Benacci, Bologna 1585, che includono anche un’illustrazione che mostra le vesti indossate dagli ambasciatori nel corso dell’udienza papale. 22 Guido Gualtieri, Relationi della venuta de gli Ambasciatori Giaponesi à Roma, fino alla partita di Lisbona. Con vna descrittione del lor paese, e costumi, e con le accoglienze fatte loro da tutti i Prencipi Christiani, per doue sono passati. Raccolte da Gvido Gvaltieri, Gioliti, Venezia 1586. 23 Un esempio è la Lettera Annale del 1588, che riporta dell’arrivo degli ambasciatori a Macao. Lettera annale del Giapone scritta, al Padre Generale della Compagnia di Giesv, alli 20 di Febraio 1585. Con l’auiso ancora dell’arriuo delli Signori Giaponesi, all’Isola del Macao, del Regno della China, Sabbio, Brescia 1590.


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storia del periodo, che può risultare di particolare interesse per chi ne affronta lo studio muovendo da indirizzi storiografici quali la storia sociale, la storia locale, o la “storia delle mentalità” (shinseishi 心性史). Il valore in quanto fonti delle lettere gesuite a stampa, così come dei pamphlet sull’ambasceria dell’era Tenshō, d’altra parte, non risiede solo nei loro contenuti. In quanto pubblicazioni di natura commerciale, esse possono essere analizzate anche secondo un’ottica di tipo bibliografico, alla luce dei processi culturali e commerciali che condussero alla loro produzione e circolazione. Esaminando le case editrici che hanno pubblicato i testi, i loro formati, la loro diffusione, è possibile ad esempio ipotizzare la tipologia di pubblico a cui erano rivolti, gettando maggior luce sull’effettivo impatto con cui il nuovo immaginario relativo al Giappone investì l’Europa del Sedicesimo secolo. Oltre ai libri di lettere e ai materiali legati all’ambasceria, un ulteriore pezzo di grande valore conservato presso la Biblioteca Marciana e risalente a questa fase storica è uno dei rari esemplari esistenti di kirishitanban, le opere stampate, in latino, rōmaji o giapponese, per mezzo della stamperia a caratteri mobili che i legati dell’ambasceria dell’era Tenshō portarono con sé nel loro viaggio di ritorno in Giappone. Si tratta di una copia del Sanctos no Gosagveono Vchi Nvqigaki, una narrazione in rōmaji, in 365 folio, delle vite dei santi.24 La stamperia che produsse la letteratura kirishitanban venne installata dapprima a Goa e quindi, in successione, a Kazusa, Amakusa, Nagasaki, Manila e Macao, in accordo con il mutare delle circostanze politiche. Si ha notizia di due sole edizioni stampate a Kazusa: la Dochirina Kirishitan, un catechismo in caratteri giapponesi, e lo stesso Sanctos no Gosagveono. La copia conservata presso la Marciana, scoperta nel 1979, e quella appartenente alla Boodleian Library a Oxford, sono gli unici due esemplari di cui si sia attualmente a conoscenza, e i più antichi esempi di kirishitanban stampati in Giappone. L’opera include un glossario giapponese-portoghese con un totale di 2152 parole, e riveste grande interesse, dunque, non solo da un punto di vista storico, ma anche in un’ottica linguistica. Di interesse prettamente linguistico sono anche le copie, rare, in quanto concepite per la circolazione presso gli ordini religiosi piuttosto che per la distribuzione presso il vasto pubblico, di due opere scritte dal Padre domenicano Diego Collado. La prima, intitolata Niffon no cōtobani yō confesion,25 consiste in una raccolta di 24 Sanctos nogosagveono vchinvqigaqi quan dai ichi. Fiienno cvnitacacvnogun. Cazzusa no voite superiores no von yuruxi uo co muri core uo fan to nafu mono nari. Goxuxxe irai, Kazusa 1591. 25 Didaco Collado, Niffon no cotōbani yō confesion vo mòfu yōdai to màta confesor yori gòxensà cu mefarùru tàme no canyônaru giô giô nocòto dànguixà no monpa no Fr. Diego Collado to yu xucqe Roma ni voite còre voxitàte mòno nari. 1632. Modvs confitendi et esaminandi poenitentem iaponensem, formula


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formule per il sacramento della confessione, scritte in rōmaji, con testo latino a fronte e accompagnate da annotazioni grammaticali. Le formule, come specificato nel prologo in latino dell’opera, servono a esemplificare le regole grammaticali illustrate nella Ars grammaticae Iaponicae linguae, un’altra opera di Collado, datata lo stesso anno.26 Il secondo testo, il Dictionarivm sive thesavri Lingvae Iaponicae compendivm,27 è invece un dizionario latino-rōmaji, ideato a sua volta come integrazione della Ars grammaticae, e creato allo scopo di fornire un vocabolario essenziale ai missionari in Giappone. I due testi rappresentano due dei più antichi esempi di opere specificamente incentrate sulla linguistica giapponese. I restanti titoli conservati presso la Biblioteca Marciana, per il periodo fra la seconda metà del Sedicesimo e la prima metà del Diciassettesimo secolo, comprendono storie (storie religiose – generali degli ordini cristiani o delle missioni in Asia Orientale – e storie laiche), cosmografie, collezioni di relazioni di viaggio e opere di natura geografica. Si tratta di opere largamente indebitate con i materiali gesuiti, che includono talvolta veri e propri estratti delle relazioni missionarie. Fra le opere firmate da membri degli ordini religiosi, sono degne di menzione quella pubblicata nel 1588 dal gesuita Giovanni Pietro Maffei, uno dei più esaustivi e affidabili resoconti delle prime fasi della missione gesuita in Giappone,28 e quella, grossomodo contemporanea, dell’agostiniano Juan Gonzalez de Mendoza, la prima opera a portare l’attenzione del pubblico europeo sulla missione in Cina.29 La Biblioteca Marciana conserva inoltre una copia della Historia del regno di Voxu, di Scipione Amati,30 che narra dell’esperienza del missionario francescano Luis Sotelo in Giappone e fornisce un resoconto dettagliato dell’ambasceria partita dal Giappone nel 1613 e guidata dallo stesso Sotelo al Papa nel nome del daimyō Date Masamune. suamet lingua iaponica. Auctore Fr. Didaco Collado ord. Praed., Typis & impensis Sacr. Congr. De Prop. Fide, Roma 1632. 26 Didaco Collado, Ars Grammaticae Iaponicae linguae, in gratiam et adiutorium eorum, qui predicandi Evangelii causa ad Iaponiae Regnum se voluerint conferre, Typis & impensis Sacr. Congr. De Prop. Fide, Roma 1632. 27 Didaco Collado, Dictionarivm sive thesavri Linguae Iaponicae compendivm. Compositum, & sacrae de Propaganda Fide Congregationi dicatum à Fratre Didaco Collado Ord. Praedicatorum, Typis & impensis Sacr. Congr. De Prop. Fide, Roma 1632. 28 Giovanni Pietro Maffei, Ioannis Petri Maffeii Bergomatis e Societate Iesv Historiarvm Indicarvm Libri XVI. Selectarum item ex India Epistolarum eodem interprete Libri IV. Accessit Ignatii Loiolae Vita postremo recognita. Et in Opera singula copiosus Index, Iunctam, Firenze 1588. Dell’opera la Biblioteca Marciana conserva anche l’edizione in lingua italiana, pubblicata a Venezia nel 1589. 29 Juan Gonzalez de Mendoza, Dell’historia della China, Descritta nella lingua Spagnuola, dal P.Maestro Giouanni Gonzalez di Mendozza, dell’Ord. Di S.Agostino. Et tradotta nell’Italiana, dal Magn. M.Francesco Auanzo, cittadino originario di Venetia, Muschio, Venezia 1586. 30 Scipione Amati, Historia del regno di Voxv del Giapone, dell’antichita, nobilta, e valore del svo re Idate Masamvne, delli fauori, c’ha fatti alla christianita e desiderio che tiene d’essere christiano, e dell’aumento di nostra Santa Fede in quelle parti. E dell’ambasciata che ha inuiata alla S.tà di Ns. Papa Paolo V. e delli suoi successi, con altre varie cose di edificatione, e gusto spirituale dei Lettori, Roma 1615.


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Fra le collezioni di letteratura di viaggio, si può menzionare il primo volume delle Navigazioni dell’umanista Giovanni Battista Ramusio, imponente raccolta che, a partire dalla sua seconda edizione, incluse una sezione specificamente dedicata al Giappone, in cui si raccoglievano diverse lettere dei primi missionari gesuiti giunti in Giappone, fra cui Saverio.31 Fra i materiali di ambito geografico, infine, si annoverano atlanti quali quello di Abraham Ortelius, una fra le prime opere cartografiche a stampa europee ad includere una rappresentazione del Giappone (raffigurato come arcipelago di tre isole). L’opera testimonia il progressivo evolvere della cartografia di impronta tolemaica nella seconda metà del Sedicesimo secolo, con l’inclusione delle informazioni raccolte nelle mappe portulane stilate dai navigatori portoghesi sulla base delle loro esperienze nei mari dell’Asia Orientale. 32 A confronto con la ricca bibliografia conservata presso la Biblioteca Marciana per la fase più antica della produzione letteraria europea sul Giappone, il numero di testi datati dalla metà del Diciassettesimo alla fine del Diciottesimo secolo risulta piuttosto esiguo. Ad esclusione delle riedizioni o traduzioni di lavori precedenti, il periodo offre solo una decina di opere inedite di reale interesse per gli studi di nipponistica. Questo cambiamento riflette il mutamento in natura dei rapporti fra Giappone ed Europa imposto dall’editto finale di espulsione nel 1639, e dal conseguente declino delle attività missionarie in Giappone. Come noto, l’isola di Dejima nella baia di Nagasaki rimase l’unico punto di accesso formale al Giappone per gli Europei e venne riservata alle attività dei membri della Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Perciò, nella seconda metà del Diciassettesimo secolo, solo il personale della Compagnia ebbe effettivamente la possibilità di raccogliere informazioni dirette sul Giappone. Fra le opere risalenti a questa fase, si trovano alcuni esempi tardi di materiali storici sulla missione gesuita in Giappone; fra di essi, degna di menzione è la copia, 31

Giovanni Battista Ramusio, Primo volume, et Quarta editione delle navigationi et viaggi raccolto da Gio. Battista Ramvsio, & con molti vaghi discorsi, da lui in molti luoghi dichiarato, & illustrato. Nel quale si contengono la descrittione dell’Africa et del paese del Prete Ianni, con varij viaggi, dalla Città di Lisbona, & dal mar Rosso insino a Calicut, & all’Isole Molucche, dove nascono le Spetierie, Et la Navigatione attorno il Mondo. Con la Relatione dell’Isola Giapan, scoperta nella parte del Settentrione: Et alcuni capitoli appartenenti alla Geographia, estratti dell’Historia del S. Gio. di Barros Portughese, Giunti, Venezia 1588. Le lettere di Saverio sono tre, due delle quali inviate da Cochin e la terza da Kagoshima (alla Compagnia di Gesù a Coimbra), tutte datate 1549. 32 Abraham Ortelius, Theatrum Orbis Terrarum, Aegid. Coppenium Diesth, Anversa 1570. Questa prima edizione include l’arcipelago solo nelle mappe generiche dell’Asia, mentre le successive vi dedicano una sezione specifica. La Biblioteca Marciana conserva sei diverse edizioni dell’opera, la più tarda datata 1683. Per un quadro delle principali fonti cartografiche europee antiche sul Giappone si rimanda ad Adriana Boscaro, “Le conoscenze geografiche dell’Europa sul Giappone alla fine del XVI secolo”, Anno 1585: Milano incontra il Giappone, Milano 1990, p. 101.


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datata 1653 de Dell’historia della Compagnia di Giesv, del Padre gesuita Daniello Bartoli, una vera e propria summa della ricca produzione delle relazioni missionarie del secolo precedente, che godette di grande fortuna editoriale in Europa.33 Le altre opere di questo periodo offrono invece esempi del genere di produzione letteraria connesso con la presenza olandese a Dejima. Le più significative sono certamente quelle del medico e studioso tedesco Engelbert Kaemper. Impiegato a Nagasaki dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali dal 1690 al 1692, egli collezionò, durante la sua permanenza, una vasta quantità di libri e informazioni di prima mano sul Giappone.34 La Biblioteca Marciana conserva una copia del suo Amoenitatum exoticarum35 e due copie della traduzione francese della sua opera più celebre, la History of Japan, pubblicata per la prima volta, postuma, nel 1727.36 Entrambi i testi (il primo genericamente focalizzato sull’Asia, in particolare su Persia e Giappone, e il secondo esclusivamente sull’arcipelago giapponese) appartengono al genere della storia naturale. La History of Japan, in particolare, affronta uno spettro di materie che spazia dalla geografia, alla storia, all’etnografia, alla botanica ed è il più completo lavoro esistente sull’arcipelago giapponese per questo periodo storico.37 L’edizione francese include anche, nella prefazione, una breve bibliografia delle relazioni missionarie sul Giappone pubblicate nei due secoli precedenti. Kaempfer è stato lungamente trattato come l’unica fonte autentica e affidabile sul Giappone per il periodo che va dalla fine del Diciassettesimo secolo all’inizio del Diciannovesimo secolo. Come sottolineato da Peter Kornicki,38 tuttavia, la sua produzione può essere considerata più l’espressione del sorgere di una ondata di studi nipponistici “in nuce”, che il prodotto dell’interesse di un singolo individuo; altri autori fecero da contesto ai suoi studi, producendo lavori che, pur meno organici e completi, rappresentano una altrettanto vitale fonte di informazione sul Giappone dell’epoca. 33

Daniello Bartoli, Dell’Historia della Compagnia di Gesù. L’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia. Parte prima [- terza], De’ Lazzeri, Roma 1653. 34 Per un approfondimento della figura di Kaempfer, si rimanda a Detlef Haberland, Peter Hogg, Engelbert Kaempfer 1651-1716: A Biography, British Library, Londra 1996. 35 Engelbert Kaempfer, Amoenitatum exoticarum politico-physico-medicarum fasciculi V, quibus continentur variae relationes, observationes et descriptiones rerum Persicarum et ulterioris Asiae, multa attentione, in peregrinationibus per universum Orientem, collectae, ab auctore Engelberto Kaempfero, Meyer, Lemgo 1712. 36 Engelbert Kaempfer, Histoire naturelle, civile et ecclesiastique de l’Empire du Japon. Composée en allemand par Engelbert Kaempfer, Docteur de Medecine à Lemgow; Et traduite en François sur la Version angloise de Jean-Gaspar Scheuchzer, Membre de la Societé Royale, et du College des Medecins, à Londres, Gosse et Neaulm, La Haye 1729. 37 Wolfgang Michel, “Review: His Story of Japan: Engelbert Kaempfer’s Manuscript in a New Translation”, Monumenta Nipponica, 55, 2000, p. 109. 38 Peter F. Kornicki, “European Japanology at the end of the Seventeenth Century”, Bulletin of the School of Oriental and African Studies, 56, 1993, pp. 502-524.


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La Biblioteca Marciana conserva alcuni esempi di questo genere di letteratura. Il più antico è la Descriptio Regni Iaponiae, del medico e geografo Tedesco Bernhard Varen.39 L’opera consiste in una descrizione geografica ed etnografica dell’arcipelago giapponese (con una breve sezione dedicata al Siam), e comprende, in un volume annesso, anche un breve trattato sulla religione cristiana in Giappone.40 Varen si mostra conscio del legame fra geografia, politica e commercio, e allineato con le politiche della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, che invitava alla produzione di una letteratura sul Giappone incentrata su conoscenze di tipo prettamente pratico. Ciò rende il suo lavoro meno strettamente orientato alla ricerca di quello di Kaempfer, più attento ai riscontri materiali della scrittura che ad un approccio al Giappone come oggetto di studio. Questo, tuttavia, non diminuisce il potere informativo della sua opera, ricca di nozioni riguardo alla struttura politica, alla società e ai costumi del Giappone. La Biblioteca Marciana conserva inoltre una copia delle Ambassades mémorables des la Compagnie des Indes Orientales,41 traduzione francese di un’opera originariamente composta in olandese dallo storico e geografo Arnoldus Montanus, e pubblicata in prima edizione nel 1669. Composto dall’autore durante un soggiorno a Dejima, il testo è basato sia su informazioni di prima mano raccolte in Giappone, sia su materiali pubblicati precedentemente (in particolare, la letteratura missionaria), e riporta di una serie di ambascerie della Compagnia Olandese delle Indie orientali presso la corte degli shōgun, a partire dal 1640. Include la descrizione di città giapponesi, il resoconto di eventi politici contemporanei e delle persecuzioni nei confronti degli ordini religiosi, ed è una preziosa fonte di informazioni circa i rapporti fra i membri della Compagnia e la popolazione locale. Vorrei concludere l’articolo con alcune brevi osservazioni riguardo ai testi risalenti al Diciannovesimo secolo. Non mi soffermerò a lungo su tale produzione, dal momento che le opere più interessanti di questa fase appartengono per lo più alla seconda metà del secolo e all’ambito della nipponistica moderna. Vorrei sottolineare tuttavia come la crescente varietà dei materiali, già nella prima metà del secolo, sia specchio di un più generale rinnovato impulso negli studi europei sul Giappone, 39

Bernhard Varen, Descriptio regni Iaponiæ Cum quibusdam affinis materiæ, Ex variis auctoribus collecta et in ordinem redacta per Bernhardum Varenium Med. D., Elzevirium, Amsterdam 1649. 40 Bernhard Varen, Tractatvs In quo agitur. De Iaponorum religione. De Christianae religionis introductione in ea loca. De ejusdem extirpatione. Adjuncta est de diversa diversa rum gentium totius telluris Religione brevis informatio. Auctore Bernhardo Varenio. Med. D., Elzevirium, Amsterdam 1649. 41 Arnold Montanus, Ambassades mémorables de la Compagnie des Indes Orientales des Provinces Unies Vers les Empereurs du Japon. Contenant plusieurs choses remarquables arrivés pendant le voyage des Ambassadeus; et deplus, la description des villes, bourgs, chateux, forteresses, temples et autres batimens: des animaux, des plantes, montagnes, rivieres, fonteines; des moeurs, coutumes, religions et habillemens des Japonois: comme aussu leurs exploits de guerre, et les révolutions tant anciennes que modernes que ces Peuples ont essuyés. Le tout enrichi de figures dessinées sur les lieux, et tiré des mémoires des Ambassadeurs de la Compagnie, Van Mœurs, Amsterdam 1680.


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che avrebbe raggiunto il suo apice dopo la riapertura del paese, negli ultimi decenni del secolo. Alcuni testi afferiscono ancora alla tradizione storica, geografica ed etnografica del secolo precedente. Due esempi sono le Tableaux historiques de l’Asie,42 dell’orientalista tedesco Julius Klaproth, e la Storia del Giappone di Giulio Astori,43 un’opera di natura compilativa basata su lavori dei secoli precedenti. Altre opere appartengono invece alla categoria dei resoconti di viaggio, e offrono uno spiraglio sui cambiamenti politici in atto nella prima metà del Diciannovesimo secolo e sulla crescente pressione esercitata da Russia e Inghilterra sui confini giapponesi. L’opera del capitano inglese Basil Hall44 è particolarmente interessante da questo punto di vista, poiché concentrata principalmente sulle isole Ryūkyū, futuro oggetto di controversia politica per il Giappone. Il testo include un dizionario inglese-ryukyuano, comprensivo anche di osservazioni e comparazioni fra la lingua giapponese e quella delle isole Ryūkyū: un segno di come il giapponese stesse progressivamente entrando a far parte, in Europa, di un discorso sul linguaggio. Questa tendenza è testimoniata anche da una serie di opere specificamente incentrate sulla linguistica, che anticipano i più avanzati studi della seconda metà del secolo. Uno degli esempi più rappresentativi, fra quelli conservati presso la Biblioteca Marciana, è la Asya polyglotta di Julius Klaproth,45 opera che offriva le basi per una nuova classificazione delle Lingue Orientali. In conclusione, il fondo antico a stampa della Biblioteca Marciana può essere considerato un importante patrimonio per gli specialisti di studi giapponesi, sotto due diversi punti di vista. In primo luogo, i testi conservati nella Biblioteca costituiscono una fonte utile riguardo ad una ampia varietà di soggetti: dalla storia, alla bibliografia storica, alla geografia, alla religione, alla linguistica e possono dunque interessare specialisti di numerose discipline. In secondo luogo, l’analisi del numero e della distribuzione dei libri può gettare luce sulla natura delle relazioni culturali fra il Giappone e l’Italia, e l’Europa in genere, attraverso i secoli.

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Julius Klaproth, Tableaux historiques de l’Asie, depuis la Monarchie de Cyrus jusqu’à nos jours ; accompagnés de recherches historiques et ethnographiques sur cette partie du monde, Schrubart, Parigi 1826. 43 Giulio Astori, Storia del Giappone compilata sulle opere di Kaempfer, di Thunberg, di Beaumont, de’ letterati inglesi e d’altri, Stella, Milano 1826. 44 Basil Hall, Account of a voyage of discovery to the West Coast of Corea, and the Great Loo-choo Island, Murray, Londra 1818. 45 Julius Klaproth, Asia Polyglotta, Von Heideloff & Campe, Parigi 1831.


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Printed Works Related to Japan in the Ancient Books Section of Marciana National Library The present article surveys, through selected examples, the different typologies of printed source materials on Japan held in the ancient books section of Marciana National Library (Venice): • Materials dated up to the half of the Seventeenth century, mainly produced in the context of Japan’s “Christian century”. They include missionaries’ reports, pamphlets related to the “Tenshō Embassy”, atlases, historical and cosmographical works, studies on the Japanese language, and one exemplar of kirishitanban. • Materials dated from the second half of the Seventeenth century up to the end of the Eighteenth century, mainly authored by members of the Dutch East India Company. Materials from the first half of the Nineteenth century: natural histories, travel accounts and works on Linguistics.

国立マルチャーナ図書館古典籍資料文庫所蔵日本関係の刊本

ソニア・ファヴィ この論文の目的は、イタリア・ヴェネツィアの国立マルチャーナ図書館 古典籍資料文庫のなかの日本関係の刊本を概説することにある。選ばれ た書物を分析しつつ、図書館に所属する様々な資料の種類を例示する: 16世紀後半から17世紀前半にかけて、いわゆる日本の「キリシタン 世紀」の間に出版された資料。そのなかには、日本に住んでキリスト教 を布教していたイエズス会の宣教師によって書かれた手紙・報告を収集 する本、天正の使節関係の刊行物、地図帳、歴史学・天地学の論文、日 本語言語学関連論文、一冊のキリシタン版が含まれている。 17世紀後半から、18世紀後半にかけて出版された資料。そのなかに は、エンゲルベルト・ケンペルのような、オランダ東インド会社に属し た著者によって作成された書物が含まれている。 19世紀前半に出版された資料。そのなかには博物学の論文、旅行記、 言語学の論文が含まれている。



YACINE MANCASTROPPA

Militari statunitensi e violenze sessuali: il caso di Okinawa (1945-2010)

La costante e massiccia presenza di basi militari americane a Okinawa, stanziate alla fine della Seconda Guerra Mondiale, genera ancora oggi non pochi problemi quotidiani agli abitanti dell’isola, in particolar modo alle donne, spesso oggetto di violenze sessuali da parte dei militari statunitensi. In generale è possibile dire che lo stupro è un tema ovunque difficile da affrontare, per una serie di motivi legati a questo reato, come per esempio la carenza di dati a riguardo dovuta soprattutto alla riluttanza delle donne a denunciare questo tipo di abuso che, spesso, deriva dalla scarsa credibilità che viene attribuita alle vittime. Per quanto riguarda la realtà di Okinawa, la trattazione di tale argomento appare essere ancora più complicata per vari motivi. Innanzitutto, i dati disponibili non sono del tutto esaurienti per definire con precisione l’entità del fenomeno e questa frammentarietà consente di ricostruire solo in parte la verità. In secondo luogo, il particolare status di cui hanno goduto i militari statunitensi di stanza a Okinawa durante il periodo di amministrazione statunitense, in parte preservato anche dopo la riunificazione di Okinawa al Giappone nel 1972, non aiuta ad avere un’idea precisa circa le condanne e le eventuali pene comminate ai colpevoli. Come capita spesso nell’affrontare questo argomento, ciò che possiamo affermare con sicurezza è che i casi di stupro denunciati e poi riconosciuti come tali è di gran lunga minore rispetto al numero di violenze consumate realmente. Dunque, quale valore è possibile attribuire a dati che rispecchiano solo parzialmente la realtà? Secondo alcuni studi negli Stati Uniti ancora oggi soltanto uno stupro su cinque (altri studi riportano uno su venti) viene denunciato.1 È importante notare che questi dati si riferiscono a un contesto di pace e quindi suggeriscono come, in un frangente bellico o comunque con un’alta presenza militare, tale percentuale sia ancora più squilibrata a causa di una serie di fattori che fungono da deterrente in tal senso: non bisogna infatti dimenticare le logiche militari, ideologiche e politiche

1

Per le statistiche che riguardano le percentuali di stupro che venivano denunciate negli anni Sessanta e quelle che vengono denunciate oggi si veda Susan Brownmiller, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani & C., Milano 1976, pp. 216-217; Patrizia Romito, Un silenzio assordante, FrancoAngeli, Milano 2005, pp. 27-30.


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che tendono a prevalere sul diritto della giustizia e anche le accuse, spesso infamanti, mosse verso quante denunciano una violenza sessuale. Questa premessa appare indispensabile per poter analizzare in modo consapevole i dati in relazione a Okinawa che sono riuscita a reperire, i quali sono costituiti per lo più da descrizioni, spesso corredate dalla precisazione del luogo, del giorno e dell’esito, degli atti di violenza compiuti dai militari statunitensi nell’arco di tempo che va da aprile 1945 fino a ottobre 2008. Questi preziosi dati sono stati raccolti in un pamphlet dal titolo Okinawa beihei ni yoru josei e no hanzai (Crimini dei militari statunitensi contro le donne a Okinawa), e pubblicati dal Kichi guntai o yurusanai kōdō suru onnatachi no kai (Associazione femminile contro le basi militari, meglio nota con l’acronimo inglese OWAAMV, Okinawa Women Act Against Military Violence), l’associazione femminile più importante di Okinawa, conosciuta anche a livello internazionale. È bene suddividere i dati a nostra disposizione in due differenti parti che coincidono con due diversi periodi storici di Okinawa: quelli che si riferiscono agli anni dell’amministrazione statunitense, dal 1945 al 1972, non si basano su fonti ufficiali,2 ma sono il frutto di un certosino lavoro di interviste, ricerche e raccolta di testimonianze svolto dallo gruppo femminile appena citato; quelli raccolti dopo il 1972 ovvero dopo il fukki, il ritorno di Okinawa al Giappone, sono invece dati ufficiali di denunce registrate dalle autorità locali okinawane. 1945-1972 Nel periodo di amministrazione statunitense e nello specifico dopo l’entrata in vigore, nella primavera del 1952, del Trattato di pace di San Francisco, Okinawa si trovò in una situazione talmente ambigua che si arrivò a parlare di Okinawa come di una “terra senza status”3 a causa appunto della sua condizione che sembrava non rientrare in nessuna classificazione prevista dal diritto internazionale e che scaturì l’assenza, a vari livelli, di una protezione legale per la popolazione locale. Inoltre, 2

Le fonti principali da cui sono stati reperiti i dati sono le seguenti: Higa Chōshin, Sengo 50 nen hizaishi (Storia di cinquant’anni di crimini), 1995; Fukuchi Hiroaki, Okinawa ni okeru beigun no hanzai (I crimini dei militari statunitensi a Okinawa), 1995; Okinawa Taimusu; Nahashi shi (Storia della città di Naha), III, 8, 1981; Miyazato Etsu, Okinawa onnatachi no sengo (Il dopoguerra delle donne okinawane), 1986; Uruma Shinpō; Shōgen (testimonianze); NHK ETV Tokushū, Okinawa wa nani o okotta no ka, guntai to seibōryoku o tou onnatachi (Edizione speciale della NHK, Ciò che fa così arrabbiare Okinawa - donne versus il potere militare e la violenza sessuale), 1992; Fukuchi Hiroaki, Beigun kichi hanzai (I crimini dei soldati statunitensi), 1980; Chihara Eiko no shōgen, Watashi no sengoshi (Testimonianza di Chihara Eiko, La mia storia del dopoguerra), 1980; Ōyama Chojo, Okinawa dokuritsu sengen (Dichiarazione di indipendenza di Okinawa), 1997; Ryūkyū Shinpō; Tengan Morio (a cura di), Okinawa senryō beigun hanzai jikenchō (Rapporto sui crimini dei militari statunitensi durante l’occupazione di Okinawa); Okinawa ken kyōiku iinkai, Okinawa ken shi (Associazione dell’educazione della provincia di Okinawa. Storia di Okinawa) X, 1997; Kawata Funmiko, Sensō to sei (Guerra e genere), 1995; Nakamura Kenshin, Okinawa keisatsu to tomo ni (La mia vita con la polizia di Okinawa), 1983. 3 Rosa Caroli, Il mito dell’omogeneità giapponese. Storia di Okinawa, FrancoAngeli, Milano 1999, pp. 203-209.


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anche le autorità dell’isola si ritrovarono ad avere poteri assai ridotti, non potendo esercitare la propria autorità sul personale civile e militare statunitense, il quale non era tenuto a sottostare alla giurisdizione dei tribunali locali. Questa assenza di potere fu imposta dallo USCAR (United States Civil Administration of the Ryūkyū Islands), l’amministrazione statunitense a Okinawa che emanò una serie di ordinanze che limitavano continuamente i poteri della polizia locale. È un esempio l’ordinanza n. 87, dell’ottobre del 1952, secondo la quale alle forze dell’ordine okinawane era permesso esercitare il proprio dovere soltanto al di fuori dei confini di una zona militare: se fermavano un militare americano per un reato, avevano poi l’obbligo di accompagnarlo e consegnarlo al più vicino ufficio militare statunitense. I dati a nostra disposizione relativi agli stupri di Okinawa partono dal 26 marzo 1945, quando le truppe americane sbarcarono sull’isola di Zamami a sudovest di Okinawa e con lo sbarco iniziò lo stupro sistematico delle donne dell’isola.4 Da questo momento, per ventisette anni di amministrazione statunitense, i casi di aggressioni sessuali e stupri che si sono riusciti a documentare sono in tutto 221, anche se non si può sapere con precisione quante persone rimasero effettivamente coinvolte in queste violenze.5 In questi primi anni di occupazione statunitense, gli abitanti di Okinawa si trovarono completamente in balia della volontà degli uomini delle forze armate degli Stati Uniti; di fatto non esistevano luoghi sicuri dove potersi nascondere per sfuggire agli atti di violenza dei soldati. Nemmeno le proprie abitazioni erano luoghi di rifugio adatti poiché, non di rado, i soldati vi entravano forzando le esili porte. Takazato Suzuyo, leader dell’associazione femminile che ha pubblicato i dati a cui ci stiamo riferendo, in un’intervista nel dicembre 2009,6 mi disse come fosse molto semplice per i soldati violare la proprietà privata: “tornando dalla guerra in Corea,7 o prima di partire, i soldati si recavano nei villaggi, in gruppo o da soli, spesso ubriachi, sfondando con un calcio le porte delle abitazioni che, essendo fatte di carta e di legno sottile, non opponevano molta resistenza all’impatto con gli stivali militari. Entravano in gruppi di cinque o sei, erano uomini enormi, armati di pistole o coltelli e violentavano le donne di casa davanti al resto 4

Per un resoconto dettagliato di ciò che subirono gli abitanti di quest’isola si veda Miyagi Harumi, Haha no nokoshita mono (Ciò che mi ha lasciato mia madre), Kōbunken, Tokyo 2008. 5 Secondo le statistiche, a distanza di soli quattro anni dalla fine della guerra, nacquero circa 450 bambini con evidenti tratti occidentali. OWAAMV, Okinawa beihei ni yoru josei e no seihanzai (Crimini dei militari statunitensi contro le donne a Okinawa), OWAAMV, Naha, ottobre 2008, p. 14. 6 Yacine Mancastroppa (a cura di), “Le figlie-prostitute di Okinawa. Conversazione con Takazato Suzuyo (Naha, Okinawa, 16 e 24 dicembre 2009)”, DEP, 13/14, 2010. 7 Con lo scoppio della guerra in Corea, Okinawa (da cui partivano cospicui rinforzi) diventò una base di primaria importanza per le truppe statunitensi. Un massiccio numero di nuovi militari, uomini giovani, sani e forti si riversò sull’isola. Essi erano convinti che quel territorio appartenesse a loro di diritto e, di conseguenza, si sentivano padroni anche della popolazione. Muto Ichiyo, U.S. Military Presence in Mainland and Japan, articolo reperibile sul sito internet: http://usmilitaryinokinawa.blogspot.com (gennaio 2010).


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della famiglia, nella stessa stanza”.8 Nei documenti che riguardano questi anni sono riportati innumerevoli esempi di violazione delle case private e conseguente stupro delle donne, citiamo per esempio quello che avvenne nella città di Naha nel marzo 1952: una donna stava dormendo nella propria abitazione quando improvvisamente un soldato, assegnato al battaglione ingegneria, irruppe ordinandole di lasciare la casa immediatamente. Quando lei cercò di alzarsi, lui la buttò a terra e la violentò. Dopo un’ora il soldato ritornò a casa della donna che, cercando di mettersi in fuga, venne violentata di nuovo.9 È dunque plausibile ritenere che, sino al 1972, la percentuale delle violenze denunciate fosse assai ridotta anche a causa dell’anomalo status politico della regione e delle difficoltà oggettive degli abitanti dell’isola a difendersi e accusare.10 Fino al 1972 infatti gli okinawani oltre a non appartenere a nessuna nazione, poiché Okinawa non era considerata tale, non ebbero alcun diritto garantito da una Costituzione in quanto non ne possedevano una propria, non erano tutelati da quella giapponese e la figura che deteneva il massimo potere a Okinawa era l’Alto Commissario statunitense. Quando un militare veniva denunciato per violenza sessuale o per un altro crimine, veniva condotto davanti alla corte militare statunitense dove il processo si svolgeva in lingua inglese, riducendo notevolmente in questo modo la possibilità della parte lesa di intervenire. Inoltre, era molto raro conoscere l’esito del processo e di fatto impossibile sapere se la pena comminata al colpevole venisse poi realmente applicata, poiché terminato il processo i militari venivano in genere rimpatriati.11 Infatti, nei 221 casi di violenza sessuale raccolti in questi anni, molti seguiti anche dall’assassinio della vittima, soltanto in 18 i colpevoli furono puniti.12 I rimanenti 203 sono riportati nei documenti come segue: • 容疑者不明 yōgisha fumei (colpevole sconosciuto); rappresentano la maggior parte dei casi in questione (137 casi). 8

In realtà gli stupri non coinvolsero sempre e solo donne. Tuttavia, non si hanno numeri certi che riguardano vittime maschili, forse a causa della maggiore reticenza degli uomini ad ammettere di aver subito una simile violenza. L’unico caso certo e documentato è quello di dodici persone violentate da alcuni militari statunitensi nel giugno del 1945, cinque delle quali erano uomini. OWAAMV, Okinawa beihei..., cit. 9 Ibidem, p.16. 10 Rosa Caroli, Il mito dell’omogeneità..., cit., pp. 203-209. 11 Secondo l’articolo 120 del Codice di Giustizia Militare, un arresto per stupro può comportare una condanna ai lavori forzati o una condanna a morte (tuttavia l’esercito non ha più giustiziato nessuno dopo un processo di corte marziale del 1962). Susan Brownmiller, Contro la nostra..., cit., p. 138, nota n. 139. 12 Le condanne più gravi furono date nei seguenti casi: un militare appartenente alla base di Kadena il 3 settembre 1955 violentò e uccise Yumiko Nagayama, di sei anni che viveva a Ishikawa. La pena che gli venne comminata fu di morte, ma venne poi commutata in 45 anni di lavori forzati. Il primo luglio 1961 un soldato disertore ventenne della Marina uccise una hostess di quarantasette anni a Kushi, gli fu dato il carcere a vita. Il 19 maggio del 1968 un militare privite first class assegnato alla base missilistica di Yomitan uccise una donna di cinquantadue anni davanti casa. Egli venne spedito dalle forze armate statunitensi in Corea, ma la polizia okinawana riuscì a rintracciarlo e a condannarlo al carcere a vita. Il resto delle pene vanno dai due ai trenta anni di carcere, oppure si espletano con anni di lavori forzati, taglio dello stipendio o espulsione dall’esercito. OWAAMV, Okinawa beihei..., cit.


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• 不明 fumei, indica che il colpevole fu riconosciuto ma che non si trovò nessun documento che testimoniasse un suo effettivo arresto e un’eventuale condanna (40 casi). • 逮捕されるが不明 taiho sareru ga fumei, in questi casi si identificò il colpevole, che venne arrestato, ma fu impossibile stabilire se dopo l’arresto gli venne comminata qualche pena (12 casi). • 罰せられず batsu serarezu, significa che nessuna pena fu data al colpevole, sebbene egli venne riconosciuto come tale (1 caso). • 迷宮入り meikyūiri, indica che il caso venne archiviato (3 casi). • 証拠不十分無罪 shōko fujūbun, significa che i militari furono giudicati non colpevoli per mancanza di prove (2 casi). • 訴えずuttaezu, significa che si venne a conoscenza del crimine ma che la vittima (o i famigliari di essa) preferirono non denuncialo (8 casi). È interessante notare come per la metà di questi casi la vittima rimase incinta a causa dello stupro. Questa preoccupante situazione, dovuta alla costante presenza di militari, condusse i sindaci dei comuni limitrofi alle basi statunitensi a pensare a una soluzione che fosse in grado di proteggere le proprie donne – mogli e figlie – dai continui attacchi di violenza.13 Nell’impossibilità di proteggere tutte le donne, si preferì difenderne soltanto una parte “sacrificando” l’altra. Takazato Suzuyo afferma che: “in una società che si rispetti, i deboli dovrebbero essere protetti, ma in realtà nel mondo le cose funzionano in modo diverso. Okinawa fu venduta agli americani dal Giappone e le donne okinawane furono vendute agli americani dagli uomini 13

Questo tipo di soluzione la riscontriamo anche nella Tokyo occupata del 1945. “Il 21 agosto 1945 il primo ministro Higashikuni Naruhito convocò una seduta straordinaria del Consiglio dei ministri con all’ordine del giorno le richieste presentate dalle forze alleate per porre fine alla guerra. Il Consiglio finì per discutere, però, principalmente degli atti di violenza e degli stupri della popolazione civile e del modo di prevenirli. Il principe Konoe Fumimaro per proteggere le giovani giapponesi propose l’immediata istituzione di un sistema di stazioni di conforto [...]”. Nacque così, soltanto quattro giorni dopo e con lo stanziamento di 100 milioni di yen messi a disposizione da Ikeda Hayato (l’allora direttore dell’Ufficio delle tasse del ministero delle Finanze e futuro primo ministro degli anni 1960-1964) il Tokushu ian shisetsu kyōkai (Associazione per le speciali facilitazioni di conforto), meglio conosciuto con l’acronimo inglese RAA (Recreation and Amusement Association). Dopo aver scelto l’area di Shinagawa (già quartiere a luci rosse nel periodo Edo) per la costruzione di bordelli, sale da ballo, da gioco e cabaret per le truppe di occupazione, si dovettero reclutare le lavoratrici che avrebbero “protetto la virtù delle donne giapponesi”. Il RAA ingaggiò polizia e forze dell’ordine per trovare le donne necessarie, pubblicò espliciti annunci sui giornali nazionali e “sull’edificio della direzione […] fece affiggere un vistoso poster con la scritta: ‘Annuncio per le nuove donne giapponesi! Ricerchiamo la massima collaborazione di nuove donne giapponesi che partecipino a un grande progetto di conforto per le forze di occupazione. Cerchiamo giovani fra i 18 e i 25 anni di età cui assicuriamo alloggio, vitto e vestiario’. Fu l’espansione delle malattie veneree, in continuo aumento nonostante i controlli medici periodici, che portò lo Stato Maggiore americano a chiudere ogni tipo di “stazione di conforto” nel marzo del 1946. In questo modo si riversarono per le strade 150.000 hostess, rimaste senza un luogo in cui lavorare, che si prostituirono liberamente per strada, diffondendo maggiormente le malattie veneree. Paolo Puddinu, “Violenza, stupri e ‘case di conforto’ nel Giappone occupato dagli americani”, Atti del XXIX Convegno di Studi Giapponesi, Firenze 2005, pp. 316-325 passim.


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okinawani”.14 I politici okinawani studiarono infatti a tavolino una strategia e la negoziarono con gli americani giungendo a un compromesso vantaggioso per entrambe le parti. Fu proposto che venissero costruiti dei bordelli nella così detta “fascia di sicurezza”, ovvero nei quindici metri di spazio che intercorrevano tra i recinti di filo di ferro delle basi militari e l’inizio di un paese. Si auspicava in questo modo che i militari non sentissero il “bisogno” di oltrepassare questo confine, il quale aveva di fatto una funzione protettiva per le donne, ad esclusione di quelle che vennero obbligate a lavorare come hostess (spesso furono le donne più povere, quelle rimaste senza famiglia a causa della guerra o quelle i cui padri avevano dei debiti da saldare) che avrebbero lavorato per “il bene della comunità”. Per mantenere sotto controllo le malattie infettive, con lo scopo di difendere i suoi militari, il governo di Washington promosse un health programme per l’isola. Per poter esercitare questo tipo di servizio, quindi, i locali e le ragazze che vi lavoravano dovevano essere sottoposti a determinate norme igieniche previste dalle leggi statunitensi. I proprietari di questi club dovevano ottenere, da parte delle autorità degli Stati Uniti, un cartello di riconoscimento che riportava la lettera “A” che significava Army approved da appendere all’entrata del locale. Ai militari statunitensi era infatti proibito l’accesso in quei locali che non esibivano tale segno di riconoscimento.15 Anche le donne che vi lavoravano avevano l’obbligo di riportare sugli indumenti un cartellino recante una “A” per indicare che non erano affette da malattie veneree; in caso contrario non avevano il permesso di lavorare. Nonostante questo scrupoloso programma preventivo, i casi di malattie veneree crebbero soprattutto nella seconda metà degli anni Cinquanta (4.300 casi nel 1956), principalmente laddove la presenza delle basi militari era più concentrata.16 Consultando i dati a disposizione, si nota tuttavia che anche dopo la costruzione dei bordelli, le violenze sessuali nei confronti delle donne al di là di quella cinta non cessarono,17 mentre si registrarono numerosi casi di hostess uccise, soprattutto durante seconda metà degli anni Sessanta.18 In questo periodo, infatti, aumentarono vertiginosamente i casi di stupri e di furti a discapito 14

Yacine Mancastroppa (a cura di), “Le figlie-prostitute...”, cit., p. 349. David R. Crews, A Wild Start: Okinawa in 1970s, http://www.jpri.org/ (gennaio 2010). 16 Il picco massimo dei malati si ebbe nel 1956 quando più di ottomila donne risultarono essere contagiate, mentre gli uomini toccarono il massimo nel 1967 con circa duemila individui contagiati. OWAAMV, Okinawa beihei..., cit. 17 Susan Brownmiller nota che: “Dato che l’accesso alle donne dopo una guerra è sempre stato tradizionalmente una ricompensa della guerra, è impossibile discutere dello stupro in guerra senza parlare anche della prostituzione, giacché i due fenomeni sono stati collegati tra loro nella storia. Non che in mancanza della facile disponibilità di prostitute gli uomini ricorrerebbero allo stupro per ‘soddisfare i loro bisogni’, ma i due atti ‘stuprare una donna recalcitrante e comprare i servigi di una donna più o meno compiacente’ vanno di pari passo col concetto che un soldato ha dei suoi diritti e dei suoi piaceri.” La studiosa inoltre sottolinea come la differenza tra la prostituzione e lo stupro in guerra (o in stato di occupazione militare) sia fondamentale e reale, perché ci sono sempre uomini che scelgono lo stupro. Brownmiller, Contro la nostra..., cit., pp. 87, 130-131, nota n. 9. 18 Takazato Suzuyo, Okinawa: Effects of a long-term US Military Presence http://www.genuinesecurity. org/partners/okinawa.html (gennaio 2010). 15


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delle hostess da parte dei militari statunitensi inviati a Okinawa dal Vietnam; la situazione era così tragica, e allo stesso tempo comune, che quando in un bar riservato ai militari statunitensi una donna si recava in bagno, era solito chiedersi se in realtà non stesse “andando a suicidarsi”.19 Sebbene il tentativo di salvare la maggior parte delle donne dell’isola dagli stupri costruendo bordelli per i militari si rivelò un insuccesso completo, essi furono comunque istituzionalizzati e messi a norma di legge fino al ritorno di Okinawa al Giappone nel 1972.20 1972-2010 Il 15 maggio 1972 l’amministrazione statunitense a Okinawa termina, gli okinawani tornano a essere cittadini giapponesi, ma il 75 per cento delle installazioni militari statunitensi presenti sul territorio giapponese rimane a Okinawa. Attualmente ci sono 34 basi militari a Okinawa e lo spazio occupato da esse è di circa 23 mila ettari che corrispondono al 10,2 per cento dell’aerea dell’intera provincia. Secondo i dati pubblicati dal Ryūkyū Shinpō nel novembre del 2009, il numero dei militari presenti sul suolo okinawano ammonta a 21.277 persone, gli impiegati civili sono 1.347, i famigliari 17.792, per un totale di 40.416 persone.21 Nel complesso, essi rappresentano circa il 3 per cento della popolazione di Okinawa. Tuttavia, è innegabile che il ritorno al Giappone portò anche evidenti vantaggi per l’isola e per i suoi abitanti. In primo luogo, i diritti sanciti dalla Costituzione adottata in Giappone nel 1946 furono estesi anche agli abitanti di Okinawa, sanando in tal modo l’anomalia politica che aveva caratterizzato sino ad allora la regione. Questa “normalizzazione” riguardò naturalmente anche l’ambito giuridico; essa infatti restituì alle autorità locali quelle competenze sino ad allora attribuite all’amministrazione statunitense, anche se, la persistenza di un’altissima concentrazione militare sulle isole e, quindi, il reiterato ruolo di Okinawa (keystone del Pacifico) come fulcro degli accordi nippo-statunitensi sulla sicurezza hanno contribuito a limitare fortemente l’esercizio delle prerogative giuridiche delle autorità locali.22 19

OWAAMV, Okinawa beihei..., cit., p. 19. David R. Crews in un articolo scritto per lo JPRI racconta precisamente quale fosse la vita a “the Rock” (gergo che utilizzavano i militari per indicare Okinawa) quando vi arrivò nel 1970 per prestare servizio militare. Dalle sue parole si coglie l’atmosfera che si respirava a Okinawa in quegli anni e l’estrema libertà di azione che avevano i militari: “[...] because prostitution was legal over there back then, I had a sex with prostitute for the first time during the first evening on the island. […] After World War Two, but previous to 1970, many of the Gis who landed on Okinawa – realizing that they were about 10,000 kilometers from anybody they knew who could tell their families and their friends about their getting loony drunk in the wild and crazy bar scene that was rockin’ and rollin’ on Okinawa at the time – sometimes went way too wild and got into big trouble”. David R. Crews, A Wild Start..., cit. 21 I dati riguardanti il territorio occupato dalle basi militari risalgono a marzo 2008, mentre quelli riguardanti la presenza dei cittadini statunitensi risalgono a settembre 2008. Entrambi sono stati pubblicati dal Ryūkyū Shinpō il 12 novembre 2009. 22 Rosa Caroli, Il mito dell’omogeneità..., cit., p. 253. 20


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Secondo le statistiche ufficiali di Okinawa, dal 1972 al 2005 sono stati compiuti complessivamente 5.394 crimini (non solo sessuali) da parte dei militari statunitensi a scapito degli abitanti dell’isola, 533 dei quali sono stati registrati come crimini heinous, cioè brutali. Da questo momento in poi, tutte le denunce vennero registrate negli uffici della polizia dell’isola. I dati sulle violenze sessuali relativi al periodo 1972-2008 a nostra disposizione derivano proprio da tali registri e sono stati catalogati sempre dall’associazione OWAAMV, che ha ricostruito in dettaglio 43 casi di stupro (7 dei quali si conclusero con l’omicidio della vittima); soltanto in 16 di essi i colpevoli furono arrestati e condannati. Le condanne più severe vennero date agli imputati anche di omicidio: a due militari venne comminato l’ergastolo,23 ad altri due una pena di tredici anni24 e all’ultimo una di sei anni di reclusione.25 Le pene sono spesso seguite dall’espulsione definitiva dall’esercito o, nei casi migliori, dalla sospensione temporanea dal lavoro. Ancora oggi, sebbene i militari statunitensi siano sotto la giurisdizione giapponese quando si recano all’esterno delle basi militari, spesso non mostrano grande rispetto per le leggi e i costumi del paese ospite. Essi sono spinti a tale comportamento grazie anche allo Status of Forces Agreement (SOFA) che stabilisce i diritti dei militari, ne regola la condotta e, di fatto, contiene varie norme atte a proteggerli dal sistema giuridico giapponese. Non è raro che i militari statunitensi, che causano incidenti, anche mortali, ai danni degli abitanti dell’isola, non vengano né arrestati né portati a giudizio in un tribunale giapponese, ma nella maggior parte dei casi, è un tribunale militare statunitense a giudicare un reato e a erogare la sentenza. L’arrivo al potere del primo ministro Hatoyama Yukio (appartenente al Minshutō, Partito democratico) il 30 agosto 2009, sembrava poter rivendicare l’inizio di una nuova generazione politica giapponese in grado di mantenere un rapporto più egualitario con gli Stati Uniti. La sua popolarità, e la sua vittoria, derivarono in gran parte dalla promessa fatta in campagna elettorale di esaudire le richieste dei cittadini okinawani rinegoziando l’accordo nippo-statunitense del 2006 che prevede lo spostamento (e l’ampliamento) della base militare di Futenma dall’omonima città alla città di Henoko (dov’è situata una delle baie coralline di Okinawa). La visita in Giappone del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, nel novembre del 23

Si tratta di due casi che avvennero nel 1972, dopo il ritorno di Okinawa al Giappone. Il primo omicidio si consumò il 4 agosto a seguito di uno stupro ai danni di una hostess di trentasette anni da parte di un militare diciannovenne con il grado di private second class. Il secondo avvenne a Koza il primo dicembre, quando una ragazza di ventidue anni, che aspettava il suo turno per fare la sauna, venne aggredita a strangolata a morte con una sottoveste da un militare. OWAAMV, Okinawa beihei ni yoru..., cit, p.21. 24 Il primo di questi due casi avvenne il 20 ottobre 1974 nella città di Nago. Una donna di quarantadue anni, che lavorava in un caffè della città, venne picchiata e uccisa da un militare diciannovenne. Il secondo omicidio invece si consumò il primo agosto del 1982, sempre a Nago, ai danni di una hostess di trentatré anni uccisa in una camera di albergo da un militare. Ivi. 25 Questo fu l’ultimo caso di omicidio seguito allo stupro registrato dalla polizia di Okinawa e risalente al 10 maggio 1995. Un’impiegata che lavorava per una ditta di assicurazioni fu colpita cinquanta volte a morte con un martello da un militare statunitense. Ibidem, p. 24.


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2009, riportò inevitabilmente all’attenzione mediatica questa scottante questione. La domenica precedente il suo arrivo, una folla di manifestanti sfilò per le strade di Ginowan al grido: “Obama hai vinto il Nobel per la Pace, portati via le basi e dacci la pace a Okinawa”. Ventunmila persone protestarono contro la presenza delle basi militari, chiedendo al primo ministro giapponese di mantenere la promessa fatta prima delle elezioni. Hatoyama, che non fu in grado di soddisfare le richieste di quanti protestavano, si dimise l’8 giugno dell’anno seguente. 4 settembre 1995 Il caso di stupro più conosciuto di questi ultimi anni, grazie anche all’importanza mediatica che gli è stata attribuita, è quello del 4 settembre 1995.26 La vittima fu una ragazzina di 12 anni che venne rapita, legata e violentata da tre militari statunitensi nei pressi della base militare di Camp Hansen. Le indagini delle forze dell’ordine okinawane su questo stupro furono tempestive: l’8 settembre, dopo aver analizzato tutti i registri delle aziende di autonoleggio, la polizia identificò gli autori della violenza e stilò un mandato d’arresto nei loro confronti. Nonostante la prontezza delle indagini, le autorità militari statunitensi non consegnarono i tre uomini alle autorità locali fino al 29 settembre. Durante il processo alcuni testimoni riportarono che, dopo il crimine, i tre imputati circolavano liberamente all’interno della loro base militare, trascorrendo il tempo “mangiando hamburger”.27 Soltanto in seguito alle proteste dei cittadini di Okinawa, i governi di Tokyo e di Washington decisero di firmare una postilla integrativa da aggiungere al SOFA, la quale permetteva di porre sotto custodia degli investigatori nipponici i militari statunitensi sospettati di omicidio o di violenza sessuale. Sebbene questo caso non fu che l’ultimo di una lunga serie, esso suscitò una diffusa e rinnovata mobilitazione tra gli okinawani dopo alcuni anni di “torpore” e sconforto. I primi anni Novanta, infatti, sembrarono essere influenzati dalla concatenazione di una serie di eventi avvenuti nel 1989: dalla scomparsa dell’imperatore Hirohito, che segnò la fine dell’era Shōwa, alla caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi dell’Europa dell’Est che annunciarono la fine della guerra fredda. Nel 1990 venne eletto governatore di Okinawa il professor Ōta Masahide, che sostituì la precedente amministrazione conservatrice guidata per dodici anni da Nishime Junji. Ōta, studioso di storia okinawana, contrario all’invio delle Forze di autodifesa all’estero e alla massic26

Vari i riferimenti bibliografici in relazione a questo caso di stupro e alle reazioni da esso suscitate dentro e fuori la provincia di Okinawa, tra cui si veda Linda I. Angst, “The Sacrifice of a Schoolgirl. The 1995 Rape Case. Discourses of Power and Women’s Lives in Okinawa”, Critical Asian Studies, 33, 2, 2001, pp. 243-66; Chalmers Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2003, pp. 60-61; Okinawa symposium hōkokushū (Raccolta delle relazioni sul simposio di Okinawa), Mizunowa, Kyoto 2000, pp. 245-246; Tanji Miyume, Myth, Protest and Struggle in Okinawa, Routledge, Abingdon 2006 pp. 150-160. 27 Chalmers Johnson, Gli ultimi giorni..., cit., p. 71.


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cia presenza militare nella provincia, dichiarò di voler consacrare un nuovo rapporto con il governo di Tokyo basato sulla collaborazione, con l’idea che il mutato assetto mondiale post guerra fredda portasse qualche novità anche per Okinawa. Tuttavia, gli anni successivi alla sua candidatura furono segnati da continue delusioni politiche per gli okinawani; infatti, fino al 1996 non giunse alcun segno di cambiamento nella presenza delle basi militari. Nemmeno gli sviluppi relativi alla politica interna giapponese, che videro la breve scomparsa nel 1993 dell’ormai pluridecennale presenza del Partito liberal-democratico al governo, riuscirono a esaudire le speranze della popolazione di Okinawa. In questo clima di tensioni politiche, lo stupro del 1995 riaccese tra gli okinawani il diffuso malcontento verso la presenza delle installazioni militari, che si concretizzò nell’organizzazione, il mese successivo, di varie manifestazioni, la più importante delle quali si tenne il 21 ottobre a Ginowan e vide la partecipazione di 80.000 persone che chiedevano la chiusura della base militare di Futenma. Tale caso di stupro portò peraltro alla nascita del più attivo gruppo femminile okinawano, lo OWAAMV capeggiato da Takazato Suzuyo.28 Come afferma la stessa leader, diversi fattori legati a questo caso spinsero le donne di Okinawa a istituire un’associazione femminile. Innanzitutto, questo stupro attirò l’attenzione non solo della stampa giapponese (sino ad allora poco incline a dare spazio a notizie simili) ma anche di quella estera. Inoltre, lo stupro avvenne in concomitanza al cinquantesimo anniversario della sconfitta della Seconda guerra mondiale, il cui termine segnò l’inizio della progressiva militarizzazione della regione. Anche la giovane età della vittima fu un elemento di rilievo, poiché confermò ancora una volta il fatto che la vittima di questo tipo di violenza viene scelta senza distinzione alcuna.29 Inoltre, pochi giorni prima dello stupro, si inaugurò a Pechino la Quarta conferenza mondiale sulle donne, durante la quale la violenza contro le donne venne riconosciuta come una violazione dei diritti umani. Gruppi femminili di Okinawa Nato in seguito a questo stupro, l’OWAAMV è un gruppo che lotta a favore dei diritti delle donne, per la smilitarizzazione dell’isola, per una vita quotidiana che 28 Takazato Suzuyo, femminista okinawana, nel 1961 si recò nelle Filippine per motivi di studio e, nel corso del suo soggiorno di circa due anni, venne a conoscenza dei crimini perpetrati dai militari giapponesi a carico della popolazione filippina durante la Seconda guerra mondiale riscontrando varie analogie con l’esperienza vissuta dagli okinawani in quello stesso periodo. Ella, inoltre, si rese conto che anche nelle Filippine l’atmosfera che circondava i luoghi limitrofi alle basi militari statunitensi era molto simile a quella che si percepiva a Okinawa. Tornata dal soggiorno all’estero, Takazato cominciò a interessarsi al problema del fiorente mercato di prostituzione sviluppatosi a Okinawa parallelamente alla militarizzazione della regione e ad analizzare i suoi effetti sulla vita delle donne locali. Successivamente, Takazato lavorò per undici anni a Tokyo come consulente telefonica di un centro al quale le donne potevano rivolgersi per raccontare le molestie sessuali e gli abusi subiti. Tanji Miyume, Myth, Protest and..., cit., p. 152. 29 Takazato Suzuyo, Okinawa: Effects of long-term..., cit., p. 2.


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non preveda la presenza di una realtà militare. Durante i quindici anni di esistenza, il gruppo ha partecipato a numerosi eventi e conferenze all’estero (a Washington nel 1998, in Corea del Sud nel 2002, nelle Filippine nel 2004, a San Francisco nel 2007 e a Guam nel 2009), per sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo ai problemi presenti a Okinawa in rapporto all’elevata presenza militare sul territorio. Durante quest’ultimo decennio, a Okinawa si è assistito alla nascita di variegate organizzazioni femminili, non necessariamente femministe, che si battono, oltre che contro la presenza militare, anche per la propria identità di donne, contro il sistema dei movimenti cittadini e delle “organizzazioni anti-base” guidate esclusivamente da una sorta di élite maschile. All’interno della società patriarcale di Okinawa, infatti, questi gruppi femminili sono spesso criticati da quelli maschili, che li accusano di limitarsi a protestare per i diritti e la protezione delle donne e a sottovalutare temi di interesse comune, quali la revisione del Trattato di sicurezza e la riduzione delle basi militari. Le battaglie dei vari gruppi a Okinawa sono fondamentalmente maschiliste e mantengono una cultura conservatrice male-centred.30 A questo proposito, in un’intervista del maggio 1999, Takazato Suzuyo afferma che in passato si diceva che Okinawa fosse soltanto “una ferita al dito mignolo del corpo Giappone” e, partendo da questa metafora, si chiede quanto spazio dunque può avere il dolore delle donne all’interno di questa già piccola ferita: In the past, Okinawan reversion activists used to say, ‘Okinawa is a pain in the little finger of a body of Japan’ to describe how the suffering of Okinawans was ignored by the Japanese. But I have always wondered, in that ‘pain in the little finger’, how much of the women’s pain has been represented? It is difficult for people to understand that women’s human rights are a political issue, because there are always ‘bigger’ ‘more important’ issues. Prostitution has always been a social issue, but not presented to the public in the same way as the compulsory military occupation of land, or US plane crashes.31

Ancora oggi, quindi, le donne di Okinawa si trovano da sole a combattere per far valere i propri diritti, per vivere una vita sicura; la stessa lotta politica okinawana, a causa anche della posizione marginale che la donna occupa all’interno della società, riserva uno spazio limitato al loro diritto di essere salvaguardate dalle violenze sessuali e dagli stupri.32 L’impegno e gli sforzi continui delle donne della comunità di Okinawa, per poter vivere in un territorio smilitarizzato e senza il potenziale e costante pericolo di subire aggressioni da parte dei militari statunitensi, ottengono risultati ancora troppo marginali e vanno comunque inseriti all’interno della cornice economica e politica nippo-statunitense che determina tuttora il ruolo chiave di Okinawa.

30 31 32

Tanji Miyume, Myth, Protest and..., cit., p. 160. Ibidem. Ibidem.


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U.S. Soldiers and Sexual Violence: the Okinawa Case (1945-2010) After the Second World War, the particular condition of Okinawa, due to the Treaty of San Francisco between USA and Japan in 1951, leaded to a deep militarization of the area. This essay focuses on problems coming from the presence of USA Military bases, especially for women, who often suffer sexual abuses or become rape victims of US soldiers. Dealing with rapes in Okinawa is a difficult issue since the lack of elements and also the favorable status enjoyed by GIs on the island. Thanks to a significant collaboration of the first Okinawan female association, OWAAMV, we have some data about sexual assaults and rapes. Even if the data are not complete, they are precious to gain a board picture of this problem and understand the daily life of Okinawa women.

アメリカ軍人と強姦:沖縄事件(1945-2010)

ヤッシン・マンカストロッパ 沖縄には第2次世界大戦後、アメリカの米軍基地が建てられた。今日 も米軍基地が多いので、いろいろな問題があり、例えば事故やレイプ や事件もある。この報告は沖縄女性たちの問題について扱っている。 社会的にレイプは本当に悪いことであるが、レイプの被害者である ことも否定的に見られてしまう。さらに、米軍関係者はSOFAのおかげ で、いろいろな特権を享受し、裕福な暮らしをしている。その結果、 レイプについてデータを見つけることは本当に難しい。それでも、沖 縄の「米軍基地を許さない行動する女たちの会」のおかげで、女性た ちの問題について資料が入手できた。この資料は1945年から20 08年までアメリカ軍人の強姦の犯罪のデータも含んでいる。


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Recenti sviluppi del diritto del lavoro giapponese nell’era della flessibilità: la ‘zona grigia’ dei lavoratori ‘atipici’

Il diritto del lavoro in Giappone La nascita del Diritto del Lavoro in Giappone si colloca nel periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In precedenza, pur essendo in vigore una normativa base volta a garantire una soglia minima di tutela per la fascia più debole della forza lavoro (donne e bambini), il rapporto di lavoro era visto come una normale relazione contrattuale e, di conseguenza, governata esclusivamente dalle disposizioni del Codice Civile.1 Fu quindi sotto l’occupazione americana, di cui subì l’influenza soprattutto per quel che riguarda la legge sui sindacati, che venne formandosi l’ossatura del diritto del lavoro giapponese. Quest’ultimo, escludendo le disposizioni in merito contenute nella Costituzione del 1946,2 si compone oggi di tre grandi macrosettori:3 • 個別的労働関係法 (Kobetsuteki Rōdō Kankei Hō): normativa sui rapporti individuali di lavoro (es.: 労働基準法 Rōdō Kijun Hō ‘Legge sugli standard di lavoro’); • 集団的労働関係法 (Shūdanteki Rōdō Kankei Hō): normativa sui rapporti collettivi di lavoro (es.: 労働組合法 Rōdō Kumiai Hō ‘Legge sui sindacati’); • 労働市場法 (Rōdō Shijō Hō): normativa che regola il funzionamento del mercato del lavoro (es.: 職業安定法 Shokugyō Antei Hō ‘Legge sulla sicurezza dell’impiego’). Tralasciando di occuparci del secondo, che cade al di fuori dello scopo del presente contributo, focalizzeremo l’attenzione sugli altri due, quelli che negli ultimi anni hanno subìto i maggiori interventi da parte del legislatore giapponese causando un notevole cambiamento in quello che, fino a pochi anni orsono, era stato il normale corso nella gestione dei rapporti di lavoro in Giappone. 1

Araki Takashi, Rōdōhō, Yūhikaku, Tokyo 2009, II ed., p. 9. La cosa, peraltro, non è molto dissimile da quanto accaduto in altri paesi europei, Italia compresa. In merito si veda Roccella Massimo, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli editore, Torino 2010, IV ed., cap. I. 2 Artt. 27-28, Nihon Koku Kenpō (Costituzione del Giappone). I diritti riconosciuti sono: diritto/ obbligo ad avere un’occupazione, diritto di associazione e di agire collettivamente. Si veda http://www. houko.com/00/01/S21/000.HTM#s3, (03/01/2012). 3 Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 20-21.


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La principale disciplina che regola i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro è la Rōdō Kijun Hō (Legge sugli standard di lavoro) che, entrata in vigore nel 1947, stabilisce gli standard minimi che regolano un rapporto di lavoro subordinato. In essa è, pertanto, contenuta tutta la normativa base in merito a retribuzione minima, orario di lavoro, infortuni, malattia e così via.4 Le disposizioni della Rōkihō (come viene spesso abbreviata), che come detto rappresentano uno standard minimo di trattamento derogabile solo in melius, vengono poi ampliate attraverso i contratti collettivi di lavoro (労働協約 rōdō kyōyaku) stipulati tra il datore di lavoro e l’organizzazione sindacale di riferimento e tramite le cosiddette 職業規則 Shokugyō Kisoku, set di norme poste a governo del rapporto di lavoro a livello aziendale e stabilite dal management in seguito a consultazione con il sindacato aziendale o, in sua assenza, con la maggioranza dei lavoratori. Su questo ramo principale della normativa lavorativa, il legislatore giapponese ha poi innestato le varie leggi speciali in materia di sicurezza dell’impiego, pari opportunità e tutti gli altri aspetti di un rapporto di lavoro con profili di specialità. Se si getta uno sguardo al corpus del Diritto del lavoro giapponese nel suo complesso,5 risulta subito evidente che è alquanto difficile riscontravi tracce di quel garantismo che ha caratterizzato, nel secondo dopoguerra, lo sviluppo della legislazione lavoristica in altri paesi industriali, in particolare europei. In Giappone, il governo ha sempre preferito delegare la protezione dei lavoratori e dell’impiego.6 In primo luogo ai tribunali, che hanno da sempre avuto un ruolo centrale nel colmare le lacune lasciate dal legislatore giapponese. Volendo dare un esempio tra tutti sul ruolo ricoperto dalle corti basti citare la disciplina in materia di licenziamento. Fino al 2004,7 a livello normativo, il datore di lavoro giapponese non incontrava alcun ostacolo alla sua libertà di licenziare il lavoratore, fatto salvo l’obbligo di preavviso (art. 627 c.c.) e di corresponsione di un’indennità pari a un mese di salario (art. 20 rōkihō). Fu quindi compito della giurisprudenza colmare questo vuoto normativo con una sentenza del 1979 della Corte Suprema che restrinse il campo d’azione del principio di libertà di licenziamento del datore di lavoro vincolandolo all’esistenza di una giustificazione, riconducibile al concetto di giusta causa.8 4

Ibidem, p. 47 e seg. Per una precisa, puntuale e breve panoramica sul diritto del lavoro giapponese si veda Oda Hiroshi, Japanese Law, Oxford University Press, Oxford 2009, III ed., cap. 16. 6 Olivier Passet, “Stability and Change: Japan’s Employment System Under Pressure”, in Peter Auer, Sandrine Cazes (eds.), Employment Stability in an Age of Flexibility, International Labor Office, Geneva 2003, pp. 161-164. 7 Nel 2004, come parte delle riforme concernenti il mondo del lavoro effettuate sotto il governo Koizumi, la Rōkihō venne emendata facendovi confluire il principio di ‘giusta causa di licenziamento’ già esistente nell’interpretazione della giurisprudenza (art. 18, co. 2). Il principio è stato incluso (art. 16) anche nella Rōdō Keiyaku Hō, la legge che dal 2007 regola i contratti di lavoro. 8 Thomas Bredgaard, Flemming Larsen, “Comparing Flexicurity in Denmark and Japan”, Japan Institute for Labour Policy and Training, Report by Visiting Researcher, 2007, p. 18, http://www.jil.go.jp/ 5


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Secondo l’interpretazione della corte,9 affinché un licenziamento non venga classificato come ‘illegittimo’ e non risulti pertanto nullo, devono sussistere quattro condizioni:10 • formulazione di un accordo con il sindacato aziendale; • comprovata incompetenza dimostrata dal lavoratore; • violazione dei regolamenti disciplinari dell’azienda; • esigenze connesse allo stato economico-finanziario dell’impresa.11 In secondo luogo alle aziende, tramite quella particolare forma di gestione delle relazioni industriali nota come 終身雇用制度 shūshin koyō seido (sistema dell’impiego a vita). Sviluppatosi durante il periodo di massima espansione dell’economia giapponese che seguì la fine della Seconda guerra mondiale, lo shūshin koyō seido si fonda su rapporti di lavoro a tempo indeterminato12 tra un datore di lavoro e un lavoratore che rimane nella stessa azienda per la sua intera vita lavorativa seguendo percorsi di promozione fondati principalmente sull’anzianità di servizio. Per tanti anni celebrato anche in Occidente, il principale vantaggio offerto dal sistema dell’impiego a vita giapponese è rappresentato da un elevato grado di flessibilità funzionale che, a differenza della flessibilità numerica, si fonda su un’elevata mobilità interna del lavoratore in termini di mansioni, compiti, orario di lavoro, straordinari.13 A questo va poi ad aggiungersi un grado praticamente inesistente di conflittualità con le parti sociali dal momento che le richieste di flessibilità si intendono comunque controbilanciate dai vantaggi di un impiego stabile e con possibilità di promozione, il che ha consentito una gestione estremamente fluida dei rapporti di lavoro. profile/documents/Denmark_final.pdf. 9 Si noti che la sentenza riguarda esclusivamente il personale regolare dell’azienda. 10 Araki Takashi, Labor and Employment Law in Japan, Japan Institute of Labor, Tokyo 2002, p. 26. 11 L’ultimo requisito, peraltro, richiede che vengano soddisfatte ulteriori quattro condizioni affinché il licenziamento per motivi economici possa essere considerato ‘ragionevole’: 1) necessità inevitabile di una decurtazione del personale; 2) messa in atto di ogni tentativo possibile per evitare il licenziamento (trasferimento, appalto, licenziamento del personale non regolare, ecc.); 3) consultazione preventiva con i rappresentanti sindacali; 4) stesura di standard equi e ragionevoli per la selezione dei dipendenti da licenziare. Ulrike Schaede, Choose and Focus: Japanese Business Strategies for the 21th Century, Cornell University Press, Ithaca 2008, p. 178. È significativo notare che, in anni recenti, alcune corti distrettuali (tribunali di prima istanza in Giappone) hanno modificato l’interpretazione dei quattro requisiti delineati dalla sentenza del 1979. In base alla nuova interpretazione, non è più necessario che le quattro condizioni co-sussistano. Resta da vedere, peraltro, se l’interpretazione delle corti distrettuali riuscirà a soppiantare quella della Corte Suprema, le cui sentenze sono tradizionalmente rivestite di notevole prestigio e autorevolezza. Araki Takashi, Labour and Employment Law…, cit., p. 26. 12 È importante sottolineare che la costituzione di questo sistema di gestione dei rapporti di lavoro, in particolare per ciò che riguarda l’aspetto della durata, non trova riscontro nel diritto del lavoro di fonte statale. Contrariamente ai paesi europei, la durata a tempo indeterminato non ha mai caratterizzato, da un punto di vista normativo, il modello standard di rapporto di lavoro subordinato. La sola disposizione della Rōkihō che faccia riferimento all’elemento della durata si limita a statuire che un contratto a tempo determinato non può superare i tre anni (art. 14). 13 Thomas Bredgaard, Flemming Larsen, “Comparing Flexicurity…”, cit., pp. 20-21.


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Questa sinergia di fattori ha dato vita a una realtà di organizzazione delle relazioni industriali mostratasi in grado di garantire un’elevata stabilità (di fatto, se non formale) di impiego per i cosiddetti 正規労働者 seiki rōdōsha14 – vale a dire lavoratori con contratto di lavoro full-time a tempo indeterminato, bonus e possibilità di avanzamento di carriera – lasciando la periferia, i lavoratori atipici appunto, ad assorbire gli urti delle fasi (cicliche) di recessione economica. Deregolamentazione e flessibilità del mercato del lavoro Con lo scoppio dell’economia della bolla, per il Giappone si concluse quell’epoca dorata caratterizzata da tassi accelerati e costanti di crescita, benessere sociale diffuso e livelli di quasi piena occupazione che erano stati i decenni precedenti. L’ingresso nel primo vero e proprio periodo di recessione economica che si ebbe in seguito alla crisi energetica degli anni Settanta ebbe un riflesso sulla legislazione del lavoro poiché anche in Giappone, in maniera non dissimile da quanto accaduto in diversi contesti nazionali occidentali, prese piede la discussione relativa alla deregolamentazione del mercato del lavoro e flessibilità dell’impiego. L’idea della stabilità del posto di lavoro o, comunque, del pesante intervento dello Stato nell’ambito della gestione dei rapporti di lavoro era venuta formandosi nel periodo di diffusa crescita economica avutasi nella maggior parte dei paesi industriali nel ventennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, già in seguito alla crisi petrolifera del 1973 la prospettiva cambiò e quelle che fino ad allora erano state celebrate come garanzie necessarie poste a tutela di un rapporto contrattuale che non poteva considerarsi sullo stesso piano di altri, iniziarono a essere denunciate come ‘rigidità’ che, vincolando le imprese nella loro organizzazione della forza lavoro, ostacolavano il corretto funzionamento del mercato del lavoro.15 Discorsi di questo tipo non vennero risparmiati neppure in Giappone. Questo nonostante il fatto che, come si accennava, il mercato del lavoro giapponese, da un lato, potesse già definirsi flessibile (flessibilità funzionale); e, dall’altro, mancasse quel pesante garantismo statale che aveva invece caratterizzato le relazioni industriali in altri paesi occidentali avendo, il legislatore giapponese, sempre preferito tenersi ai margini della gestione dei rapporti di lavoro: le rigidità del mercato del 14

Secondo uno studio di Ono, sarebbe in realtà solo un 20 % della forza lavoro giapponese a essere beneficiaria dello shūshin koyō seido (includendo nella stima solo quei lavoratori che sono stati assunti subito dopo la laurea e sono rimasti/si presuppone rimarranno all’interno della stessa azienda fino al pensionamento). Ono Hiroshi, ‘Lifetime Employment in Japan: Concepts and Measurements’, Journal of Japanese and International Economies, 24, 1, 2010, pp. 1-27. Come fanno giustamente notare Bredgaard e Larsen, tuttavia, ciò non significa che la percentuale restante sia costituita interamente da rapporti di lavoro atipici a tempo determinato. Si veda Thomas Bredgaard, Flemming Larsen, “Comparing Flexicurity…”, cit., p. 19. 15 Ronald Dore, “The end of jobs for life? Corporate Employment Systems: Japan and Elsewhere”, Centre for economic performance, occasional paper no. 11, 1996, p. 6.


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lavoro giapponese non sono mai state rigidità di carattere legislativo quanto piuttosto rigidità ‘auto-imposte’ tanto da essere definite anche ‘rigidità flessibili’.16 Di conseguenza, nel Paese del Sol Levante, il discorso sulla 規制緩和 kisei kanwa si concentrò essenzialmente su due punti:17 • agire, tramite il rilassamento della normativa, sul mercato esterno del lavoro che, praticamente immobile, impediva il movimento dei lavoratori dai settori in declino ai settori emergenti in questo modo rallentando la ristrutturazione dell’economia; • nuova normativa che portasse a una diversificazione delle tipologie lavorative: da un lato, perché in un contesto economico sempre più globale non poteva tardare ad avvertirsi la concorrenza di paesi con un costo del lavoro più basso;18 dall’altro, come mezzo per contrastare la crescente disoccupazione, soprattutto giovanile.19 Questa spinta verso la deregolamentazione, si tradusse in una serie di interventi legislativi di cui, in questa sede, vorrei prendere in esame quelli che negli ultimi anni hanno causato maggior dibattito: • 労働者派遣法 Rōdōsha Haken Hō; • パートタイム法 Pāto Taimu Hō. Rōdōsha Haken Hō In maniera non dissimile da quanto avvenuto in Italia, anche in Giappone il collocamento dei lavoratori è avvenuto per molti anni in un regime di (quasi) totale monopolio statale.20 L’art. 44 della Shokugyō Antei Hō (Legge sulla sicurezza dell’im16

“By self-imposed rigidities, I mean the acceptance, by managers, of a wide range of constraints on their freedom of action – lifetime employment guarantees, tight seniority constraints on promotion, acceptance of the need to engineer consent, to maintain close consultation with employees or their unions – that acceptance of constraint being rewarded by a ‘commitment’ on the part of employees which greatly facilitates the firm’s ‘flexible’ adaptation to new technologies and new market opportunities”, Ibidem, p. 8. 17 Araki Takashi, “Changing Japanese Labor Law in Light of Deregulation Drives: a Comparative Analysis”, Japan Institute of Labor Bulletin, Special Topic, 36, 5, maggio 1997, http://www.jil.go.jp/jil/ bulletin/year/1997/vol36-05/06.htm. 18 A cui andava ad aggiungersi peraltro il timore di delocalizzazione all’estero. 19 Il Giappone ha ancora oggi livelli di disoccupazione che, per i paesi europei, sarebbero forse auspicabili sebbene si riconosca che i dati raccolti a cadenza semestrale dal kōsei rōdōshō siano parzialmente falsati dal fatto che spesso le statistiche non tengono conto della percentuale dei 潜在的失業者 senzaiteki shitsugyōsha, persone che vorrebbero un lavoro ma hanno rinunciato a cercarlo nella convinzione di non poterne ottenere uno. Si veda Goka Gazumichi, Koyō no Danryokuka to Rōdōsha Haken [to] Shokugyō Shōkai Jigyō, Ōtsuki shoten, Tokyo 1999, pp. 93-95. Come fatto notare da Passet, peraltro, la percentuale dei ‘disoccupati invisibili’ in Giappone è di gran lunga superiore alla media dei paesi europei e degli Stati Uniti. Si veda Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., p. 188. 20 La logica che in molti paesi ha portato al divieto di mediazione privata nel collocamento era stata dettata da un’esigenza di controllo del mercato del lavoro per evitare prassi discriminatorie e consentire un’equa distribuzione delle opportunità di lavoro.


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piego, 1947) proibiva tassativamente qualsiasi appalto o subappalto di lavoratori tranne che per 29 tipologie lavorative (cuochi, designer, infermieri, ecc.) definite dall’art. 24 dell’ordinanza esecutiva della legge stessa e per le quali era comunque richiesta una licenza da parte dell’allora ministero del lavoro.21 L’iter per ottenere il permesso di effettuare operazioni di mediazione privata era inoltre lungo, complesso e non privo di ambiguità.22 Il divieto venne mantenuto fino alla metà degli anni Ottanta ma, già nel decennio precedente, in seguito alla crisi petrolifera del 1973, lo scenario era andato parzialmente mutando e si iniziò a puntare ai limiti del sistema statale di collocamento dei lavoratori. La strada che portò alla riforma del sistema venne aperta nel luglio del 1978 da una raccomandazione23 del 行政管理庁gyōsei kanri chō (Agenzia per la gestione dell’amministrazione) che auspicava una parziale apertura ai privati nell’organizzazione del mercato del lavoro che contribuisse a oleare i meccanismi di funzionamento dei servizi per l’impiego, in questo modo rendendo più fluido l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. L’allora ministero del lavoro recepì la raccomandazione e avviò l’iter legislativo24 che portò dapprima alla riforma della Shokugyō Antei Hō con l’abolizione del divieto di mediazione privata previsto dall’art. 44 e, successivamente, all’entrata in vigore, nel luglio del 1985, della Rōdōsha Haken Hō.25 Senza voler entrare nei dettagli della disciplina, basti dire che il regime normativo della legge era inizialmente estremamente rigido: l’attività delle cosiddette 派遣事業 Haken Jigyō veniva consentita secondo un percorso ben controllato di licenze ed era ammessa esclusivamente la somministrazione di lavoratori altamente specializzati, per un periodo non superiore a un anno e solo per 13 tipologie lavorative (sistema della ポシティブ・リストo ‘lista positiva’). La disciplina, tuttavia, venne con il tempo progressivamente rilassata: • 1996: le tipologie lavorative ammesse vennero portate a 26; • 1999: passaggio dal sistema della ‘lista positiva’ a quello della ‘lista negativa’ 21

Araki Takashi, “Changing Japanese Labor…”, cit. Fino alla riforma del 1999, la Shokugyō Antei Hō era stata sovente criticata in quanto predisponeva dei requisiti di licenza alquanto vaghi e consentiva una notevole discrezione da parte del ministero nel suo rilascio. La riforma del 1999 tentò di risolvere, in parte, il problema semplificando le procedure di acquisizione e statuendo che ‘il ministro del lavoro è tenuto al rilascio della licenza quando la richiesta soddisfi i requisiti di legge’ (art. 31). Si veda Araki Takashi, “1999 Revisions of Employment Security Law and Worker Dispatching Law: Drastic Reforms of Japanese Labor Market Regulations”, Japan Institute of Labor Bulletin, Special Topic, 38, 9, settembre 1999, http://www.jil.go.jp/jil/bulletin/ year/1999/vol38-09/06.htm. 23 民営職業紹介事業等の指導監督に関する行政監察結果に基づく勧告 (‘Raccomandazione basata sui risultati dell’ispezione amministrativa relativa alla direzione e controllo delle agenzie private di collocamento’). 24 Come giustamente fatto notare da Imai, peraltro, la riforma nacque soprattutto con l’obiettivo di regolamentare pratiche di somministrazione e appalto dei lavoratori che si erano venute sviluppandosi all’ombra del diritto già a partire dai primi anni Settanta. Si veda Imai Jun, The Transformation of Japanese Employment Relations, Palgrave Macmillan, Basingstoke, Hampshire 2011, pp. 56-58. 25 Goka Gazumichi, Koyō no Danryokuka…, cit., pp. 103-104. 22


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che comportava una sostanziale liberalizzazione dell’attività di somministrazione fatto salvo per le 26 tipologie lavorative stabilite con ordinanza ministeriale;

2003: con la riforma del 2003, sotto il governo Koizumi, il processo può dirsi concluso.26

Questa riforma ha visto, da un lato, la semplificazione del procedimento amministrativo per costituirsi somministratori, portando quindi a un forte aumento del numero di soggetti abilitati ad offrire somministrazione di lavoratori; dall’altro, ha anche dilatato enormemente lo spazio riconosciuto alla mediazione privata: • è caduta la proibizione sulla somministrazione dei lavoratori del settore manifatturiero;27 • il periodo per cui è possibile essere impiegato con un contratto di somministrazione è stato esteso da 1 a 3 anni;28 • legittimazione della somministrazione anche per brevissimi periodi (inizialmente venne consentita la fornitura di manodopera anche per un giorno ma, durante il governo di Abe Shinzō, la disposizione venne eliminata e il periodo minimo di fornitura deve essere oggi di almeno un mese).29 Volendo usare le parole si Massimo Roccella30, l’elemento di ‘atipicità’ estrema del lavoro somministrato consiste nella dissociazione fra il soggetto che assume il lavoratore al solo scopo di appaltarne le prestazioni (派遣元 hakenmoto) e il soggetto che quelle prestazioni andrà a utilizzare (派遣先 hakensaki): da questo punto di vista, si riconosce che l’introduzione di un terzo tra datore di lavoro e dipendente, già parte debole del contratto, rende il rapporto di lavoro ancora più instabile, soprattutto per quello che riguarda la tutela del lavoratore. Se si getta uno sguardo al testo della Rōdōsha Haken Hō, si può notare che l’instabilità di questo rapporto di lavoro così come la scarsa tutela del lavoratore è quanto mai evidente ed esasperata dall’estrema ambiguità e approssimazione del dettato normativo. Sebbene, infatti, per quello che riguarda la retribuzione, sicurezza sul lavoro e versamento dei contributi previdenziali (che, peraltro, avviene solo per contratti superiori a due mesi) viene stabilita una forma di responsabilità solidale fra utilizzatore e somministratore, tutta la sfera relativa a parità di tratta26

Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 435-438. Rōdōsha haken Jigyō no Tekiseina Un’ei no Kakuho oyobi Haken Rōdōsha no Shūgyō Jōken no Seibi tō ni kansuru Hōritsu, l. 88/1985, Titolo II, Sezione I. Subito dopo lo scoppio della crisi economica del 2008, che vide il licenziamento in massa da parte di molte aziende del settore di haken rōdōsha, un intenso dibattito si era aperto all’interno della Dieta relativamente alla necessità di sottrarre nuovamente il settore manifatturiero al campo d’applicazione della legge. La legge è stata nuovamente modificata nel marzo del 2012, ma il Partito Democratico non è riuscito a far passare la norma che avrebbe nuovamente proibito la somministrazione di lavoro nel settore. Si veda “Labor Situation in Japan and Analysis: Detailed Exposition 2011/2012”, Japan Institute for Labour Policy and Training, 4, p. 4, http://www. jil.go.jp/english/lsj.html. 28 Titolo II, Sezione II, l. 88/1985. 29 Ivi. 30 Massimo Roccella, Manuale…, cit., p. 203. 27


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mento, principio di non discriminazione (in base al sesso, nazionalità, credo ecc.), assistenza socio-sanitaria, infortunio e malattia rimane confinata nell’ambito di 努 力義務 doryoku gimu: in altre parole, in capo all’utilizzatore e al somministratore non viene posto alcun obbligo vincolante ma viene semplicemente chiesto loro di ‘adoperarsi’ per ‘promuovere’ il welfare dello haken rōdōsha (art. 30).31 A rendere la legge ancora più approssimativa, va poi ad aggiungersi la totale assenza di un apparato sanzionatorio in caso di mancato rispetto del doryoku gimu, concetto così aleatorio che è già di per sé estremamente difficile da dimostrare. Sanzioni effettivamente sostanziali sono solo quelle contenute nel Titolo V e si applicano nel caso in cui la somministrazione si svolga a prescindere dalle regole stabilite.32 Queste possono andare da una semplice multa a, nei casi più gravi,33 perdita dei requisiti di licenza e fino a un anno di detenzione. Lo Stato, in ogni caso, si riserva dapprima il diritto di indirizzare ‘consigli’ e ‘raccomandazioni’ ai soggetti interessati e, in caso di mancata recezione, di rendere pubblico il fatto34 (art. 49, co. 2-3). Nella sua versione originaria, la Rōdōsha Haken Hō non era stata intesa come legge volta alla liberalizzazione delle attività di fornitura di manodopera quanto piuttosto di lavoro altamente specializzato. La riforma del 1999 della legge, tuttavia, ha apportato un notevole cambiamento sotto questo profilo generando il rischio che gli haken rōdōsha vadano a rappresentare una forma di lavoro precario35 a basso costo.36 Pāto Taimu Hō Rispetto agli haken rōdōsha, la situazione dei lavoratori part time è leggermente diversa e, per certi versi, più stabile in quanto spesso si tratta di lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato,37 tanto che nelle statistiche e indagini con-

31

Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 438-442. Ad esempio, nel caso in cui l’utilizzatore continui ad avvalersi della prestazione del lavoratore anche dopo lo scadere del contratto di somministrazione e senza aver proceduto a fargli un’offerta diretta di lavoro. 33 Ad esempio nel caso in cui allo haken rōdōsha venga assegnato un lavoro che metta in pericolo la salute pubblica o nel caso di somministrazione di lavoratori privi del permesso di soggiorno. 34 Sebbene, in un contesto come quello giapponese, questo possa essere un deterrente quanto mai efficace. 35 La legge, infatti, enfatizza come il rōdōsha haken debba avere carattere esclusivamente temporaneo. 36 Araki Takashi, “1999 Revisions of…”, cit. Peraltro, la voce ‘Ridurre i costi del lavoro’ è la voce più selezionata dai datori di lavoro nelle statistiche governative alla domanda sul perché dell’utilizzo di forme di lavoro atipico. Si veda JILPT, “Labor Situation in Japan…”, cit., p. 4. 37 Oppure, generalmente, con contratto a tempo determinato rinnovato più volte nel tempo. In questo caso, secondo l’interpretazione corrente nella giurisprudenza, il rifiuto di rinnovo può dare adito a procedimento per licenziamento senza giusta causa dal momento che i ripetuti rinnovi danno luogo a una ragionevole aspettativa, da parte del lavoratore, sulla continuazione del rapporto di lavoro. 32


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dotte dal Kōsei rōdōshō vengono spesso inseriti sotto la voce 短時間正社員 Tanjikan Seishain ‘lavoratori regolari a tempo parziale’. La legge sul lavoro a tempo parziale fece la sua prima comparsa in Giappone nel 1993 per venire incontro da un lato alle esigenze delle aziende di rispondere alle fluttuazioni del carico di lavoro giorno per giorno o settimana per settimana; dall’altro, alle necessità dei lavoratori, soprattutto donne, di avere un orario di lavoro flessibile che consentisse di conciliare al meglio vita lavorativa e vita privata. Entrata in vigore nel 1994, la Pāto Taimu Hō è stata totalmente emendata con la riforma del 2007.38 La necessità della riforma era stata dettata dall’esigenza di garantire ai lavoratori part time parità di trattamento rispetto ai colleghi a tempo pieno impiegati nello stesso posto di lavoro. La legge del 1994, infatti, era stata concepita come normativa interamente programmatica che, esattamente come l’attuale Rōdōsha Haken Hō, poneva in capo al datore di lavoro non un obbligo di legge ma un mero doryoku gimu. Dato il forte aumento nell’utilizzo di personale a tempo parziale, che a tutt’oggi rappresenta la percentuale più alta di lavoratori atipici, si sentì il bisogno di una sistematizzazione della normativa che aveva a oggetto questo tipo di rapporto di lavoro, bisogno sfociato, appunto, nella riforma del 2007 ed entrata in vigore nell’aprile del 2008.39 Per certi versi, i pāto rōdōsha sono dotati di uno status legale più definito rispetto a quello degli haken rōdōsha: a fronte di un monte di lavoro al di sopra delle 20 ore settimanali e di un reddito compreso tra 130000 e 180000 yen, hanno diritto al pagamento dell’assistenza sanitaria e dei contributi previdenziali.40 Inoltre, l’attuale disciplina41 prevede l’applicazione anche ai part timer delle shokugyō kisoku (art. 7) così come delle restrizioni al principio di libertà di licenziamento del datore di lavoro. In favore dei pāto rōdōsha, è stato anche previsto un diritto di precedenza (art. 12) che il datore di lavoro deve rispettare a fronte di nuove assunzioni di personale a tempo pieno sebbene, in quest’ultimo caso, ci si trovi nuovamente di fronte a una lacuna normativa dal momento che non viene previsto nessun tipo di sanzione in caso di mancato rispetto dell’obbligo. Altrettanto lacunosa rimane, nonostante le intenzioni del legislatore, tutta la parte relativa al principio del medesimo trattamento del lavoratore part time: gli articoli in merito a retribuzione oraria (art. 9), formazione (art. 10) e benefit (art. 11), anche dopo la riforma del 2007,

38

Araki Takashi, Rōdōhō, cit., p. 425. Ibidem. 40 Il sistema fiscale giapponese di imposta sul reddito, peraltro, crea una sorta di incentivo a non eccedere il limite (almeno nelle ore di lavoro dichiarate), soprattutto da parte di lavoratrici sposate. Per redditi inferiori a 1 milione di yen l’anno, infatti, l’imposta non viene applicata. Si veda Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., p. 194. 41 Si veda Tanjikan Rōdōsha no Koyō Kanri no Kaizen tō i kansuru Hōritsu, l, 76, 1993 o, per una summa, Araki Takashi, Rōdōhō, cit., pp. 425-429. 39


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continuano a essere norme non tassative e a rimettere la parità del trattamento alla discrezione del datore di lavoro (doryoku gimu).42 Altro punto problematico della Pāto Taimu Hō, inoltre, può essere considerata l’approssimazione della definizione stessa di lavoratore part time. L’art. 2 della legge, infatti, definisce un tanjikan rōdōsha come “un lavoratore che abbia un monte ore settimanale inferiore rispetto a quello di un lavoratore a tempo pieno impiegato nello stesso luogo di lavoro”.43 È proprio questa ambiguità normativa all’origine del fenomeno dei cosiddetti フルタイムパート (o giji pāto 擬似パート): lavoratori di fatto a tempo pieno ma che vengono assunti con uno status da part time con un notevole risparmio di costi per il datore di lavoro.44 Questo perché l’intero trattamento economico dei lavoratori part time, non solo in termini di retribuzione ma anche in termini di malattia, assistenza sanitaria ecc. è riproporzionato a fronte della ridotta entità della prestazione lavorativa. Da quanto detto, risulta evidente che, rispetto agli haken rōdōsha, i part timer sono collocati all’interno di un rapporto di lavoro certamente più stabile e sicuro derivante anche in parte dal fatto che sono spesso assunti con contratto a tempo indeterminato o con contratti a termine ripetutamente rinnovati. C’è poi da aggiungere che, a differenza di altri hitenkei rōdōsha, i pāto rōdōsha stanno iniziando a essere parzialmente organizzati sindacalmente. Per molti anni i sindacati giapponesi, sia quelli aziendali sia le grandi confederazioni come la Rengō, si erano sempre rifiutati di includere i part timer, e in generale tutte le altre categorie di lavoratori atipici, nelle loro attività. Ultimamente, almeno per quello che riguarda i lavoratori a tempo parziale, la situazione è andata parzialmente mutando: in alcuni settori, i sindacati aziendali hanno iniziato a organizzare i part timer e ad avviare negoziazioni con il management per dare il via a percorsi di carriera ad hoc che prevedano promozioni, relativi aumenti di stipendio e bonus.45 42

Il divieto di trattamento discriminatorio è invece tassativo (‘差別的取扱いをしてはならない’) nel caso di lavoratori part time assunti a tempo indeterminato che svolgano le stesse mansioni e abbiano lo stesso grado di responsabilità di un lavoratore a tempo pieno assunto nello stesso posto di lavoro (art. 8, co. 1). È tuttavia molto difficile che queste condizioni vengano soddisfatte. 43 『この法律において「短時間労働者」とは、一週間の所定労働時間が同一の事業所に 雇用される通常の労働者の一週間の所定労働時間に比し短い労働者をいう』 44 Hartmut Seifert, “Atypical Employment in Japan and Germany”, Japan Institute of Labour Policy and Training, reports by visiting researchers, maggio 2010, p. 10, http://www.jil.go.jp/profile/documents/Seifert.pdf. Circa il 30% di lavoratori part time in Giappone rientra nella categoria dei giji pāto. 45 Si veda Arjan B. Keizer, “The Dynamics between Regular and Non-Regular Employment: Labour Market Institutionalisation in Japan and the Netherlands”, Japan Institute for Labour Policy and Training, reports by visiting researchers, febbraio 2008, pp. 17-25, http://www.jil.go.jp/profile/documents/ Keizer.pdf. C’è peraltro da sottolineare che l’inversione di tendenza è forse più una questione di necessità che di libera scelta. Soprattutto in alcuni settori, come quello delle vendite e dei servizi, i part time rappresentano di gran lunga la maggioranza dei lavoratori e ciò fa sì che i sindacati si trovino per forza di cose costretti a includerli. La cosa sembrerebbe peraltro confermata dal fatto che lo stesso atteggiamento non si riscontra nei confronti degli altri lavoratori irregolari, con il rischio di generare ulteriori disparità e segmentazioni all’interno della forza lavoro irregolare.


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Questo, tuttavia, non li rende meno esposti a condizioni di lavoro nettamente inferiori rispetto ai loro colleghi a tempo pieno. Come è stato fatto notare, inoltre, la situazione è complicata dal fatto che negli ultimi anni si è registrato un cambiamento nella composizione della forza lavoro a tempo parziale. Fino agli anni Novanta, infatti, erano soprattutto donne sposate che erano uscite dal mondo del lavoro a causa della nascita dei figli e vi rientravano una volta che questi erano cresciuti (le cosiddette パート妻 pāto tsuma) a rappresentare la più alta percentuale di lavoratori part time. Con l’ingresso nel nuovo millennio, invece, si è registrato un notevole aumento di lavoratori a tempo parziale i cui guadagni rappresentano anche la sola fonte di reddito per la propria famiglia.46 Sviluppi, questi, che renderebbero quindi ancora più necessaria da parte del governo giapponese una sistematica politica del lavoro in grado di indirizzare i nuovi sviluppi cui si assiste nel mercato del lavoro nipponico. La ‘zona grigia’ dei lavoratori ‘atipici’ Pur avendo limitato il nostro discorso a due sole categorie di lavoratori atipici, ritengo risulti abbastanza chiaro perché si è deciso di collocarli in quella che definisco come una ‘zona grigia’. Negli ultimi vent’anni, nonostante la percentuale di hitenkei koyōsha sia quasi raddoppiata raggiungendo la quota del 34,9% nel 201047 il legislatore giapponese sembra aver fatto – voler fare – ben poco per promuovere la parità di trattamento di questi lavoratori che, pertanto, a differenza dei seiki rōdōsha, rimangono ‘scoperti’ su due fronti: • da un lato, la loro tutela resta affidata a pure e semplici norme programmatiche che nulla fanno in termini di garanzie e stabilità dell’impiego preferendo, il governo giapponese, conservare il suo tradizionale posto in una zona ai margini della gestione delle relazioni industriali; • dall’altro, gli hitenkei koyōsha rimangono comunque esclusi dal sistema di protezione dell’impiego garantito dalle aziende da cui vengono utilizzati non solo e non tanto come cuscinetti di flessibilità, come si è spesso ritenuto, ma piuttosto come ammortizzatori del costo del lavoro e questo, spesso, proprio per mantenere in essere la tenuta dello shūshin koyō seido per il nucleo della propria forza lavoro rappresentato dai seiki rōdōsha.48

46

Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., pp. 176-177 e Araki Takashi, Rōdōhō, cit., p. 410. Sōmushō, Rōdōryoku chōsa – shōsai shūkei – Heisei 22, p. 1, http://www.stat.go.jp/data/roudou/ sokuhou/4hanki/dt/pdf/05500.pdf. 48 Arjan B. Keizer, “The Dynamics between Regular and Non-Regular…”, cit., p. 18. 47


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Conclusioni e prospettive future Questo il quadro delineato, le conclusioni parziali che si possono trarre sono: • la normativa sul lavoro atipico, concepita dal legislatore giapponese come strumento per rendere più flessibile il mercato (esterno) del lavoro, ha generato un proliferare di tipologie di lavoro c.d. ‘non-standard’ che vengono utilizzate dalle imprese principalmente per ridurre i costi del lavoro. Questo, a sua volta, sembra aver portato a un superamento della tradizionale natura duale del mercato del lavoro giapponese, che risulta oggi estremamente frammentato in base a qualifiche (possedute dal singolo lavoratore), sesso ed età;49 • l’aumento della percentuale di hitenkei koyōsha non sembra finora aver intaccato la logica dello shūshin koyō seido50 anzi viene spesso utilizzato come mezzo complementare per mantenerlo in essere,51 cosa dimostrata dal fatto che sono soprattutto i giovani e le donne52 a essere confinati, spesso involontariamente, in rapporti di lavoro atipici che comportano necessariamente standard di lavoro più bassi;53 • tutto questo contribuisce a far aumentare, in particolare tra i neolaureati, il senso di insicurezza (不安 fuan) e precarietà riguardo al posto di lavoro, nonostante il Giappone conservi ancora una posizione molto alta nelle statistiche OCSE per ciò che riguarda la stabilità dell’impiego.54 È difficile azzardare ipotesi sul modo in cui andrà evolvendosi il mondo del lavoro in Giappone nei prossimi anni. Quel che è certo è che, a fronte dei cambiamenti che si sono avuti in seguito allo scoppio della bolla e del continuare dell’instabilità economica, sarebbe forse auspicabile, per non dire necessario, un ripensamento del modo con cui i rapporti di lavoro sono stati finora gestiti nel Paese del Sol Levante. Un ripensamento che veda un ruolo più attivo da parte dello Stato, non solo in termini di politiche attive del lavoro ma anche in termini di predisposizione di un apparato di tutela del lavoratore in caso, per esempio, di perdita dell’impiego.55 49

Si veda Imai Jun, The Transformation of…, cit., cap. 3. Quantomeno per quello che è sempre stato il ‘nucleo’ della forza lavoro giapponese. 51 Arjan B. Keizer, “The Dynamics between Regular and Non-Regular…”, cit., p. 25. Secondo le statistiche, la percentuale di impiego regolare si è mantenuta costante tra il 1987 e il 2007 mentre la percentuale totale di impiego è aumentata del 10%, a indicare che l’aumento è probabilmente dovuto a un espansione nell’utilizzo di lavoro non standard. In merito si veda Imai Jun, The Transformation of…, p. 66. 52 Le donne, in quanto tradizionali escluse dal sistema dell’impiego a vita. I giovani, invece, in quanto molte aziende hanno contratto le nuove assunzioni preferendo ricorrere a forme di lavoro temporanee per tutte le attività non rientranti nel ‘core business’. 53 Si veda Goka Gazumichi, “Koyō no Danryokuka to Rōdō Kijun”, Kanagawa Daigaku Keizai Gakubu Ronshū, 20, 2, marzo 2000. 54 Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., p. 161. Per uno studio più esteso e dettagliato sul punto si veda Genda Yūji, A Nagging Sense of Job Insecurity: the New Reality Facing Japanese Youth, IHouse Press, Tokyo 2006. 55 I sussidi di disoccupazione in Giappone (significativamente chiamati Koyō Hoken ‘assicurazione per l’impiego’) hanno una durata che va da un minimo di 90 giorni a un massimo di 360. L’eligibilità varia 50


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Recent Developments in Japanese Employment Law in the Era of Flexibility: the ‘Gray Zone’ of Atypical Workers Over the last thirty years, almost all mature economies of post-industrial countries have experienced a general shift towards the diffusion of ‘non-standard’ forms of employment, due to a widespread call for deregulation of labour markets. Japan seems to have been no exception to this rule. After a brief introduction to Japanese labour legislation and the way labour relations have been managed in past years, the article analyzes two of the most debated pieces of legislation promulgated by the Japanese government to revitalize the Japanese external labour market, the Rōdōsha Haken Hō and the Pāto Taimu Hō. It then tries to draw some conclusions on the way this legislative changes have been translated into labour market behaviour and the effects they seem to have had on the composition of the workforce.

弾力化の時代における日本労働法の近時の発展

マリナーロ・ファビアーナ 非典型雇用者の状況を中心に長期に渡り経済が成長していた日本はい わゆるバブル経済崩壊後1990 年代から不況になり、規制緩和が政府の 政策の機軸におかれて、労働分野においても規制緩和に関する法律が 制定されてきた。例えば、この時期に改正された法律としては、短時 法と労働者派遣法がある。短時法改正により、短時間労働者の果たす 役割の重要性が増大し、労働者派遣法改正では労働者派遣事業に関す る規制を緩めることにより派遣労働者が活用され、その活躍の範囲が 大幅に広げられた。この様な法律の施行は日本の労働市場に影響を与 え始め、現在は日本の企業の多くが非正社員を活用している。 本稿の目的は、上述の法律を分析する上で、非正規社員の中でパート と派遣労働者を取り上げ、非正規社員の活用の事態と均衡処遇の問題 を検討することである。

a seconda dell’età, del numero di anni per cui si è versato il contributo relativo così come dalle ragioni alla base dello stato di disoccupazione. Il sussidio non è in genere superiore a più del 60% dell’ultimo stipendio e la sua erogazione è subordinata alla condizione che il disoccupato dimostri di star attivamente cercando un nuovo lavoro (artt. 10-14, Koyō Hoken Hō, l, 116/1974). Impegno che è tutto a carico della persona che ha perso il posto di lavoro data la scarsità delle misure governative volte a favorire, per esempio, la riqualificazione professionale. Si veda Olivier Passet, “Stability and Change…”, cit., pp. 204-205.



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L’isolamento della civiltà giapponese: l’assimilazione delle culture straniere attraverso gli oggetti, non attraverso le persone

Il titolo del mio saggio è L’isolamento della civiltà giapponese: l’assimilazione delle culture straniere attraverso gli oggetti, non attraverso le persone. L’espressione “isolamento della civiltà giapponese” è stata ripresa da Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntington, di cui parlerò più diffusamente in seguito. I giapponesi sostengono che la cultura autoctona ha sempre accettato e sviluppato le culture straniere, invece Huntington afferma che si tratta di una civiltà isolata. Come si spiega questo divario di interpretazione tra autoanalisi e analisi fatta dall’esterno? Il Giappone è aperto o chiuso? Il divario fra le diverse concezioni dell’arte giapponese (il Giappone, l’Occidente) La questione presenta delle affinità con il mio interesse per la diversa immagine che il Giappone e l’Occidente hanno dell’arte giapponese. Per un certo periodo mi sono occupato di belle arti, storia dell’arte, studi di storia dell’arte nel Giappone moderno. Poi, mi è venuta voglia di cercare l’origine di quella differenza nella storia premoderna. Prima di affrontare il cuore del problema al centro di questo saggio, vorrei accennare ai motivi per cui mi sono interessato della questione delle diverse immagini dell’arte giapponese. Il mio campo di specializzazione è la storia dell’arte giapponese moderna, e negli ultimi venti anni mi sono concentrato sulle teorie istituzionali dell’arte. Ho iniziato per una ragione molto semplice: venticinque anni fa stavo lavorando a una sorta di inventario delle collezioni d’arte moderna giapponese negli Stati Uniti, quando scoprii che negli USA l’immagine dell’arte giapponese, rappresentata principalmente dalle stampe ukiyo e 浮世絵 e dagli oggetti artigianali, era ben diversa dal Giappone, dove era legata all’arte buddista, alla pittura a inchiostro di china e allo yamato e 大和絵. In particolare per me, in quanto specialista di storia dell’arte moderna, fu un vero e proprio choc scoprire che erano estremamente rare le opere di quegli artisti ritenuti da noi fra i più rappresentativi, fatta eccezione per poche collezioni. Tendenza questa che si evidenzia anche nelle collezioni europee. [Fig.1 e Fig.2]


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Fig.1 Taishakuten, Tōji, IX sec.

Fig.2 Utagawa Kuniyoshi, bakanishita hito da, XIX sec.

Hito

wo

Se si trattasse soltanto di una differenza di gusto, sarebbe naturale e non ci sarebbe nemmeno da discuterne. Ma dal punto di vista storico, la differenza di gusto non può rappresentare una risposta soddisfacente, visto che le belle arti, la storia dell’arte e gli studi di storia dell’arte nel Giappone moderno hanno seguito il modello occidentale. Eppure, si è creato un simile divario. Una situazione a rischio, che poteva mettere in dubbio la modernizzazione dell’arte giapponese stessa. Mi convinsi che proseguire gli studi sull’arte moderna tralasciando questo problema, potesse ingigantirlo. Perché dunque si è creato un simile divario d’immagini della modernità storica e artistica? Dipende dalle opere stesse o è un problema di “valutazione”? È a partire da questi interrogativi che negli ultimi venti anni ho sviluppando le mie ricerche, approfondendo il discorso della gestione dell’arte nel Giappone moderno, del flusso (cioè dell’esportazione) delle opere d’arte all’estero, e dei legami con il japonisme. In poche parole, la conclusione è che l’immagine del Giappone propugnata dal japonisme e quella che l’ideologia nazionale voleva mostrare all’Occidente sono state entrambe abilmente sfruttate, a seconda della situazione. La prima diventò l’immagine dell’arte giapponese in Occidente e la seconda diventò l’immagine dell’arte giapponese in Giappone. Questo divario, allora, è soltanto una delle immagini scaturite dalle teorie del XIX secolo? Il Giappone moderno non è nato dal nulla, senza nessun vincolo con il passato, quindi il problema sarà legato piuttosto al modo in cui la cultura e l’arte straniere vengono interpretate in Giappone, o meglio al fondamento dell’arte giapponese. È


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così che si è formata in me l’idea che proprio da questo poteva nascere un’interpretazione come quella proposta da Huntington. Oggi tratterò quasi esclusivamente delle epoche precedenti la modernità. Per un paese come il Giappone, circondato dal mare, il che rende difficoltosi i viaggi all’estero, l’assimilazione delle culture straniere era presumibilmente condizionata dai tre seguenti fattori: - Per prima cosa, le modalità dell’assimilazione variano a secondo del tipo di cultura in esame: le arti performative, per esempio la musica, devono essere trasmesse direttamente dalle persone; la cultura materiale, come è il caso delle belle arti, si può apprendere attraverso gli oggetti, per esempio tramite la riproduzione di opere. - In secondo luogo, gli spostamenti di persone e di oggetti sono condizionati in modo significativo dalle relazioni diplomatiche e commerciali. Per quanto riguarda il Giappone e la Cina, il rapporto commerciale è stato continuativo, mentre le relazioni diplomatiche sono state interrotte più volte, e per lunghi periodi. - Terzo punto, la sostanza e la qualità degli spostamenti di persone e oggetti possono variare in misura significativa a seconda che si tratti di rapporti diplomatici o commerciali.

Lo ‘scontro delle civiltà’ di Samuel Huntington Molti saranno rimasti sorpresi quando è uscito Lo scontro delle civiltà1 di Samuel Huntington nel vedervi annoverata la civiltà giapponese. L’orgoglio di non pochi dei miei connazionali sarà stato sollecitato. Nel suo libro infatti Huntington menziona la civiltà giapponese come una delle più importanti civiltà contemporanee, accanto a quelle occidentale, latino-americana, africana, islamica, cinese, induista, ortodossa e buddista. Leggendo attentamente però, si scopre che non annovera il Giappone tra le civiltà per la sua estensione o per il suo livello. Ma “perché è un paese isolato che non condivide la propria cultura con nessun’altra società”. Citando Etiopia e Haiti come esempi, continua:2 Il più importante tra i paesi isolati è il Giappone, che è al contempo lo stato guida, nonché l’unico, della civiltà giapponese. La sua peculiare cultura non è presente in nessun altro paese, e gli immigrati nipponici in altre nazioni o sono numericamente ininfluenti oppure hanno assimilato la cultura dei paesi ospitanti (ad esempio i nippo-americani). Questo isolamento è accentuato dal fatto che la sua cultura è fortemente particolarista e non contempla alcuna religione (cristianesimo, islamismo eccetera.) o ideologia (liberalismo, comunismo) po1

Samuel P. Huntington The Clash of Civilizations and Remarking of World order, Simon & Schuster, New York 1991 (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000). 2 Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, cit., p.194.


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tenzialmente universale che possa essere esportata in altre società in modo da creare legami culturali con le popolazioni autoctone.

Huntington è un politologo, specializzato in sicurezza internazionale; non è un nipponista né un esperto di civiltà. E, a questo proposito, il Giappone è una civiltà? Di fatto, né l’accezione del termine né i relativi criteri nel libro sono chiari, comunque l’autore stesso, attraverso il confronto con varie teorie, definisce una civiltà come semplice insieme di culture. Di conseguenza, possiamo tranquillamente considerare il Giappone come tale. A incuriosirmi sono soprattutto i presunti isolazionismo ed esclusivismo della cultura giapponese da lui ribaditi. Questa teoria è in palese contrasto con quella sviluppata dai giapponesi stessi, secondo la quale la cultura autoctona da sempre si è formata attraverso l’assorbimento e la “nipponizzazione” delle culture straniere. Inoltre questo dovrebbe influenzare significativamente l’interpretazione del ruolo giocato dalla pratica dello studio all’estero, che in Giappone è sempre stata fondamentale per l’assimilazione delle culture straniere. In altre parole, se la cultura giapponese è isolata ed esclusiva, o gli studi all’estero e le culture straniere non hanno apportato alcun cambiamento alla nostra cultura o l’hanno resa appunto isolata ed esclusiva. Oppure sono stati semplicemente sfruttati ai fini della cosiddetta “nipponizzazione”. Le interpretazioni possibili sono tante. Viceversa, possiamo anche negare il punto di vista di Huntington. Tuttavia che il Giappone abbia un carattere chiuso, non lo sostiene solo lui; anzi spesso questo tratto è stato ed è oggetto di critiche da parte dei paesi esteri e degli stranieri che soggiornano nel nostro paese. Anche noi giapponesi ne siamo consapevoli. I primi a rendersene conto sono stati probabilmente proprio i giapponesi che hanno studiato all’estero. Come ho accennato in precedenza, anche l’immagine dell’arte giapponese in Giappone è totalmente differente rispetto all’Occidente, ed è chiusa.3 In ogni modo, a quanto pare il Giappone riesce a gestire questo divario, ma non sta prendendo una posizione. Ma il Giappone è aperto o chiuso, vuole aprirsi o rimanere chiuso? Penso che l’internazionalizzazione di cui si parla a livello ufficiale e l’impressione della chiusura siano entrambe delle realtà. Questi due fatti normalmente vengono collegati in una prospettiva evoluzionista, secondo la quale il Giappone non avrebbe ancora raggiunto l’internazionalizzazione. Sarà vero? In realtà, può darsi che “non voglia aprirsi”, che queste due realtà convivano in modo ambiguo. Se così fosse, che ruolo e funzione avrebbero avuto la diplomazia, gli studi all’estero e gli scambi commerciali? Confrontando le varie culture del mondo sull’atlante geografico-storico, come ha fatto Huntington, la cultura giapponese si rivela relativamente isolata. Pare che questa sia un tema inevitabile per il Giappone quando affronta sua auto-definizione e l’internazionalizzazione. Vorrei, adesso, discutere dell’arte e della cultura giapponese dal punto di vista delle relazioni internazionali.

3

Satō Dōshin, Nihon bijutsu Tanjō, Kōdansha, Tokyo 1996.


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Il Giappone e il sinocentrismo – diplomazia, studi all’estero, commercio internazionale Nel Giappone del periodo pre-moderno ci fu un imperatore o uno shōgun, o comunque un capo di governo, con esperienza di studi all’estero? Penso di no. Ovviamente in epoca Meiji, quando il paese affrontava una veloce occidentalizzazione, la maggior parte dei Primi Ministri aveva fatto un’esperienza di studio all’estero o aveva visitato uno o più paesi stranieri (5 ministri su 7).4 Questo perché i rapporti con l’estero erano diventati una questione di vitale importanza, tale da decidere le sorti del paese. Vediamo insieme come la diplomazia abbia influito sull’esportazione del patrimonio culturale e sugli studi all’estero. Le relazioni internazionali in Asia prima dell’età moderna erano basate sul sinocentrismo. Tra l’epoca Asuka (VII secolo) e la fine dell’epoca Edo (metà del XIX secolo ca.), il Giappone inviò tre missioni ufficiali in Cina: Kenzuishi, Kentōshi, Kenminshi. Kenzuishi Kentōshi Kenminshi

600-622 630-894 1371-1386 1401-1549

6 volte 6 volte 10 volte 19 volte

23 anni 265 anni 16 anni 149 anni

Indubbiamente le missioni ebbero grande importanza; a testimonianza di questo, Kūkai, Saichō, Ennin, Sesshū (famoso per i suoi dipinti a inchiostro di china), tutti si recarono in Cina accompagnando altri inviati e importarono alcuni aspetti della cultura cinese. In particolare le delegazioni dei primi periodi svolsero contemporaneamente attività diplomatiche, studio e di commercio. Più tardi il commercio guadagnò importanza e cominciò a rendersi autonomo, assumendo la gestione dell’importazione del patrimonio culturale. Per quanto riguarda lo studio, era praticamente impossibile organizzarsi privatamente, per questo motivo credo che molti si unissero alle missioni diplomatiche o commerciali. E nel periodo Edo, quando vigeva il divieto sui viaggi all’estero, diventò impossibile. È da notare che, malgrado il sinocentrismo, il Giappone inviò missioni diplomatiche ufficiali soltanto per 453 anni sul totale dei tre periodi. Con la dinastia Song, Yuan e Qing (durante l’epoca Edo) infatti, intrattenne rapporti commerciali ma non diplomatici. Considerando i 1250 anni dalla Kenzuishi nel 600 all’apertura del bakufu nel 1854, per circa 800 anni, cioè due terzi dell’intero periodo, il Giappone non ebbe relazioni ufficiali con la Cina (la stipula del trattato d’amicizia tra i due paesi risale al 1871, il quarto anno dell’epoca Meiji) Questo richiama la presunta propensione a chiudersi politicamente a lungo termine, assicurandosi però i vantaggi commerciali. In altre parole, il Giappone I sette Primi Ministri dell’epoca Meiji (dal diciottesimo anno di Meiji [1885] in poi): Itō Hirofumi (4 volte Primo Ministro), Kuroda Kiyotaka (1), Yamagata Aritomo (2), Matsukata Masayoshi (2), Ōkuma Shigenobu (1 nel Meiji e 1 nel Taishō), Katsura Tarō (2 nel Meiji, 1 nel Taishō), Saionji Kinmochi (2). Cinque su Sette avevano fatto esperienza all’estero. Itō, Katsura e Saionji come studenti, Kuroda e Yamagata come osservatori.

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cercava cautamente di bloccare potenziali ingerenze della Cina, che esercitava una grande influenza data la sua posizione centrale in Asia. In particolare, nel corso dell’epoca Edo, grazie alla distanza garantita dalla politica di isolamento, riuscì a imporsi come paese sovrano nei confronti delle Ryūkyū e della Corea, con le quali mantenne rapporti diplomatici. Potremmo considerare questa politica di fatto il proporsi come una “piccola Cina”, una sorta di “sinocentrisimo alla giapponese”.5 Lo stesso che ha guidato il Giappone moderno verso una politica coloniale. Analizziamo ora l’estensione “della chiusura” dall’interno verso l’esterno. [Fig.3 e Fig.4]

Fig.3 Kibino Otodo Nitō emaki, XII sec., Museum of Fine Arts, Boston

Fig.4 Shinnyodō XVI sec.

engi,

Importazione del patrimonio culturale sotto la guida del commercio internazionale Non dobbiamo dimenticare che la chiusura politica non implica automaticamente la chiusura culturale. Al di fuori delle relazioni diplomatiche, il commercio internazionale continuò per tutto il periodo, e di conseguenza si continuarono a importare prodotti culturali. Si discute spesso se nell’epoca Edo, dominata da una 5 Kim BognJin, “Kindai Nihon to higashi Ajia”, in Kindai ni okeru higashi Ajia chiiki chitsujo no saikōchiku, Chikuma shobō, Tokyo 1995; Arano Ysunori, Kokushi daijiten dai 11 kan, Nicchō Kankei (kaikō izen), Yoshikawa Kōbunkan, Tokyo 1990; Satō Dōshin, Bijutsu no Aidentitī, Yoshikawa Kōbunkan, Tokyo 2007.


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politica isolazionista, si possa parlare o meno di questo genere di importazione, ma sarebbe più corretto pensare che l’isolamento riguardava solo la diplomazia. Allora, che differenze ci sono per quel che riguarda l’importazione di cultura e lo studio all’estero fra i momenti in cui la diplomazia e il commercio procedono in parallelo come all’epoca della missione Kentōshi, e quelli in cui il commercio è autonomo? Tra le missioni Kenzuishi, Kentōshi, Kenminshi, soltanto con la Kenminshi il Giappone si pose nei confronti della Cina come stato satellite di fronte a uno stato sovrano. Tuttavia, secondo Ashikaga Yoshimitsu lo scopo di tale scelta politica era ottenere un riconoscimento e quindi il monopolio del diritto di commercio (kangō bōeki 勘合貿易), un obiettivo molto diverso da quello della missione Kentōshi, tramite la quale si era tentato di importare il sistema e la cultura cinese in toto. Nel caso delle missioni Kenzuishi e Kentōshi, il Giappone non si era posto come stato satellite dal punto di vista commerciale, pur offrendo un tributo alla Cina (una sorta di riconoscimento). Ma vediamo insieme nel dettaglio quali oggetti culturali e quali merci si scambiavano le missioni giapponesi e la Cina. Normalmente il paese tributario offriva prodotti tipici del proprio paese, sulla base del gusto del destinatario. La corte cinese contraccambiava con merci in quantità superiore. Tali regali simboleggiavano il potere dell’impero cinese, quindi presumibilmente erano notevoli sia per la natura intrinseca sia per la qualità. Dovevano ostentare il ruolo della Cina come centro del mondo, l’intenzione a istruire i paesi tributari, shii 四夷 (paesi limitrofi). Nel caso del commercio invece a contare erano richiesta e offerta di mercato, quindi si trattavano i prodotti che si vendevano. In questo caso, l’acquisto e l’importazione riflettevano il gusto dei giapponesi. Si dice che era questione di gusto se la pittura a inchiostro di china giapponese seguiva lo stile della scuola Nanshū, mentre i dipinti della scuola Rikaku non arrivavano quasi mai in Giappone (almeno fino all’epoca moderna). Da un certo punto di vista probabilmente è proprio così, ma le opere d’arte erano anche merci d’importazione e il loro commercio era un affare, il che influiva in modo significativo sulla selezione. Se si fosse trattato di scambi diplomatici, sarebbero arrivati molti più dipinti della scuola Rikaku. Si può quindi dedurre che il fatto che in epoca Nara non solo gli articoli importati dalla Cina ma anche quelli esportati dal Giappone fossero di gusto cinese sia da ricondurre a un sistema impostato per dare priorità alla politica più che al gusto, e alla diplomazia più che al commercio. Al contrario, in epoca Muromachi gli articoli d’importazione e d’esportazione in teoria erano tributi della missione Kenminshi e regali da parte dell’imperatore Ming, ma in realtà erano chiaramente di gusto giapponese perché il commercio internazionale aveva già assunto un’importanza rilevante. Il forte gusto sinizzante del terzo shōgun Muromachi, Ashikaga Yoshimitsu, scaturisce proprio dal fiorire del commercio. Infatti, il suo gusto addirittura esaspera quello cinese, e simboleggia l’esultanza di Yoshimitsu per aver ottenuto il titolo di “re del Giappone” grazie al monopolio sui commerci e al prestigio diplomatico.


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Importazione e assimilazione della cultura attraverso gli oggetti materiali, non attraverso le persone Storicamente in Giappone, per quanto riguarda i prodotti culturali, l’importazione ha sempre ecceduto l’esportazione. La scelta di importare cultura mediante gli studi all’estero (persone) o mediante il commercio (oggetti) poteva dipendere dal genere, cultura materiale o performance. La cultura materiale infatti si può apprendere tramite gli oggetti, mentre performance come musica e teatro, per essere comprese necessitano di essere viste o ascoltate, e per essere apprese hanno bisogno di un insegnamento diretto. In altre parole, generalizzando, le belle arti si possono studiare anche mediante gli oggetti, mentre la cultura di tipo performativo si apprende solo dalle persone. Di conseguenza possiamo dedurne che nel secondo caso la necessità di studiare all’estero era molto più forte (in altre parole, era fondamentale il ruolo delle persone che avevano studiato all’estero e degli stranieri residenti in Giappone). Il che suggerisce che lo stesso gap potrebbe ripresentarsi anche nel caso della cultura buddista, cioè tra monaci, e scultori o pittori di soggetti buddisti. I monaci sentivano maggiormente la necessità di recarsi all’estero per apprendere direttamente la lettura dei sutra, le regole del galateo, i mantra, eccetera, mentre gli scultori e i pittori potevano imparare anche tramite sculture, dipinti o repertori di immagini. Infatti, sappiamo di molti monaci che si recarono a studiare all’estero, ma di pochi scultori e pittori. In secondo luogo, se la cultura materiale può essere importata tramite il commercio (importazione di oggetti), nel caso della cultura performativa questo è praticamente impossibile (eccetto oggigiorno, tramite CD). Per commercio internazionale qui si intende fondamentalmente la compravendita di beni che possono essere legalmente spostati, posseduti, acquistati, venduti, convertiti in denaro contante. Invece nel caso della performance, si può guadagnare dallo spettacolo, ma non è un “prodotto” adatto al commercio internazionale. Se nell’epoca Meiji l’arte ebbe un ruolo nell’acquisizione di valuta estera grazie alle esportazioni in Occidente negli anni del boom del japonisme, è proprio perché si rattava di oggetti materiali, cioè trasportabili. Quindi, nel caso dell’arte, è sufficiente avere rapporti commerciali per importare cultura materiale (arte), anche in assenza di relazioni diplomatiche. Considerando che storicamente i rapporti commerciali sono sempre esistiti, al di là delle relazioni diplomatiche, l’arte straniera fu trasmessa in Giappone attraverso gli oggetti più che attraverso le persone. Probabilmente lo stesso può dirsi della cultura linguistica. Fino alla modernità, il cinese classico rimase il fondamento dell’istruzione: si imparava a leggerlo e scriverlo, ma pochi lo sapevano parlare. Il che dimostra che era stato importato attraverso gli oggetti, non attraverso le persone (cioè tramite i libri e non tramite la conversazione). E ancora oggi nell’apprendimento delle lingue straniere è rimasta la tendenza a concentrare l’insegnamento sullo scritto piuttosto che sul parlato. È un modello radicato in Giappone, e attivo anche nell’assimilazione delle culture.


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Riproduzione e libera interpretazione – I due volti dell’assimilazione attraverso gli oggetti L’apprendimento dell’arte straniera attraverso gli oggetti ha generato due tendenze o modelli interpretativi. Il primo è l’interpretazione “libera”, in senso positivo e negativo, vale a dire malinteso e fraintendimento passivo o attivo; il secondo è l’opposto del precedente, la “riproduzione”. Entrambi sono frutto del tentativo di interpretazione e di approccio a un’opera muta. L’interpretazione libera si fonda sul presupposto che la situazione non permetta la comprensione precisa del background storico, ideologico e sociale. In tale situazione, le motivazioni sono la curiosità, l’interesse, l’immaginazione e l’intenzione di quanti si trovano di fronte all’opera, e più forti sono le motivazioni più facilmente la plasticità e il significato di un’opera si trasferiscono in un altro contesto. In altri termini, non comprendendo a fondo l’opera (oppure ignorando intenzionalmente questo aspetto) ma nel contempo avendo forti curiosità e interesse, si riesce a modificare il contesto. Probabilmente, la cosiddetta nipponizzazione rientra in questo caso. [Fig.5 e Fig.6] Si parla invece di riproduzione quando si cerca di comprendere l’opera appieno. Nell’epoca moderna nella quale si attribuisce grande valore all’originalità, le eccellenti tecniche di riproduzione sviluppate in Giappone hanno perso credito. Tuttavia, in realtà, la copia è in stretto rapporto con la storia dell’assimilazione delle culture altre tramite gli oggetti. In altre parole, nel caso in cui mancassero maestri o istruzioni scritte che illustrassero le tecniche di pittura o di creazione, la riprodu-

Fig.5 Mokkei, Kannon-enkakuzu (gru), XIII sec.

Fig.6 Hasegawa Tōhaku, Chikukakuzu, XVI sec.


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zione rappresentava il metodo più efficace e rapido per comprenderle. E questo non accadeva soltanto prima della modernità, ma lo ritroviamo anche per esempio nel trapianto della tecnologia del telaio in epoca Meiji, o in quella del televisore e del computer in epoca Shōwa. Smontandoli in pezzi e poi riassemblandoli e riproducendoli uno a uno, se ne apprendeva il meccanismo. Il problema in questo caso, sia che si tratti di un’opera d’arte che di una macchina, è che si dava troppa importanza all’apprendimento utilitaristico delle tecniche materiali. Si poteva magari arrivare a conoscere con estrema precisione i materiali e le tecniche di pittura tramite un quadro, ma rimaneva il limite alla corretta comprensione dello sfondo storico, ideologico e sociale; e da questo punto di vista si trattava quasi di un’interpretazione libera. Su queste basi, si può dedurre che il tratto caratteristico dell’approccio giapponese alle culture straniere tragga origine dal sistema d’importazione culturale tramite oggetti e non tramite persone. Bisognerebbe tener conto della possibilità di una scelta volontaria, il rovescio della medaglia della “chiusura”. E mi sembra che questo assuma un’importanza ancora maggiore quando si parla del moderno-contemporaneo, un’epoca teoricamente “aperta”. L’identità e il senso dell’uchi (dentro) Finora abbiamo trattato del trapianto di culture straniere in Giappone attraverso gli oggetti, guidato principalmente dai rapporti commerciali, più che dalla diplomazia o dagli studi all’estero. Allora perché ancora oggi, nel post-moderno, nonostante la pratica dello studio all’estero sia ormai generalizzata, il Giappone rimane chiuso, come sostiene Huntington? Uno delle ipotesi è che, malgrado molti vadano all’estero per motivi di studio, prevalga ancora la modalità di assimilazione tramite gli oggetti. Nel caso delle belle arti, rientrano in questo modello anche coloro che all’estero si concentrano sullo studio delle opere e dei testi, e trascurano le persone e la vita del posto, la storia, le abitudini. Apparentemente è un atteggiamento professionale e ortodosso, ma rispetto al vantaggio di “studiare all’estero”, cioè alla possibilità di comprendere una cultura straniera a trecentosessanta gradi tramite l’esperienza diretta, rientra sempre nello schema abituale. A un esame più approfondito, possiamo concludere che il problema è che la “coscienza” rimane chiusa. La difficoltà maggiore è che ancora oggi la percezione dell’identità del “Giappone” non si basa né sulla religione né su un’ideologia, ma sul senso di uchi (forse l’ultimo baluardo della giapponesità?). È un tratto dell’indole molto intimo, e profondamente radicato dal punto di vista sociale. Gli studenti giapponesi che vanno all’estero portano con sé l’uchi e il “Giappone”, mentre in Giappone, nonostante le numerose iniziative a livello nazionale volte a richiamare gli studenti stranieri, la società ha difficoltà ad accoglierli veramente. Tutto questo è evidente nelle espressioni come ijin異人 (persona diversa, straniero) in uso negli ultimi anni dell’epoca Edo e agli inizi dell’epoca Meiji, l’attuale


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gaijin 外人(persona di fuori, straniero); Bankokuhakurankai 万国博覧会 (Expo internazionale) e Naikokukangyōhakurankai 内国- (Expo industriale nazionale) in uso nell’epoca Meiji; gaimushō 外務省 (Ministero degli Affari Esteri) e naimushō内務 省(Ministero dell’Interno) eccetera. In luogo delle parole foreign e domestic world, in Giappone si usano outside e inside. Per gli studenti inviati all’estero grazie alla politica dell’epoca Meiji, lo studio dell’Occidente era vincolato all’interesse del paese, era cioè in funzione del “dentro”. E ancora oggi, nonostante molti studino all’estero privatamente, il senso di “dentro” e “fuori”, “Giappone” e “paesi stranieri” è molto forte. Confrontando il significato delle parole gaikokujin 外国人 (persone di un paese straniero), gaijin e ijin, emerge il meccanismo nihonjin日本人 (giapponese)=naijin内人(persone dell’interno)=dōjin同人(persone uguali, membri). Il confine tra dentro e fuori non è definito dalla differenza di identità ma è piuttosto il risultato di un bisogno subconscio e spontaneo di garanzia, stabilità e salvaguardia della stessa. Dovrebbe essere questo il motivo per il quale il Giappone viene identificato come “civiltà” isolata e particolarista, come dice Huntington. Inoltre, i tratti della cultura giapponese di cui abbiamo già parlato – è forte nella tecnologia, nella produzione e nel commercio internazionale, ma è debole nella diplomazia e nei rapporti con l’estero – derivano dal suo atteggiamento storico nei confronti dei paesi stranieri, che dava la priorità all’assimilazione attraverso gli oggetti. Se volessimo modificare questo tratto isolazionista e particolarista, dovremmo convertire il paradigma dell’identità. In tal caso, la cosa più importante sarebbe privilegiare l’apprendimento attraverso le persone, nonostante viviamo ormai in una società altamente orientata dall’informazione. Comprendere e apprendere in modo diretto è semplice e fondamentale, ma, come abbiamo visto, è un metodo storicamente non percorso in Giappone, forse addirittura volutamente evitato. In altre parole, la questione è molto complessa. [traduzione di Haruka Arakawa]


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The Isolation of Japanese Civilization: Assimilation of Foreign Cultures Trough Objects, not Through People. Japanese people state that their country has always accepted and developed foreign cultures, whereas Samuel Huntington maintains that Japanese civilization is an isolated one. Is Japan open or closed, then? Indeed, its geographical conditions - Japan is surrounded by the sea, that makes traveling abroad quite difficult - seem to have considerably affected the relationship with foreign cultures. It is no coincidence that Japanese people still prefer material objects as means of knowledge. Proficient in technology, manufacturing and trade, but weak in diplomacy and relations with foreigners: probably they derive these characteristics from their historical behavior towards foreign countries. 孤立した日本文明灯-人よりモノ媒体の外国文化理解

佐藤道信 「日本はつねに外来文化を受容し展開してきた」と日本は言い、サミ ュエル・ハンチントンは逆に、日本は「孤立した文明」だという。日 本は開いてきたのか、閉じてきたのか。 文化がまったく変わらずに伝播し、理解されることはありえない。と くに日本における外国文化理解の場合、「外国」と「海外」が同義で あるように、周囲を渡航困難な海に囲まれた地理的条件が、その理解 のしかたにかなり大きく影響しているように見える。そもそも、学び 方や教え方じたい、ジャンルによってかなり違う。音楽のようなパフ ォーマンス文化は、人から直接学ぶ対人伝授が中心になるが、美術の ようなモノ文化は、模写のようにモノから学ぶことも可能だ。ならば 日本の場合、人とモノの海外との間の移動は、歴史的にどのような状 況下にあり、それが日本での外国文化の理解のしかたに、どのように 影響しているのか。 人とモノの移動には、外交と貿易関係の有無が大きな意味をもつ。飛鳥 時代から江戸時代まで(7C初め~19Cなかば)の約1250年間に、日本が 公式の外交関係を持った中国の歴代王朝は、隋・唐・明のみである( 宋・元・清とはなし)。使節の派遣期間は、総計でもわずか450年間、 3分の1の期間しかない。しかし、貿易はほぼ一貫して行なわれてい た。外交なら中国王朝からの贈品も入ってきたはずだが、貿易での輸入 品なら、日本側の趣味が初めからフィルターとして介在した、交易地で の買い付け品が中心だったと思われる。そしてこの貿易によるモノ(文 物)の輸入が継続されていることからすれば、日本の中国美術理解は、 大局的には人よりモノ媒体で行なわれてきたと考えられる。 ところが、人よりモノ媒体の理解の場合、教わる人がいないわけだか ら、目的であれ結果であれ、文物のもつ歴史的・思想的・社会的背景 への正確な理解は、困難だったと思われる。そのため、日本美術や日


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本文化に顕著なコピー性や、真逆の自由解釈という二つの理解パター ンも、モノ媒体の理解に起因する表裏の現象だったのではないかと思 われる。読み書きはできてもなかなか話せない、現在にまでいたる日 本での外国語理解も、人(会話、口語)より書籍(モノ、文語)を介 しているからだ。 近代以降、外交・貿易両者をともなう人とモノの交流がふえて なお、人よりモノ媒体の理解が優先するパターンは続いてい る。技術・モノ作り・貿易に長け、外交や外国人との人づきあ いに不得手な日本の特徴も、こうした長い対外姿勢の歴史の上 にあると思われる。ただ、人・モノ・情報が動いても、最後は 「日本」をささえるいまなお重要なアイデンティティーである 「内」意識がどう動くかが、ポイントになるかもしれない。



MARCO TINELLO

Sul rinvio della missione ryukyuana a Edo del 1858

Le missioni ryukyuane, Edo dachi 江戸立, furono inviate dal governo di Shuri al bakufu nel corso di quasi tutto il periodo Edo, in occasione della successione di un nuovo shōgun (missioni di congratulazioni) e in occasione dell’incoronazione di un nuovo sovrano ryukyuano (missioni di ringraziamento). Queste ultime ebbero inizio nel 1634, mentre quelle congratulatorie furono inviate a partire dal 1644; durante tutto il periodo Tokugawa, giunsero a Edo diciotto missioni ryukyuane, l’ultima delle quali nel 1850. Nel 1635 fu istituita la nuova carica del Nihon koku taikun 日本国大君, che lo shōgun avrebbe assunto e impiegato nei rapporti con l’esterno. Ciò costituì un passaggio assai rilevante nella politica del bakufu, segnando l’inizio di un progressivo allontanamento dall’ordine mondiale sinocentrico e della creazione di un ordine interstatale nippocentrico, cui la recente storiografia sul tema fa riferimento con l’espressione taikun gaikō 大君外交, ovvero diplomazia taikun. Le missioni ryukyuane, così come quelle coreane (Chōsen tsūshinshi 朝鮮通信 使), ebbero inizio in concomitanza con la creazione di questo nuovo ordine e per questo furono strettamente legate alla diplomazia taikun, servendo al bakufu per accrescere il prestigio dello shōgun, il taikun del Giappone, all’interno e all’esterno del paese. L’avvio delle missioni ryukyuane fu, tuttavia, inizialmente dovuto alla determinazione degli Shimazu di Satsuma, che vennero così a disporre di un mezzo efficace per ostentare il proprio prestigio – ad esempio guidando gli inviati fino a Edo o introducendoli alla Corte shogunale – nei confronti di tutto il Giappone, essendo gli unici daimyō che potevano vantare la subordinazione di un regno straniero. Come hanno dimostrato studi più recenti, tali missioni erano molto importanti anche per lo stesso regno delle Ryūkyū, il quale, approfittando di tali occasioni per enfatizzare le peculiarità della cultura ryukyuana, riuscì a preservare la propria identità e a mantenere un certo grado di indipendenza dal Giappone fino all’inizio del periodo Meiji.1 Numerosi studi hanno evidenziato come i mutamenti prodotti sull’ordine tradizionale sinocentrico dalla crescente pressione occidentale in Asia Orientale a par1

Kamiya Nobuyuki parla di una relazione di potere a tre partner sullo sfondo dell’invio delle missioni ryukyuane. Bakuhansei kokka no Ryūkyū shihai, Azekura shobō, Tokyo 1990.


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Sul rinvio della missione ryukyuana a Edo del 1858

tire dalla metà del XIX secolo ebbero profonde ripercussioni anche sulle missioni ryukyuane. In quel periodo, infatti, in tre occasioni (1855, 1858, 1862) fu previsto l’invio di tali missioni, ma in tutti e tre i casi il bakufu rinviò il progetto, adducendo motivazioni definite come “affari di Stato”. Per quel che riguarda il rinvio del 1855, gli studi sinora svolti sull’argomento hanno dimostrato come a tale decisione abbia concorso il terremoto che investì Edo in quell’anno. In merito al rinvio del 1858, Miyagi Eishō sostiene che a causa della scomparsa dello shōgun Tokugawa Iesada il 14 agosto e di quella impovvisa di Shimazu Nariakira il 24 agosto la missione ryukyuana fu infine rinviata al 1862.2 Tuttavia, Miyagi non offre nessun documento che avvalori la sua tesi e, inoltre, non opera nessuna marcata distinzione tra la missione del 1858 e quella del 1862; infatti, benché entrambe le ambascerie fossero designate come missioni di congratulazione, la missione del 1858 era programmata in onore di Iesada, mentre quella del 1862 sarebbe stata pianificata in onore di Iemochi. Essendo diverso il destinatario per il quale le delegazioni erano state progettate appare, pertanto, necessario ricostruirle distintamente. Per quel che riguarda le ragioni che addussero il bakufu a rinviare la missione del 1858, Kamiya Nobuyuki sottolinea il fatto che, in seguito alla disputa che si venne a creare circa la nomina del successore di Tokugawa Iesada tra la cosidetta fazione Hitotsubashi 一橋派 (della quale facevano parte Tokugawa Nariaki, Matsudaira Yoshinaga, Shimazu Nariakira) che sosteneva Tokugawa Yoshinobu e quella Nanki 南紀派 (composta da Ii Naosuke e i rōjū) che appoggiava Tokugawa Yoshitomi, dopo che Ii Naosuke fu nominato tairō, quest’ultimo con un colpo di mano fece nominare Yoshitomi legittimo erede e, senza aspettare l’autorizzazione imperiale, impartì l’ordine di firmare il Trattato di Amicizia e Commerciale con gli Stati Uniti; gli studi di Kamiya hanno rivelato un nesso tra il rinvio della missione del 1858 e il progetto di Shimazu Nariakira, daimyō di Satsuma, di servirsi della missione ryukyuana per raggiungere Kyoto con il proprio esercito, senza destare sospetti da parte dello shogunato, e occupare la capitale imperiale, come contromisura nei confronti dell’abuso di potere di Ii Naosuke.3 Pur condividendo le ipotesi formulate da Kamiya, mi propongo di dimostrare come, oltre a tali motivazioni, occorra considerare anche altri eventi, finora solo menzionati a titolo di ipotesi da Miyagi, che sembrano aver determinato il rinvio della missione prevista per il 1858, ovvero la scomparsa dello shōgun Tokugawa Iesada e dello stesso Nariakira, entrambe avvenute nell’agosto di quell’anno. Per avallare tale ipotesi, ci si baserà su fonti primarie dell’epoca redatte dal bakufu Tokugawa, dalle autorità di Satsuma e dal governo di Shuri. 2

Miyagi Eishō, Ryūkyū shisha no Edonobori, Daiichi shobō, Tokyo 1982, p. 18. Kamiya Nobuyuki, “Ryūkyū shisetsu no saigo ni kansuru kōsatsu”, Bakuhansei kokka no Ryūkyū shihai, Azekura shobō, Tokyo 1990; “Ryūkyū shisetsu no kaitai”, Ryūkyū ōkoku hyōjōsho monjo, vol. 5, Urasoeshi KyōikuIinkai, Urasoe 1990.

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Il rinvio della missione prevista per il 1855 Il dodicesimo shōgun Tokugawa, Ieyoshi, si spense il 27 luglio 1853, e al suo posto, il 23 dicembre dello stesso anno, succedette alla guida del bakufu Tokugawa Iesada. Il 9 febbraio 1854, il rōjū Abe Masahiro, rispondendo ad una petizione del dicembre precedente da parte dello han di Satsuma, nella quale veniva chiesto al bakufu di stabilire il periodo nel quale si dovesse inviare la missione di ringraziamento in onore di Iesada, diede ordine affinché la delegazione venisse programmata per l’autunno del prossimo anno del Drago, ovvero l’autunno del 1856. La missione ryukyuana salpò dal porto di Naha il 2 luglio 1855 e il giorno 12 dello stesso mese approdò a Kagoshima. Tuttavia, il giorno 11 novembre, Edo fu investita da un violentissimo terremoto che sconvolse tutto il Paese. A causa di questo sisma assai violento, noto come il grande terremoto dell’era Ansei, la residenza di Edo di Shimazu Nariakira subì danni assai ingenti, e ciò indusse lo han di Satsuma a chiedere al bakufu, tramite il rōjū Kuze Yamato-no-Kami Hirochika di rinviare la missione al 1858. Dal seguente documento redatto dai funzionari di Satsuma, si evince che il 10 dicembre il bakufu accolse la petizione degli Shimazu. In merito all’avvicendamento alla guida dello shogunato, nonostante il bakufu avesse impartito l’ordine affinché [Shimazu Nariakira] accompagnasse la missione di congratulazione da parte del sovrano di Chūzan4 il prossimo anno del Drago, il terremoto e i grandi incendi che hanno investito di recente Edo hanno provocato danni assai ingenti alla residenza [di Shimazu Nariakira] e dintorni; [considerando il fatto che si ritiene] irrealizzabile il completamento delle riparazioni per il prossimo autunno, [il nostro signore] desidera accompagnare la missione il prossimo anno del Cavallo (1858) in concomitanza con il [prossimo servizio di] sankin kōtai. Riguardo a [suddetta] petizione scritta che abbiamo consegnato al rōjū competente, Kuze Yamato-no-Kami, lo scorso dieci dicembre è stato comunicato che ci viene ordinato di operare secondo quanto contenuto nella nostra petizione; affinché questa disposizione venga ricevuta e accolta dal sovrano di Chūzan, è necessario inviarla prontamente al kikiyaku 聞 役5 presso il Ryūkyūkan 琉球館.6 Anno del Coniglio (1855), dicembre. Ōmi (Matsukawa Kyūhei7).8

Da questo comunicato emerge chiaramente che il bakufu impartì l’ordine di rinviare la missione a causa del terremoto e degli incendi che divamparono per i 4

Nei documenti redatti dal bakufu Tokugawa il sovrano delle Ryūkyū veniva chiamato Chūzan ō 中 山王. 5 Funzionario di Satsuma residente presso il Ryūkyūkan di Kagoshima, incaricato di adempiere a funzioni di intermediazione tra lo han giapponese e il governo di Shuri. 6 Residenza ufficiale dei funzionari ryukyuani a Kagoshima. 7 Karō (capo dei vassalli) di Satsuma. 8 Documento datato il 10 dicembre 1855 (Ansei 2/11/2). Edodachi ni tsuki oosewatasedome, Tōkyō Daigaku Shiryō Hensansho shozō, n. 8.


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quartieri di Edo subito dopo.9 Ad ogni modo, per avvalorare questa prospettiva, appare necessario fare alcune considerazioni sull’entità dei danni causati dal sisma. Secondo gli studi di Kitahara Itoko, i danni più ingenti provocati dal grande terremoto dell’era Ansei furono concentrati nella zona della città bassa, o Shitamachi,10 di Edo. Stando a fonti dell’epoca raccolte dalle autorità del bakufu, ci furono circa settemila sinistrati, tra morti e feriti, più di quindicimila abitazioni distrutte e circa millequattrocento edifici adibiti a magazzino crollati al suolo.11 Inoltre, Kitahara sostiene che in merito al crollo degli edifici, nell’area di Shiba, laddove si trovava la residenza degli Shimazu, si registrarono danni assai ingenti. Da quanto detto sopra, si può comprendere come, a causa del numero assai elevato delle vittime, del cospicuo ammontare di danni materiali e delle notizie che circolavano in merito alla portata della tragedia, a Edo la popolazione sopravissuta si trovasse in uno stato confusionale. Vediamo ora in dettaglio, secondo le stime delle autorità di Satsuma, a quanto ammontarono l’entità dei danni della residenza di Shimazu Nariakira, il quale si trovava nei locali interni del Palazzo, allorché il sisma colpì la capitale shogunale. Sono andati completamente distrutti 21 locali adibiti a magazzino, 1 fila di case unite dallo stesso tetto, 1 locale adibito alla rappresentazione del teatro nō, 1 edificio adibito a locazione all’interno del portone pubblico (omote 表); nel locale pubblico (omote) riservato alla ricreazione, oltre alla sala, il toritsukenoma 御 取附之間, il ninoma 二之間, la sala di ricevimento e l’atrio del sannoma 三之 間, il portone riservato al daimyō e il corridoio collegato ai seggi più importanti e tutto ciò che vi era vicino. È crollato al suolo l’atrio del palazzo interno (ōoku 大奥); le stanze della consorte, quelle riservate alle altre donne presenti nella residenza e il resto degli edifici interni sono andati distrutti. Il muro esterno costruito di terra e tegole è andato completamente distrutto.12

Da questo documento si può dedurre che all’interno della residenza di Satsuma si ebbero ingenti danni sia nelle sedi adibite ad uso pubblico, espressi in giapponese nel documento con il termine omote, sia negli spazi più interni, indicati con la voce ōoku, riservati alla vita privata dell’entourage del daimyō. In particolare, si può facilmente supporre che gli ambienti pubblici, come la sala presso il locale per la ricreazione, fossero spazi riservati al ricevimento degli inviati ryukyuani. Considerando i gravosi danni subiti da questi edifici e la loro funzione pubblica assai rilevante, la decisione dello han di Satsuma di appellarsi al bakufu, affinché l’invio

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Miyagi e Kamiya sono concordi nel ritenere che la causa principale del rinvio della missione ryukyuana del 1855 fosse stata il grande terremoto dell’era Ansei. 10 Questa zona ospitava le residenze e le attività dei cittadini comuni di Edo come i piccoli e grandi commercianti, artigiani, negozianti, artisti, ecc. 11 Kitahara Itoko, Ansei daijishin to minshū, Sanichi shobō, Tokyo 1983, pp. 23-31. 12 Kagoshimaken shiryō: Nariakira Kō Shiryō, vol. 2, Kagoshima Shiryō, Kagoshimaken rekishi shiryō sentā reimeikan, Kagoshimaken, 1981, n. 368.


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della missione ryukyuana venisse prorogato, sembra rientri in un quadro logico fondato su criteri sia pragmatici che simbolici. Durante il soggiorno degli inviati ryukyuani a Edo, la missione doveva partecipare a cerimonie ufficiali assai importanti, sia dal punto di vista politico che simbolico, come le tre visite in onore dello shōgun al castello di Edo,13 quella alle residenze di Edo delle Tre Famiglie (gosanke) 御三家 Tokugawa, e il pellegrinaggio al mausoleo di Ueno,14 quest’ultimo pensato dal bakufu per dimostrare come il prestigio di Ieyasu, fondatore dello shogunato Tokugawa, avesse raggiunto i Paesi dell’Asia Orientale. A causa del terremoto, crollò gran parte delle mura di pietra costruite lungo il perimetro esterno del castello di Edo, mentre la parte restante subì visibili danni, e, inoltre, anche le residenze dei gosanke riportarono cospicui danneggiamenti. Tutto ciò ci induce a pensare come, dopo il violentissimo terremoto, risultasse effettivamente assai difficile realizzare la missione secondo il protocollo tradizionale. Per il bakufu Tokugawa, “far vedere” al corteo degli inviati ryukyuani, così come in precedenza era avvenuto con quello dei coreani, l’imponenza e la regalità del castello di Edo come pure lo sfarzo delle residenze dei vari daimyō, era un ottimo mezzo per accrescere il prestigio e l’autorità dello shōgun, e per mostrare l’elevato grado di raffinatezza che aveva raggiunto la cultura giapponese. Tuttavia, la città di Edo, dopo il grande terremoto dell’era Ansei, era completamente diversa dall’immagine della città maestosa di cui il bakufu si compiaceva, e gli abitanti delle zone più colpite dal sisma stavano vivendo in uno stato di paura e confusione. Per queste ragioni si pensa che il bakufu avesse accolto la petizione di Satsuma e dato l’ordine di rinviare la missione di congratulazione, la quale, come da protocollo, avrebbe dovuto sfilare per le vie di Edo. Gli inviati ryukyuani lasciarono Kagoshima e fecero ritorno a Shuri. Il rinvio della missione programmata per il 1858 Il governo reale di Shuri, in ossequio agli ordini impartiti da Satsuma, inviò nuovamente un’ambasceria congratulatoria nel 1858, in onore di Tokugawa Iesada. Il 7

13

In occasione della prima visita, detta shinken no gi 進見の儀o omemie 御目見, gli inviati ryukyuani portavano formalmente i saluti allo shōgun (anche se in realtà, il protocollo non prevedeva un contatto diretto tra il capo militare e gli inviati), consegnavano la lettera ufficiale del sovrano delle Ryūkyū indirizzata ai rōjū e veniva presentata allo shōgun la lista dei doni portati in omaggio alle personalità più influenti del bakufu; la seconda visita, sōgaku no gi 奏楽の儀, era dedicata all’esecuzione di musiche ryukyuane e cinesi ad opera di musicisti molto giovani. Questa era considerata una delle cerimonie più importanti di tutta la missione e richiedeva molti anni di studio e di preparazione da parte dei musicisti; al termine dell’esibizione veniva offerto dal bakufu un ricco banchetto in onore degli inviati ryukyuani. Durante l’ultima visita, chiamata giken no gi 辞見の儀, che dalla fine del XVIII secolo fu accorpata all’esecuzione musicale e al banchetto per sopperire a problemi economici, gli inviati ryukyuani ricevevano l’autorizzazione ufficiale dal bakufu per poter lasciare Edo e far ritorno nelle isole. 14 In occasione delle missioni del 1644, 1649 e del 1653 gli inviati ryukyuani su ordine del bakufu si recarono in pellegrimaggio al mausoleo di Nikkō; mentre dal 1671, questo lungo, impegnativo e assai costoso viaggio, fu rimpiazzato con una processione fino al mausoleo di Ueno, all’interno dei confini di Edo.


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luglio il seishi15 正使, vale a dire l’ambasciatore, il principe Ie Chōchoku, approdò a Kagoshima, mentre il fukushi16 副使, o vice ambasciatore, Yonahara Ueekata (親 方)17 Ryōkyō arrivò il giorno 10. Prima di partire da Satsuma alla volta di Edo, il corteo degli inviati ryukyuani, composto da circa un centinaio di membri, avrebbe dovuto prendere parte a diverse cerimonie ufficiali assai importanti, come recarsi al castello di Kagoshima per portare gli omaggi a Shimazu Nariakira, partecipare ai banchetti ufficiali, assistere allo spettacolo del teatro nō, e altro ancora. L’incontro con Shimazu Nariakira ebbe luogo il 17 agosto.18 Secondo il programma stabilito dai funzionari di Satsuma, gli inviati ryukyuani, scortati dal daimyō (Nariakira) e dagli uomini dello han, sarebbero dovuti partire da Kagoshima il 27 settembre; tuttavia, la morte improvvisa di Shimazu Nariakira, avvenuta il 24 agosto, stravolse il progetto della missione. Si cercherà ora di ricostruire gli avvenimenti principali accaduti a Kagoshima e a Edo attraverso l’analisi di fonti ufficiali. In data 2 settembre, lo han di Satsuma mise al corrente il governo di Shuri della scomparsa di Nariakira e riferì che, su consultazione con il bakufu, si era deciso di comunicare in seguito le nuove disposizioni in merito all’invio dell’ambasceria ryukyuana: Nonostante fosse stato stabilito che nell’autunno di questo anno [Nariakira] avrebbe dovuto accompagnare gli inviati ryukyuani a Edo, abbiamo chiesto al bakufu disposizioni in merito alla sua [improvvisa] scomparsa; dato che verranno comunicate in seguito le decisioni prese [dallo shogunato], [si prega di] trasmettere questo comunicato al sovrano di Chūzan affiché possa prenderne visione. [Si richiede] anche di inviare al kikiyaku residente nel Ryūkyūkan il comunicato [con lo stesso contenuto di cui sopra] destinato al seishi e al fukushi che ora si trovano a Kagoshima. Agosto (1858). Suruga19.20 15

Il seishi era l’inviato più prestigioso in quanto giungeva in Giappone in veste di rappresentante del sovrano delle Ryūkyū e al quale era stato conferito il titolo di principe; si trattava, in genere, di un uomo sui trentanni legato alla famiglia reale da rapporti di parentela assai stretti. 16 Il fukushi o vice ambasciatore, era il secondo inviato più importante; di solito questa carica veniva affidata a un funzionario sui quarant’anni, di rango elevato, e dal quale il governo si aspettava una brillante carriera in campo politico e amministrativo. Considerata la giovane età del seishi, e la sua funzione prettamente simbolica, la carica più importante alla quale ruotava attorno tutta la missione era il fukushi. Questi era il responsabile principale della realizzazione della missione e a lui rispondevano direttamente molti degli inviati più importanti. 17 Titolo nobiliare di rango elevato del governo reale di Shuri. 18 In un primo tempo il banchetto ufficiale, oryōri wo kudasare, e la partecipazione alla rappresentazione del teatro nō, erano stati programmati per il 17 agosto, tuttavia giacché il gruppo di musicisti giunse a Kagoshima con diversi giorni di ritardo, furono posticipati. Un altro banchetto ufficiale, noto come ozen shinjō, era in programma dopo l’incontro con Nariakira, tuttavia a causa della morte improvvisa del signore di Satsuma non ebbe luogo. Edodachi ni tsuki oosewatasedome, cit. n. 8. Si veda Yano Misako (a cura di), Kinsei Nihon ni okeru gaikoku shisetsu to shakai henyō 3: Taikun gaikō kaitai wo ou, Kamiya Nobuyuki kenkyūshitsu, 2009, n. 52. 19 Si tratta del karō di Satsuma Niiro Hisanori. In data 2 settembre, Kimotsukizamon (funzionario di Satsuma) ricevette l’incarico di trasmettere questo comunicato al Ryūkyūkan; lo stesso giorno, Honda Sōkurō prese visione della comunicazione. 20 Comunicato datato 2 settembre 1858 (Ansei 5/7/25). Edodachi ni tsuki oosewatasedome, cit., n. 71.


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Da questo documento si può, pertanto, desumere come lo han di Satsuma avesse alluso al rinvio della missione a causa della scomparsa di Nariakira. Tuttavia, ancor prima che questo comunicato fosse stato redatto, in data 19 agosto, ovvero prima che venisse a mancare Nariakira, il rōjū Naitō Kii-no-Kami Nobuchika aveva impartito l’ordine allo stesso daimyō di Satsuma, di rinviare la missione ryukyuana adducendo motivazioni definite come molteplici e complicati affari di Stato, in giapponese kokujitatan 国事多端. Addì 19 agosto. La comunicazione che in data odierna Kii-no-Kami ha trasmesso [ai funzionari di Satsuma a Edo] è destinata al signore di Satsuma [Shimazu Nariakira]; in merito alla questione dell’avvicendamento alla guida dello shogunato, allorché [il bakufu] in precedenza aveva ordinato di accompagnare gli inviati ryukyuani a Edo questo autunno, [lo shogunato] dovendo far fronte ad una complicata situazione in materia di affari di Stato sulla quale non può soprassedere (sashioki gataki gokokujitatan no origara ni tsuki 難差置御国事多端 之折柄に付), innanzi tutto impartisce l’ordine [a Nariakira] di prorogare l’invio dell’ambasceria ryukyuana a Edo; [tuttavia come da protocollo] Nariakira deve recarsi a Edo [per il sankin kōtai]. Comprendete bene [queste disposizioni] giacché va trasmesso al signore di Satsuma secondo quanto riportato sopra.21

Successivamente, l’8 settembre, lo han di Satsuma trasmise al governo reale l’ordine ufficiale del bakufu di posticipare la missione: Allorché avevamo ricevuto l’ordine di accompagnare gli inviati ryukyuani a Edo questo autunno, [il bakufu] dovendo far fronte ad una complicata situazione in materia di affari di Stato sulla quale non può soprassedere,22 in merito all’invio della missione ryukyuana a Edo, innanzi tutto ci è stato ordinato di prorogarla; questa disposizione ci è pervenuta tramite il rōjū Naitō Kii-no-Kami. Affinché il sovrano di Chūzan prenda visione di questo comunicato, come pure, anche il seishi e il fukushi presenti a Kagoshima ricevano queste direttive, [si prega di] trasmettere questo comunicato al Ryūkyūkan. Settembre, Suruga.23

Come menzionato in precedenza, gli studi di Kamiya pongono in relazione gli affari di Stato denunciati dal bakufu con il progetto di Nariakira di servirsi della missione ryukyuana per raggiungere Kyōto senza destare sospetti, e poi proseguire fino a Edo con l’obiettivo di avviare un programma di riforme politiche dello shogunato. Secondo Kamiya, il bakufu, venuto a conoscenza dei piani degli Shimazu, avrebbe rinviato la missione per impedire al daimyō di Satsuma di realizzare il suo progetto eversivo. Dai documenti a disposizione non ci sono dubbi sul fatto che Nariakira stesse progettando di servirsi della missione ryukyuana per far raggiunge21

Documento datato 19 agosto 1858 (Ansei 5/7/11). Yashidai Ishinshi Sōsho, 28, Nihon Shiseki Kyōkaihen, Tōkyō Daigaku Shuppankai, Tokyo 1973 (ristampa). 22 Sashiokaregataki gokokujitatan no origara ni tsuki 難被差置御国事多端之折柄ニ付. 23 Comunicato datato 8 settembre 1858 (Ansei 5/8/2). Edodachi ni tsuki oosewatasedome, cit., n. 73. Secondo quanto stabilito nel comunicato, il 2 agosto, il goyōnin di turno, Kawagami Ukon, ricevette l’ordine di trasmettere il comunicato al Ryūkyūkan; Honda Sōkurō prese visione delle suddette disposizioni.


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re Kyoto al proprio esercito, tuttavia, non ci sono testimonianze documentarie che avallino la tesi di Kamiya secondo la quale il bakufu avrebbe rinviato la missione per ostacolare i piani di Kagoshima. A questo punto si cercherà di far luce sugli avvenimenti che intercorsero tra Edo e Satsuma, dall’inizio di agosto sino all’8 settembre, basandoci sul contenuto dei diari personali redatti dal karō di Satsuma, Niiro Hisanori, documenti che sinora non sono mai stati impiegati per la ricostruzione di questa missione ryukyuana. 2 settembre. Verso le otto del mattino, è giunto [a Kagoshima] un messaggero celere24 dello han partito da Edo il giorno 11 agosto. Inoltre, alle otto e mezza circa, è arrivato un messaggero assai celere,25 partito da Edo il giorno 17 agosto. La sera precedente sono giunte a Kagoshima le informazioni che in precedenza avevamo richiesto. [Secondo le informazioni ricevute dal messaggero partito il giorno17 agosto] allorché [era stato comunicato] che lo shōgun (Tokugawa Iesada) era indisposto, [ci viene riferito] che in realtà verso le cinque di sera dello scorso 14 agosto ha esalato l’ultimo respiro; questa comunicazione viene trasmessa con la massima segretezza. Le circostanze attuali sono una questione di vitale importanza per il Paese; [dopo aver appreso tali notizie] ci troviamo in uno stato di disorientamento […].26

Dalla nota del 2 settembre si evince che le autorità di Satsuma di stanza a Edo appresero assai rapidamente la notizia della morte dello shōgun e si adoperarono fin da subito per mettere al corrente prontamente i propri superiori a Kagoshima di questo spiacevole avvenimento. Il messaggio ricevuto dai funzionari di Kagoshima il 7 settembre risulta essere di fondamentale importanza. Vediamo la nota contenuta nel diario di Hisanori relativa a questo episodio. 7 settembre. All’alba, è giunto [a Kagoshima] un messaggero privato, partito da Edo il giorno 22 agosto. La notizia più importante [contenuta nel messaggio] che ci viene comunicata riguarda il rinvio della missione ryukyuana [a causa] di molteplici questioni concernenti lo shogunato (kōhen gojita 公辺御事多); il resto è relativo alla richiesta di informazioni su diverse questioni private. Ci viene riferito che le molteplici questioni di cui sopra sono relative alla scomparsa dello shōgun27.28

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Kyūki ohikyaku 急キ飛脚. Gokugoku kyūhikyaku 極々急飛脚. 26 Annotazione registrata il 2 settembre 1858 (Ansei 5/7/25). Kagoshimaken Shiryō: Niiro Hisanori Zatsufu, vol. 2, Kagoshimaken Shiryō, Kagoshimaken rekishi shiryō sentā reimeikan, Kagoshimaken, 1987, pp. 388-390. 27 Migi no gojita ha kōhen goseikyo no wake nite sōrō yoshi nari 右之御事多ハ 公辺御逝去之訳ニ テ候由也. 28 Annotazione trascritta il 7 settembre 1858 (Ansei 5/8/1). Niiro Hisanori Zatsufu, vol. 2, cit., pp. 388-390. 25


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Secondo quanto riportato da Hisanori nel suo diario, il messaggero giunto a Satsuma era partito il 22 agosto da Edo. Considerando il fatto che si trattava di un corriere privato, si può congetturare che esso fosse stato incaricato dalle autorità di Satsuma presenti nella residenza di Edo, dopo che queste ultime avevano ricevuto in data 19 agosto l’ordine da parte del rōjū Naitō Kii-no-Kami di rinviare la missione ryukyuana. Infatti, secondo le annotaioni di Hisanori, il bakufu impartì l’ordine di prorogare la missione a causa di molteplici questioni concernenti lo shogunato; Hisanori non usa l’espressione sashioki gataki gokokujitatan no origara ni tsuki 難 差置御国事多端之折柄に付, contenuta nei documenti del bakufu, ma impiega il termine kōhen gojita ni tsuki 公辺御事多ニ付. Tuttavia, si ritiene che questa ultima sia l’abbreviazione dell’espressione impiegata dalle autorità di Edo, sintesi operata per rispondere ad esigenze di stile, ovvero quello diaristico, e pratiche, considerando tutta la grande quantità di missive giunte a Kagoshima in quei giorni. Infine, viene annotato come dietro alle sopramenzionate molteplici questioni riguardanti lo shogunato ci fosse, in realtà, la scomparsa di Iesada. In altre parole, si può supporre che Hisanori, dopo aver appreso il contenuto della missiva giunta da Edo, avesse annotato nel suo diario che in realtà la vera motivazione per la quale il bakufu aveva deciso di rinviare la missione era la morte dello shōgun. Pertanto si può supporre che da Edo giunse un ordine ufficiale, che verrà ricopiato e trasmesso il giorno dopo (8 settembre) al Ryūkyūkan,29 nel quale fu comunicato che tramite il Consigliere anziano, Naito Kii-no-kami, il bakufu ingiunse di prorogare la missione per questioni di Stato, come pure una missiva privata dal contenuto assai segreto, nella quale i funzionari di Satsuma di stanza a Edo rivelarono che dietro le motivazioni ambigue addotte dal bakufu c’era in realtà la morte dello shōgun. Nei registri di famiglia relativi al principe Ie, si può accertare che alle Ryūkyū fu trasmesso da Satsuma l’ordine di prorogare l’ambasceria per ragioni di Stato che il bakufu si trovò ad affrontare allorché gli inviati ryukyuani si trovavano a Kagoshima, e solo successivamente fu comunicata a Shuri la notizia della morte dello shōgun.30 Pertanto, da questi fatti si evince che a livello ufficiale, vale a dire nei comunicati trasmessi formalmente da Edo a Kagoshima, come pure in quelli inviati da Kagoshima a Shuri, il bakufu prorogò la missione ryukyuana per affari di Stato; tuttavia, parallelamente a questi canali ufficiali, esistevano delle reti di comunicazione di livello ufficioso, come i canali informali tra la residenza di Satsuma di Edo e Kagoshima, dai quali si può desumere che lo shogunato rinviò l’ambasceria a causa della scomparsa di Tokugawa Iesada. Si ritiene che le fonti diaristiche, come il diario di Hisanori che qui abbiamo preso in esame, siano degli strumenti assai importanti per comprendere la molteplicità e la complessità 29 Il documento ufficiale trasmesso da Satsuma al Ryūkyūkan impiega la stessa identica terminologia riportata nel comunicato inviato da Edo a Satsuma, con l’aggiunta di qualche onorifico per riferirsi allo shogunato: sashioki gataki gokokujitatan no origara ni tsuki 難差置御国事多端之折柄に付→Sashiokaregataki gokokujitatan no origara ni tsuki 難被差置御国事多端之折柄ニ付. 30 Naha Shishi: Shiryō (01) (07), Kafu Shiryō 3, Naha, 1982, p. 344.


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delle reti di comunicazione, ufficiali e non, esistenti nel periodo Tokugawa, come pure delle testimonianze preziose per conoscere una verità differente da quella raccontata a livello ufficiale. Tuttavia, perché mai lo han di Satsuma, in data 2 settembre – come abbiamo visto in precedenza – adducendo come motivazioni la morte di Nariakira e la consultazione con il bakufu in merito ad essa, fece allusione al rinvio della missione nel comunicato diretto al governo reale? Per gettare luce su questo punto, innanzi tutto appare necessario tenere ben presente che i tempi di recapito della corrispondenza tra Satsuma e Edo nel periodo Tokugawa erano all’incirca di tre settimane. Secondo Hisanori, lo han di Satsuma (Kagoshima) apprese la notizia della scomparsa di Iesada il 2 settembre. Tuttavia, in data 28 agosto, Hisanori, in una missiva diretta a Nagae Yasu-no-Jō, si espresse nei seguenti termini in merito alla scomparsa di Nariakira: Anche per quel che riguarda la missione ryukyuana a Edo, nel bel mezzo di questo spiacevole avvenimento [la morte di Nariakira], non vediamo altra soluzione se non quella di rinviarla; [ci troviamo] in una situazione di grande disorientamento. In merito a questa questione [rinvio della missione] dopo aver consultato il bakufu a Edo, riteniamo sia opportuno che al momento più appropriato vi occupiate di dirimere suddetta questione.31

Da questo documento si desume come lo han di Satsuma, in data 28 agosto, non essendo ancora a conoscenza della morte di Iesada, stesse già pensando di richiedere al bakufu la proroga dell’invio dell’ambasceria adducendo come motivazione la scomparsa di Nariakira. In altre parole, non appena venne a mancare il daimyō, le autorità di Satsuma pensarono di appellarsi a Edo affinché venisse concesso il rinvio della missione di Shuri. Inoltre, il 2 settembre, a Kagoshima giunse la notizia della morte di Iesada, ma dal momento che il bakufu non si era ancora espresso sul rinvio della missione (la missiva arriverà il 7 settembre), si ritiene che fosse naturale per Satsuma addurre come causa la scomparsa di Nariakira alludendo alla posticipazione della missione, allorché mise al corrente il governo reale della scomparsa del daimyō in quello stesso giorno. Successivamente, l’8 settembre, avendo ricevuto il giorno precedente, gli ordini impartiti dal bakufu in merito al rinvio della delegazione, nei quali si metteva in relazione la proroga con la questione degli affari di Stato, lo han di Satsuma comunicò alle autorità di Shuri l’ordine ufficiale che stabiliva il rinvio della missione. Da una parte, Satsuma, in data 2 settembre, riferendo di trattative in corso con il bakufu, fece allusione pertanto al rinvio della missione a causa della morte di Nariakira, e dall’altra, l’8 settembre, comunicò alle Ryūkyū che aveva ricevuto l’ordine ufficiale dal bakufu di prorogare la missione per ragioni di Stato. Il 24 ottobre, gli inviati ryukyuani salparono nuovamente da Kagoshima e il primo novembre approdarono nel porto di Naha.32 31

Questa nota fu registrata in data 28 agosto 1858 (Ansei 5/7/20). Niiro Hisanori Zatsufu, vol. 2, cit., p. 385. 32 Dai Nihon Ishin Shiryō, vol. 3, n. 7, Tōkyō Daigaku Shuppankai, Tokyo 1984, pp. 648-690.


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Ichiki Shirō, samurai al servizio di Shimazu Nariakira, nella sua opera Documenti ufficiali sul Principe Nariakira, redatta nel periodo Meiji, in una nota di commento in merito alla questione degli affari di Stato alla quale si appellò il bakufu nell’estate del 1858, chiosa la faccenda come “indispozisione dello shōgun e approdo di navi straniere”.33 Si ritiene che il documento seguente possa avvalorare il contenuto della nota di Ichiki: A[i seguenti funzionari] Ōmetsuke 大目付, gokanjō bugyō 御勘定奉行, gaikoku bugyō 外国奉行, ometsuke 御目付, gokanjōginmiyaku 御勘定吟味役, In merito all’approdo di navi straniere, allorché siamo in una fase nella quale si presta molta attenzione a ciò che viene detto, ci sono giunte notizie che, a partire dai kunimochi shū 国持衆,34 fino ai funzionari ai quali siete legati da rapporti amichevoli, ci sono personaggi che manifestano il desiderio di apprendere la verità dei fatti. Si tratta di una situazione assai sconveniente. Per quanto riguarda l’avvicendamento alla guida del bakufu Tokugawa [in seguito alla morte di Iesada], nella parte pubblica (omotegata 表方) [del castello di Edo] non è ancora stata diffusa la notizia; per quel che riguarda la diffusione della notizia pubblicamente, in particolare, giacché se prima [di qualsiasi nota ufficiale sull’argomento] trepelassero i contenuti delle consultazioni in ambito privato ciò potrebbe agitare l’opinione pubblica, si ordina espressamente che da questo momento non venga divulgata [nessuna informazione in merito] non solo agli omote daimyō 表大名35 con i quali siete in amicizia, ma anche ai fudai shū 譜 代衆.36

Questo documento fu redatto il 16 agosto. In merito all’interpretazione di questo comunicato, si ritiene necessario operare una netta divisione tra la prima e la seconda parte del testo. Nella prima parte, si allude ad alcuni daimyō e funzionari che parrebbero intenzionati a servirsi delle proprie amicizie per accedere ad informazioni riservate, in materia di politica estera; questa, infatti, era una fase assai delicata della politica estera giapponese, in quanto, il 29 luglio, per volontà di Ii Naosuke, il Giappone era stato aperto commercialmente agli Stati Uniti, e il 19 e il 20 agosto, i funzionari del bakufu avrebbero stipulato trattati commerciali rispettivamente con la Russia e l’Olanda, ricalcati sul modello di quello nippo-americano.37 La seconda parte del documento fa riferimento alla crisi interna che si era venuta a creare dopo 33 Kagoshimaken shiryō: Nariakira Kō Shiryō, vol. 3, n. 388, Kagoshima Shiryō, Kagoshimaken rekishi shiryō sentā reimeikan, Kagoshimaken, 1983. 34 Daimyō che possiede uno o più feudi. 35 Si tratta dei tozama daimyō o daimyō esterni. 36 Comunicato datato 16 agosto 1858 (Ansei 5/7/8). Dai Nihon Komonjo: Bakumatsu Gaikoku Kankei Monjo, vol. 26, Tōkyō Daigaku Shuppankai, Tokyo 1972, pp. 708-709. 37 In questa stessa data, per mano di Ii Naosuke, fu creata ex novo la carica di gaikoku bugyō 外国奉行, la quale, sotto la diretta supervisione del tairō e dei Consiglieri aziani, sarebbe stata assegnata a quei funzionari deputati a negoziare con gli stranieri e a sottoscrivere i trattati.


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Sul rinvio della missione ryukyuana a Edo del 1858

la scomparsa di Iesada (14 agosto) e viene vietato rigorosamente di diffondere alcuna notizia in merito. Laddove nel documento viene riferito che nella parte esterna del castello di Edo non era ancora giunta la notizia della morte dello shōgun, si ritiene che ciò si riferisse agli ambienti pubblici del palazzo dove i funzionari erano deputati a svolgere le attività politiche. Benché Ii Naosuke, con un colpo di mano, avesse già nominato legittimo erede Tokugawa Yoshitomi, la morte di uno shōgun era pur sempre considerata come un evento eccezionale che racchiudeva in sé un certo potere destabilizzante, di cui non si potevano prevedere le reazioni che avrebbe provocato tra i vari daimyō, e per questo era necessaria una certa cautela, così come il rispetto di un preciso protocollo tradizionale, all’interno del castello di Edo, prima di diffonderne la notizia al paese. Per queste ragioni, il bakufu, per circa un mese, si adoperò per tenere nascosto all’intero Giappone la morte di Iesada sotto il sottile velo della “indisposizione” dello shōgun e, solamente il 14 settembre, ne annunciò pubblicamente la scomparsa.38 Concludendo, si ritiene che l’espressione chiave, kokujitatan 国事多端, impiegata dal bakufu nell’estate del 1858, qui tradotto come “molteplici e complicati affari di Stato”, indicasse una situazione di emergenza di carattere nazionale volutamente ambigua, dietro la quale erano celate diverse contingenze che concorrevano ad aggravare la crisi politica. Secondo Ichiki, dietro questa questione nazionale vi erano la pressione esercitata dalle navi straniere e lo stato di degenza di Tokugawa Iesada, mentre per Kamiya c’era il progetto di Nariakira di servirsi della missione ryukyuana per raggiungere la capitale imperiale. Tuttavia, si ritiene che quelle proposte da Ichiki e Kamiya, vale a dire circostanze legate alla pressione occidentale e agli effetti prodotti da questa pressione in Giappone, debbano essere considerate come delle contingenze avvenute sullo sfondo della decisione presa dal bakufu di rinviare la missione. Mentre come si evince dalle annotazioni trascritte nelle pagine dei diari di Hisanori, si pensa che fosse stata la scomparsa di due personaggi chiave nella diplomazia tra Edo e Shuri, ovvero quella dello shōgun e quella di Shimazu Nariakira, la vera causa che direttamente concorse a provocare la situazione di crisi nazionale. Dal momento che la personalità di grande prestigio, la quale avrebbe dovuto accompagnare la missione ryukyuana in veste di daimyō dello han di Satsuma, e la massima autorità politica del Giappone, in onore della quale l’ambasceria era stata programmata, erano venute a mancare, appare del tutto naturale e pragmatico che il bakufu avesse deciso di rinviare la spedizione della delegazione. Pertanto, si ritiene che l’analisi di questo episodio possa gettare luce su uno dei molteplici aspetti legati ai cerimoniali delle missioni ryukyuane a Edo, vale a dire che la scomparsa dello shōgun Tokugawa, come pure quella del daimyō di Satsuma, implicavano senz’altro il rinvio di tali ambascerie, anche se a livello ufficiale si reputava necessario celare queste decisioni con espressioni intenzionalmente elusive. Diversamente da ciò, si ritiene che il progetto eversivo di Nariakira e l’inquetudine causata dalla presenza delle navi straniere rappresentassero due delle tante proiezioni originate dalla pressione occidentale esercitata sul Giappone durante il periodo noto come bakumatsu. 38

Tokugawa Jikki, vol. 13, Yoshikawa Kōbunkan, Tokyo 1976, pp. 511-527.


Marco Tinello

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Schema dei fatti principali avvenuti a Kagoshima e a Edo tra il 7 luglio e il 24 ottobre 1858 Kagoshima

Edo

7 luglio: approdo dell’ambasciatore, il principe Ie. 14 agosto: muore lo shōgun Iesada. 16 agosto: il bakufu vieta di rendere di pubblico dominio la notizia della scomparsa di Iesada. 19 agosto: il rōjū Naitō Kii-no-kami (a Edo) ordina a Shimazu Nariakira di rinviare la missione ryukyuana a causa di affari di Stato. 24 agosto: muore Shimazu Nariakira.

(Diario di Hisanori): 28 agosto. Niiro Hisanori comunica a Nagae Yasu-no-jō che sono state avviate le consultazioni con Edo sul rinvio della missione ryukyuana a causa della morte di Nariakira. 2 settembre: Satsuma riferendo a Shuri di trattative in corso con il bakufu fa allusione al rinvio della missione a causa della scomparsa di Nariakira. (Diario di Hisanori): Messaggero partito da Edo il 17 agosto annuncia la scomparsa di Iesada.

(Diario di Hisanori) 7 settembre: messaggero partito da Edo il 22 agosto trasmette l’ordine di rinviare l’ambasceria per molteplici questioni concernenti lo shogunato. Secondo Niiro si tratta della morte dello shōgun. 8 settembre: Satsuma comunica ufficialmente alle Ryūkyū che il bakufu ha impartito l’ordine di prorogare la missione a causa di affari di Stato. 14 settembre: il bakufu annuncia pubblicamente la scomparsa dello shōgun Iesada. 24 ottobre: gli inviati ryukyuani ripartono da Kagoshima.


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Sul rinvio della missione ryukyuana a Edo del 1858

On the Postponement of the Ryukyuan Embassy of 1858 In this paper I examine the postponement of Ryukyuan embassies during the final years of the Tokugawa period. The last Ryukyuan embassy to Edo was sent in 1850 for the purpose of thanking the bakufu for the enthronement of Shō Tai as the king of Ryūkyū. While subsequent Ryukyuan congratulatory embassies were planned for the respective appointments of Tokugawa Iesada and Iemochi as shōgun, the bakufu ordered the postponement of such diplomatic missions on three occasions: 1855, 1858, and 1860. Focusing on the planned but later aborted mission of 1858, I provide a close examination of the diaries of Niiro Hisanori, the chief retainer of Satsuma, and demonstrate that the deaths of Iesada in Edo and Shimazu Nariakira in Kagoshima were the reason behind the bakufu’s postponement of the Ryukyuan embassy.

一八五八年の琉球使節派遣の延期について

ティネッロ・マルコ 本稿は幕末における琉球使節の延期について考察した。琉球使節の最 後の江戸立は、一八五〇年に江戸まで参府した尚泰のための謝恩使で あった。しかし、その後も、第一三代将軍徳川家定、第一四代将軍家 茂の将軍襲職に際して琉球使節の慶賀使派遣の計画が立てられた。だ が、徳川幕府は一八五五年、五八年、六〇年の三回とも、全てについ て江戸立派遣の延期を命じた。一八五五年の延期の理由は安政大地震 によるものであるので、先行研究に従いたい。一八五八年の江戸立の 延期に関して、紙屋敦之氏は、島津斉彬が幕府の政治を改革するため に琉球使節の江戸立を薩摩藩の軍事計画の隠れ蓑として利用する計画 があったことを述べている。本稿では、五八年の琉球使節の延期につ いて、幕府は、江戸立を受ける徳川家定がなくなったこと、また、同 じ時期に鹿児島では、琉球使者を召し連れる斉彬も亡くなったことを 理由に琉球使節の延期を命じたことを薩摩藩家老の新納久仰の日記を 通じて明らかにした。


Immaginari narrativi: il periodo classico



Edoardo Gerlini

“Come schiuma d’acqua”. Il concetto di mujō nella poesia Heian tra kanshi e waka

Introduzione 水の泡のきえでうき身といひながら流て猶もたのまるるかな

Mizu no awa no / kiede uki mi to / iinagara / nagarete nao mo / tanomaruru kana Quasi schiuma d’acqua, vana resta a galla questa vita penosa; nondimeno, affidandomi alle onde, non riesco a cessare di sperare.1 うきながらけぬる泡ともなりななむながれてとだに頼まれぬ身は

Ukinagara / kenuru awa to mo / narinanamu / nagarete to dani / tanomarenu mi wa Potessi diventare schiuma, e, galleggiando nella pena, svanire, ché, neppure affidandomi alle onde, troverò una speranza.2

Queste due poesie di Ki no Tomonori, contenute nell’ultimo maki sull’amore del Kokinshū, ruotano attorno alla suggestiva immagine della schiuma, che galleggiando sull’acqua si dissolve in breve tempo, quale metafora della breve e incerta vita umana. È questo un topos piuttosto frequente nel waka dal Kokinshū in poi, ma non fu Tomonori il primo ad usarlo. Da dove proviene dunque quest’immagine, e come si è evoluta? È sempre stata legata alla poesia d’amore oppure era portatrice di altri significati? Nel rispondere a queste domande cercherò di enucleare una delle caratteristiche peculiari della letteratura classica giapponese, sarebbe a dire il ricorso a immagini ed espressioni appartenenti a una determinata sfera lessicale, la religione, e la loro manipolazione e applicazione a nuovi contesti, come la poesia d’amore. È questo un genere di ricerca che ormai da diversi decenni impegna gli studiosi del cosiddetto wakan hikaku (comparativismo sino-giapponese) con importanti ricadute anche sulle altre discipline; in questa sede vorrei mettere però in discussione un certo atteggiamento relativo a questi studi che rischia talvolta di viziare la visione globale e oggettiva dei processi evolutivi della letteratura, in particolare per quanto riguarda le relazioni tra un testo e un altro. 1

Kokin waka shū (di seguito abbreviato KKS) XV-792. Le traduzioni delle poesie del Kokinshū sono tratte da Sagiyama Ikuko, Kokin waka shū, Ariele, Milano 2000. 2 KKS XV-827.


Poesia Heian e immagini buddiste

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Nei sutra Come ampiamente dimostrato da altri studiosi (Nakano Masako3 è forse la più recente) all’origine della diffusione di numerose immagini poetiche giapponesi, tra cui quella della schiuma d’acqua, si collocano senza dubbio alcuni sutra buddisti importati dalla Cina, in particolare lo Yuimagyō e il Kongō Hannyakyō. Lo Yuimagyō (Sutra di Yuima, sanscr. Vimalakīrti nirdeśa sūtra) è uno dei tre sutra, insieme all’Hokkekyō e allo Shōmankyō la cui presenza in Giappone è attestabile almeno dall’inizio del XII secolo.4 Tema principale di questo sutra, che riporta gli insegnamenti del bodhisattva Vimalakīrti (in giapponese Yuima), è la dottrina del “vuoto”, esplicitata nel secondo libro attraverso quelle che saranno poi note come “le dieci metafore di Yuima”,5 ovvero dieci elementi del mondo naturale che simboleggiano la vacuità e impermanenza dell’esistenza umana su questo mondo: lo schizzo d’acqua, la schiuma, la fiamma, l’albero di banano (cavo al suo interno), l’illusione, il sogno, l’ombra, l’eco, la nuvola fluttuante, il lampo. Vediamo nel dettaglio le prime due. 諸仁者。如此身明智者所不怙

[Ascoltate] Voi tutti: per l’uomo illuminato questo corpo, non è cosa da desiderare! 是身如聚沫不可撮摩

Questo corpo è come uno spruzzo, non si può afferrarlo, 是身如泡不得久立

Questo corpo è come schiuma, non può durare a lungo!6

Tralasciamo il problema della differenza di utilizzo dei due sinogrammi indicanti la schiuma, mò7 e bào,8 differenza che in Giappone tende a scomparire in quanto a entrambi i caratteri viene associata la lettura giapponese awa. Ci basti qui notare come la schiuma compaia in posizione preminente, in cima alla lista. Anche nel Kongō Hannyakyō9 (Sutra del Diamante, sanscr. Vajracchedikā prajñāpāramitā sūtra), altro testo fondamentale del buddismo Mahayana, il tema centrale della disquisizione è il concetto di vuoto. Qui compaiono analogamente allo Yuimagyō sei metafore rappresentanti la condizione umana, tra le quali troviamo nuovamente la schiuma. 3 Nakano Masako, Heian zenki kago no wakan hikaku bungaku teki kenkyū, Kasama shoin, Tokyo 2005, p. 246-347. 4 Secondo il Nihon shoki (libro XX, 14° anno del regno di Suiko) lo stesso Shōtoku Taishi ne avrebbe curato un commentario. 5 維摩十喩. 6 Nakano, Heian zenki kago, cit., p. 246. 7 沫. 8 泡. 9 『金剛般若経』.


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一切有為法

如夢幻泡影

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如露亦如電

Tutto questo mondo è come un sogno, un’illusione, una schiuma, un riflesso, è come rugiada oppure come lampo.10

Vedremo più avanti come questo sutra sia indicato da alcuni studiosi come particolarmente importante proprio in relazione allo studio delle espressioni poetiche. Per il momento prendiamo atto del fatto che, almeno da un punto di vista cronologico, questi due sutra sono senza dubbio precedenti a ogni altro tipo di documento prodotto dai giapponesi, in quanto la loro compilazione si colloca tra il I secolo a. C. e il V secolo d. C. Accertato quindi che la prima comparsa di questa immagine in Giappone risale a questo genere di letteratura, che, è bene sottolinearlo, è una letteratura interamente straniera, possiamo iniziare a chiederci da quando i giapponesi hanno iniziato a utilizzare attivamente l’espressione “schiuma d’acqua” nelle loro composizioni originali. Nel kanbun di periodo Nara Da un punto di vista prettamente cronologico, il sintagma acqua-schiuma compare già nel Nihon Shoki (finito di compilare nel 720), ma se andiamo a osservare i due esempi ivi contenuti ci rendiamo conto che nulla hanno a che vedere con il concetto buddista associato alla schiuma d’acqua dei sutra: la schiuma del Nihon Shoki è pura e semplice schiuma d’acqua.11 Per quanto riguarda la letteratura in kanbun, sarebbe logico aspettarsi qualche risultato da una ricerca nel Kaifūsō, la più antica raccolta poetica giapponese (in lingua cinese) risalente alla metà dell’VIII secolo, in quanto la contiguità linguistica con i sutra (anch’essi scritti in cinese) potrebbe facilitare prestiti lessicali come questo. Al contrario, nel Kaifūsō il sintagma “schiuma sull’acqua” non compare, e neppure la parola schiuma. L’immagine più simile che possiamo un po’ forzatamente paragonare alla schiuma d’acqua nel Kaifūsō è quella di “acqua che scorre”12 ma anche in questo caso nulla che sia in qualche modo rapportabile alla concezione buddista dei sutra: l’associazione è semplicemente tra il suono dell’acqua che scorre e quello della cetra cinese. Questa “assenza” del Kaifūsō è però al contrario rilevante, soprattutto se confrontata con quanto dirò ora.

10

Nakano, Heian zenki kago, cit., p. 248. I due esempi in questione sono relativi alla nascita di Izanami e Izanagi (libro I) e alla descrizione di un terreno paludoso (libro III, cronache dell’Imperatore Tenmu). 12 流水. Kaifūsō 92. Kojima Noriyuki, Kaifūsō Bunka shūreishū Honchō monzui, Iwanami, Tokyo 1964. 11


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Nel Man’yōshū È infatti allargando l’orizzonte dell’indagine e uscendo dai confini del kanbun che abbiamo il più rilevante dato di questa ricerca. Nella più antica raccolta di waka, il Man’yōshū (compilato nella seconda metà dell’VIII sec.), il termine “schiuma d’acqua” (nelle varianti minawa o minaawa13) compare in numerose poesie, delle quali ben sei possono essere ricondotte alla tematica buddista.14 Per motivi di spazio ci concentreremo solo sulle due più rilevanti. 巻向の山辺とよみて行く水の水沫のごとし世人我等は

Makimuku no yamabe to yomite yuku mizu no minawa no gotoshi yohito warera wa Come la schiuma dell’acqua che scorre risuonando sui monti a Makimuku, siamo noi, uomini di questo mondo.15 潮満てば水泡に浮かぶ砂にも我は生けるか恋ひは死なずて

Shio miteba minawa ni ukabu manago ni mo are wa ikeruka koi wa shinazute Come la sabbia che galleggia nella schiuma d’acqua quando gonfia la marea, vivrò forse io, senza morire d’amore.16

Nella prima poesia abbiamo una dichiarazione abbastanza esplicita della metafora uomo-schiuma, esattamente come visto nei sutra, laddove il termine yohito (uomini di questo mondo) è già di per sé carico di significati religiosi. La seconda è ancor più interessante in quanto presenta un utilizzo dell’immagine della schiuma reinserita in chiave amorosa. L’attribuzione della prima poesia a Kakinomoto no Hitomaro (670-720) farebbe risalire l’introduzione dell’espressione “schiuma d’acqua” nel waka almeno all’inizio del VII secolo, e quindi addirittura in anticipo rispetto al primo esempio corrispettivo nel kanshi che vedremo in seguito. È inoltre importante notare che, nonostante il Kaifūsō (compilato nel 751) sia di poco successivo al Man’yōshū, non presenta in alcun modo un’immagine paragonabile alla schiuma d’acqua che invece compare abbondantemente nel secondo. Senza dubbio l’enorme scarto tra le due raccolte per quanto riguarda il numero di poesie (116 per il Kaifūsō, più di 4500 per il Man’yōshū) inficia un po’ il valore di questa conclusione, ma mi sembra comunque degna di nota la rapidità nell’assorbimento di elementi cinesi o buddisti da parte delle poesie del Man’yōshū.

13

水泡 e 水沫. Come testo di riferimento si utilizza la versione Shinpen Nihon koten bungaku zenshū, vol. 6-9, Shogakukan, 1994-6, mentre per la ricerca delle poesie si è utilizzato la versione CDROM dello Shinpen Kokka Taikan ver. 2. 14 Per l’esattezza le poesie V-0902, VI-0912, VII-1269, VII-1382, XI-2734 e XVIII-4106. 15 Man’yōshū (da qui in poi abbreviato MYS) VII-1269. 16 MYS XI-2734.


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In Kūkai Per trovare tracce dell’immagine della schiuma d’acqua nel kanbun giapponese dobbiamo dunque arrivare al periodo Heian. È qui che, un personaggio fondamentale nella storia della formazione del pensiero giapponese classico, svolge un ruolo chiave anche per il nostro discorso: il monaco Kūkai. Torniamo dunque per un attimo a una letteratura più propriamente religiosa. L’immagine della schiuma come metafora della vita umana o di questo mondo compare nei seguenti versi contenuti in uno hyōbyaku di Kūkai. 是身脆如泡沫 吾命仮如夢幻

Questo corpo fragile come schizzi di schiuma, la mia vita passeggera come l’illusione di un sogno.17

Gli hyōbyaku (letteralmente “espressione chiara”18) erano testi che venivano composti per essere letti all’inizio delle cerimonie buddiste, e avevano lo scopo di introdurre in maniera comprensibile e “chiara” i concetti espressi spesso in maniera oscura dai sutra. Nel caso di questo hyōbyaku Kūkai non solo riprende le metafore viste nei sutra, ma, secondo Nakano,19 riadatta fedelmente proprio i versi del Kongō Hannyakyō che abbiamo visto all’inizio. Non è accertato se, come qualcuno sostiene, Kūkai avesse riportato al suo ritorno dalla Cina una copia del Kongō Hannyakyō, ma è opinione comune che sia proprio questo sutra all’origine del lessico utilizzato da Kūkai. Questa opinione diviene quasi inconfutabile se osserviamo il seguente verso di uno zatsugon (kanshi a metro variabile) dello Shōryōshū. 如夢如泡電影賓

Come sogno, come schiuma, un ospite [che se ne va veloce] come il riflesso di un lampo. 20

La poesia si apre con una domanda al maestro Kūkai da parte di Yoshimine no Yasuyo (785-830), che chiede per quale motivo Kūkai si rechi così spesso sul Monte Kōya nonostante la montagna sia tanto impervia che difficoltoso è sia salirvi che ridiscendere. Kūkai risponde con una lunga descrizione del meraviglioso paesaggio che da lassù si gode, che sia bello o cattivo tempo, e che si rinnova con nuovi panorami a ogni cambio di stagione. Da questo elogio delle bellezze naturali che cambiano di giorno in giorno, Kūkai sposta poi abilmente il focus del discorso sugli 17

Shōryōshū (di seguito abbreviato SRS) 77. Watanabe Shōkō e Miyasaka Yūshō (a cura di), Sangō shiiki Shōryōshū (Nihon koten bungaku taikei vol. 71), Iwanami, Tokyo 1965. 18 表白. 19 Nakano, Heian zenki kago, cit., p. 249. 20 SRS I-6.


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uomini. Dall’alto della montagna lo sguardo si allarga infatti ad abbracciare tutto il Giappone e la Cina, le loro innumerevoli popolazioni, per passare poi a nominare una serie di imperatori e personaggi storici del passato solo per sottolineare come questi siano ormai ridotti in cenere e le loro corti siano divenute nient’altro che dei campi desolati. Ecco che si arriva dunque al vero nocciolo della poesia: “Che siano essi nobili, oppure miserabili, tutti morendo se ne vanno”, seguito dai versi sopramenzionati: sogno, schiuma e lampo. Insomma, tutta la prima parte del discorso è sapientemente costruita per catturare l’ascoltatore con una suadente descrizione naturale, e guidarlo poi al concetto chiave che altro non è se non l’esposizione del principio buddista del grande vuoto.21 Dunque, questo genere di letteratura, a cavallo tra il sermone e la poesia, è un tassello fondamentale nel passaggio di alcune espressioni e immagini da un genere (il sutra) a un altro (la poesia). Kūkai compie un consapevole lavoro di inserimento e adattamento delle espressioni, e conseguentemente dei concetti che esse veicolano, in un tessuto testuale che asseconda i gusti dell’aristocrazia del periodo. Non è del resto un caso che proprio questa poesia sia stata inclusa anche nel Keikokushū,22 la terza e ultima antologia imperiale di kanshi del periodo Heian, simbolo del gusto sinocentrico della corte degli imperatori Saga e Junna. Questo processo di assimilazione delle espressioni buddiste si realizza non soltanto con personaggi tutto sommato fuori dall’ordinario come Kūkai, che oltre ad essere un esperto conoscitore della letteratura buddista era al tempo stesso abile poeta, ma coinvolge anche tutti i membri della corte, intesa come ambiente culturale condiviso; questi ultimi, partecipando con frequenza pur da semplici spettatori a cerimonie religiose come gli hōe, entravano in contatto e familiarizzavano più o meno attivamente con questo genere di espressioni e metafore. Era la funzione stessa di questi testi a costituire il più potente ed efficace strumento di “contaminazione” del vocabolario poetico giapponese, perché intrinsecamente al loro obiettivo di fissarsi nella mente dei presenti vi era la necessità di presentare in maniera affascinante e comprensibile i complessi concetti buddisti che essi veicolavano. In Sugawara no Michizane La dimostrazione che l’opera di monaci come Kūkai contagiò rapidamente anche il segmento laico della classe colta del periodo appare chiara dall’opera di uno dei personaggi più presenti e attivi sulla scena letteraria – e non solo – della corte Heian: Sugawara no Michizane. Pur non essendo un monaco, Michizane scrisse numerosi ganmon, composizioni in cinese contenenti preghiere buddiste, composte spesso su ordine di qualche potente in occasioni particolari come la fondazione di 21 22

Nel testo 大空. Keikokushū X-62.


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un tempio o la copiatura di un sutra. Tra i ganmon di Michizane ne abbiamo ben tre che riportano l’immagine della schiuma.23 嗟呼閻浮泡幻之國 娑婆露電之鄉

Ahimè questo mondo umano, è un paese di illusioni e di schiuma che galleggia, questo universo è [come] un villaggio [fatto] di rugiada e lampi. 24 今弟子先思泡影多病之危 次尋 夢想希有之教

Oggi i discepoli pensano prima [di tutto] ai pericoli dei numerosi mali di [questo mondo fatto di] schiuma e ombre, e solo dopo meditano sugli insegnamenti di un sogno raro. 25 每見泡影之有為

Ad ogni sguardo [vedo solo] il creato [fatto] di schiuma e ombre.26

È facile notare come, in tutti e tre i casi, il carattere “schiuma” venga accompagnato da una o più delle altre metafore viste nei sutra: ombra, sogno, illusione, lampo. Vi sono poi altri termini prettamente buddisti come enbu, shaba e ui (varie denominazioni del mondo degli uomini, del creato) che dimostrano la perfetta familiarità di Michizane con queste espressioni. In particolare il primo dei tre esempi ricorda molto da vicino il Kongō Hannyakyō, che potrebbe essere indicato a ragione come modello diretto di Michizane. Ma l’importanza di Sugawara no Michizane nel nostro discorso va ben oltre la sua abilità nel comporre ganmon. In lui possiamo infatti osservare un ulteriore, e oserei dire decisivo passaggio dell’immagine della schiuma da un genere prettamente religioso (il ganmon) a un altro, di carattere quanto meno laico (il kanshi). In una poesia del cosiddetto periodo di Sanuki,27 probabilmente risalente all’888-889, Michizane utilizza esattamente quest’espressione, ed esattamente con la medesima associazione al pensiero buddista.28 La poesia descrive un eremita che, abbandona23 Anche in questo caso, ho escluso i casi in cui la schiuma d’acqua non fosse rapportabile ai concetti buddisti. 24 Kanke bunsō Kanke kōshū (di seguito abbreviato KBKK) 645. Kawaguchi Hisao (a cura di), Kanke bunsō Kanke kōshū, (Nihon kotenbungaku taikei vol. 72), Iwanami, Tokyo 1966. 25 KBKK 656. 26 KBKK 661. 27 Gli studiosi di Michizane sono soliti definire così gli anni dall’886 all’890 che Michizane trascorse a Sanuki (odierna Kagawa), con l’incarico di governatore (kuni no tsukasa). Le poesie di questo periodo sono probabilmente tra le più originali di tutta la produzione di Michizane. 28 In realtà il termine “schiuma d’acqua” compare anche nella KBKK II-106, ma, analogamente a quanto abbiamo detto riguardo al Nihon shoki e al Kaifūsō in questo caso non ci sono analogie con la


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ta la società si era ritirato sulla cima di un monte, non lontano dalla residenza di Michizane. 泡影身浮修道念 煙嵐耳冷讀經聲

Come schiuma, come ombra effimera il corpo galleggia, praticando la fede. Tra nebbie e bufera giunge freddo all’orecchio un salmodiare. 29

La differenza con i ganmon è soprattutto nella diversa finalità delle composizioni. I ganmon hanno una specifica funzione che potremmo anche dire liturgica, o comunque legata alla preghiera, al buddismo come “pratica” religiosa, come del resto i caratteri della parola ganmon (richiedere-desiderio) suggeriscono; il kanshi invece, e specialmente questi kanshi di Michizane a Sanuki, hanno una motivazione prettamente lirica, vorrei quasi dire artistica, e il sostrato buddista che le permea non è più “pratica” bensì piuttosto “speculazione”, “pensiero” religioso sostanzialmente individuale. Dal punto di vista del rapporto tra questi due tipi di componimenti è poi importante soffermarci sulle datazioni. Dalle indicazioni contenute nei titoli e nei commenti autografi30 alle poesie del Kanke bunsō possiamo evincere che la composizione della sopracitata poesia di Sanuki sia immediatamente successiva ai tre ganmon di cui sopra, composti rispettivamente nell’872, 874 e 887. Questa continguità suggerirebbe una diretta evoluzione all’interno dello stile dello stesso Michizane che, partendo da un utilizzo di questa immagine in maniera aderente al contesto originale (metafora originaria dei sutra riutilizzata nei ganmon) se ne appropria totalmente passando successivamente a una sua più libera fruizione in una composizione di carattere decisamente più lirico e privato. In altre parole, se Kūkai era un monaco che “esportava” la terminologia buddista in uno stile che spesso rasenta la poesia, Michizane come poeta laico “importa” la medesima terminologia entro i confini del proprio mondo poetico. In questo quadro di “passaggi” non dobbiamo però dimenticare quanto detto riguardo al Man’yōshū, che da questo punto di vista precede di gran lunga ogni altra opera concepita dai giapponesi, almeno tra quelle a noi oggi note. Prima di chiudere il cerchio con il nostro punto di partenza delle poesie del Kokinshū, vorrei aggiungere un ultimo e importantissimo anello.

vita umana o rimandi alla terminologia buddista. Secondo Kawaguchi si tratta banalmente della schiuma del fiume Horikawa. Kawaguchi (a cura di), Kanke bunsō, cit., p. 192. 29 KBKK IV-258. 30 自注. Sulla fondamentale importanza di questo apparato paratestuale nelle raccolte poetiche di Michizane si veda Gotō Akio, “Sugawara no Michizane to Haku Kyoi – shi no chūki to Kanke bunsō no hensan”, Haku Kyoi kenkyū kōza, no. 3, 1993, pp. 75-94.


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Da Bai Juyi a Ōe no Chisato Se la fonte originale della “schiuma d’acqua” abbiamo detto essere senza dubbio i sutra e la letteratura buddista, c’è però un altro fondamentale canale di accesso all’universo delle espressioni in cinese come questa, specialmente per quanto riguarda il campo della poesia, ovvero il Baishi wenji (giapp. Hakushi bunshū),31 la raccolta poetica di Bai Juyi. Come è ormai noto la poesia di Bai Juyi ha influenzato enormemente la letteratura giapponese dalla metà del IX secolo in poi, sia per quanto riguarda la poesia che il monogatari, ma l’opera giapponese che più di tutte rappresenta l’anello mancante tra la poesia di Bai Juyi e il waka è, a mio parere, il Chisatoshū di Ōe no Chisato. Il poeta, contemporaneo di Michizane e dei compilatori del Kokinshū, riceve nell’894 il seguente ordine dall’Imperatore Uda: «Presentatemi un certo numero di waka, [composti] dai tempi antichi fino ad oggi».32 Chisato si trova quindi a dover compilare una raccolta di waka “antichi e moderni” ben dieci anni prima del Kokinshū, ma quello che compirà non sarà in definitiva un semplice processo di compilazione. Il Chisatoshū è infatti la prima raccolta di kudai waka, ovvero waka che hanno come tema (dai) un verso (ku) di una poesia cinese: in sostanza delle parafrasi di versi cinesi tradotti in waka. Nel Chisatoshū troviamo due poesie, che hanno come kudai due versi di Bai Juyi, con le quali possiamo continuare il nostro discorso sulla schiuma d’acqua lasciato in sospeso con la morte di Michizane (903). La poesia originale di Bai Juyi “Cinquanta rime pensando al viaggio in oriente” recitava: 幻世春来夢 浮生水上漚

Mondo d’illusioni, la primavera viene in sogno; fluttuante vita, schiuma sull’acqua.33

Anche in questo caso non c’è bisogno di sottolineare la somiglianza con il modello dei sutra che ci dimostra come, anche in poeti cinesi come Bai Juyi l’utilizzo del lessico buddista nelle poesie fosse una realtà ben consolidata. Chisato “traduce” questi versi in due waka del Chisatoshū: 幻の世とし知りぬる心には春くる夢と思ほゆるかな

Al cuore che pur conosce questo mondo di illusioni, sembra invero un sogno in cui giunge la primavera.34 31

白氏文集. La lettura giapponese Hakushi monjū è stata negli ultimi anni corretta dagli studiosi in Hakushi bunshū. 32 Hirano Yukiko & Chisatoshū rindokukai, Chisatoshū zenshaku, (Shikashū zenshaku sōsho vol. 36), Kazama shobō, Tokyo 2007. 33 想東游五十韻. Okamura Shigeru (a cura di), Hakushi monjū, (Shinshaku kanbun taikei vol. 95105, 108, 117), Meiji shoin, Tokyo 1988-2010. 34 Chisatoshū (di seguito CS) 111.


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Poesia Heian e immagini buddiste

かりそめにしばし浮かべるたましひの水の泡ともたとへられつつ

L’anima che galleggia per un attimo fuggevole, la si può ben paragonare alla schiuma dell’acqua.35

Chisato non fa altro che tradurre nel waka dei versi cinesi contenenti espressioni che, come abbiamo visto, erano in realtà già presenti, non solo nel kanshi giapponese, ma addirittura nel waka del Man’yōshū. E dunque, se non fosse che si tratta di kudai waka, in cui è esplicito il riferimento all’originale di Bai Juyi, avremmo qualche problema a capire da dove Chisato abbia ripreso questa espressione. Una nuova definizione di ipotesto Vorrei soffermarmi un attimo su questo problema della “fonte” originale di una espressione. Molti studiosi hanno cercato di individuare tra tutti i testi che abbiamo visto finora una precisa e talvolta univoca relazione: Watanabe Hideo36 faceva notare la somiglianza tra le poesie del Chisatoshū e la poesia di Ki no Tomonori che abbiamo visto all’inizio: “Quasi schiuma d’acqua, vana resta a galla questa vita penosa…”; Andō Teruyo37 da parte sua aveva a sua volta già accostato la poesia di Tomonori ai due versi sopracitati di Bai Juyi; Nakano Masako38 ritiene a sua volta che fossero le cerimonie buddiste come gli hōe, e i testi come gli hyōbyaku di Kūkai ad aver direttamente influenzato le poesie del Kokinshū come quella di Tomonori, mentre Kawaguchi,39 che riporta un verso dell’Hokkekyō dove compare la schiuma, sembra voler suggerire un diretto riferimento di Michizane a questo sutra. A tutte queste ben motivate indicazioni, potremmo da parte nostra aggiungere altre correlazioni di questo tipo: per esempio, data la profonda conoscenza e ammirazione da parte di Michizane per la poesia di Bai Juyi, potremmo a ragione sostenere che Michizane si fosse ispirato piuttosto al Baishi wenji che non al Kongō Hannyakyō, o ancora che a ispirare Tomonori fosse stato a sua volta il kanshi di Michizane, personaggio ben noto a corte nel periodo del Kokinshū. E se infine aggiungiamo quanto detto riguardo al Man’yōshū, e cioè che quest’immagine della schiuma d’acqua come metafora dell’impermanenza buddista era già penetrata nel waka del periodo Nara, ecco che tutte le affermazioni riportate sopra non possono che diventare parziali, o comunque soggette a critica, laddove la ricezione del Man’yōshū nel periodo Heian era senza dubbio notevole e quindi, in teoria, tutti questi testi potrebbero in realtà far riferimento alle poesie del Man’yōshū. 35

CS 112. Watanabe Hideo, Heianchō bungaku to kanbun sekai, Bensey, Tokyo 1991, p. 204. 37 Andō Teruyo, “Kokinshū kafū no seiritsu ni oyoboseru kanshibun no eikyō ni tsuite”, Tokyo Joshi Daigaku Nihon bungaku, no. 3-6, 1956, cit. in ibidem, p. 204. 38 Nakano, Heian zenki kago, cit., pp. 222-240. 39 Kawaguchi (a cura di), Kanke bunsō, cit., p. 688 (nota 358-1). 36


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Siamo qui giunti alla vera questione che volevo sollevare con questo intervento, che è la seguente: alla luce delle considerazioni appena esposte, possiamo dire che ogni tentativo di determinare con assoluta certezza e univocità il percorso seguito da alcune espressioni che compaiono in generi diversi di poesia o in senso lato di letteratura è, nella maggior parte dei casi, oltre che complesso, sempre soggetto al rischio di una smentita, e per certi versi addirittura inutile. Una volta stabilita l’origine prima di una certa immagine, nel nostro esempio i sutra, ha cioè poco senso cercare di ripercorrerne l’evoluzione, inseguendola da un testo all’altro, immaginando che esista una specie di catena invisibile. L’avvertenza che qui propongo può forse apparire superflua, ma non è così scontata se riflettiamo sul rischio di delimitare eccessivamente lo studio della letteratura entro alcuni “generi” che in molti casi altro non sono che categorizzazioni a posteriori: “la storia del waka”, “la storia del kanshi”, “la storia del monogatari”, “la storia dei testi buddisti”, sono giustamente trattate come capitoli diversi della storia della letteratura giapponese, ma si deve stare ben attenti a non considerarle come un fascio di rette parallele che corrono sullo stesso piano senza incontrarsi. Come ormai molti studi hanno dimostrato,40 l’ambiente di produzione letteraria noto come “corte Heian” era in realtà un sistema estremamente articolato, aperto alle più variegate influenze – in particolare quella cinese, in tutte le sue forme – e composto da elementi intersecanti e in continua relazione tra di loro: monaci, poeti, politici e letterati, quando non fossero addirittura la stessa persona, erano per lo meno attori e spettatori di una letteratura fortemente condivisa e legata al tempo stesso al quotidiano, e quindi in continua evoluzione, espressione essa stessa di una concezione del mondo che superava i confini politici, storici e geografici del Giappone del periodo. Un esempio su tutti è l’esistenza stessa del kanshi, una poesia giapponese scritta in una lingua straniera, e in definitiva indistinguibile almeno superficialmente dal suo originale cinese. Più che di rette parallele dovremmo quindi parlare di un intreccio, una ragnatela di relazioni testuali che superano il concetto tradizionale di testo – almeno come spesso siamo portati a pensarlo – costituendo un macrotesto che si sovrappone a spazi di fruizione orale come le cerimonie religiose e i banchetti. Mutuando il lessico del critico francese Gerard Genette,41 vorrei provare a dare a questo tipo di rapporti fra i testi la definizione di transtestualità indefinita, o forse meglio transtestualità multipla, dove indefinito non indica tanto la nostra incapacità a riconoscere un ipotetico originale (quello che Genette chiama ipotesto) quanto l’“incapacità”, o sarebbe meglio dire il totale disinteresse dell’autore dell’ipertesto (l’opera che imita o riprende l’ipotesto) a rifarsi a un solo e unico ipotesto specifico. Quello a cui ha attinto Ki no Tomonori al momento della composizione delle 40

Tra i più recenti suggerisco: Nihei Michiaki (a cura di), Ōchō bungaku to higashi Ajia no kyūtei bungaku, Chikurinsha, Tokyo 2008. 41 Gerard Genette, Palimpsestes: La Littérature au second degré, Du Seuil, Parigi 1982. In questo testo ormai un po’ datato Genette propone una complessa seppur parziale, ma senza dubbio interessante sistematizzazione dei rapporti tra testi. Mi sembra qui utile riprendere la terminologia da lui proposta, con un piccolo adattamento.


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Poesia Heian e immagini buddiste

poesie sull’awa è stato lo Hokkekyō o il Kongō Hannyakyō? Oppure è stato invece una loro rielaborazione in un nuovo testo, magari un sermone buddista e quindi un input orale, come quelli contenuti nello Shōreishū di Kūkai? O ancora, un kanshi di un poeta cinese come Bai Juyi piuttosto che di uno giapponese come Michizane, o ancora semplicemente il waka del Man’yōshū? La risposta che qui propongo è tutte e nessuna in particolare. Non tanto perché, lo ripeto, sia difficile per noi stabile quale sia il rapporto “corretto” fra tutte queste possibilità, quanto piuttosto perché molteplice (e per questo la chiamo transtestualità multipla) e ricorrente si presentava una stessa immagine agli occhi degli stessi poeti, che la ritrovavano nei sutra, nei sermoni, nella poesia in cinese e in quella in giapponese. Tutte le possibilità sono dunque non solo valide come alternative, ma concorrono tutte insieme a formare un sovra-ipotesto che esiste nella sua interezza e nella sua indefinibilità. La panoramica che ci danno studiosi come Watanabe è senza dubbio utile e preziosa per ricostruire alcune tracce e le incontestabili somiglianze tra i testi, ma bisogna stare attenti a non considerare questi percorsi come certi e univoci. Non si deve per esempio dare per scontata la conoscenza di determinati testi da parte dei poeti solo sulla base di somiglianze nel testo stesso, perché così facendo ignoriamo i possibili – e spesso probabili – passaggi intermedi, per esempio una trasmissione orale come potevano essere i sermoni di Kūkai, o opere ibride come il Chisatoshū. Conclusioni In conclusione, per comprendere appieno e correttamente una determinata poesia del Kokinshū dovremmo essere in grado, o almeno cercare, di ricostruire tutto il complesso quadro non solo delle relazioni intertestuali, ma anche della vita quotidiana degli autori e fruitori di quegli stessi testi, arrivando a indovinarne le abitudini e tutto ciò che, nel loro quotidiano, poteva colpire la loro immaginazione. Una seconda conclusione altrettanto importante e conseguente alla prima è la necessità di valutare con il giusto peso opere “minori” come il Chisatoshū che hanno l’inestimabile merito di esplicitare, stavolta in maniera inequivocabile, il rapporto tra un testo e un altro, in questo caso un verso cinese e la sua parafrasi in waka. Inequivocabile perché ce lo dichiara esplicitamente il poeta nella prefazione della raccolta: “Dunque questo suddito, prendendo dei versi antichi di grandi poeti, ne ha composto nuove poesie [giapponesi, uta]”.42 È quindi un’eccezione dal valore inestimabile, così come sono inestimabili del resto gli apparati paratestuali delle raccolte quali i kotobagaki,43 che ci forniscono informazioni precise sull’occasione 42

Dalla prefazione del Chisatoshū, trad. in Edoardo Gerlini, Uno studio comparato sulla poesia in giapponese e in cinese nel Giappone del periodo Heian - Il caso di Sugawara no Michizane e Ōe no Chisato (tesi di dottorato), Università “Ca’ Foscari”, Venezia 2011, p. 304. 43 Brevi testi che introducono o accompagnano una poesia.


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di composizione e l’origine di una certa espressione. A questo proposito e come riprova finale, mettiamo da parte la schiuma d’acqua e torniamo al Kokinshū con due poesie di Abe no Kiyoyuki e Ono no Komachi. つつめども袖にたまらぬ白玉は人を見ぬ目の涙なりけり

Tsutsumedomo / sode ni tamaranu / shiratama wa / hito o minu me no / namida narikeri Pur gelosamente custoditi, / le maniche non trattengono / questi candidi gioielli: / son essi le lacrime che stillano / dagli occhi privati della bramata visione.44 おろかなる涙ぞ袖に玉はなす我はせきあえずたぎつ瀬なれば

Oroka naru / namida zo sode ni / tama wa nasu / ware wa sekiaezu / tagitsu se nareba Sono tiepide lacrime / quelle che come gioielli indugiano / sulle maniche. / Invano io tento di frenare / il torrente impetuoso del pianto.45

Quello che sembra un comune scambio di poesie tra innamorati, giocato sulla suggestiva immagine dei gioielli paragonati alle lacrime, fu in realtà composto, secondo il kotobagaki, nel giorno di una funzione commemorativa per un defunto, prendendo per tema proprio il sermone del monaco, tale Shinsei, e reinventandolo in chiave amorosa. Il “gioiello” del sermone farebbe la sua comparsa in una parabola dell’Hokkekyō, secondo la quale un uomo in visita a un amico si addormentò ubriaco, e per tutta la vita non si accorse che mentre dormiva l’amico gli aveva legato dietro all’abito un gioiello inestimabile, e senza trovarlo condusse una vita di stenti. I “gioielli” che i due poeti paragonano alle lacrime, si riconoscono quindi non come una loro trovata spontanea e originale, ma come diretto prestito di una letteratura buddista che qui fa solo da spunto, da suggerimento per un’immagine suggestiva che si allontana evidentemente dal contesto religioso. Questa capacità dei poeti di manipolare immagini ed espressioni originariamente estranee al dizionario del waka, unita a una certa disinvoltura nel loro utilizzo e applicazione, conferisce alla poesia giapponese, e in particolare alla poesia del Kokinshū, un valore e una profondità senza dubbio peculiari nel panorama della letteratura mondiale, laddove riusciamo a intravederne i profondi rapporti con il mondo circostante.

44 45

KKS-XII 556. KKS-XII 557.


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Poesia Heian e immagini buddiste

“Like Water Foam”: the Introduction of Buddhist Expressions in Heian Literature With a comparative approach between kanshi and waka, I intend to address the problem of the import of Buddhist terms and expressions in Japanese poetry. Through the study of the image “water foam” (Minawa or mizu no awa), often used as a metaphor of the short life of man, I want to demonstrate the importance of a conception of literature that transcends the division into genres. We will follow the development of this expression starting from the sutras, and analyzing Man’yōshū, Kūkai, Sugawara no Michizane, Bai Juyi and Ōe no Chisato, and finally the Kokinshū.

「水の泡」- 平安文学における仏教的表現の導入について

エドアルド・ジェルリーニ 本発表は、比較文学論的に平安時代の歌と詩における仏教的表現の導 入を論じるものである。一つの例として、「水の泡」という表現を取 り上げ、その源泉と発展を分析したい。ジャンルの区別に限ることな く、平安文学を包括的な見解から考える必要を肯定する。対象テクス トについては、教典、万葉集、空海、菅原道真、白居易、大江千里か らの事例をあげ、「水泡」という表現の変容を考えたい。


Giuseppe Giordano

Il ruolo di alcune figure retoriche nei principi di associazione e progressione dello Shinkokinwakashū

In un famoso studio sui principi di associazione e progressione che regolano le sequenze poetiche giapponesi tra il decimo ed il quattordicesimo secolo, Konishi Jin’ichi sostiene che ciò che maggiormente influenzò le scelte dei compilatori dello Shinkokinwakashū 新古今和歌集 (d’ora in poi semplicemente Shinkokinshū), sia stata la ricerca di uno sviluppo cronologico della narrazione. I primi sei libri dell’antologia, dedicati alle stagioni, sono stati molto studiati e vengono spesso indicati come il culmine del principio di associazione e progressione raggiunto dalla poesia giapponese classica. In realtà, questo aspetto era già stato in parte teorizzato da Fujiwara no Shunzei (1114-1204), che nel suo Koraifūteishō 古来風躰抄 aveva sottolineato l’importanza di rispettare, nelle sequenze poetiche, l’ordine di apparizione di fiori, piante e animali sullo scenario naturale, in modo da ricreare con naturalezza il ciclico alternarsi delle stagioni.1 A questo principio si affianca quello di uno sviluppo spaziale, in base al quale, soprattutto nelle sezioni dedicate al viaggio, è possibile tracciare percorsi ideali seguiti da un altrettanto ideale narratore. Alla dimensione spazio-temporale, poi, va ad aggiungersi quella psicologica, per cui, nei libri riservati all’amore, vengono raccontate, seppure con tutti i limiti delle convenzioni letterarie dell’epoca, storie di uomini e donne che affidano ai versi i moti del proprio cuore. Konishi, infine, arriva a notare come nello Shinkokinshū sia possibile rintracciare anche una sezione che si potrebbe definire storico-enciclopedica. Nel decimo libro, infatti, le poesie sono sistemate in gruppi che rappresentano, in sequenza cronologica, i quattro grandi periodi della poesia classica, dall’ottavo al dodicesimo secolo, identificabili con altrettante raccolte: il Man’yōshū 万葉集, il Kokinwakashū 古今 和歌集, il Gosenwakashū 後撰和歌集 e il Senzaiwakashū 千載和歌集.2 I punti individuati da Konishi sarebbero già più che sufficienti per poter apprezzare lo Shinkokinshū non come una semplice raccolta di poesie, ma come un’opera 1

Fujiwara no Shunzei, Koraifūteishō, in Takahashi Fumio, Ariyoshi Tamotsu, Fujihira Haruo (a cura di), Karonshū, Shōgakukan, Tokyo 1975, pp. 371-373. 2 Konishi Jin’ichi, “Association and Progression: Principles of Integration in Anthologies and Sequences of Japanese Court Poetry, A.D. 900-1350”, Harvard Journal of Asiatic Studies, XXI, 1958, pp. 67-127.


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coerente da leggere con fluidità dall’inizio alla fine. In effetti, l’antologia presenta una struttura che si potrebbe definire sinfonica. In ciascuna sezione, o ‘movimento’, ogni lirica contribuisce, con richiami, riverberi e contrappunti, allo sviluppo del tema principale. Sicché una fruizione ordinata del testo restituisce un’armonia di ampio respiro, scandita dalla presenza di alcuni artifici retorici. Dell’importante ruolo svolto dalla ‘variazione allusiva’, o honkadori 本歌取り, nella narrativizzazione del corpo antologico si è già detto altrove.3 Qui ci si concentrerà su altri due artifici retorici, taigendome 体言止めe utamakura 歌枕, che, a ben vedere, assolvono alla stessa funzione delle legature in uno spartito musicale. Taigendome Quella del taigendome, vale a dire il terminare un verso con un sostantivo, è una tecnica che, seppur rintracciabile in epoche anteriori, divenne molto diffusa durante il cosiddetto shinkokin-jidai, il periodo dello Shinkokinshū.4 In modo particolare, ciò che caratterizza i componimenti contenuti in questa antologia, è il goku taigendome 五句体言止め, un sostantivo posto a chiusura del quinto verso. Va precisato che nello Shinkokinshū i sostantivi giocano un ruolo di gran lunga più importante rispetto a quello svolto, ad esempio, nel Kokinshū.5 I verbi occupano un posto marginale, sia per numero sia per salienza semantica; ma l’asciugare l’azione dal testo non implica, come verrebbe da pensare, un inaridimento del tessuto letterario, anzi lo carica di spessore grazie alla valenza altamente connotativa assunta dai nomi in questo contesto e dal ruolo imagista della descrizione. Il tutto esaltato da una sintassi incompleta e frammentata. E così il testo capita spesso si riduca ad un quadro muto dove la voce umana è assente e dove il fruscio del vento lo si può intuire solo dal movimento delle foglie o dal languido dondolio d’un ponte sospeso sull’abisso. Fare del sostantivo l’elemento principe del testo dava la possibilità all’autore di disegnare un’immagine esplorandone, con attitudine speleologica, tutte le sue possibili associazioni tonali. Ciò equivale a dire che la poesia del periodo non si limitava ad essere semplicemente descrittiva, ma che, anzi, concentrandosi su di una singola immagine, era in grado di istillare nella scena tutta la pregnanza dell’esperienza umana. Nello Shinkokinshū le poesie che presentano il taigendome sono ben 461, quasi un quarto dell’antologia, che in totale conta 1979 waka. Di queste, esattamente la

3 Giuseppe Giordano, “Il Kokinshū nelle poesie stagionali dello Shinkokinshū - uno studio sulla honkadori”, Annali di Ca’ Foscari, XLIX, 2, 2010, pp. 239-257. 4 Si veda Kashiwagi Yoshio, “Hachidaishū no taigendome”, in Waka bungaku kai (a cura di), Ronshū waka to retorikku, “Waka bungaku no sekai, 10”, Kasama shoin, Tokyo 1986, pp. 149-168. 5 Si veda Robert H. Brower e Earl Miner, Japanese Court Poetry, Stanford University Press, California 1961, pp. 277-285.


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metà è concentrata nei libri di argomento stagionale.6 Spesso, poesie che terminano con un taigendome sono unite in gruppi di due o tre, ma ci sono anche sequenze di quattro, cinque o sei poesie. I termini che compaiono a chiusura di questi waka possono tutti essere raggruppati in cinque grandi categorie: 1) termini che indicano elementi naturali inanimati quali la luna, le nuvole, il vento ecc., che rappresentano la stragrande maggioranza; 2) termini riconducibili alla sfera umana. In questo gruppo, oltre a quelle che indicano esplicitamente una persona, rientrano parole che esprimono sentimenti e/o stati d’animo e della coscienza (amore, tristezza, sogno ecc.), e quelle che indicano oggetti fabbricati e usati dagli esseri umani (abiti, barche, capanne ecc.); 3) luoghi; 4) animali e insetti; 5) fiori e piante.7 Nell’ultimo verso delle poesie che presentano un goku taigendome, queste categorie possono essere rappresentate singolarmente o in combinazione. Tuttavia, ai fini di un ulteriore chiarimento dei principi di associazione e progressione che regolano lo Shinkokinshū, la presenza del taigendome risulta particolarmente interessante se accoppiata all’analisi strutturale delle poesie in cui viene utilizzato. Di base, si possono individuare alcuni grandi gruppi: 1) poesie in cui il poeta, tramite un’apostrofe, si rivolge direttamente all’elemento utilizzato per creare il taigendome; 2) poesie che si possono definire ‘assertive’, in cui l’accento è posto su affermazioni del tipo “A è B”, oppure “se si fa A succede B”, o ancora, “quando accade A accade anche B”; 3) poesie composte da un’unica relativa; 4) poesie che utilizzano l’epifrasi; 5) poesie che grazie ad un kugire, una cesura che può trovarsi alla fine del primo, del secondo, del terzo o del quarto verso, presentano due parti sintatticamente autonome.8 Tra le poesie dell’antologia che terminano con un sostantivo, quelle che ricorrono all’apostrofe sono 42. Di queste, 29 vedono coinvolto un elemento naturale inanimato, mentre, stranamente, quelle in cui il poeta si rivolge ad un animale sono solo 3, una delle quali è il famoso waka di Shunzei: 9

6

Si veda Takeuchi Shōichi e al., “Nijūichidaishū ni okeru taigendome ni tsuite”, Nagoya daigaku kokugo kokubungaku, IX, 1961, pp. 41-58. 7 Nakaba Shōtetsu, “Hachidaishū no taigendome no uta no seikaku”, Toyama daigaku bunri gakubu bungaku kiyō, XI, 1962, pp. 40-54. 8 Si veda Fujita Michiya, “Taigendome o megutte - Man’yōshū, Kokinshū, Shinkokinshū ni okeru kantai hyōgen to juttai hyōgen”, Ehime kokubun kenkyū, XII, 1963, pp. 101-107. 9 Le citazioni si basano sull’edizione a cura di Kubota Jun, Shinkokinwakashū, 2 voll. “Shinchō nihon koten shūsei, 24, 30”, Shinchōsha, Tokyo 1979. 10 Mukashi omou / kusa no iori no / yo no ame ni / namida na soe so / yama hototogisu.


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Principi di associazione e progressione nello Shinkokinwakashū 201 昔思ふ 草の庵の よるの雨に 涙な添へそ やまほととぎす10

Penso al passato. O cuculo, ti prego, fa’ che alla pioggia notturna in quest’eremo fatto d’erba io non aggiunga il pianto mio. Fujiwara no Shunzei

Le uniche tre coppie di poesie che presentano congiuntamente un taigendome e un’apostrofe, hanno all’ultimo verso un elemento naturale inanimato, come nel caso di questi due waka tratti dal secondo libro dedicato alla primavera: 144 散る花の 忘れがたみの 峯の雲 そをだにのこせ 春の山風11

145 花さそふ なごりを雲に 吹きとめて しばしはにほへ 春の山風12

Non spazzar via le nubi là in cima ché dei fior di ciliegio, ormai caduti, son vestigio, o vento di primavera. Fujiwara no Yoshihira

Dei fiori rapiti lascia almeno per un po’ una fragrante nuvola rosa, o vento che soffi dai monti in primavera. Fujiwara no Masatsune

Le due poesie sono sostanzialmente identiche, oltre che per struttura, anche per contenuto, con il poeta che si rivolge direttamente al vento primaverile affinché, dopo aver strappato dagli alberi di ciliegio i petali dei fiori, li mantenga, almeno per un po’, sospesi in una profumata nuvola rosa. Tuttavia, se nella poesia di Yoshihira l’attenzione è posta sostanzialmente sull’elemento visivo, in quella di Masatsune si trasferisce sulla percezione olfattiva, facendo in modo che i due componimenti, come note diverse di uno stesso accordo, risultino, reciprocamente armonici ma non identici. Le poesie di tipo assertivo sono 46, ma in tutta l’antologia non vi è un solo esempio di coppie di waka appartenenti a questa categoria. In mancanza di riferimenti certi è difficile avanzare un’ipotesi sui motivi di questo dato, ma forse è possibile ipotizzare che waka costruiti in siffatta maniera assolvessero alla funzione di allentare per un momento la tensione psichica del lettore. Lamentando la sua solitudine, Kiyosuke si limita a dire: 11 12

Chiru hana no / wasuregatami no / mine no kumo / so o dani nokose / haru no yamakaze. Hana sasou / nagori o kumo ni / fukitomete / shibashi wa nioe / haru no yamakaze.


Giuseppe Giordano 558 おのづから 音するものは 庭の面に 木の葉吹きまく 谷の夕風13

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Ciò che a tratti s’ode è il frusciar nel giardino delle foglie che a sera fa danzar in spirali il vento della valle. Fujiwara no Kiyosuke

Al terzo gruppo appartengono ben 115 waka, quasi un quarto del totale; e sono 9 i punti nell’antologia in cui due o più waka appartenenti a questo insieme sono stati affiancati. Di questi, due gruppi di tre poesie consecutive rappresentano un buon esempio di ‘legatura armonica’. La prima è tratta dal primo libro dedicato all’autunno: 375 大荒木の 杜の木の間を もりかねて 人だのめなる 秋の夜の月14

376 有明の 月待つ宿の 袖の上に 人だのめなる 宵のいなづま15

377 風わたる 浅茅が末の 露にだに 宿りもはてぬ 宵のいなづま16

Tra gli alberi del bosco di Ōaraki, radi solo di nome, non riesce a filtrare e si fa vana speranza la luna di una notte d’autunno. Shunzei no musume

Sulle maniche mie dove invano sperai albergasse notturna la luna, della notte, fulminei, soltanto i bagliori. Fujiwara no Ietaka

Nell’effimera rugiada dei falaschi battuti dal vento per un attimo solo fulminei bagliori notturni. Fujiwara no Ariie

Come si vede, queste tre poesie rappresentano un gruppo molto compatto per tema e struttura, anche se assistiamo ad una graduale trasformazione dell’immagine come in un moderno programma di morphing. Nel testo originale, la prima e la seconda poesia condividono il quarto verso, hitodanomenaru, e l’immagine della 13 14 15 16

Onozukara / oto suru mono wa / niwa no omo ni / ko no ha fukimaku / tani no yūkaze. Ōaraki no / mori no ki no ma o /morikanete /hitodanome naru /aki no yo no tsuki. Ariake no / tsuki matsu yado no / sode no ue ni / hitodanomenaru / yoi no inazuma. Kaze wataru / asaji ga sue no / tsuyu ni dani / yadori mo hatenu / yoi no inazuma.


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Principi di associazione e progressione nello Shinkokinwakashū

luna. Allo stesso modo, la seconda e la terza poesia hanno in comune il quinto verso, yoi no inazuma, e il termine yado (o yadoru, nella forma verbale). In questo modo la poesia centrale, quella di Ietaka, si trasforma in una sorta di poesia pivot. Nella prima poesia abbiamo solo l’immagine della luna che, seppur nascosta dagli alberi del bosco di Ōaraki, di fatto è presente. Nella seconda, la luna diventa un elemento solo evocato nel testo, ma in realtà è assente dalla scena, ed al suo posto compaiono dei lampi notturni. Nella terza poesia, l’immagine della luna scompare definitivamente anche dal testo, lasciando spazio solo ai fulmini della notte. Nel secondo gruppo di poesie, invece, la luna è una presenza costante e pervasiva. 605 風寒み 木の葉晴れゆく よなよなに のこるくまなき 庭の月影17

606 わが門の 苅り田のねやに 伏せしぎの 床あらはなる 冬の夜の月18

607 冬枯れの 杜の朽ち葉の 霜の上に 落ちたる月の 影のさむけさ19

Al vento freddo degli alberi le foglie van scomparendo ed il giardino inonda la luce della luna. Shokushi Naishinnō

Nei campi falciati di fronte casa mia la beccaccia accoccolata nel suo nido rischiara la luna invernale. Inbumon’in no Taifu

Le foglie morte del bosco in inverno si velano di brina e su di essa fredda la luce della luna. Fujiwara no Kiyosuke

Approfittando degli spazi vuoti lasciati da una natura dormiente e rinsecchita, la luce della luna attraverso un terso cielo invernale si spande per ogni dove, avvolgendo in un gelido abbraccio giardini deserti, risaie mietute e foglie morte coperte di brina. Anche in questo trittico la poesia centrale sembra svolgere una funzione cardine, esaltando però qui la simmetria dei due waka tra i quali si frappone. Sia nella 17

Kaze samumi / ko no ha hareyuku / yonayona ni / nokoru kumanaki / niwa no tsukikage. Wa ga kado no / karita no neya ni /fusu shigi no / toko arawanaru / fuyu no yo no tsuki. 19 Fuyugare no / mori no kuchiba no / shimo no ue ni / ochitaru tsuki no / kage no samukesa. Nel testo curato da Kubota, l’ultimo verso risulta “kage no sayakesa”. Qui si è deciso di seguire la lezione proposta da altre due edizioni commentate dell’antologia e precisamente: Minemura Fumito (a cura di), Shinkokinwakashū, “Shinpen Nihon kotenbungaku zenshū, 43”, Shōgakukan, Tokyo 1995 e Tanaka Yutaka e Akase Shingo (a cura di), Shinkokinwakashū, “Shin Nihon kotenbungaku taikei, 11”, Iwanami shoten, Tokyo 1992. 18


Giuseppe Giordano

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poesia della principessa Shokushi sia in quella di Kiyosuke, infatti, non c’è presenza animata, ed il freddo (samumi, samukesa), allo stesso modo del chiarore lunare (tsukikage, tsuki no kage), viene esplicitamente citato. Così facendo, la solitudine del povero uccello, che si ritrova stretto in una morsa glaciale, viene esaltata e amplificata, e spinge il lettore al sospetto di trovarsi dinanzi ad una rappresentazione simbolica della condizione umana. Le poesie che utilizzano l’epifrasi sono 118. Questo artificio retorico, soprattutto se accoppiato al taigendome, conferisce una ragguardevole forza espressiva al testo, inducendo la coscienza del lettore, nei primi versi, in uno stato di tensione destinato a trovare poi un suo sfogo nel verso finale, grazie ad un’immagine catalizzatrice dell’emozione. Dei nove casi in cui abbiamo simili poesie in immediata successione, il seguente è particolarmente interessante: 741 藻塩草 かくともつきじ 君が代の 数によみおく 和歌の浦波20

742 うれしさや 片敷く袖に 包むらむ けふまちえたる 宇治の橋姫21

743 年へたる 宇治の橋守 言問はむ 幾代になりぬ 水のみなかみ22

Quanti gli anni a venire di Sua Maestà siano le poesie composte: innumeri come le alghe della baia di Waka. Minamoto no Ienaga

La mia gioia oggi è la stessa di quella che, avvolta nelle sue vesti provò, dopo lunga attesa, la dama del ponte di Uji. Fujiwara no Takafusa

Al vecchio guardiano del ponte di Uji proviamolo a chiedere: da quanti anni scorre limpida l’acqua di questo fiume? Fujiwara no Kiyosuke

Questi tre waka, anche se apparentemente molto diversi tra loro, danno vita in realtà ad un momento di grande coesione, e nel testo di ciascuno di essi troviamo reciproci collegamenti. Innanzitutto, ciò che va notato è la presenza di utamakura. Tutti e tre ne contengono uno. La prima e la seconda poesia ne presentano due diversi (Waka e Uji), ma situati nella stessa posizione: l’ultimo verso; la seconda e la 20 21 22

Moshiogusa / kaku tomo tsukiji / kimi ga yo no / kazu ni yomioku / Waka no uranami. Ureshisa ya / katashiku sode ni / tsutsumuramu / kyō machietaru / Uji no hashihime. Toshi hetaru / Uji no hashimori / koto towamu /ikuyo ni narinu / mizu no minakami.


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Principi di associazione e progressione nello Shinkokinwakashū

terza, invece, presentano in posizioni diverse lo stesso toponimo (Uji). Ma più dei singoli elementi, ciò che realmente conta in questa sequenza è la rappresentazione che viene costruita dello scorrere del tempo. Se nella poesia di Ienaga l’accento, con l’augurio rivolto al sovrano di un regno lungo e prospero, è posto sul futuro, Takafusa concentra tutta la sua attenzione sul presente. Di contro, nei versi di Kiyosuke, alla vista del fiume Uji, la mente, quasi a voler risalire la corrente del tempo, si perde nelle nebbie incerte del passato. Sarà un caso, ma il fatto che in questa sequenza solo nella poesia centrale, quella in cui la dimensione temporale coincide con il presente, venga utilizzato un avverbio come kyō, ‘oggi’, dà la sensazione che quanto precede e segue, il passato e il futuro, sia in qualche modo indicibile, indefinibile e inconoscibile. L’ultimo gruppo di poesie che utilizzano il goku taigendome è quello in cui rientrano waka che presentano una cesura molto forte all’interno del testo. Rappresentano la categoria più numerosa, con ben 140 liriche, e forse non è sbagliato affermare che questo tipo di poesia sia quello che meglio rappresenta lo spirito poetico dell’epoca. Dei 16 punti dell’antologia in cui poesie del genere si ritrovano affiancate, la sequenza certamente più interessante è quella delle sei poesie del primo libro sull’autunno, che vanno dalla 359 alla 364: 359 もの思はで かかる露やは 袖におく ながめてけりな 秋の夕暮れ23

360 み山路や いつより秋の 色ならむ 見ざりし雲の 夕暮れの空24

361 さびしさは その色としも なかりけり 真木立つ山の 秋の夕暮れ25

23 24 25

Non è malinconia. Eppur rugiadose le lacrime sulle maniche mie. Ed attonito miro Il tramonto d’autunno. Fujiwara no Yoshitsune

Recessi montani: da quando il sentiero s’è tinto d’autunno? D’un nuovo colore le nubi nel cielo al tramonto. Jien

Non è uno solo della tristezza il colore. Svetta il podocarpo sulla cima del monte nel tramonto d’autunno. Jakuren

Mono omowade / kakaru tsuyu ya wa /sode ni oku /nagamete keri na /aki no yūgure. Miyamaji ya / itsu yori aki no / iro naramu / mizarishi kumo no / yūgure no sora. Sabishisa wa / sono iro toshi mo / nakarikeri / maki tatsu yama no / aki no yūgure.


Giuseppe Giordano 362 心なき 身にもあはれは しられけり しぎ立つ沢の 秋の夕暮26 363 見わたせば 花ももみぢも なかりけり 浦のとま屋の 秋の夕暮27

364 たへてやは 思ひありとも いかがせむ むぐらの宿の 秋の夕暮28

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Pur chi cuore non ha si commuove a veder sulla palude levarsi in volo i beccaccini nel tramonto d’autunno. Saigyō A guardar lontano, non un fiore né purpurea una foglia. Alla baia solo capanne nel tramonto d’autunno. Fujiwara no Teika

Purché ci sia l’amore si dice tollerabile la tristezza. Ma non è così in questa casa tra gli sterpi nel tramonto d’autunno. Fujiwara no Masatsune

In genere, quando ci si trova dinanzi ad una poesia costruita con un goku taigendome, la prima impressione che se ne riceve è quella di una lirica dal marcato sapore descrittivo. Ma per la maggior parte delle liriche contenute nello Shinkokinshū questa impressione è fuorviante, dal momento che, come è stato già detto, è proprio dietro quella singola immagine che s’annida spesso l’emozione del poeta. In alcuni casi l’autore prepara il terreno al palpito finale offerto dai suoi versi suggerendo in qualche modo il sentiero emozionale da percorrere. Vediamo ad esempio le poesie appena citate. In quattro di esse ritroviamo nel testo espressioni riconducibili alla sfera dell’animo umano: mono omowade (359), sabishisa wa (361), kokoro naki mi ni mo aware wa (362), taete ya wa omoi aritomo (364). In questo modo, il cielo insanguinato che irrompe violento ed improvviso nell’ultimo verso si fa specchio del cuore dell’uomo di cui non fa altro che restituire le tinte vermiglie. Viene dunque da chiedersi come vadano lette le poesie di Jien e Teika nei cui versi non v’è cenno alcuno alla dimensione dell’emotività umana. In realtà, com’è noto, la poesia di Teika si ispira al famoso episodio dell’esilio di Genji a Suma, ma qui, più del sottotesto, è interessante vedere come funzionino i singoli componimenti grazie alla ricontestualizzazione operata dai compilatori. Anche in questa occasione è possibile riconoscere una struttura simmetrica nell’ordine delle poesie. Se dividiamo la sequenza presa in analisi in due gruppi 26 27 28

Kokoro naki / mi ni mo aware wa / shirarekeri / shigi tatsu sawa no / aki no yūgure. Miwataseba / hana mo momiji mo / nakarikeri / ura no tomaya no / aki no yūgure. Taete ya wa / omoi aritomo / ikagasemu /mugura no yado no / aki no yūgure.


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Principi di associazione e progressione nello Shinkokinwakashū

di tre, vediamo come i due waka di Jien e Teika risultino in posizione centrale. Volendo sfruttare ancora una volta una metafora musicale, si può dire che queste poesie, che se decontestualizzate rischierebbero di perdere molto della loro carica emozionale, racchiuse in questa struttura si comportino come le corde di una viola d’amore che vibrano per simpatia armonica. Questo perché nello Shinkokinshū, più di qualsiasi altra antologia dell’epoca, ogni poesia trae linfa vitale e forza espressiva dalle liriche adiacenti. E così, se nella poesia di Jien sembra confluire la malinconia dei versi di Yoshitsune e la tristezza di quelli di Jakuren, in quella di Teika si ripercuote lo strazio di Saigyō e l’angoscia di Masatsune. Utamakura Il termine utamakura che letteralmente significa parola cuscino, inizialmente non indicava soltanto luoghi famosi cantati in poesia, ma comprendeva anche tutta una serie di parole considerate adatte alla composizione poetica in presenza di determinate topiche. Di questo se ne ha prova certa leggendo il trattato sugli utamakura del monaco Nōin, vissuto a cavallo tra il decimo e l’undicesimo secolo, il Nōin utamakura 能因歌枕, o il Ryōjin-hishō 梁塵秘抄, una raccolta di canti popolari risalente alla fine del periodo Heian. Col passare del tempo, però, e con il progredire della pratica poetica, il campo semantico di questo termine si restrinse molto, fino ad arrivare ad indicare esclusivamente i cosiddetti meisho 名所 o luoghi celebri. Il presente studio, seguendo il trend degli studiosi giapponesi, è su questo tipo di utamakura che si basa.29 Nello Shinkokinshū circa un quarto delle poesie (487) presenta un utamakura. Gli utamakura rappresentati sono 228, quasi tre quarti dei quali appartenenti all’area del Kinki (164). La cosa non deve meravigliare perché, anche se è vero che a partire dal periodo del Kokinshū, grazie alla nascita del dai ei 題詠, cioè il comporre versi su topiche assegnate, i poeti avevano iniziato a cantare anche luoghi che non avevano mai visitato di persona, la loro produzione poetica doveva necessariamente essere legata a quella del passato, così come esplicitamente indicato da Minamoto no Toshiyori nel suo trattato poetico, il Toshiyori zuinō 俊頼髄脳; per questo, un eccesso di esotismo non sarebbe stato tollerato.30 Con grandissimo distacco seguono utamakura appartenenti ad altre aree del Giappone, quali il Chūbu (25), il Tōhoku (20), il Kyūshū (10) e il Kantō (7); al conto vanno aggiunti anche due utamakura appartenenti rispettivamente allo Hokuriku e allo Hokkaidō. Nell’antologia, ci sono alcuni utamakura che ricorrono più frequentemente di altri. Yoshino, che compare in 22 componimenti, è il luogo più celebrato, ma ce ne sono anche altri, come Naniwa, Tatsuta, Uji, Kasuga, Suma e Isonokami furu 29

Si veda Ikuko Sagiyama, “Pratiche di riscrittura: l’affermazione e l’evoluzione degli utamakura”, Atti del XXVI Convegno di Studi sul Giappone, Torino 2002, pp. 423-442. 30 Ivi, p. 424


Giuseppe Giordano

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che compaiono in tutta l’antologia 10 o più volte. Ci sono 49 gruppi di poesie (in media di 3 o 4) che presentano un utamakura, ed è presente addirittura una lunghissima sequenza di ben 29 poesie (che vanno dalla 1590 alla 1618) in cui viene citato un luogo famoso. Di questi 49 gruppi, ben 32 presentano lo stesso utamakura. E questo ci dice una cosa importante sul gusto letterario dell’epoca: vale a dire che i luoghi dell’azione poetica potevano fornire, all’interno di una sequenza, un ulteriore elemento di associazione. Dal punto di vista della progressione, di base, gli effetti che è possibile riscontrare sono due e dipendono dalla natura dell’utamakura. Alcuni luoghi vengono sfruttati in poesia solo per le caratteristiche fonetiche e/o semantiche del loro nome, particolarmente suggestivo e atto a determinare più o meno sottili giochi di parole. In genere, a questo tipo di utamakura è legata una narrazione tendenzialmente statica risolventesi in un’amplificazione del tema trattato. Di contro, ci sono luoghi che vengono evocati per le loro caratteristiche geografiche, come Yoshino, o perché legate a qualche precedente realtà letteraria, come nel caso di Shiogama.31 È soprattutto in casi simili che è possibile assistere ad uno sviluppo narrativo del tema. Un buon esempio di utamakura sfruttato per le caratteristiche del suo nome è fornito dal ponte Nagara. 1592 年ふれば 朽ちこそまされ 橋柱 昔ながらの 名だに変らで32

1593 春の日の 長柄の浜に 舟とめて いづれか橋と 問へど答へぬ33

Col passar degli anni sempre più son marciti i pilastri del ponte. Dell’antico Nagara solo il nome non cambia mai. Mibu no Tadamine

In un giorno di primavera sulla riva del fiume Nagara fermo la barca e del ponte chiedo notizie. Ma nessuno risponde. Egyō

31 Ivi, pp. 430-435. Si veda anche Edward Kamens, Utamakura, Allusion, and Intertextuality in Tradtional Japanese Poetry, Yale University Press, New Haven and London 1997, pp. 142-144. 32 Toshi fureba / kuchi koso masare / hashibashira / mukashi nagara no / na dani kawarade. 33 Haru no hi no / Nagara no hama ni / fune tomete / izureka hashi to / toedo kotaenu.


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Principi di associazione e progressione nello Shinkokinwakashū 1594 朽ちにける 長柄の橋を 来て見れば 蘆の枯れ葉に 秋の風ぞ吹く34

Venni a mirar di Nagara il ponte ormai dal tempo consunto; ma sulle foglie morte dei giunchi spira solo il vento d’autunno. Fujiwara no Sanesada

Come si vede, in questo gruppo di poesie l’utamakura assolve più ad un ruolo di amplificazione dell’immagine che non di vera e propria progressione narrativa. In tutte e tre le liriche il poeta lamenta la dolorosa contraddizione tra il nome del ponte, Nagara, che lascia pensare ad una vita lunga, e l’assenza dello stesso che, distrutto dal tempo, oramai non esiste più. E al suo posto, come nell’ultimo verso della poesia di Sanesada, malinconico solo il vento d’autunno tra le canne secche. La reiterazione di uno stesso tema crea così, poesia dopo poesia, una sensazione di risonanza grazie ad un effetto di onde concentriche. Si veda, come ulteriore esempio, la seguente sequenza: 1093 人しれず くるしきものは 信夫山 下はふ葛の 恨みなりけり35

1094 消えねただ 信夫の山の 峯の雲 かかる心の 跡もなきまで36

34 35 36 37

Che tormento non poter rivelar il proprio cuore come invece fan le foglie dell’amaranto strisciante alle pendici del monte Shinobu. Fujiwara no Kiyosuke

Svanite o nubi dalla vetta del monte Shinobu. E anche tu, cuore mio, sì da non lasciar traccia di questo amore soffocato. Fujiwara no Masatsune

Kuchi nikeru / Nagara no hashi o / kite mireba / ashi no kareha ni / akikaze zo fuku. Hito shirezu / kurushiki mono wa / Shinobu yama / shita hau kuzu no / uraminarikeri. Kiene tada / Shinobu no yama no / mine no kumo / kakaru kokoro no / ato mo naki made. Uchihate / kurushiki mono wa / hitome nomi / Shinobu no ura no / ama no takunawa.


Giuseppe Giordano 1095 かぎりあれば 信夫の山の ふもとにも 落葉が上の 露ぞ色づく37

1096 うちはへて くるしきものは 人目のみ しのぶの浦の 海人の栲縄38

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Tutto ha un limite: alle pendici del monte Shinobu sulle foglie cadute persino la rugiada s’è fatta vermiglia. Minamoto no Michiteru

Come l’avvolger le funi dei pescatori nella baia di Shinobu m’è penoso nasconder di continuo questo amore mio. Nijō-in no Sanuki

In questo gruppo di waka, tratti dal secondo libro sull’amore, utilizzando un’associazione classica tra il toponimo Shinobu e il verbo omofono che vuol dire ‘nascondersi’ o ‘sopportare’, viene ripetuto più volte il tormento dell’innamorato costretto a tenere nascosto il proprio sentimento agli occhi del mondo.39 E tale ripetere, quasi ossessivo, restituisce in maniera fedele i palpiti angosciati di un amante insoddisfatto. Qui acquista poi una potenza espressiva particolare la poesia di Michiteru che, calatosi nei panni di una donna, sfrutta un sottile gioco di associazione di parole e immagini, difficilmente ricostruibile in traduzione, per suggerire il velo di pianto che offusca per un momento gli occhi dell’innamorata sopraffatta dal dolore.40 Un utamakura come Suma, invece, viene utilizzato dai compilatori dell’antologia in maniera differente.

38

Kagiri areba / Shinobu no yama no / fumoto ni mo / ochiba ga ue no / tsuyu zo irozuku. Il primo esempio di quest’associazione risale all’Ise monogatari, dove nella quindicesima sezione si legge: “Oh, come vorrei conoscere una via agli altri ignota così da penetrare nel profondo del tuo cuore” (Michele Marra, a cura di, I racconti di Ise, Einaudi, Torino 1985, p. 22). 40 L’espressione ochiba, letteralmente ‘foglie cadute’ indica le rosse foglie d’acero (紅葉) cadute al suolo, mentre la rugiada è una metafora delle lacrime (涙). Così facendo, Michiteru allude alla parola kōrui 紅涙, letteralmente ‘lacrime vermiglie’, che in giapponese indica le lacrime delle donne. 39


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Principi di associazione e progressione nello Shinkokinwakashū 1596 須磨の浦の なぎたる朝は 目もはるに 霞にまがふ 海人の釣舟41

1597 秋風の 関吹き越ゆる たびごとに 声うちそふる 須磨の浦波42 1598 須磨の関 夢をとほさぬ 波の音を 思ひもよらで 宿をかりける43

Nella placida baia di Suma, avvolte al mattino in una bruma infinita, dei pescatori le barche vanno svanendo. Fujiwara no Takayoshi Quando inonda la barriera, il vento d’autunno sempre porta con sé dalla baia di Suma la voce delle onde. Mibu no Tadami Alla barriera di Suma decisi d’albergare, ignaro che delle onde il suono ai sogni sbarra la via. Jien

Questa sequenza, per quel che riguarda la costruzione del flusso narrativo è diversa da quelle precedenti. La scena si apre sulla baia di Suma dove, nel silenzio d’una mattina priva di vento, le barche dei pescatori, come in un sumi-e, inghiottite da una fitta foschia, perdono pian piano i loro contorni. Nella seconda poesia s’alza il vento e le onde incominciano a far sentire la propria voce. Una voce così forte da impedire il sonno tranquillo a chi a Suma ha deciso di passar la notte. E così, in questa bella baia, si passa da una scena mattutina ad una serale, dal silenzio al rumore, da una calma malinconia ad un’ansia inquieta. Dal punto di vista del modo in cui monta l’onda emotiva, una struttura molto simile la presenta questo trittico di poesie in cui lo scenario è quello dei maestosi monti di Yoshino: 1616 花ならで ただ柴の戸を さして思ふ 心の奥も み吉野の山44

41 42 43 44

Scrutami nel cuore e vedrai che non per i fiori ma per un eremo di legno sono venuto qui da te, o maestoso Yoshino. Jien

Suma no ura no / nagitaru asa wa / me mo haru ni / kasumi ni magau / ama no tsuribune. Akikaze no / seki fukikoyuru / tabigotoni / koe uchisōru / Suma no uranami. Suma no seki / yume o tōsanu / nami no to o / omoi mo yorade / yado o karikeru. Hana narade / tada shiba no to o / sashite omou / kokoro no oku mo / Miyoshino no yama.


Giuseppe Giordano 1617 吉野山 やがて出でじと 思ふ身を 花散りなばと 人や待つらむ45

1618 いとひても なほいとはしき 世なりけり 吉野の奥の 秋の夕暮46

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Non per restar poco venni tra i monti di Yoshino; ma caduti i fiori, chissà se qualcuno s’aspetterà ch’io ritorni. Saigyō

Fuggito il mondo, m’è divenuto qui ancora più odioso. Tramonto d’autunno nel cuore di Yoshino. Fujiwara no Iehira

Qui i compilatori sembrano voler raccontare una storia di rinuncia. La storia di un uomo deciso ad abbandonare il mondo per trovare la pace interiore. Questi si rifugia nelle profondità montane di Yoshino, famose sì per l’incredibile bellezza dei fiori di ciliegio, ma anche e soprattutto per esser luoghi remoti difficili da raggiungere. Ma se nei primi versi la scelta di lasciarsi tutto alle spalle sembra non lasciar spazio ad alcun turbamento interiore, nel secondo waka s’insinua il pensiero di quanti s’aspettano un suo ritorno. Ed è proprio il prender coscienza di questa realtà che fa capire al poeta che, non importa quanto lontano potrà fuggire, liberarsi delle angosce del mondo, trattandosi di un mondo tutto interiore, non sarà cosa facile e scontata. Conclusioni Lo Shinkokinshū rappresenta il non plus ultra della sofisticatezza letteraria raggiunta dalla poesia giapponese agli inizi del tredicesimo secolo. L’antologia si presenta come un organismo estremamente complesso e dinamico in cui ogni singola poesia funziona come una piccola, ma indispensabile parte di un ingranaggio complesso. L’analisi del testo rivela che i compilatori, nel decidere la sequenza esatta in cui disporre le poesie selezionate, seguirono contemporaneamente più criteri di associazione e progressione, in modo da creare percorsi di lettura che guidassero con grazia il lettore attraverso una variegata gamma di stati d’animo. Alcuni di questi criteri, erano stati esplicitati da teorici della poesia già in epoche antiche, altri invece erano, all’epoca dello Shinkokinshū, relegati alla sfera della pratica poetica. In questo studio ci si è limitati a fornire qualche esempio di come due artifici retorici, quali il taigendome e l’utamakura, siano stati sfruttati per creare legature armoniche, permettendo una transizione fluida tra un componimento e l’altro e creando, al contempo, dei microcosmi narrativamente autonomi. Questo perché la ricostruzione dettagliata dei criteri di associazione e progressione per ogni singolo punto dell’antologia, equivarrebbe a mappare un territorio con una carta geografica più estesa del territorio stesso. 45 46

Yoshinoyama / yagate ideji to / omou mi o / hana chirinaba to / hito ya matsuramu. Itoite mo / nao itowashiki / yo narikeri / Yoshino no oku no / aki no yūgure.


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Principi di associazione e progressione nello Shinkokinwakashū

Principles of Association and Progression in Shinkokinwakashū Taking a popular study by Konishi Jin’ichi as starting point, this paper will focus on the principles of association and progression in Shinkokinwakashū, with the aim to enhance further on the vision of this anthology as one indivisible piece of work meant to be read without interruption from the beginning to the end. My analysis will be based on two peculiar stylistic devices: taigendome and utamakura. By presenting clusters of poems, I will try to clarify the way the compilers chose to arrange the poetic material in order to stir a feeling of smoothness on reading the poems one after the other.

『新古今和歌集』における和歌の配列

ジュセッペ・ジョルダーノ 本稿は小西甚一氏の先行研究を出発点にし、『新古今和歌集』に収録 されている和歌の配列について論考する。日本の古典和歌集の中で最 も洗練された勅撰和歌集と言われている『新古今和歌集』を通読する と、和歌の配列は「体言止め」と「歌枕」に基づいて決められている ことに気づく。「体言止め」と「歌枕」という二つの技巧に着目し、 『新古今和歌集』に見られる幾つかの和歌の流麗な連なりを紹介し、 撰者たちはどのように和歌の配列を決めたのかについて考察する。


CLAUDIA IAZZETTA

Separazione e ricongiungimento. Storie di genitori e figli negli oyako monogurui

Sebbene confinato solo a questa vita, il legame tra genitori e figli1 minacciato da un’improvvisa e inattesa separazione ispira un gruppo di opere di nō che Takemoto Mikio ha denominato oyako monogurui 親子物狂 (nō di genitori e figli lunatici).2 Si tratta di testi accomunati da un pattern di separazione e ricongiungimento che guida i protagonisti attraverso un percorso costellato di passaggi e tappe ricorrenti, coronato, escludendo Sumidagawa, dal rincontro e, quindi, da un lieto fine. Nella sua analisi, Takemoto tenta una catalogazione di tali opere in base alla causa che ha generato l’allontanamento, e arriva ad enucleare tre gruppi (Tab. 1). A seconda della causa, la trama presenta uno svolgimento alquanto predefinito, lasciando ai dettagli il margine per delle irrilevanti ma distintive variazioni. Al primo gruppo appartengono quei drammi in cui un genitore – sempre il padre – dando credito a voci diffamanti, che poi si riveleranno false, disconosce un figlio. È dunque nel ripudio (tsuihō 追放) che si annida la causa del distacco. La vocazione (shukke 出 家) determina, invece, l’allontanamento di un figlio o di un genitore nelle opere appartenenti al secondo gruppo. Infine, il terzo motivo di separazione, il rapimento (yūkai 誘拐), rispecchia un problema che realmente affliggeva la società giapponese del XIII e XIV secolo.3 I testi riconducibili a questo gruppo implicano la presenza di un figlio che, riuscito a scappare dai trafficanti di schiavi che lo avevano rapito, viene ritrovato da un monaco o un laico alle cui cure si affida fino al conclusivo ricongiungimento con il proprio genitore. Takemoto fa rientrare in quest’ultimo gruppo

1

In base alla credenza buddhista che limita solo alla vita presente il legame tra genitori e figli, a quella presente e futura il legame tra due coniugi, ed estende finanche a quella passata il legame tra signore e fedele servitore. 2 Takemoto Mikio, “Oyako monogurui kō”, Nōgaku kenkyū, VI, 1980, pp. 81-122. 3 Il rapimento, particolarmente ricorrente nelle aree di Kyoto e Kamakura, e la susseguente vendita di esseri umani erano severamente perseguiti dal governo di Kamakura, come dimostrano alcuni editti del 1240, del 1290 e del 1303, in cui è possibile rilevare un inasprimento della punizione prevista, dalla reclusione alla pena di morte. Tuttavia, la crescente richiesta di manodopera per lavori estremamente pesanti incrementò la tratta degli esseri umani, e il bakufu di Muromachi, pur non depenalizzandola, si rivelò incapace di frenarne il dilagare. Satō Kazuhiko, “Hitokaibune no nami no oto. Nōgaku ni ikizuku chūsei”, Nihon kosho tsūshin, DCCCXXII, 1998, pp. 2-4.


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Separazione e ricongiungimento negli oyako monogurui

anche quelle opere in cui il cedersi ai mercanti di schiavi si rivela un atto volontario (miuri 身売り) finalizzato a fronteggiare difficili condizioni economiche. Tab. 1

追放

出家

誘拐・身売り

Tango monogurui

Tsuchiguruma

Sumidagawa

Hibariyama

Kashiwazaki

Kagestu

Yorobōshi

Kōya monogurui

Miidera Hyakuman Ōsaka monogurui Sakuragawa Tokusa

Nota: Non trova un’adeguata collocazione Utaura.

Se è, dunque, possibile evidenziare negli oyako monogurui delle differenze nei motivi che determinano la separazione, risulta però indubbia l’uniforme presenza del kurui 狂い, uno stato emotivo impropriamente definito ‘pazzia’ che investe i protagonisti. Per comprendere l’importanza drammaturgica di questo elemento è sufficiente consultare il Fūshikaden 風姿花伝 (Del trasmettersi del fiore e dell’interpretazione), uno dei principali trattati teorici di Zeami, in cui si afferma che lo stile dei monogurui sia quello che suscita maggiore interesse, e che, a seconda del kurui che lo anima, se ne possano distinguere due tipi: tsukimono 憑物 (nō di possessione da parte di uno spirito) e omoi yue no monogurui 思ひゆへの物狂 (nō incentrato sul dolore per la perdita di un figlio, dell’amato o per abbandono).4 Ed è quest’ultimo tipo che caratterizza quasi esclusivamente – fa eccezione Utaura – gli oyako monogurui. Ciononostante, anche nelle espressioni più accorate di kurui, emergono le tracce di una forma d’arte che affranca il protagonista dall’etichetta di ‘lunatico’. Nel nō il kurui si manifesta con danza e canto, e si configura come la sublimazione di un tipo di “arte di strada”, repertorio di kyōjo 狂女 e hōka 放下, molto diffuso anche prima dell’epoca Muromachi. Le donne, che per sventura erano rimaste prive di famiglia, trovavano solo nel kurui il modo di poter viaggiare liberamente per il paese. Lo hōka, invece, era una figura che univa in sé quella del monaco e dell’artista, e predicava il buddhismo attraverso il canto e la danza. Come le kyōjo, sono figure liminali, di confine, rispetto all’ordine costituito, considerate eretiche dalle istituzioni religiose, pur essendo molto amate dal popolo. 4

Fūshikaden in Omote Akira (a cura di), Zeami, Zenchiku, Nihon shisō taikei 24, Iwanami shoten, Tokyo 1974, p. 23.


Claudia Iazzetta

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Nei nō che verranno qui analizzati, la richiesta di esibirsi indirizzata ai protagonisti5 è spesso formulata in toni apparentemente crudeli, che comunicano una totale insensibilità verso l’angoscia che attanaglia, ad esempio, una madre nella penosa ricerca del proprio figlio. Ma la lucidità delle loro repliche e lo sfoggio di cultura che sovente accompagna le acclamate esibizioni spingono in primo piano l’elemento artistico, che solo nel caso delle madri e del padre di Tokusa si tinge di sfumature melanconiche legate alla perdita del proprio fanciullo. Si pensa che nelle opere più antiche il soggetto impegnato nella ricerca del congiunto scomparso coincida con quello che si produce nel kurui. Tuttavia, la possibile scissione di queste due funzioni, unita alla difficoltà che spesso si incontra nell’identificare colui che cerca in opere dove l’incontro si presenta casuale, o dove entrambi sembrano cercarsi mutualmente, rendono questa corrispondenza uno strumento d’analisi relativamente sterile. Laddove un approccio più tematico permette di identificare i nō incentrati sulla figura di una madre in cerca del proprio figlio come un gruppo che, sebbene esiguo, si presenta alquanto omogeneo. Invece, pur dotati di un’intelaiatura che li riconduce senza esitazione al genere degli oyako monogurui, le opere che presentano in alternativa alla figura della madre quella del padre – non necessariamente nel ruolo del protagonista – offrono un panorama più multiforme. Gravitano attorno a questi due poli Kashiwazaki e Ōsaka monogurui che verranno analizzati separatamente.6 Oyako monogurui di madri In Hyakuman 百万, precedentemente conosciuta come Saga monogurui 嵯峨 物狂, una madre va in cerca del proprio figlio scomparso senza una chiara ragione.7 L’aspetto artistico di questa madre è particolarmente marcato: Hyakuman è, infatti, il nome di una famosa danzatrice di kusemai 曲舞.8 Il suo kurui si identifica con l’esecuzione del nenbutsu, e la misericordia di Shaka e Amida, ripetutamente 5 Uno dei tre ruoli che Takemoto individua negli oyako monogurui è proprio quello del geinō no shomōsha, colui che richiede l’esibizione. I restanti due sono il mediatore che favorisce il ricongiungimento (chūkaisha) e colui che lo ostacola (bōgaisha). I suddetti ruoli si trovano tutti e chiaramente distinti solo in Miidera. Takemoto, “Oyako monogurui…”, cit., p. 99. 6 Per i testi di tutte le opere di nō prese in esame in questo studio si è fatto riferimento a Sanari Kentarō (a cura di), Yōkyoku taikan, 7 voll., Meiji shoin, Tokyo, 1931. Per Ōsaka monogurui, Nishio Minoru, et al. (a cura di), Yōkyoku kyōgen, Kokugo kokubungaku kenkyūshi taisei 8, Sanshōdō, Tokyo 1961. Per Tango monogurui, Yokomichi Mario, Omote Akira (a cura di), Yōkyokushū, Nihon koten bungaku taikei 40, Iwanami shoten, Tokyo 1960. 7 Questa è l’unica opera in cui la causa dell’allontanamento del bambino non viene rivelata. Ma, presentando una serie di somiglianze strutturali con Miidera, è possibile ipotizzare che si tratti di rapimento. 8 La veridicità storica di questo personaggio resta ancora da accertare. Yanagita Kunio, ad esempio, la ricollega alle figure che dirigevano le intonazioni dello yūzūnenbutsu 融通念仏 replicate innumerevoli volte. Erano donne abili nel canto e nella danza e venivano chiamate Hyakuman forse proprio in riferimento alle 100 volte in cui veniva ripetuto il nenbutsu. Nell’epoca medievale risulta che fossero numer-


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Separazione e ricongiungimento negli oyako monogurui

invocati, conduce al felice ricongiungimento, nei recinti del Saidaiji, con il figlio accudito da un uomo della capitale. Un monaco, invece, soccorre il bambino di Miidera 三井寺, sfuggito ai suoi rapitori. La madre, nella sua ricerca, giunge al Miidera legando il suo kurui alla richiesta di suonare la campana del tempio al chiarore della luna.9 La protagonista, sfidando e vincendo la reticenza del monaco, riesce nel suo intento e al rintocco compassionevole che ne deriva attribuisce la realizzazione del sospirato incontro. In Sakuragawa 桜川, una madre cerca il figlio che con una lettera le comunica di essersi venduto ai trafficanti di schiavi e la esorta a cogliere questa occasione per prendere i voti. Lo ritroverà dopo tre anni accudito da un monaco e, ricongiuntisi, madre e figlio prenderanno i voti. Nel suo kurui la protagonista raccoglie petali di fiori di ciliegio sui quali per assonanza – il figlio si chiama Sakurago – opera una sorta di transfert. L’espediente della lettera, una causa di allontanamento diversa dal rapimento e l’esclusivo riferimento a Konohanasakuyahime, il kami protettore del bambino, costituiscono degli elementi innovativi che, però, ben si amalgamano con lo stile e l’atmosfera tipica degli oyako monogurui. Unica eccezione al binomio separazione/ricongiungimento è Sumidagawa 隅田 川. L’opera, frutto del figlio di Zeami, Motomasa, rispecchia un diverso orientamento del gusto, maggiormente improntato al realismo.10 La tristezza che aleggia in tutti gli oyako monogurui qui non si attutisce con il rincontro, ma tocca la nota più alta proprio nel finale con l’immagine di una donna che, dopo una sofferta ricerca del figlio rapitole, ne piange la morte dinanzi alla tomba. I richiami all’Ise monogatari (Racconti di Ise) scandiscono il viaggio della protagonista e ne caratterizzano il kurui. L’opera si chiude sulle note del dainenbutsu recitato in suffragio dell’anima del piccolo sventurato. Si evince, dunque, come alla figura della madre negli oyako monogurui vengano sempre affidati il ruolo dello shite e, di conseguenza, l’esibizione del kurui. Quest’ultimo elemento, pur preservando la propria natura artistica,11 si fonde con l’angoscia e la disperazione di chi lo esegue, esprimendone tutto il pathos. Inoltre, il riferimento al marito defunto, che puntualmente si ritrova in ognuno dei suddetti nō, sottolinea come la vedovanza costituisca un presupposto imprescindibile per presentare queste madri come kyōjo e lasciarle libere di vagare in cerca del proprio figlio. ose le danzatrici conosciute con il nome di Hyakuman. Satō Junko, “Hyakuman kō. Saga monogurui kara Hyakuman e”, Gakugei kokugo bungaku, XXV, 1993, pp. 74-83. 9 Sul rapporto che lega la donna al potere salvifico della campana del tempio si veda Susan Blakeley Klein, “When the Moon Strikes the Bell: Desire and Enlightenment in the Noh Play Dōjōji”, Journal of Japanese Studies, XVII, 1991, 291-322. 10 Kanaseki Takeru, “Nō Sumidagawa ni tsuite. Seishin bunseki toshite no nō, nō no seishin bunseki”, Okayama daigaku bungakubu kiyō, XXV, 1996, p. 13. 11 Prima che si realizzi il ricongiungimento, il kurui delle madri negli oyako monogurui viene suggerito da una persona del luogo come forma di intrattenimento per il bambino. Fa naturalmente eccezione Sumidagawa dove non c’è nessun bambino da trastullare.


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Altrettanto significativo è il collocare il dramma in un tempio, in armonia con l’atmosfera buddhista che scaturisce dai frequenti riferimenti a Shaka e Amida. In Sakuragawa l’assenza di questi elementi viene riequilibrata dalla conclusione in cui madre e figlio decidono di prendere i voti. Infine, la credenza e le pratiche religiose che balenano sullo sfondo12 ci mostrano come l’interesse del pubblico dell’epoca si concentrasse non solo sull’aspetto artistico del kurui, ma anche sulla celebrazione della protezione e dell’intervento miracoloso delle divinità. Oyako monogurui di padri Probabilmente, per il numero più elevato dei testi che compongono il gruppo degli oyako monogurui dei padri, non riceviamo la stessa impressione di uniformità che ci restituisce quello delle madri. Ci vengono presentati altri motivi di separazione, ai figli e ai loro accompagnatori viene dato più spazio, e snodi diversi conducono al ricongiungimento. Tokusa 木賊 è forse il nō che maggiormente richiama l’afflizione che caratterizza gli oyako monogurui di madri, ponendosi così come ipotetico anello di congiunzione tra i due gruppi. Anche qui, un bambino rapito viene soccorso da un monaco ma, trascorso del tempo, chiede di tornare al paese natio per poter incontrare ancora una volta suo padre. Lo trova invecchiato nella sua umile casa, pronto a intrattenere i passanti attraverso il suo kurui in cui esprime tutto il dolore per la scomparsa del figlio. Ricongiuntisi, padre e figlio trasformano la casa in un tempio e prendono i voti. Se un kurui accorato e il rapimento come causa di separazione legano questo dramma alle opere precedenti, un bambino che ritorna dal padre13 e un genitore che, pur soffrendo, non si mette sulle tracce del figlio sono fattori che introducono fondamentali variazioni. Inoltre, l’epilogo simile a quello di Sakuragawa rafforza l’ipotesi che, in mancanza di un’ambientazione buddhista, risulti necessaria una conclusione dai toni marcatamente religiosi. Totalmente atipica è la struttura di Utaura 歌占 dove il padre, un otokomiko al servizio di un santuario, abbandona i suoi doveri e suo figlio per soddisfare un egoistico desiderio di viaggiare. Dopo otto anni incontra per caso il figlio e l’uomo che se ne era preso cura e, felici, fanno insieme ritorno a casa. L’incontro casuale è privo del motore trainante della ricerca; il motivo dell’allontanamento, che negli oyako monogurui di padri non si annida esclusivamente nel figlio, non si configura con nessuna delle tre cause identificate da Takemoto; infine, il kurui si presenta come unico esempio di tsukimono tra gli oyako monogurui, e viene eseguito dopo che il mutuo riconoscimento tra padre e figlio abbia avuto luogo.

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La devozione per Shaka e Amida in Hyakuman; il potere salvifico della campana in Miidera; la credenza dell’ujigami (divinità protettrice) in Sakuragawa; la pratica del dainenbutsu in Sumidagawa. 13 Il tornare a casa non può essere assimilato al girovagare senza meta che contraddistingue la ricerca.


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Separazione e ricongiungimento negli oyako monogurui

Tsuchiguruma 土車 offre il secondo esempio di allontanamento da parte di un padre, anche se in questo caso il motivo è riconducibile alla vocazione. Un padre, addolorato dalla morte della moglie, abbandona il suo unico figlio con l’intento di prendere i voti. Il bambino, accompagnato da un servitore, va in giro in cerca di suo padre e, una volta ritrovatolo, farà ritorno al paese natio. Non potendo far ricoprire ad un bambino il ruolo dello shite, questo viene affidato al servitore che, in veste di tutore, agisce in sua vece nell’esibizione del kurui. Il tutore acquisisce maggiore spessore in Kōya monogurui 高野物狂, dove sostituisce la figura dei defunti genitori nella ricerca del loro figlio. Il bambino aveva lasciato una lettera in cui dichiarava di voler prendere i voti per pregare per le anime dei suoi genitori e di non voler essere rintracciato prima di tre anni. La richiesta resta inevasa e il servitore, ritrovatolo, riesce a convincere il fanciullo a rimandare il suo proposito e ritornare a casa. Nel suo ruolo, il servitore è strutturalmente più vicino alle madri che ai padri, e perfino la preghiera che recita per i suoi defunti signori ricorda quella che le madri rivolgono alle anime dei propri mariti. Ma, nonostante il legame che lo unisce al bambino sia più profondo e duraturo14 e il kurui risulti afflitto e malinconico, il suo personaggio non riesce a trasmettere lo sconforto di una madre addolorata per la perdita del proprio bambino. Nel dramma Kagetsu 花月, un incontro casuale riunisce un figlio, rapito a sette anni da un tengu 天狗, e un padre fattosi monaco itinerante. L’assenza della funzione della ricerca e il ruolo dello shite ricoperto dal figlio rappresentano alcune delle variazioni contenute in quest’opera. Inoltre, il kurui in cui si esibisce il ragazzo si presenta inequivocabilmente come un’arte, un’attrazione del tutto priva del coinvolgimento emotivo che caratterizza il contenuto di altri kurui. Infatti, come nel caso di Utaura, laddove non vi è ricerca viene a mancare anche il dolore per la separazione. L’inversione dei ruoli canonici – in genere è un adulto che ricopre la parte riservata allo shite – si rispecchia anche nel kurui come forma di intrattenimento proposto al padre da una persona del luogo.15 Le successive tre opere hanno in comune trame più complesse, il ripudio come causa dell’allontanamento, e il ricongiungimento come frutto di un incontro casuale e non di una ricerca. Hibariyama 雲雀山 è l’unica che presenta una figlia, Chūjohime,16 ripudiata ingiustamente dal padre e soccorsa dalla balia che la sostiene vendendo fiori e erbe, attirando i compratori con il kurui. Il padre non si era limitato a cacciarla via ma aveva dato l’ordine di ucciderla. Così, Chūjohime vive nascosta in una capanna nei 14

Si veda nota 1. Kusemai, kouta e yatsubachi sono le arti in cui si esibisce Kagetsu nel suo kurui. Questa grande attenzione sulla natura spettacolare del kurui avvicina Kagetsu agli yūgyōmono, dove il fulcro risiede nello sfoggio di un’arte. Takahashi Yukiyo, “Nō Kagetsu ni miru ‘mai’ no chihei. Kaiten suru shintai to sono teishi o megutte”, Kyōyō gakka kiyō, XXVI, 1993, p. 26. 16 Sul rapporto tra Chūjohime e il Taemadera engi, e sulle possibili interpretazioni antropologiche della storia di Chūjohime, si veda Katayama Keiji, et al., “Hibariyama o megutte”, Kanze, XLIII, 1976, pp. 19-29. 15


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recessi montani. Un incontro casuale tra il padre, ormai convinto dell’innocenza della figlia ma anche della sua morte, e la balia, inizialmente reticente a rivelare il nascondiglio della fanciulla, porterà al felice ricongiungimento. Anche in Yorobōshi 弱法師 il figlio, vittima di una calunnia, viene ripudiato dal padre e, per il dolore, diventa cieco e conduce una vita da mendicante. Il padre, pentitosi, si reca al Tennōji per assistere a delle celebrazioni e acquisire, elargendo elemosine, azioni meritorie che possano redimerlo dai suoi passati errori. Nel tempio incontra incidentalmente il figlio e felici fanno ritorno a casa.17 Yorobōshi condivide con Kagetsu la particolarità del personaggio del figlio che ricopre il ruolo dello shite e che, quindi, si esibisce nel kurui.18 In Hibariyama e Yorobōshi la calunnia è opera di “una persona” (saru hito さる 人) che molti studiosi hanno identificato con la matrigna. In Tango monogurui 丹 後物狂い, invece, il padre, già non soddisfatto della resa scolastica del figlio, darà credito al suo servitore che gli dice che il bambino si diletta a suonare lo hachibachi trascurando gli studi. In preda all’ira e ai fumi dell’alcol, il padre ripudia il figlio che, addolorato, si getta nel fiume ma viene salvato da un monaco che lo accudirà. Diventato uno studente diligente, il figlio chiede al monaco di accompagnarlo ad incontrare ancora una volta i suoi genitori ma, giunto nella casa paterna non trova nessuno e, credendoli morti, si reca al tempio per pregare per le loro anime. Nello stesso tempio troverà il padre che, pentitosi della sua eccessiva severità e convinto che il figlio sia morto annegato, si esibisce in un addolorato kurui. Nella sezione 14 del Sarugaku dangi 申楽談儀 (Riflessioni sull’arte del sarugaku) si legge che, inizialmente, l’opera prevedesse la coppia di genitori impegnati nel kurui ma che, in seguito, Zeami avesse ritenuto più efficace presentare solo il padre.19 Ma i tre riferimenti al padre e alla madre, ancora rilevabili nel testo, costituiscono una traccia della prima versione e testimoniano una volontà di conformare quest’opera agli altri oyako monogurui, ai quali è legata da un’affinità tematica.20 Richiama, inoltre, l’atmosfera del nō Tokusa col quale condivide la figura di un padre che si esibisce in un kurui malinconico, e quella di un figlio che, a prescindere dal motivo dell’allontanamento, sente l’esigenza di ritornare seppur temporaneamente.

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Sulle diverse versioni dell’opera, si veda Tashiro Keichirō, “Kanze Motomasa no Yorobōshi ni tsuite”, Kokusai nihon bunka sentā kiyō, XXXII, 2005, pp. 227-259. Sui richiami alla storia di Kunara Taishi, si veda Kobayashi Kenji, “Sakuhin kenkyū Yorobōshi”, Kanze, LXXII, 2005, pp. 43-47. 18 Il passaggio dalla parte del kokata a quella dello shite è in questi casi possibile perché, a differenza degli altri oyako monogurui, i due figli non sono dei bambini ma personaggi ritenuti adulti. In particolare, su Kagetsu e il suo rapporto con il passaggio dall’età infantile a quella adulta, si veda Takahashi, “Kagetsu ni miru ‘mai’ no chihei”, cit., pp. 33-34. 19 Sarugaku dangi in Omote Akira (a cura di), Zeami, Zenchiku, cit., p. 287. 20 Tango monogurui condivide con Hibariyama e Yorobōshi il ripudio, e ad esse si adatta presentando solo il padre. Una scelta che risponde, al contempo, al principio più generale degli oyako monogurui di privare il genitore del proprio coniuge amplificandone, così, la solitudine e la desolazione.


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Separazione e ricongiungimento negli oyako monogurui

Due eccezioni Le due seguenti opere, pur configurandosi tematicamente come oyako monogurui, presentano delle rilevanti particolarità che le spingono ai margini della classificazione di Takemoto, e ci indicano come le variazioni, se inserite in alcuni aspetti cruciali come il ricongiungimento, possano minare l’equilibrio di questo genere di nō. Kashiwazaki 柏崎 si apre con la lettera di un figlio che annuncia la sua decisione di prendere i voti e di non essere cercato prima che siano trascorsi tre anni. Ma, in questo caso, la madre apprende contemporaneamente la notizia della morte del marito e la conseguente decisione del figlio. Nella sua ricerca, i riferimenti al marito defunto superano la fugace, seppur irrinunciabile, preghiera delle madri analizzate precedentemente. La donna, giunta allo Zenkōji, nel suo aspetto di kyōjo si esibisce in un kurui che, per stile e contenuto, ricorda quello delle donne abbandonate dal proprio amato. Lo spettro ingombrante del marito sovrasta anche il momento nodale del ricongiungimento, ponendo quest’opera in uno spazio intermedio tra i nō di donne abbandonate e quelli di madri afflitte.21 Alla figura inconsueta di questa madre fa da contrappunto il padre rappresentato in Ōsaka monogurui 逢坂物狂. Di ritorno dalla capitale, dopo tre anni di ricerca del figlio rapitogli, assiste all’esibizione di un vecchio cieco accompagnato da un bambino. Il bambino è, naturalmente, il figlio a lungo cercato. Ma la gioia che suggella l’agognato ricongiungimento è qui sostituita dalla meraviglia: il vecchio cieco, dopo aver rivelato di essere la divinità della barriera di Ōsaka, si dissolve misteriosamente chiudendo l’opera in un’atmosfera attonita. La singolarità di questo dramma non risiede nella figura di un padre in cerca del figlio,22 ma nella natura divina dello shite il cui palesarsi offusca non solo l’incontro risolutivo tra i due congiunti ma la natura stessa dell’opera. Conclusioni Identificato, quindi, nel pattern separazione/ricongiungimento l’elemento principale degli oyako monogurui, potrebbe risultare utile una catalogazione in base ai modi in cui tale pattern si esplica, a prescindere dalle motivazioni che hanno causato l’allontanamento. Spostando l’attenzione sulle due funzioni della ricerca in tutte le sue sfumature, e dell’incontro casuale, ed evidenziando chi si esibisce nel kurui, è possibile indi21

Sui richiami di quest’opera a Tsuchiguruma, e sulle modifiche apportate da Zeami si veda Omote Akira, “Sakuhin kenkyū Kashiwazaki”, Kanze, XLIII, 1976, pp. 3-9. Sul doppio ruolo della protagonista di madre e moglie afflitta si veda Miyauchi Junko, “Kashiwazaki no hensen. Gen Kashiwazaki kara Zeami no kaisaku e”, Chūsei bungaku ronsō, VIII, 1990, pp. 43-44. 22 In realtà, il padre non ci viene presentato nell’atto della ricerca, ma alla fine di essa, dimostrando ancora una volta come negli oyako monogurui non si possa trovare un padre che, similmente alle madri, unisca imprescindibilmente il kurui al girovagare in cerca del proprio figlio.


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viduare due gruppi (Tab. 2). Quello denominato ricerca include tutte le opere in cui un genitore, un figlio, o il suo tutore, manifesta la volontà o il desiderio di trovare la persona da cui si è separato. Tutti questi drammi affidano al genitore (oya 親), o al suo surrogato nel caso di Kōya monogurui e Tsuchiguruma, il compito della ricerca e l’esibizione del kurui, senza tener conto se chi sta cercando sia un genitore o un figlio. Opere come Utaura, Tokusa e Tango monogurui ci confermano, invece, quanto sia profondo il legame tra ricerca e kurui. In questi drammi, infatti, la ricerca è strutturalmente assente e si configura con un più pacato desiderio di incontrare il proprio congiunto. Il kurui del genitore, per quanto addolorato, resta privo del pathos legato alla ricerca e, allo stesso modo, il percorso che conduce i figli dai propri genitori non è venato di angoscia o tristezza, e viene appena accennato, fino a scomparire del tutto in Utaura. Solo quattro sono, di contro, le opere del gruppo incontro casuale in cui ad esibirsi nel kurui è sempre il figlio o, in sua vece, il tutore. Il numero più nutrito dei nō del primo gruppo suggerisce che si possa trattare di opere più vicine ad un ipotetico ideale di oyako monogurui. Tab. 2 ricerca 親 (狂) → 子 Hyakuman (誘拐) Sumidagawa (誘拐) Sakuragawa (身売り) Miidera (誘拐) Kashiwazaki (出家) *Kōya monogurui (出家)

子 → 親 (狂) *子 (狂) → 親 Utaura (?) Tokusa (誘拐) Tango monogurui (追放)

Tsuchiguruma (出家)

incontro casuale 親 → 子 (狂) Kagetsu (誘拐) Yorobōshi (追放)

親 → *子 (狂) Hibariyama (追放) Ōsaka monogurui (誘拐)

Anche la più semplicistica divisione tra opere in cui il soggetto che cerca coincida o meno con chi si esibisce nel kurui sarebbe, forse, più corretto riproporla in tre gruppi, alla luce dell’importanza della ricerca (Tab. 3). Nel gruppo A chi cerca corrisponde a chi si produce nel kurui, nel gruppo B, invece, i due soggetti differiscono. In entrambi i gruppi A e B l’elemento della ricerca è presente, anche se in B, scissa dal kurui, si tramuta in un nostalgico desiderio di ricongiungimento. Similmente il gruppo C raccoglie opere in cui colui che cerca differisce da colui che presenta il kurui ma, mancando totalmente la funzione della ricerca, non possono essere incluse nel gruppo B.


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Separazione e ricongiungimento negli oyako monogurui

Tab. 3

A ricerca = kurui

B ricerca ≠ kurui

C no ricerca

Hyakuman Sumidagawa Sakuragawa Miidera Kashiwazaki Kōya monogurui Tsuchiguruma

Tokusa Utaura Tango monogurui

Kagetsu Yorobōshi Hibariyama Ōsaka monogurui

Inoltre, dall’analisi dei testi proposti è possibile evidenziare una serie di nessi e condizioni essenziali che rafforzano la sensazione che gli oyako monogurui costituiscano un insieme compatto all’interno del più folto gruppo dei generici monogurui. Alla figura del figlio, che si pone come soggetto sia attivo sia passivo della ricerca, si contrappongono le figure della madre, che si presenta esclusivamente come soggetto attivo, e quella del padre come soggetto passivo. Perciò nessun padre cercherà suo figlio e nessun figlio cercherà sua madre. A modellare questo profilo muliebre, una madre destinata a cercare ma a non essere cercata, potrebbero aver contribuito il pensiero confuciano espresso nelle tre obbedienze a cui deve sottostare una donna (sanjū 三従), e la visione buddhista dell’amore materno come forma di attaccamento particolarmente radicato e, quindi, difficile da estirpare.23 Gli oyako monogurui di padri contemplano tutta la rosa delle cause di separazione individuate da Takemoto alla quale, però, sfugge Utaura in cui il padre si allontana per il solo desiderio di viaggiare. Tuttavia, madre e padre, con le loro reciproche differenze, non sono mai contemporaneamente presenti in un’opera: la tragedia si consuma sempre su uno sfondo già marcato da un’assenza, da uno squilibrio, amplificando così il dolore per la separazione, la disperazione che accompagna la ricerca, e la gioia del ricongiungimento.24 Altrettanto calcolato potrebbe essere il ricorso all’espediente della lettera quando il bambino si allontana volontariamente. Kashiwazaki, Kōya monogurui e Sakuragawa si aprono con la lettura della lettera lasciata dal bambino. Nei primi due casi, la morte di uno o entrambi i genitori genera nel figlio un senso di fugacità della vita e, di conseguenza, la decisione di ritirarsi e prendere i voti. Per il bambino di Sakuragawa, anch’esso orfano di padre, è il miuri la causa dell’allontanamento. Ciononostante, la madre lo ritrova in un tempio, accudito da un monaco al quale aveva chiesto di diventare un gusō 愚僧 (umile appellativo per monaci). E l’epilogo, in 23

Sulla figura della madre nel buddhismo si veda Diana Y. Paul, Women in Buddhism. Images of the Feminine in the Māhāyana Tradition, University of California Press, London 1979, pp. 60-73. 24 Le modifiche apportate a Tango monogurui confermano questa tendenza.


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cui madre e figlio decidono di tornare al proprio paese e prendere i voti sottolinea, più che nei due nō precedenti, la profonda vocazione spirituale del figlio, la cui forza investe anche la madre. Inoltre, nei primi due nō il bambino chiede di non essere rintracciato prima che siano trascorsi tre anni: lo stesso lasso di tempo che intercorre in Sakuragawa tra l’allontanamento e il ricongiungimento. Tutti questi elementi spingono a riconsiderare il miuri negli oyako monogurui come più affine alla vocazione che al rapimento. Infine, l’atmosfera buddhista che permea l’intero repertorio del nō è qui determinante nel rapporto che unisce l’ambientazione e l’epilogo. Nella maggioranza degli oyako monogurui il ricongiungimento è incorniciato nei recinti di un tempio e ricondotto alla misericordiosa benevolenza delle divinità buddhiste il cui elogio chiude il dramma. Quattro opere sfuggono a questa struttura rimediando però a tale anomalia con sottili espedienti, o invalicabili incompatibilità. Sakuragawa e Tokusa, forse proprio per controbilanciare la mancanza di un tempio come sfondo religioso al ricongiungimento, si chiudono con la decisione di entrambi i genitori e i figli di prendere i voti. Tuttavia, l’affiliazione al santuario scintoista che caratterizza il personaggio del padre in Utaura impedisce probabilmente un epilogo analogo. Allo stesso modo, la natura marcatamente scintoista dello shite di Ōsaka monogurui renderebbe stridente un finale dai toni buddhisti, senza ignorare, poi, il carattere distintivo di quest’opera che la pone ai margini degli oyako monogurui. Si può, dunque, ipotizzare che l’assenza di un honsetsu 本説 (richiamo ad una fonte dalla quale si trae ispirazione) nelle opere qui analizzate abbia incoraggiato un processo, non estraneo alla tradizione letteraria giapponese, di reciproci prestiti e adattamenti. Per cui, pur preservando tratti peculiari, ogni opera sembra incline a conformarsi ad una sorta di ideale – non identificabile, però, con nessuno di questi drammi – rinforzando la sensazione di trovarci davvero, come sostiene Takemoto, dinanzi ad un gruppo singolare di nō.


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Separazione e ricongiungimento negli oyako monogurui

Oyako Monogurui. Stories of Parting and Returning This article offers some reflections on the oyako monogurui which were inspired by Prof. Takemoto’s pioneering study on the matter. As Prof. Takemoto says, oyako monogurui is a group of nō texts that share a parting-reuniting pattern, and whose stories are based on parents and children. Furthemore, the leading character of all these plays performs a form of frenzy dance called kurui. Even supporting the importance of the reasons which lead to the separation, I will argue that also the searching, prompted by the desire to rejoin the missing relative, plays a key role in the construction of the plot. Therefore, I will analyze each nō identified as oyako monogurui, and will stress their respective peculiarities, highlighting similarities and differences. Finally, taking into account the relation between the searching and the kurui, I will suggest a new way of classification.

親子物狂いにおける別離再会

クラウディア・ヤッツェッタ 本稿は竹本氏の著『親子物狂考』をもとに研究された親子物狂に関す る考察である。竹本氏は、親子物狂を「親子の一方が物狂になる能ば かりではなく、親子の別離と再会という構想に物狂が何らかの形で登 場するすべての能」と定義している。また、これらの謡曲ではシテが 狂いを演じるという特性も窺える。竹本氏は親子の「別離の理由」に 重点を置いて分析を行っているが、「再会したいと思う気持ちから実 際に捜索を始める過程」と「捜索を開始してから実際に再会するまで の過程」にも重要な要素が含まれていると考えられる。そのため本論 では14の親子物狂のこれらの場面に注目して分析を行い、それぞれ の共通点と相違点を明らかにし、特徴を挙げた。この調査にあたり新 たな分類を作成し、「捜索」と「狂い」の関係を明らかにした。


MARIO TALAMO

Sull’evoluzione dell’elemento pubblicitario nella narrativa di Jippensha Ikku

“In its simplest sense the word ‘advertising’ means ‘drawing attention to something’, or notifying or informing somebody of something”.1

Il mio studio si propone di evidenziare l’evoluzione dell’elemento pubblicitario negli scritti di Jippensha Ikku; evidenziare dunque le modalità attraverso le quali l’autore – prendendo in prestito le parole di Gillian Dyer – attirava l’attenzione dei lettori su un determinato oggetto, persona o attività commerciale. Ho pertanto incentrato la mia ricerca sull’analisi di una parte della sua prolifica produzione – gli scritti d’esordio e le opere che riscossero maggiore successo – e ho deciso altresì di limitare la suddetta a un arco di tempo di poco superiore ai dieci anni, dall’ottavo Kansei (1796) al nono Bunka (1812). Quando Ikku, nel corso del quarto anno dell’era Bunka (1807), pubblicò lo Irozuri shinsomegata 色摺新染型 (I nuovi modelli colorati), diede il suo terzo contributo al genere dei kōkokubon 広告本 o scritti pubblicitari. Diversamente da molti suoi colleghi, il nostro scrittore non creò un ingente quantitativo di opere votate alla promozione di prodotti o attività commerciali: la prima pubblicazione di settore risaliva infatti al decimo Kansei (1798), si intitolava Hatsuuri taifukuchō e si prefiggeva di pubblicizzare l’inizio della stagione dei saldi in un negozio di abiti a Kandabashi. In base agli studi condotti da Hayashi Yoshikazu,2 Ikku compose soltanto tre lavori classificabili come scritti pubblicitari: oltre al già citato Hatsuuri taifukuchō, nel secondo anno Bunka (1805) fu la volta dello Uriage taifukuchō, creato come promozione per l’attività di Man’ya Jirōbee. Infine abbiamo lo Irozuri shinsomegata, scritto per Hitachiya e le sue svendite: l’opera è importante perché permette di comprendere le modalità espressive di un genere tra i più caratteristici, che prevedeva l’introduzione di messaggi promozionali in un contesto dominato per buona parte dall’esposizione di vicende immaginarie. Lo Irozuri ha per protagonisti i modelli di vestiario più in voga dell’epoca: ciascuno di essi, infatti, presta il proprio nome a un personaggio appartenente alle due bande in lotta per il controllo della scena mondana. L’opera narra dunque dello scontro tra abiti in voga e vestiti usciti ormai dai guardaroba perché datati; il 1 2

Gillian Dyer, Advertising as Communication, Methuen & Co., London & New York 1982, p. 2. Hayashi Yoshikazu, Edo kōkoku bungaku, vol.1, Mikan Edobungaku kankōkai, Tokyo 1957, p. 82.


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Evoluzione dell’elemento pubblicitario in Jippensha Ikku

protagonista è Shiromuku, un ragazzo dal kimono bianco,3 figlio di Kurohabutae, uno habutae di colore nero. Le vecchie glorie della moda, intenzionate a sfruttare la popolarità del giovane, decidono di rapirlo e di tingere le sue vesti di beige – il colore degli abiti del loro capobanda Tobiiro – nella speranza che il proprio stile obsoleto possa così ritornare in voga. Diversamente da Ikku, Shikitei Sanba scrisse più di dodici opere pubblicitarie, e così fece anche Santō Kyōden;4 allora ci chiediamo come mai il nostro autore abbia mostrato una tale avversione nei confronti del genere. Considerando la sua passione per le mode e le tendenze, e in primo luogo l’entusiasmo con cui soleva mettersi prontamente alla pari con le produzioni più popolari del periodo, risulta quasi insolito un così esiguo contributo a un genere di tale notorietà.5 I kibyōshi L’esordio letterario dello scrittore avvenne nel corso del settimo anno dell’era Kansei (1795), con una serie di tre kibyōshi pubblicata dal grande Tsutaya Jūsaburō. Nonostante la fiducia accordata al giovane scrittore da uno dei più noti editori, il primo tentativo di venire alla ribalta fu infruttuoso e non riuscì a riscuotere particolari approvazioni. Il motivo di un tale insuccesso va ricercato nelle scelte tematiche: i tre lavori di debutto affrontavano argomenti non molto apprezzati dai lettori, essendo interamente dedicati alla propaganda religiosa. Ciò appare evidente già dai titoli: abbiamo infatti lo Shingaku tokeigusa, imperniato sui precetti dello Shingaku, la dottrina più in voga del momento; ricordiamo successivamente lo Shinbuki koban no mimibukuro e il Kimyōchōrai kodane no shakujō. Quest’ultimo – solo per presentare al lettore un esempio chiarificatore – narra della creazione della terra, e di come il genere umano tutto sia stato generato da un kodane no shakujō, un bastone da passeggio usato dai monaci pellegrini, piantato in un vaso, che, germogliando, dava vita all’uomo. Basate sulla fede e sul rispetto delle leggi religiose, le opere di debutto di Jippensha Ikku non lasciavano particolare spazio all’elemento pubblicitario: come avrebbe mai potuto l’autore menzionare posti e attività commerciali quando il suo intento era educare i lettori a seguire fedelmente i precetti che lo shogunato stava tentando di diffondere tra la gente? Produzioni strettamente connesse con la religione e la 3 Lo shiromuku era un abito interamente di color bianco, compresa la biancheria intima, particolarmente in voga tra i giovani. 4 La quasi totalità degli scritti pubblicitari di Sanba era votata alla promozione della sua attività commerciale, il famoso Edo no mizu, profumeria in cui si vendeva un’essenza molto popolare tra le donne. 5 Ci sono purtroppo pervenute scarsissime testimonianze dei kōkokubon: si pensa infatti che essi venissero distribuiti a mo’ di volantini dinanzi alle attività commerciali commissionanti, o nelle zone limitrofe, e non venduti in libreria anche a causa della loro brevità. Per tale motivo venivano sovente cestinati dopo aver adempiuto il proprio dovere propagandistico.


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propaganda fide non costituivano un terreno fertile per le forme di promozione, e poiché esse rappresentarono il primo orizzonte produttivo dell’autore, capiamo quanto in verità fosse per lui arduo tentare di introdurre anche la minima battage. Soltanto un anno dopo, nell’ottavo Kansei (1796), l’autore pubblicò per Enomoto Kichibee un altro kibyōshi in tre tomi intitolato Shotōzan tenaraijō 初登山手 習帳 (L’eserciziario per giovani studenti), il cui giovane protagonista Chōmatsu,6 del tutto privo di talento per lo studio, viene espulso da scuola, lasciando così ai propri genitori il gravoso onere di provvedere alla sua istruzione. L’opera ha il suo avvio nella descrizione degli inutili sforzi compiuti dalla famiglia del ragazzo per invogliarlo a studiare. Ormai scoraggiata, sua madre si rivolge a Sugawara no Michizane supplicandolo di aiutare il figlio; così, mentre il ragazzo riposa, la divinità gli appare in sogno e lo conduce in un mondo incantato i cui alberi sono fatti di dolci, e in cui ogni genere di leccornia cresce spontanea. Inizialmente la divinità non cerca in alcun modo di attirare l’attenzione del giovane sullo studio, preoccupandosi soltanto di accontentare le sue richieste; i due terminano l’avventura nel tentativo di scalare il tenaraizan, la montagna dell’insegnamento, ove ogni studente diligente soleva recarsi al termine del proprio corso di studi per testare la propria preparazione. Purtroppo, però, mentre tutti gli altri riescono a scalare la vetta, seppur a fatica, Chōmatsu non può far altro che inciampare e rotolare a causa della propria formazione lacunosa. Così, spronato dal suo naturale spirito di competizione, decide di cambiare il proprio stile di vita e di dedicarsi allo studio. Nell’ambito di suddetto tessuto narrativo notiamo frasi ed espressioni che chiaramente mostrano come l’autore abbia adottato una strategia di promozione in un contesto in cui la divulgazione di contenuti tra i lettori non era il principale obiettivo. Nel primo libro, al verso di pagina due, incontriamo il protagonista che si accinge a studiare e in cambio chiede un premio di consolazione dicendo: […] Allora perché non mi compri un Mannen mochi da Kameya? Voglio cominciare a studiare da quest’oggi!7 […]

Kameya era un negozio di dolciumi molto popolare, con ben due sedi, la prima a Yūjima kiritōshi e la seconda a Daimon dōri. Al termine del recto della pagina successiva, Chōmatsu, probabilmente stanco di far finta di studiare, si addormenta sui libri e, parlando nel sonno, dice:

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Definire Chōmatsu giovane non è del tutto esatto dal momento che il ragazzo, pur avendo compiuto i sedici anni, a causa dello scarso impegno profuso nello studio, non era ancora riuscito a concludere il regolare ciclo di studi presso i terakoya. 7 Jippensha Ikku, Shotōzan tenaraijō, in Koike Masatane (a cura di), Edo no gesaku (parody) ehon, Shakai shisōsha, Tokyo 1985, p. 125. É stata mantenuta immutata la tradizionale suddivisione delle pagine dei volumi in parte anteriore o recto, omote in giapponese, e parte posteriore o verso, ura in originale.


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[…] Se proprio vuoi comprarmi qualcosa di buono, sappi che non mi vanno più né dolci né mochi; il tenpura del vecchietto di Ningyōchō però sì8 […]

In base a quanto ci riporta Koike Masatane,9 Ningyōchō non era una zona particolarmente rinomata per i locali di ristoro, ma soltanto una stradina di collegamento con Hasegawachō, con numerose rivendite ambulanti di cibo. Nel secondo volume, al recto di pagina sette, Chōmatsu e la divinità tornano a casa dopo aver trascorso la giornata giocando e guardando spettacoli teatrali; il ragazzo dice: […] Voglio mangiare gli Ikuyo mochi, me li compreresti?10

Questi dolcetti erano la specialità di Komatsuya Zenbee di Ryōgoku, pasticceria storica la cui fondazione risaliva al lontano periodo Genroku (1688-1704). Successivamente, al recto di pagina dieci, i due protagonisti incontrano una processione di geisha interamente composta da bambole. […] C’era un kamibina come shinzō11 e un hōko come kamuro;12 sembrava di stare a guardare le svendite di Jūkendana. Gli articoli poi erano tutti di produzione di Honmen’ya13 […]

Jūkendana, nei pressi di Nihonbashi, era un rinomato distretto artigianale, specializzato nella produzione di bambole, ove periodicamente si tenevano delle svendite. Nel suo breve lavoro, Ikku non presenta esclusivamente cibi e località, ma anche eventi, come il Sumō di Fukiyachō. Sebbene non si possa ancora parlare di una vera e propria strategia pubblicitaria, con buona probabilità, la gran parte degli articoli presentati rimandavano ai gusti e alle preferenze dell’autore. All’epoca Jippensha Ikku era poco più che uno sconosciuto e, presumibilmente, potrebbe non aver ricevuto alcuna ricompensa per gli scritti; tuttavia, possiamo affermare senza alcuna esitazione che né la scarsa reputazione dell’autore né tanto meno la sua giovane età potevano impedire a un ben noto editore di avanzare i propri diritti e, dunque, chiedere denaro per le promozioni presenti tra le pagine delle proprie pubblicazioni. Ciò che è importante notare è che l’elemento pubblicitario, seppur a uno stadio ancora embrionale, era già ben radicato nella narrativa di Ikku: l’opera in questio8

Koike Masatane (a cura di), Edo no gesaku…, cit., p. 127. Ibidem. 10 Koike Masatane (a cura di), Edo no gesaku…, cit., p. 135. 11 Kamibina era una bambola fatta con fogli di carta di vario colore, piegati e sovrapposti; per Ikku rappresenta uno shinzō, una cortigiana di medio rango che, in base alle consuetudini dell’epoca, non possedeva una stanza propria ed era addetta alla cura delle ragazze di rango superiore. 12 Hōko era una bambola che riproduceva le sembianze di un neonato, dalla testa rotonda e senza capelli. Nell’opera ricopre il ruolo di un kamuro, una fanciulla al servizio delle cortigiane di più alto grado. 13 Koike Masatane (a cura di), Edo no gesaku…, cit.., p. 141. 9


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ne, infatti, venne mandata in edizione a distanza di un solo anno dal suo debutto. Il genere dei kibyōshi prevedeva la presenza di messaggi, più o meno espliciti, dal carattere fortemente propagandistico, che introducevano gli eventi più popolari e le consuetudini in voga tra la gente; anche l’opera di Ikku, dunque, non poteva costituire un’eccezione e non prevedere una sezione che desse voce a tale elemento fondante. Notiamo, come sottolineato da Fred Inglis, una “armoniosa interazione di promozioni e stili editoriali; stili che, a loro volta, riproducevano e promuovevano consistentemente il modus vivendi dei consumatori”.14 Va sottolineato che quanto appena riportato originariamente non si riferiva ai kibyōshi, bensì alle comunicazioni di massa, il passaggio però ben si attaglia al nostro argomento di studio, a testimonianza dell’importanza rivestita dall’aspetto propagandistico per il filone narrativo. Il jikōsei 時好性, la passione per le mode e le tendenze, il trovarsi sempre al passo con i tempi, portò l’autore a promuovere famosi locali di ristoro, cibi ed eventi, come gli Ikuyo mochi o anche il Sumō di Fukiyachō, la cui presenza rappresentava uno stimolo per il lettore e gli comunicava che le mode si muovevano in quella direzione, e che lui avrebbe dovuto essere, vivere, mangiare e comportarsi di conseguenza. La restante parte delle promozioni, al contrario, riguardando posti del tutto sconosciuti, potrebbe essere vista come una dichiarata, ma ancora acerba, operazione pubblicitaria. Lo Atariyashita jihondoiya Nel secondo anno del periodo Kyōwa (1802) Ikku diede alle stampe un altro kibyōshi, in due tomi, intitolato Atariyashita jihondoiya 的中地本問屋 (L’editore dal fiuto infallibile), che tutt’oggi viene considerato come una delle rare descrizioni delle fasi del processo di stampa. In realtà, l’opera presenta una serie di aspetti che chiaramente mostrano una evoluzione nelle strategie promozionali dell’autore: la trama descrive un normale giorno lavorativo presso la casa editrice di Murataya Jirōbee, la Eiyūdō. Murataya aveva infatti rimpiazzato Tsutaya Jūsaburō come editore di riferimento, e la sua relazione con Ikku durò per più di dieci anni. L’opera comincia con l’autore – qui in veste di personaggio – che, privo di talento, non riesce a comporre scritti di successo; l’editore dunque gli somministra una bevanda in cui versa un potente rimedio magico composto da olio di sardine, escrementi di cavallo essiccati e frammenti di zappa e aratro. Il fannullone si tramuta così in un genio dalla fertile immaginazione. Il vero protagonista dell’opera è chiaramente Murataya, i cui sforzi indefessi per pubblicare il volume nella maniera più rapida e sbrigativa vengono dettagliatamente descritti: subito dopo la rapida creazione dell’opera, ottenuta mediante il magico potenziamento delle facoltà creative di Ikku, l’editore escogita nuove contromisure per velocizzare l’intera tabella 14

Fred Inglis, The Imagery of Power: A Critique of Advertising, Heinemann, London 1972, p. 16.


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di produzione, dando acqua proveniente dal lago Biwa agli incisori delle matrici, distribuendo tra gli stampatori sake mescolato con le polveri medicinali ricavate dal braccio di Asahina15 e Kagekiyo,16 e propinando ai rilegatori vino e pezzi delle campane di Yakara e Mugen.17 L’opera mostra svariati passaggi in cui è evidente un intento promozionale; al verso di pagina due, per esempio, Ikku fa la sua comparsa in scena per parlare con l’editore e dice: […] Quest’anno ho raccontato in un libro intitolato Tabisuzuri di come io sia stato preso in giro con una fiaschetta di sake.18

Il Nansō kigyō tabisuzuri fu infatti pubblicato nel corso del primo anno Kyōwa (1801) da Murataya e si configurò come il primo lavoro in cui Ikku affrontò il tema del viaggio. Il breve periodo appena riportato può essere dunque concepito come una sorta di autopromozione nell’ambito di uno scritto in cui Murataya diviene l’indiscusso protagonista. Al termine del recto della successiva pagina tre, l’editore dice agli incisori delle matrici: Se non ve lo avessi chiesto entro quest’estate, probabilmente non sarei stato in grado di vendere l’opera come mi auguravo. Vorrei riavere indietro questi prima che si sia fatto giorno e poi chiederò a Kikumaro di incidere sei o setto dei suoi blocchetti colorati.19

Kikumaro era discepolo di Kitagawa Utamaro e, al contempo, amico e valido collaboratore di Ikku. Il successivo chō parla del chōai, ovvero del processo di impaginazione in ordine numerico e presenta la seguente frase: Forse, me la cavo di più come impaginatore.20

Ciò che è stato tradotto con la parola “impaginatore” nell’originale coincide con l’espressione chōai sanna てうあいさんな, un arguto gioco di parole composto dal 15 Guerriero vissuto durante l’epoca di Kamakura (1192-1333), figlio di Wada Yoshimori; combatté contro Soga Gorō e nel corso del duello riuscì a strappargli con la forza la cotta di maglia dell’armatura. 16 Guerriero appartenente alla famiglia Taira, figlio di Fujiwara Tadakiyo. Dotato di forza e prestanza fisica notevoli, era soprannominato Akushichibyōe; nel corso della battaglia di Yashima combatté contro Mionoya Jyūrō Kunitoshi strappandogli una parte dell’elmo. Ikku fa riferimento ai due guerrieri in primo luogo per la forza e le virtù portentose che scaturirebbero dall’assunzione delle ceneri medicinali provenienti dai loro arti. 17 Campane dai poteri magici che, se suonate, secondo la tradizione porterebbero denaro e ricchezza nel corso della presente vita, ma dannazione e sofferenza nella successiva. 18 Jippensha Ikku, Atariyashita jihondoiya, vol. 1, tomo 1, p. 2, verso. Il testo di riferimento per le citazioni è l’edizione originale conservata presso l’Università di Waseda, pubblicata nel secondo anno dell’epoca Kyōwa (1802), da Eiyūdō (Murataya Jirōbee) a Edo; formato: kibyōshi. 19 Jippensha Ikku, Atariyashita…, cit., vol. 1, tomo 1, p. 3, recto. 20 Jippensha Ikku, Atariyashita…, cit., vol. 1, tomo 1, p. 4, verso.


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chōai pocanzi illustrato e dal Sanna di Tōrai Sanna, scrittore di kibyōshi e sharebon, che giocò un ruolo fondamentale nell’influenzare la produzione di Ikku e la sua decisione di divenire un letterato a tempo pieno. Realizziamo quindi che l’intero Atariyashita jihondoiya venne concepito come uno sponsor per l’entourage dell’autore e per i suoi più stretti collaboratori; tra tutti spicca l’editore Murataya, ritratto in numerose illustrazioni come il personaggio centrale dell’intera vicenda, sicché non sarebbe un’esagerazione concepire l’opera come un kōkokubon per lo staff di Eiyūdō.21

Fig. 1 Gli attendenti di Murataya distribuiscono alla folla il frutto dell’abilità dell’editore.

A cominciare dal qui presente kibyōshi, la strategia pubblicitaria di Ikku, che fino a quel momento era stata relegata in una dimensione prettamente testuale – con messaggi promozionali contenuti esclusivamente nella parte scritta dei suoi lavori – comincia a inglobare anche la sezione illustrata. Lo Atariyashita infatti presenta il penultimo sashie (Fig. 1) in cui sono rappresentati gli attendenti di Murataya mentre distribuiscono tra la folla scalpitante il frutto delle “abilità imprenditoriali” del loro capo: in basso a destra notiamo il simbolo della casa editrice, mura 村, e il suo pseudonimo lavorativo di Eiyūdō riprodotto su di un cartellone pubblicitario. In alto leggiamo invece tre titoli di vecchie produzioni di Ikku, edite da Murataya: Mago no utabukuro, Ikyoku suzukuregusa e Ikyoku azuma nikki. All’epoca era piuttosto diffusa la consuetudine di presentare ai lettori le pubblicazioni in programma per l’anno nuovo, tuttavia la decisione di Murataya di reintrodurre tre vecchi titoli nel contesto dello Atariyashita – la cui vocazione propagandistica e autoreferenziale è inequivocabile – comunica chiaramente l’intenzione di sfruttare la copertura mediatica del lavoro per avere un ritorno in termini di pubblicità. Fu dunque solo con lo Atariyashita jihondoiya che l’autore incominciò a coinvolgere la sezione grafica nella sua strategia di divulgazione e a conferirle un ruolo per importanza non inferiore al testo. L’opera è includibile nel filone dei kibyōshi, della cui 21

Tale tesi è avvalorata anche dal fatto che sia lo Irozuri shinsomegata che lo Atariyashita jihondoiya siano composti da due volumi.


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attitudine alla pubblicità si è già discusso; Ikku, da parte sua, amava particolarmente questo aspetto e non perdeva occasione per sottolinearlo anche in contesti in cui non aveva motivo di sussistere. Nel quarto anno dell’era Kyōwa (1804) l’autore pubblicò un ennesimo kibyōshi intitolato Bakemono taiheiki 化物太平記 (Il taiheiki dei mostri), edito da Yamaguchiya, in cui riprendeva le vicende biografiche di Toyotomi Hideyoshi, solitamente trattate nei Taikōki,22 trasformando i principali personaggi storici in creature mostruose quali le lumache, i rokurokubi, le volpi e i kappa. Da quanto fin qui detto, e considerando in primo luogo la sua componente fantastica, potremmo supporre a rigor di logica che l’elemento pubblicitario non abbia motivo di comparire in uno scritto del genere; in realtà Ikku non condivideva tale opinione e, pur non presentando esplicitamente attività commerciali e cibi pregiati, ci propone uno hottan, una parte iniziale, con il seguente vivace scambio di battute tra se stesso e la sua concubina:23 […] Donna [Dai, alzati una buona volta, è ora! È arrivata una lettera dal signor Chika della residenza; dice che se continuo a stare qui in questo modo, penseranno che io sia tua moglie e la mia reputazione sarà rovinata] Ikku [E allora Otobō, fai venire qualcun altro! Non so, Oshun? O magari Ohama? Forse anche Tojirō andrebbe bene! Per stasera dunque eviterò di servirmi alla tua residenza; voglio far venire qui Michitose di Tamaya!24 O magari Fusumaji di Daimonjiya?25 E se invece provassi con Onosan di Shōrō?]26 […]

Il testo che segue il rapido battibecco tra Ikku e la concubina, ormai stanca di trascorrere a casa dello scrittore tutto il suo tempo, non ha con esso alcun legame: volpi, lumache, fantasmi e rospi ricoprono i ruoli di personaggi storici le cui vicende non potevano essere narrate da alcuno scrittore, per espresso ordine del Bakufu.27 Il passaggio citato è inoltre preceduto da un breve dialogo tra l’editore, intenzionato a pubblicare storie di fantasmi e animali mostruosi, e lo scrittore, che accetta di buon grado la commissione per via del recente aumento di compenso ricevuto. È dunque chiaro che, se escludiamo questo breve trafiletto, la restante parte dello scritto non garantiva possibilità di espressione all’elemento pubblicitario; era pertanto neces22

Il genere dei Taikōki, ispirato alle vicende biografiche di Hideyoshi, era stato proibito dal Bakufu subito dopo la riforma Kansei (1787-93); il Taiheiki veniva pertanto considerato dagli scrittori come un espediente per aggirare le restrizioni e affrontare in un nuovo filone narrativo argomenti precedentemente censurati. 23 Jippensha Ikku, Bakemono taiheiki, in Koike Masatane (a cura di), Edo no gesaku (parody) ehon, Shakai shisōsha, Tokyo 1985, p. 271. 24 In base alle informazioni riportate sullo Yoshiwara Saiken del terzo anno Kyōwa (1803), si tratterebbe di una cortigiana di medio rango (shinzō) che prestava servizio presso Tamaya Atsubee di Edo. 25 Daimonjiya Ichibee gestiva un bordello tra le cui cortigiane compariva una ragazza dal nome di Atsumaji, non Fusumaji. 26 Probabilmente l’autore si riferiva a Matsubaya. 27 Per via della poca accortezza dell’autore, reo di aver raffigurato gli stemmi delle casate degli Oda e dei Kinoshita, lo scritto venne censurato e Ikku, invece, fu condannato a cinquanta giorni di manette.


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sario trovare un modo per presentare le cortigiane più belle e in voga dell’epoca, e lo scrittore scelse il trafiletto appena riportato, a testimonianza di quanto valore avessero per lui tali sfoggi di mondanità. Il Tōkaidōchū hizakurige Il secondo Kyōwa non fu solo l’anno dello Atariyashita jihondoiya; anche il ben più noto Hizakurige venne infatti pubblicato nello stesso periodo, e per giunta dal medesimo editore. I volumi vennero messi in vendita quasi in contemporanea, ma lo Hizakurige continuò a catturare l’attenzione dei lettori per i successivi otto anni. Mediante la sua analisi possiamo dunque coprire un arco di tempo ben più lungo, e vedere nello specifico come riuscì a evolversi l’elemento pubblicitario. Nello Atariyashita abbiamo notato i primi tentativi di coinvolgere la sezione grafica nell’opera di promozione di posti e persone; tale tendenza crebbe e maturò unitamente alla pubblicazione dello Hizakurige, fino a divenire la nuova frontiera dello advertising per Jippensha Ikku.

Fig. 2 Yaji e il padrone di Fujiya di Myōkenchō.

Lo Hizakurige appartiene alla categoria dei chūhon;28 la sua pubblicazione segnò pertanto il debutto dell’autore in un genere mai sperimentato prima. I suoi otto volumi e diciotto tomi contengono una grande quantità di pubblicità, in parte inclusa nel testo e in parte grafica: il quarto sashie dell’Appendice al quinto volume, per esempio, raffigura un disorientato Yaji mentre chiede indicazioni sulla strada da seguire al padrone di Fujiya, rinomata locanda di Myōkenchō, nei pressi del santuario di Ise (Fig. 2). L’illustrazione riproduce l’ingresso del locale con in alto a destra l’insegna su cui, a lettere cubitali, è inciso il nome e l’ubicazione dell’esercizio. Un chiaro avviso pubblicitario. Lo Hizakurige divenne molto popolare tra i lettori in primo luogo per i due protagonisti e i loro siparietti comici; in realtà, però, il resoconto dello strampalato viaggio lungo il Tōkaidō nascondeva un lungo lavoro 28

Letteralmente “libri di media grandezza”, la cui pagina corrispondeva esattamente a un foglio di Mino diviso a metà (19x13 cm).


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di raccolta dati. L’utilità pratica dello scritto, jitsuyōsei 実用性 in giapponese, fu in definitiva una delle sue chiavi di successo e la grande varietà di promozioni mostra chiaramente come Ikku fosse intenzionato a vendere il suo capolavoro come una valida guida di viaggio. È questo il motivo per il quale l’opera introduceva prodotti, località e ristoranti, ma dispensava anche altre informazioni pratiche – molto apprezzate da lettori e viaggiatori – come i prezzi delle pietanze e dei palanchini; tutto era parte di una strategia pubblicitaria. Le illustrazioni dei chūhon costituivano terreno fertile per ogni sorta di propaganda, non dovendo condividere il proprio spazio con il testo – come accadeva per i kibyōshi – e i due curatori dell’opera compresero prontamente la loro importanza: per tale motivo decisero di usare i gasan come strumento di comunicazione. I gasan 画賛 erano brevi composizioni poetiche, create come abbellimento per le illustrazioni, che riportavano in calce la firma del proprio creatore, e affrontavano tematiche direttamente collegate al soggetto rappresentato: fu quest’ultimo elemento che li trasformò in un innovativo mezzo di divulgazione dei contenuti, nonché di immediata promozione in termini di popolarità e prestigio. Se, infatti, le illustrazioni costituivano una delle più vantaggiose modalità di distribuzione di messaggi tra i lettori – in primo luogo perché non c’era la necessità di leggere l’intero volume, e secondariamente perché sarebbe bastata una semplice occhiata e anche il curioso più distratto avrebbe realizzato ciò che l’illustratore si proponeva di riprodurre – da parte loro i gasan erano un espediente ancor più attraente perché la loro paternità era manifesta sin dall’inizio, e così anche chi decideva di non comprare una copia del volume avrebbe potuto leggere la composizione e ammirarne l’arte. L’uso dei gasan da parte di Jippensha Ikku aumentò di pari passo con la popolarità del suo scritto. Il primo volume dello Hizakurige venne pubblicato senza alcun intento di prosecuzione e mandato in stampa con il titolo di Ukiyodōchū hizakurige, in quanto nessuno aveva messo in conto di spedire i protagonisti a spasso per il Tōkaidō. Il suo principale obiettivo era impressionare positivamente il lettore per far sì che acquistasse le successive pubblicazioni di Ikku edite da Murataya. Il primo tomo presentava dunque svariati versi decorativi, ma quando fu deciso di prolungare l’opera, questi scomparvero del tutto. Il secondo capitolo infatti non esibisce gasan; il terzo libro ne presenta tre e nel quarto il loro totale non supera le otto unità. È inoltre importante notare come gli autori provenissero tutti dall’entourage di Ikku e dalla sua ristretta cerchia di seguaci. Il quinto capitolo dell’opera fu il primo a essere commercializzato nella regione del Kansai: la conquista del settore editoriale in una zona così diversa per gusti e preferenze rispetto a Edo era da considerarsi un’impresa molto ardua, e sia l’autore che l’editore sentirono il bisogno di pianificare ogni singolo dettaglio della propria strategia, come per esempio il messaggio da diffondere attraverso i versi celebrativi. Il quinto capitolo presenta un aumento esponenziale del numero dei gasan, ben venti, e una ulteriore dissomiglianza con i precedenti volumi riguarda la tipologia


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degli autori: i poeti del quinto capitolo sono, infatti, tutti sconosciuti e, all’infuori di tre nomi, essi non appartengono alla cerchia dei discepoli di Ikku. Accanto a ciascuna denominazione però l’autore registra con grande cura la sua origine geografica e grazie a tale premura noi oggi siamo in grado di evidenziare tre gruppi: i poeti di Owari, i collaboratori di Mikawa e i conterranei di Ikku da Suruga. Notiamo inoltre come ai membri del primo gruppo venga conferito uno status speciale, essendo numericamente più presenti degli altri due. Un ruolo di prestigio al loro interno era ricoperto dall’uomo di lettere chiamato Kinometei Dengaku, al secolo Kamiya Takasuke, medico di Owari con la passione per la composizione letteraria e poetica. I suoi versi sono i primi a comparire nel quinto volume, e occupano la medesima posizione anche nell’ottavo e ultimo tomo.29 In base alle teorie di Tanahashi Masahiro,30 il primo incontro tra Ikku e Dengaku sarebbe avvenuto durante una gara poetica, e sarebbe stato lo scrittore a chiedere al suo collega di raccogliere dei componimenti da adattare nello Hizakurige. È dunque chiaro come i versi decorativi del quinto libro aspirassero a presentare e promuovere l’attività dei piccoli circoli locali e dei loro membri. La definitiva conferma della strategia pubblicitaria di Ikku è stata recentemente rinvenuta in una lettera che l’autore inviò a Dengaku, datata ventunesimo giorno del primo mese del terzo anno Bunka (1806), in cui è riportato: […] Ho registrato con cura i vostri nomi, uno a uno […]

Successivamente leggiamo anche: […] In occasione della mia partenza, mi sono stati consegnati i vostri doni; mi sono sentito onorato per la vostra cortesia e mi è difficile esprimervi la mia profonda gratitudine e i miei più sentiti omaggi […]

Dai due brevi passaggi capiamo che l’autore ricevette un senbetsu, un regalo d’addio, e ci rendiamo conto che il desiderio di introdurre e presentare versi composti da amatori era in realtà dovuto a una ben pianificata strategia commerciale. Il caso di Dengaku non è l’unico esempio di nuovo piano pubblicitario adottato da Ikku per sponsorizzare l’attività poetica dei propri conoscenti: il Jinzaemon nikki, infatti, ci presenta una analoga situazione il cui protagonista è nuovamente lo scrittore. Takami Jinzaemon, giovane editore di Matsumoto, dopo numerosi inviti, riuscì a convincere Ikku a recarsi in viaggio nello Shinano, seppur per pochi giorni; al termine del soggiorno, riporta nel suo diario: 29

Le similitudini tra il quinto e l’ottavo volume sono molte; oltre alla posizione dei versi di Kinometei Dengaku, possiamo contare anche il totale delle illustrazioni che coincide, così come il numero dei gasan. Tali giochi di similitudini possono essere visti come espressione della volontà dell’autore di creare due capitoli “specchio”, corrispondenti al contempo ai volumi che avrebbero dovuto originariamente completare l’opera quando Ikku aveva preventivato solo cinque edizioni, e quelli che di fatto la conclusero. 30 Tanahashi Masahiro, “Gesakusha retsuden (12) Jippensha Ikku – Ikku no tegami”, in Nihon kosho tsūshin, vol. 945, 2008/04.


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[…] Abbiamo raccolto il denaro in vari posti. Insieme con quello [raccolto] in città, abbiamo racimolato cinque ryō. Con gioia ci siamo diretti nuovamente verso Kurio e poi ci siamo separati […]

Al termine del suo soggiorno in Shinano, Ikku ricevette cinque ryō come dono di addio e, come segno di gratitudine, decise di citare tre componimenti poetici – uno di Jinzaemon e due scritti da conoscenti dell’editore – nell’ambito dell’ottavo capitolo dello Zoku hizakurige, dedicato per l’appunto al passaggio di Yaji e Kita per la città di Matsumoto. In aggiunta, l’autore ritrasse la casa editrice di Jinzaemon, la Keirindō, nella sezione del Tabigarasu dedicata al paese d’origine dell’editore. Dal quinto volume in poi, i gasan si trasformano dunque in un utilissimo mezzo di divulgazione; notiamo finanche un aumento del loro numero, dieci nel sesto capitolo, tredici nel settimo e venti nell’ottavo. Al contempo, un numero sempre maggiore di poeti professionisti e noti uomini di lettere decise di dare il proprio contributo in versi: il famoso Senshūan Sandarabocchi, leader della scuola poetica di Kanda, ad esempio, compare tra i versificatori del sesto libro, in prima posizione, con un componimento dedicato al fiume Yodogawa, successivamente abbiamo Mantei o Kanwatei Onitake, amico di Ikku e autore del campione di incassi intitolato Ukiyomonomane kyūkanchō, più volte menzionato negli ultimi tre volumi dello Hizakurige. Tra i “pubblicizzati” notiamo anche l’editore Murataya Jirōbee, i cui versi fanno la loro comparsa nel sesto e nell’ottavo volume, probabilmente nel tentativo di affermare la paternità sull’opera e avanzare i propri diritti contro le numerosissime imitazioni. Anche molti illustratori provarono a trarre il massimo vantaggio dalla popolarità raggiunta dallo scritto: è il caso di Tsukimaro, il quale, oltre a provare la propria abilità pittorica nelle illustrazioni, fornì anche svariati contributi del proprio estro poetico. Molti studiosi pensano che il coinvolgimento di pittori professionisti possa essere visto come una delle tante modalità utili a sottoscrivere sashie non creati da Ikku: costoro infatti accettavano di non firmare direttamente l’illustrazione, ma di accompagnarla con dei versi celebrativi che, al contrario, recassero una loro sigla. Oltre ai già citati poeti locali, scrittori professionisti, uomini di cultura, editori e pittori, i gasan sponsorizzarono anche attività commerciali e ristoranti. La migliore prova di quanto essi fossero diventati utili. Troviamo infatti dei versi composti da Hamanoya no Tōsaku, proprietario dell’omonimo bordello dello Yoshiwara, che fa la sua comparsa per la prima volta nel sesto capitolo dell’opera e successivamente nel Roku Amida mairi, dell’ottavo Bunka (1811). Altre produzioni Lo Hizakurige è tutt’oggi considerato come il più complesso tra i lavori di Ikku e il motivo è facilmente comprensibile se si osservano le modalità espressive dell’elemento pubblicitario attraverso le sue pagine. A cominciare dal capolavoro dell’au-


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tore, l’advertisement si lega indissolubilmente alla sezione grafica dell’opera: abbiamo notato infatti come essa sia passata da semplici immagini promotrici di località a illustrazioni arricchite da gasan e dalle rispettive firme dei poeti.

Fig. 3 Esempio di illustrazione con gasan e breve messaggio pubblicitario

Anche nell’ambito degli scritti che fecero seguito allo Hizakurige possiamo notare come la sezione grafica abbia un ruolo preminente nella divulgazione dei contenuti; ciò risulta evidente nel già citato Roku Amida mairi 六あみだ詣 (Il pellegrinaggio ai sei Buddha Amida), pubblicato tra l’ottavo e il nono Bunka (1811-12) in due volumi. I suoi sashie presentano infatti non solo gasan firmati, ma esibiscono in aggiunta delle brevi promozioni pubblicitarie, riguardanti specifiche attività commerciali. La quarta illustrazione del primo tomo (Fig. 3), per esempio, presenta dei versi scritti da Tōteisha Ichiga, allievo di Ikku – come si evince dal nome d’arte – e, in aggiunta, il seguente breve messaggio pubblicitario: Un piccolo annuncio dallo scrittore Ikku: Edozakura di Honchō nichōme, negozio di profumi, quest’anno organizza nuovamente una grande svendita di prodotti. Pregherei di cuore lor signori di favorire l’esercizio di una visita.31

La breve reclame appena riportata non è l’unica dell’opera; i quattro tomi che costituiscono lo scritto contengono altrettanti messaggi pubblicitari, uno per ogni sezione, ciascuno con un diverso beneficiario: se nel primo caso era toccato alla rinomata profumeria di Honchō nichōme ricevere i favori di Ikku, subito dopo fu la volta dello Hitachiya di Kaminomachi icchōme, negozio di abbigliamento a noi 31 Jippensha Ikku, Roku Amida mairi, vol. 1, tomo 1, p. 22, recto. Il testo di riferimento per le citazioni è l’edizione originale conservata presso l’Università di Waseda, pubblicata tra l’ottavo e il nono anno dell’epoca Bunka (1811-12), da Sōkakudō (Tsuruya Kiemon) a Edo; formato: chūhon.


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Evoluzione dell’elemento pubblicitario in Jippensha Ikku

già noto in quanto commissionatore dello Irozuri shinsomegata. Il terzo messaggio promozionale invece era stato nuovamente offerto allo Edozakura, mentre, in conclusione, Ikku si ritagliò un piccolo spazio per promuovere un proprio scritto: Tsūzoku fuzan no yume yomihon in cinque tomi Scritto da Ikku e illustrato da Shuntei, sarà pubblicato questa primavera da un editore di Ōsaka; mi auguro che sia di vostro gradimento.32

Conclusioni Nel tentare di delineare una evoluzione dell’elemento pubblicitario negli scritti di Ikku, siamo partiti dai suoi primi kibyōshi e dalle ancora acerbe prove di promozione; abbiamo notato come all’interno dei lavori di debutto siano già presenti, seppur ancora in fase embrionale, i fondamenti della strategia divulgativa che vennero successivamente portati a maturazione. Siamo quindi passati dal presentare brevi frasi e stringati brani in cui venivano nominati i ristoranti preferiti dell’autore, le specialità più in voga tra i lettori, nonché gli eventi più popolari, per approdare poi allo Atariyashita jihondoiya, kibyōshi che, in maniera difforme rispetto ai primi lavori, è interamente dedicato alla promozione del gruppo di affiatati collaboratori dello scrittore. In verità, abbiamo più volte sottolineato come la presentazione di luoghi di ristoro, prodotti tipici ed eventi noti al lettore nell’ambito dei kibyōshi, costituisse una modalità espressiva piuttosto comune per quel genere che, dopotutto, come riporta Uda Toshihiko,33 faceva di suddetti sfoggi di mondanità uno dei suoi fondamenti. Lo Atariyashita jihondoiya occupa una posizione centrale nella nostra disamina, non solo per via della definitiva maturazione della strategia divulgativa dello scrittore, ma anche per il coinvolgimento della sezione illustrata dell’opera. Lo Hizakurige, successivamente, si pose lungo il medesimo solco e incorporò promozioni testuali e pubblicità illustrate: i suoi otto volumi presentavano numerose attività commerciali, prodotti tipici e località turistiche, perché, come già detto, ambivano a divenire una attendibile guida di viaggio. L’opera mostrò successivamente una nuova e ben più efficace modalità di promozione: i gasan. I versi celebrativi potevano costituire un utile e prezioso strumento di propaganda, tuttavia, non tutti erano ammessi nel gruppo dei “promossi”: si trattava pertanto di una modalità esclusiva, che riservava le proprie attenzioni solo agli esperti nell’arte versificatoria. A partire dallo Hizakurige, Ikku continuò a usufruire della sezione grafica dei suoi chūhon come mezzo di diffusione di contenuti e, in aggiunta, come notato nel Roku Amida mairi, introdusse brevi messaggi pubblicitari riservati a specifiche attività, nonché alle proprie necessità di scrittore. 32

Jippensha Ikku, Roku Amida…, cit., vol. 2, tomo 2, p. 28, recto. Uda Toshihiko (a cura di), Kusazōshishū, in Shinkōten bungaku taikei, Iwanami shoten, Tokyo 1997.

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Mario Talamo

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About the Evolution of the Advertisement in Jippensha Ikku’s Narrative As Hayashi Yoshikazu said in his book titled Edo kōkoku bungaku (Advertising literature in Edo), Jippensha Ikku wrote only a few works that are classifiable as advertising fiction. This genre can be considered as a fruit of the late Edo period, when literature began to be sold as a wide consumption article; its main aim was the promotion of products or shops, skillfully merged within a narrative context. The fact that Ikku wrote only a restricted number of kōkokubon does not mean he was not used to promote products. In his Tōkaidōchū hizakurige, for example, the author publicized a wide variety of restaurants and food. On the contrary, his choice clearly showed his preference for different and more interesting sorts of advertisement. He was quite skeptical about literary works created only to promote a new fragrance or to tell the people that the shop in Kyōhashi was having a sale of clothes; the author preferred to weave the advertisement into a wider and much more abstract context, quite often connected with poetry and painting as well. The purpose of my paper is to analyze the evolution of the advertisement in Ikku’s narrative, starting with his Irozuri shinsomegata, written in the fourth year of Bunka and considered as a rare example of kōkokubon. By comparing his later and mature productions, I will outline how this element developed together with the increasing complexity of the author’s fiction.

十返舎一九戯作における広告の発展について マリオ・タラモ

林美一が「江戸広告文学」と題した本で記述しているように、十返舎 一九はお店や商品などの、広告を目的とした作品をそれほど著してい なかった。それは、作者が広告文学を好まないというより、むしろよ り幅広く、多様なコンテクストにおいてコマーシャルすることを好ん だということに外ならない。その新たなコンテクストは、しばしば詩 や挿絵と強い関わりがあった。例えば、「膝栗毛」においては、料理 店や名物の広告は非常に多くて、作品は、観光ガイドとしても有効だ ったと言っても過言ではない。 本稿は、文化四年に発表された広告本の「色摺新染型」を始めとし て、他作品の比較を通じて、作者の文学作品におけるadvertisementの 発展を示すことを目的としいる。



Immaginari narrativi: il periodo moderno e contemporaneo



Hayashi Naomi

Il giovane Kobayashi Hideo: l’influenza francese e l’ambiente letterario

Kobayashi Hideo 小林秀雄 (1902 – 1983) è una figura rilevante e molto influente nella storia della letteratura giapponese del Novecento, che ha goduto di una grande fama ben oltre l’ambiente accademico e letterario per la varietà dei suoi scritti che, oltre che di critica letteraria, trattavano anche di musica, di pittura, di ceramica e di antiquariato. Tra questi, di particolare rilevanza sono: Samazamanaru ishō 様々なる意 匠 (Vari modelli, 1929), Watakushishōsetsu-ron 私小説論 (Saggio sul romanzo dell’io, 1935), Dosutoefusukī no seikatsu ドストエフスキイの生活 (La vita di Dostoevskij, 1939), Mujō to iu koto 無常という事 (Sulla transitorietà, 1942), Mōtsuaruto モオ ツァルト (Mozart, 1946), Gohho no tegami ゴッホの手紙 (Lettere di Van Gogh, 1952), Kindai kaiga 近代絵画 (La pittura moderna, 1958), Kansō 感想 (Pensieri, 1958 – 1963) e Motoori Norinaga 本居宣長 (Motoori Norinaga, 1977). Kobayashi si può definire il fondatore della critica letteraria moderna come disciplina indipendente nell’ambito della letteratura contemporanea giapponese. Kobayashi, infatti, ha creato uno stile di critica o saggistica che si può apprezzare a prescindere dalle opere analizzate. In altre parole, i suoi saggi sono “opere” non meno delle opere artistiche come romanzi o poesie. Sarebbe opportuno anche precisare che è il primo hihyōka 批評家 (critico) in Giappone nel senso in cui il termine viene usato da Karatani Kōjin,1 secondo il quale hihyō 批評 (critica) è da intendersi anche come “messa in discussione della propria posizione”, in base all’uso kantiano del termine “Kritik”.2 Quando si vuole esprimere il concetto di “critica” mantenendo salda la propria posizione, invece, il termine da usare sarebbe hihan 批判, che in italiano viene sempre tradotto col termine “critica". 1

Karatani Kōjin 柄谷行人 (pseudonimo di Karatani Yoshio 柄谷善男, 1941 – ) Filosofo e critico letterario di valore internazionale. Lo stile asciutto ed esplicito della sua scrittura decostruzionista è lontano dall’ essere “artistico” o “estetico”, forse anche per distinguersi soprattutto da quello di Kobayashi. Tra i numerosi scritti, Kindai nihon bungaku no kigen 近代日本文学の起源 (Le origini della letteratura giapponese moderna), Marukusu sono kanōsei no chūshin マルクスその可能性の中心 (Marx: Il centro delle possibilità), In’yu toshiteno kenchiku 隠喩としての建築 (Architettura come metafora), Toransukuritīku – Kanto to marukusu トランスクリティーク – カントとマルクス (Transcritique – Kant e Marx). Ultimamente promuove il “New Associationist Movement”. 2 SI veda Karatani Kōjin (a cura di), Kindai nihon no hihyō I, Kōdansha, Tokyo 1997, pp. 8-9.


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Il giovane Kobayashi Hideo: l’influenza francese e l’ambiente letterario

Kobayashi è diventato un imprescindibile punto di riferimento nel mondo letterario dagli anni Trenta del Novecento3 in poi. Gli esponenti di critica letteraria successivi quali Nakamura Mitsuo,4 Yoshimoto Takaaki,5 Etō Jun6 e Karatani Kōjin, hanno dedicato diversi scritti, non sempre favorevoli, a Kobayashi, come se fossero atti dovuti verso il padre: un miscuglio di rispetto, amore, gratitudine, ma anche odio e spirito ribelle.Non essendo, però, ancora stata presentata la maggior parte delle sue opere in Italia, qui mi limiterò ad una breve introduzione alla sua vita e alla sua attività letteraria, soffermandomi, in particolare, sugli anni della sua formazione giovanile come traduttore e scrittore fortemente influenzato dalla cultura europea, soprattutto da quella francese. Kobayashi nacque nel cuore di Tokyo, nel 1902, dove frequentò ottime scuole, la Tōkyō Furitsu Daiichi chūgakkō (La Scuola Media N.1 di Tokyo), abbreviato come Icchū 一中, e la Daiichi kōtōgakkō (La Scuola Superiore N.1), abbreviato come Ikkō 一高, del vecchio ordinamento.7 Poi continuò gli studi all’Università Imperiale di Tokyo. In poche parole ha completato il cosiddetto percorso “Icchū – Ikkō – Tōdai”, tipico dell’élite dell’epoca. Prima di essere ammesso all’università, Kobayashi aveva già conosciuto diversi personaggi importanti: – Tominaga Tarō,8 autore di poesie fortemente influenzate dai simbolisti francesi che morirà di tubercolosi a soli ventiquattro anni. Tominaga scriveva poesie anche in francese ed era autore di dipinti che si ispiravano al cubismo e al fauvismo. – Kawakami Tetsutarō,9 critico letterario e musicale, famoso per il libro Nihon no autosaidā 日本のアウトサイダー (L’outsider del Giappone),10 traduttore di Verlaine, Gide, Baudelaire, Bauvoir e Shestov. 3

Kobayashi operò durante quasi tutto l’arco dell’epoca Shōwa (1926-1989). Nakamura Mitsuo 中村光夫 (pseudonimo di Koba Ichirō 木庭一郎, 1911 – 1988) Ha uno stile semplice ma erudito, altamente etico ma profondamente disilluso. Famoso soprattutto per i suoi saggi su Futabatei Shimei e per Fūzokushōsetsuron 風俗小説論, in cui critica duramente il genere di watakushi shōsetsu 私小説 rappresentato da Tayama Katai 田山花袋. È anche traduttore di Madame Bovary di Flaubert e Bel-Ami di Maupassant. 5 Yoshimoto Takaaki 吉本隆明 (1924- ) Filosofo, critico letterario e poeta. I suoi numerosi scritti trattano non solo la letteratura ma anche la politica, le religioni, la società e le sotto-culture. Tra i numerosi scritti, sono famosi soprattutto Gengo ni totte bi towa nanika 言語にとって美とは何か (Che cosa è la bellezza per la lingua?), Kyōdōgensō ron 共同幻想論 (L’illusione comune). Yoshimoto Banana è sua figlia. 6 Etō Jun 江藤淳 (pseudonimo di Egashira Atsuo 江頭淳夫, 1932 – 1999). Critico letterario molto influente dopo Kobayashi. Famoso per i saggi su Natsume Sōseki e per i suoi scritti di orientamento conservatore. 7 Equivalente al primo biennio formativo dell’Università di Tokyo di oggi. Il vecchio ordinamento dell’istruzione giapponese prevedeva più anni di formazione prima dell’accesso all’università e il curriculum scolastico era simile a quello del biennio universitario odierno. 8 富永太郎 (1901-1925) 9 河上徹太郎 (1902-1980) 10 Il titolo è una parodia del libro scritto da Colin Wilson, The Outsider (1956), in cui sono trattati diversi personaggi tra i quali H. G. Wells, Kafka, Camus, Sartre, T.S. Eliot, Hemingway, Van Gogh, 4


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– Nagai Tatsuo,11 saggista e redattore che per molti anni aveva fatto parte della giuria di importanti premi letterari come il Naoki e l’Akutagawa.12 – Ishimaru Jūji,13 critico d’arte, nipote del filosofo e studioso di estetica Yanagi Muneyoshi.14 – L’indimenticabile Aoyama Jirō,15 critico d’arte e grande conoscitore di antiquariato, che introdurrà Kobayashi al mondo della ceramica e dell’antiquariato, il cui raffinato salotto era frequentato da scrittori, artisti e intellettuali, tra cui lo stesso Kobayashi, Kawakami Tetsutarō, Nagai Tatsuo, e famosi poeti e scrittori come Nakahara Chūya,16 Ōoka Shōhei,17 Uno Chiyo18 e Shirasu Masako.19 Negli anni universitari i suoi compagni del corso di letteratura francese erano personaggi come lo scrittore Kon Hidemi,20 Nakajima Kenzō,21 Satō Masaaki22 e

Nietzsche, Dostoevskij e Gurdjieff. Nel libro di Kawakami vengono trattati Nakahara Chūya, Hagiwara Sakutarō, Miyoshi Tatsuji, Kajii Motojirō, etc.. 11 永井龍男 (1904-1990) 12 Nagai è famoso anche per aver presentato le dimissioni dalla giuria quando fu premiato Murakami Ryū per il suo romanzo Kagirinaku tōmei ni chikai burū 限りなく透明に近いブルー (Blu quasi trasparente); e per essersi definitivamente dimesso in occasione della premiazione di Ikeda Masuo per il suo Ēgekai ni sasagu エーゲ海に捧ぐ (Dedicato al Mar Egeo). 13 石丸重治 (1902-1968) 14 Yanagi è famoso per il movimento mingei (folk art) 15 青山二郎 (1901-1979) 16 中原中也 (1907 – 1937) Uno dei poeti giapponesi più importanti del Novecento. Influenzato dal dadaista Takahashi Shinkichi 高橋新吉 e dai simbolisti francesi, Le sue poesie con parole semplici e piene di lirismo sono amate da sempre. Autore delle antologie Yagi no uta 山羊の歌 (il titolo, che può essere tradotto “Odi del capro”, allude al significato etimologico del termine “tragedia”), Arishihi no uta 在りし日の歌 (traducibile sia come “Canti dei giorni passati” sia come “Canti di quando ero in vita”), e traduttore delle poesie di Arthur Rimbaud. 17 大岡昇平 (1900 – 1988) Oltre ad essere famoso per i racconti come Furyoki 俘虜記 (Diario di un prigioniero) e Nobi 野火 (La guerra del soldato Tamura), basati sulle sue esperienze belliche come soldato, è traduttore di autori francesi, soprattutto Stendhal. Il suo bestseller Musashino fujin 武蔵野夫人 (La signora di Musashino) è una trasposizione di Madame Bovary di Flaubert. È anche autore di Nakahara Chūya (1974) dedicato all’amico poeta. 18 宇野千代 (1897 – 1996) Scrittrice e designer di kmono. Tra le sue opere: Ohan おはん (Ohan), Kōfuku 幸福 (La felicità) e Ikiteiku watashi 生きていく私 (Io andrò avanti). Famosa anche per la sua vita privata ricca di storie d’amore e matrimoni. 19 白洲正子 (1910 – 1998) Saggista. Ha scritto numerosi saggi raffinati sul teatro nō e sull’antiquariato giapponese. 20 今日出海 (1903 – 1984) Scrittore, saggista, regista teatrale e traduttore di letteratura francese. È stato il primo direttore generale dell’Agenzia governativa per gli Affari Culturali istituita nel 1968. 21 中島健蔵 (1903 – 1979) Studioso di letteratura francese, scrittore, e uno dei primi promotori di Miyazawa Kenji 22 佐藤正彰 (1905 – 1975) Studioso e traduttore di numerose opere francesi soprattutto di Proust e Valéry, e anche delle Mille e una notte. Ha scritto anche dei saggi importanti su Baudelaire.


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il poeta Miyoshi Tatsuji;23 in particolare con Kon Hidemi furono amici per tutta la vita. Gli insegnanti erano celebri studiosi come Tatsuno Yutaka24 e Suzuki Shintarō,25 che hanno molto contribuito alla divulgazione della letteratura francese in quegli anni. Il corso di letteratura francese dell’Università di Tokyo successivamente si arricchì con la presenza del prof. Watanabe Kazuo,26 altro grande studioso alla cui scuola si formeranno personaggi del calibro di Mori Arimasa,27 Kanno Akimasa,28 Hasumi Shigehiko29 e scrittori come Tsuji Kunio,30 Nakamura Shin’ichirō31 e Ōe Kenzaburō.32Kobayashi non frequentava molto il corso, ma spesso prendeva libri in prestito dal prof. Tatsuno, restituendoglieli puntualmente pieni di capelli e forfora.33 Era un ambiente molto privilegiato per accedere alle opere francesi che non si trovavano né nelle librerie né nelle biblioteche pubbliche. Diciamo che ha ragione Hasumi Shigehiko quando ridicolizza un brano del saggio di Kobayashi intitolato Rimbaud III34 che comincia così: 僕が、はじめてランボオに出くわしたのは、廿三歳の春であった。その 時、僕は、神田をぶらぶら歩いていた、と書いてもよい。向うからやって 来た見知らぬ男が、いきなり僕を叩きのめしたのである。僕には、何の準 備もなかった。ある本屋の店頭で、偶然見付けたメルキュウル版の「地獄 23 三好達治 (1900 – 1964) Autore dell’antologia di poesie Sokuryōsen 測量船 (La nave idrografica), traduttore di Le Spleen de Paris di Baudelaire. Ha scritto diversi saggi su Hagiwara Sakutarò 萩原朔太 郎, il poeta da lui più stimato. 24 辰野隆 (1888 – 1964) 25 鈴木信太郎 (1895 – 1970) 26 渡辺一夫 (1901 – 1975) 27 森有正 (1911 – 1976) Studioso di letteratura e filosofia francese. Ha vissuto a lungo a Parigi e scritto numerosi saggi su Pascal e Descartes. 28 菅野昭正 (1930 – ) Studioso e critico letterario, famoso per il suo saggio su Stéphane Mallarmé. 29 蓮實重彦 (1936 – ) Studioso di letteratura e filosofia francese, famoso soprattutto come critico cinematografico. Autore di Han nihongo ron 反=日本語論 (Anti-lingua giapponese), Foucault – Deleauze – Derrida, Hyōsōhihyō sengen 表層批評宣言 (Dichiarazione della critica superficiale), Eiga: miwaku no ekurichūru 映画 魅惑のエクリチュール (Il cinema: una “écriture” d’incanto), ecc., e traduttore di Flaubert, Foucault, Deleuze, Bartes, ecc.. 30 辻邦生 (1925 – 1999) Studioso di letteratura francese e scrittore di numerosi romanzi e racconti, tra i quali Azuchi ōkanki 安土往還記 (La cronaca del viaggio per Azuchi), Haikyōsha Yurianusu 背教 者ユリアヌス (Giuliano l’apostata). 31 中村真一郎 (1918 – 1997) Critico letterario, poeta, scrittore. Tra i suoi numerosi scritti: la tetralogia Shiki 四季 (Le quattro stagioni), Kakizaki Hakyō no shōgai 蠣崎波響の生涯 (La vita di Kakizaki Hakyō). Traduttore di opere francesi e anche giapponesi dell’epoca Heian, in lingua moderna, come l’Ise monogatari e il Torikaebaya monogatari. 32 大江健三郎 (1935 – ) Scrittore. Tra le sue numerose opere: Shisha no ogori 死者の奢り(L’orgoglio dei morti), Shiiku 飼育 (L’animale d’allevamento), Man’en gannen no futtobōru 万延元年のフッ トボール (Il grido silenzioso). Premio Nobel per la letteratura nel 1994. 33 Si veda Gonda Kazuhito, “Kobayashi Hideo o meguru hitobito, 2”, Bessatsu Taiyō, 162 (Kobayashi Hideo), Heibonsha, Tokyo 2009, p.17. 34 Uscito nel 1947 col titolo Ranbō no mondai ランボオの問題 sulla rivista Tenbō 展望.


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の季節」の見すぼらしい豆本に、どんなに烈しい爆薬が仕掛けられていた か、僕は夢にも考えてはいなかった。35

Era primavera ed avevo 23 anni quando, per la prima volta, mi sono imbattuto in Rimbaud. Potrei scrivere che in quel momento passeggiavo nel quartiere di Kanda senza meta quando fui travolto da uno sconosciuto che mi mise letteralmente K.O. Io ero totalmente impreparato. E non immaginavo minimamente l’esplosivo potenziale contenuto nel piccolo e misero libro di Una stagione all’inferno delle edizioni Mercure trovata per caso all’entrata di una libreria.

A Hasumi, anch’egli studente dello stesso corso tanti anni dopo, non sfugge la sfumatura di quel condizionale “potrei scrivere che...”, e sottolinea dettagli come “per caso” e “edizione Mercure”, lasciando intendere che un così melodrammatico episodio non avrebbe assolutamente potuto verificarsi se Kobayashi realmente non avesse conosciuto Rimbaud.36 Come tanti scrittori e filosofi giapponesi a partire dall’epoca Meiji, anche Kobayashi ha subito una notevole influenza europea, e nel suo caso si tratta evidentemente soprattutto di quella francese. Si può dire che ha rappresentato uno dei primi esempi di una importante realtà culturale del Giappone moderno, di derivazione francese, che continua tuttora ad esistere. Kobayashi è noto anche come traduttore di Une saison en enfer di Rimbaud, Monsieur Teste di Valéry, e Quatre-vingt-un Chapitres sur l’esprit et les passions di Alain, nonché per la sua opera incompiuta Kansō (Pensieri) ispirata dalla filosofia di Bergson. Era molto attratto dai simbolisti francesi, Rimbaud in particolare, ma aveva anche amici poeti giapponesi fortemente influenzati dall’esperienza simbolista: Tominaga Tarō e Nakahara Chūya, che saranno colpiti entrambi da una morte precoce. Nel 1925 poco dopo l’iscrizione all’università, conosce Nakahara tramite Tominaga. Nello stesso anno, comincia la convivenza con Hasegawa Yasuko 長谷川泰 子,37 l’amante di Nakahara. Nonostante la complessità della relazione, una sorta di ménage à trois, Kobayashi e Nakahara mantennero un rapporto sincero e un serio e leale confronto tra artisti. Alla morte dei due giovani poeti, Kobayashi dedicò loro belle parole di elogio e di commiato. Per Tominaga scrisse: 彼は、洵に、この不幸なる世紀に於い て、卑陋なる現代日本の産んだ唯一の詩人であつた (È stato veramente l’unico Poeta che l’odierno ignobile Giappone ha prodotto in questo disgraziato secolo).38 E alla morte di Nakahara, …詩の出来不出来なぞ元来この詩人に 35

Kobayashi Hideo zenshū (citato d’ora in avanti come KHZ), IV, Shinchōsha, Tokyo 2001, p 105. Le traduzioni dei brani riportati nel testo sono di chi scrive. 36 Cfr. Hasumi Shigehiko, “Kotoba no yume to ‹hihyō›”, Hyōsōhihyō sengen, Chikuma shobō, Tokyo 1985, pp. 11-52. 37 Yasuko era un’aspirante attrice, vincitrice del concorso di fotografia “La donna che assomiglia a Greta Garbo” 38 KHZ, I, p. 97.


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は大した意味はない。それほど、詩は彼の生ま身の様なものになつて ゐた。どんな切れつぱしにも彼自身があつた (...per apprezzare questo poeta, valutare la buona o la cattiva riuscita delle sue poesie non è poi così tanto importante, dal momento che la poesia stessa si era incarnata in lui. In ogni verso c’era lui stesso).39 Nel 1928 Kobayashi si laurea con una tesi su Arthur Rimbaud, e poco dopo tronca la difficile convivenza con Yasuko andandosene ad Osaka. Si ritira per un po’ nel tempio buddhista Myōkōji 妙光寺 nel quartiere Tanimachi, poi va a Kyoto a trovare suo zio, poi a Nara dove frequenta Shiga Naoya 志賀直哉,40 per il quale nutre una profonda stima. Fu un anno consacrato alla riflessione e al recupero delle energie. L’anno dopo, all’età di ventisette anni, con Samazama naru ishō (Vari modelli) si classifica secondo al concorso nella sezione di critica letteraria sponsorizzato dalla rivista Kaizō 改造 debuttando come critico. A dicembre dello stesso anno, scrive il saggio Shiga Naoya, molto probabilmente anche come segno di ringraziamento per l’accoglienza e le premure ricevute a Nara. Nel 1933 fonda la rivista letteraria Bungakukai 文学界41 con Kawabata Yasunari, Hayashi Fusao e Takeda Rintarō, dove finalmente può esprimersi con la massima libertà. Queste, a grandi linee, le principali tappe degli anni della formazione giovanile di Kobayashi, in particolare fino al periodo che ha preceduto l’inizio della seconda guerra mondiale.42 Debutta nel 1929 con Samazama naru ishō, e dopo circa sei mesi comincia una brillante carriera scrivendo una serie di recensioni letterarie intitolate Ashiru to kamenoko アシルと亀の子 (Achille e la tartarughina43) sulla prestigiosa rivista Bun39

Ivi, V, p. 282. È interessante notare che un’osservazione analoga (cioè, la poesia immedesimata con il poeta,) è di Emilio Cecchi a proposito di un poeta italiano che viene spesso paragonato a Rimbaud: Dino Campana. “Accanto a Campana, che non aveva affatto l’aria d’un poeta (...) si sentiva la poesia (...)”. Emilio Cecchi, “Dino Campana”, Di giorno in giorno, Garzanti, Milano 1977, p. 318. 40 Autore dei romanzi An’ya kōro 暗夜行路 (Viaggio in una notte buia), Wakai 和解 (Riconciliazione), Kinosaki nite 城の崎にて (A Kinosaki). Per la sua maestria descrittiva, è stato definito “Shōsetsu no kamisama (il Dio del romanzo)”, parodia del titolo del suo racconto Kozō no kamisama 小僧の神 様 (Il Dio di un garzone). Analogamente, Kobayashi è stato chiamato “Hihyō no kamisama (il Dio della critica)” 41 All’inizio viene pubblicata dalla casa editrice Bunpodō 文圃堂, e dal 1936 da Bungeishunjūsha 文 芸春秋社. La rivista è tutt’ora una pubblicazione di notevole importanza. 42 Molti dei dati finora esposti sono presi dal numero della rivista Bessatsu Taiyō dedicato a Kobayashi, Heibonsha, Tokyo 2009, dal volume “Kobayashi Hideo”, Shinchō nihon bungaku arubamu, XXXI, Shinchōsha, Tokyo 1986, e da KHZ, appendice II. 43 Il titolo va chiaramente associato a uno dei famosi paradossi di Zenone, “Achille e la tartaruga”. Kobayashi ha usato il nome Achille come metafora di “teoria”, e la tartaruga come metafora di “realtà”. Cfr. KHZ, I, p. 240.


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gei Shunjū44 e pubblicando traduzioni di opere francesi, a cominciare da Une saison en enfer di Rimbaud e Monsieur Teste di Valéry, e vari saggi su riviste letterarie. Trattando sia la letteratura europea che quella giapponese, ma anche la pittura, la musica e altre espressioni artistiche, col suo stile tagliente, appassionato, sincero, arbitrario, convinto e carismatico, mirando soprattutto a cogliere l’anima dell’autore, Kobayashi affascinava e abbagliava i lettori del primo periodo Shōwa, e la sua fama si ampliava anche grazie all’arrivo dell’epoca della “riproducibilità tecnica”.45 Possiamo dire che l’epoca Taishō, in cui la letteratura era ancora per pochi eletti, finisce culturalmente nel 1927, con la morte di Akutagawa e la nascita delle edizioni tascabili della casa editrice Iwanami (Iwanami Bunko). Non possiamo negare che il mito di Kobayashi fosse dovuto anche al fatto che in quegli anni molti avevano cominciato a leggere libri occidentali, ascoltare musica occidentale e guardare cataloghi di pittura occidentale. Dopo la seconda guerra mondiale la sua autorità comincia ad essere messa in discussione: quasi una sorta di ribellione dei figli nei confronti del “padre”. Sakaguchi Ango 坂口安吾 (1906 – 1955), scrittore della scuola Buraiha 無頼派, nel 1947 scrive Kyōso no bungaku 教祖の文学 (La letteratura del Gran Maestro) nel quale accusa Kobayashi di essersi arroccato su solide posizioni e, con un misto di affetto e rabbia, afferma: 彼の昔の評論、志賀直哉論をはじめ他の作家論など、今読み返してみる と、ずゐぶんいゝ加減だと思はれるものが多い。然し、あのころはあれ で役割を果してゐた。彼が幼稚であつたよりも、我々が、日本が、幼稚 であつたので、日本は小林の方法を学んで小林と一緒に育つて、近頃で はあべこべに先生の欠点が鼻につくやうになつたけれども、実は小林の 欠点が分るやうになつたのも小林の方法を学んだせゐだといふことを、 彼の果した文学上の偉大な役割を忘れてはならない。46

Molti dei suoi saggi di una volta come quelli su Shiga Naoya e altri scrittori, letti oggi sembrano discorsi abbastanza grossolani. Però, devo dire che in quell’epoca avevano la loro ragion d’essere. Più che Kobayashi, eravamo immaturi noi e tutto il paese. Il Giappone ha imparato il metodo di Kobayashi ed è cresciuto con lui. Ora invece ci danno fastidio i difetti del maestro, ma non dobbiamo dimenticare il grande contributo che ha dato nella nostra letteratura e che siamo arrivati a questo livello proprio perché abbiamo imparato il suo metodo.

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La rivista Bungei Shunjū è stata fondata dallo scrittore e imprenditore Kikuchi Kan 菊池寛 (1888 – 1948), molto stimato da Kobayashi. 45 Bisogna ricordare che il suo celebre saggio su Mozart implicitamente presuppone la musica riproducibile col grammofono e deve l’enorme successo tra i lettori anche alla diffusione dei dischi fonografici. 46 Sakaguchi Ango, “Kyōso no bungaku”, in Daraku ron, Kadokawa shoten, Tokyo 1986, p. 196. La traduzione del brano riportato nel testo è di chi scrive.


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Il giovane Kobayashi Hideo: l’influenza francese e l’ambiente letterario

Nel 1979 esce il volume Kobayashi Hideo o koete 小林秀雄をこえて (Oltre Kobayashi Hideo) che raccoglie i dialoghi tra il critico Karatani Kōjin e lo scrittore Nakagami Kenji47 e alcuni loro saggi. Nello stesso anno, Yoshimoto Takaaki nel suo Higeki no kaidoku 悲劇の解読 (Decodificazione della tragedia) non nasconde la sua irritazione e sembra che voglia distruggere Kobayashi trattandolo come un uomo che dà troppa importanza alla propria coscienza e che non riesce mai a trovare altro interlocutore se non se stesso. Sembra un figlio oppresso e irritato. Invece, pochi anni prima (1975), Hasumi Shigehiko, come abbiamo già visto, nel suo Kotoba no yume... aveva mostrato elegantemente e con nonchalance i trucchi retorici che usava Kobayashi e “svelato” le bugie che ingannavano i lettori. Con affettuoso distacco, come un figlio cresciuto ed equilibrato che forse ha anche superato il padre, Karatani scrive: 彼の批評の飛躍的な高さは、やはり、ヴァレリー、ベルクソン、アラン を読むこと、そしてそれらを異種交配してしまうところにあった。公平 にいって、彼の読みは抜群であったばかりでなく、同時代の欧米の批評 家に比べても優れているといってよい。今日われわれが小林秀雄の批評 の古さをいうとしたら、それなりの覚悟が要る。たとえば、サルトル、 カミュ、メルロー=ポンティの三人組にいかれた連中が、いま読むに耐 えるテクストを残しているか。あるいは、フーコー、ドゥルーズ、デリ ダの新三人組を、小林秀雄がかつて読んだほどの水準で読みえている か。なにより、それが作品たりえているか。そう問えば、問題ははっ きりするだろう。根本的には何も変わってはいないのだ。 inter-courseが 本当は欠けている。小林秀雄に対する嫌悪は、いつも自己嫌悪に似てい る。48

Il livello straordinariamente alto della sua critica scaturiva dalla capacità di leggere Valéry, Bergson e Alain e ibridarli. A essere imparziali, le sue interpretazioni erano non solo eccellenti ma direi anche superiori a quelle dei critici occidentali dell’epoca. Per definire obsoleta la critica di Kobayashi oggi, bisognerebbe avere una buona cognizione di causa. Per esempio, tra gli scritti di coloro che si sono lasciati infatuare da quei tre, cioè, Sartre, Camus e Merleau-Ponty, c’è qualche testo che meriti di essere letto ancora oggi? O siamo veramente in grado di interpretare i nuovi tre, cioè, Foucault, Deleuze e Derrida, al livello che dimostrava Kobayashi nelle sue interpretazioni all’epoca? Soprattutto, queste nuove interpretazioni di oggi, sono degne di essere chiamate “opere”? Se si pone la questione in questi termini, il problema è evidente. Fondamentalmente non è cambiato nulla da allora. In realtà, anche oggi manca “l’inter-course”. L’odio per Kobayashi assomiglia sempre all’odio per noi stessi.

47 中上健次 (1946 – 1992) Ha scritto molte opere ambientate nella regione Kumano di cui è originario, come Misaki 岬 (Il promontorio), Karekinada 枯木灘 (Il mare degli alberi morti), Chi no hate, shijō no toki 地の果て、至上の時 (Il termine della terra, momento supremo). Fino alla sua morte è stato legato da profonda amicizia e solidarietà a Karatani Kōjin. 48 Karatani Kōjin, “Kōtsūni tsuite”, in Hihyō to posutomodan, Fukutake shoten, Tokyo 1989, p. 186.


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In ogni caso dobbiamo ammettere che Kobayashi ha notevolmente influenzato le generazioni successive. A questo proposito Donald Keene dice: It is hard to imagine what Shōwa criticism would have been like without Kobayashi, though we can be fairly sure that it would not have developed so greatly, nor would it have come to command the attention not only of persons professionally interested in literature but of the general public.49

Nel 1980, infatti, un altro colosso della critica letteraria Nakamura Mitsuo, ha curato un volume che raccoglie i lavori giovanili del nostro critico (degli anni 1929–1935), e nei commenti ha sottolineato il grande contributo che Kobayashi ha dato alla diffusione della letteratura francese in Giappone e anche a smuovere tutto il terreno letterario giapponese (dove dettava legge la scuola “naturalista” col suo linguaggio moderno e parlato) reintroducendo l’uso frequente di kanji e andando consapevolmente contro corrente.50 In ogni caso non è affatto casuale che molti in quegli anni abbiano scritto contro Kobayashi. Erano grossomodo gli anni della pubblicazione del volume Motoori Norinaga uscito nel 1977, il suo ultimo lavoro importante al quale dedicò circa dodici anni, pubblicato a puntate sulla rivista Shinchō, nel quale tratta il filologo e medico del XVIII secolo famoso per i commenti sul Genji monogatari e per aver decifrato il testo del Kojiki. Kobayashi ha cominciato questo lavoro subito dopo l’improvvisa sospensione dell’interessante pubblicazione a puntate sempre su Shinchō intitolata Kansō (Pensieri), che è durata cinque anni, dedicata principalmente a riflessioni sulla filosofia di Henri Bergson. Questa sua “svolta” inaspettata da Bergson a Motoori sembra abbia deluso molti lettori non conservatori, i quali l’hanno interpretata come un chiaro segno di una presa di posizione decisamente tradizionalista. Fino al 1982, anno precedente la sua morte, Kobayashi ha continuato a scrivere una grande quantità di opere, finendo per essere, nel bene e nel male, un indispensabile punto di riferimento per il mondo letterario giapponese.

49

Donald Keene, Dawn to the West, vol. 2, Holt, Rinehart & Winston, New York 1984, pp. 581582. 50 Cfr. Nakamura Mitsuo, “Kaisetsu”, in Kobayashi Hideo shoki bungei ronshū, Iwanami shoten, Tokyo 1980, pp. 431-443.


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Brevi cenni biografici 1902 (Meiji 35) 11 aprile nasce a Tokyo, primogenito di Kobayashi Toyozō e Seiko. 1915 (Taishō 4) Dopo le elementari, frequenta la Tokyo Furitsu Daiichi chūgakkō 東京府立第一中 学校 (La scuola media inferiore N.1 di Tokyo), dove conosce il poeta Tominaga Tarō (autore di poesie fortemente influenzate dai simbolisti francesi) e il futuro critico letterario Kawakami Tetsutarō. 1920 (Taishō 9) Finite le medie inferiori, si presenta all’esame d’ammissione al triennio della scuola media superiore Daiichi kōtōgakkō 第一高等学校 (La scuola superiore N.1), ma viene respinto. 1921 (Taishō 10) Il 20 marzo muore il padre a 46 anni. Ad aprile viene ammesso alla Prima scuola superiore, indirizzo “Lettere III” Ad ottobre interrompe gli studi per un anno perché sofferente di paratiflite e nevrosi. La madre si ammala e si trasferisce a Kamakura per curarsi. 1922 (Taishō 11) Pubblica il primo romanzo Tako no Jisatsu 蛸の自殺 (Il suicidio del polipo) sulla rivista dōjinshi 同人誌 Kyōon 跫音 e lo manda allo scrittore Shiga Naoya, dal quale riceve una lettera di elogio. 1924 (Taishō 13) Collabora alla rivista dōjinshi Seidō jidai 青銅時代 e a luglio pubblica il romanzo breve Hitotsu no nōzui 一つの脳髄 (Un cervello). A dicembre con gli amici Ishimaru Jūji, Nagai Tatsuo e Tominaga Tarō fonda la rivista Yamamayu 山繭. In questo stesso anno conosce Aoyama Jirō. 1925 (Taishō 14) A febbraio pubblica Ponkin no warai ポンキンの笑い (Il sorriso di Ponkin) su Yamamayu. A marzo si diploma alla scuola superiore. Ad aprile viene ammesso al corso di letteratura francese nella Facoltà di Lettere dell’Università Imperiale di Tokyo. Nella stessa classe trova Kon Hidemi, Nakajima Kenzō, Miyoshi Tatsuji. Nello stesso mese conosce il poeta Nakahara Chūya tramite Tominaga Tarō. Ad ottobre va a Izu Ōshima e al ritorno si sottopone ad un intervento chirurgico all’intestino. A novembre muore Tominaga Tarō, a 24 anni.


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Comincia la convivenza con Hasegawa Yasuko, amante del suo caro amico Nakahara Chūya. 1926 (Taishō 15 / Shōwa 1) A maggio si trasferisce a Kamakura. Ad ottobre pubblica il primo saggio su Arthur Rimbaud sulla rivista accademica Furansu bungaku kenkyū 仏蘭西文学研究 (Studi di letteratura francese). Nell’inverno va a vivere a Zushi. 1927 (Shōwa 2) In autunno ritorna a Tokyo (nel quartiere Shirokanedai). A settembre pubblica un saggio su Akutagawa e a novembre un saggio su Les fleurs du mal di Baudelaire. 1928 (Shōwa 3) A febbraio si trasferisce al quartiere di Nakano. Conosce Ōoka Shōhei. A marzo si laurea con una tesi su Arthur Rimbaud. A maggio lascia la casa dove conviveva con Yasuko e va da solo ad Osaka. Poi va a Nara dove frequenta Shiga Naoya. Chiude il rapporto con Yasuko. 1929 (Shōwa 4) A gennaio torna a Tokyo. A settembre con Samazama naru ishō si classifica secondo al concorso nella sezione di critica letteraria sponsorizzato dalla rivista Kaizō e debutta come critico letterario. A dicembre pubblica un saggio su Shiga Naoya sulla rivista Shisō 思想.. 1930 (Shōwa 5) Ad aprile comincia a scrivere la serie di critica e recensioni letterarie Ashiru to kamenoko sulla rivista Bungei Shunjū, continuando a scrivere regolarmente fino a marzo dell’anno successivo e confermandosi definitivamente come critico letterario. Ad ottobre pubblica la traduzione di Une saison en enfer di Rimbaud. Conosce Nakamura Mitsuo. 1931 (Shōwa 6) Si trasferisce a Kamakura con la madre. A novembre pubblica la traduzione di Le Bateau Ivre di Rimbaud. 1932 (Shōwa 7) Comincia ad insegnare lingua e letteratura francese all’Università Meiji. 1933 (Shōwa 8) A maggio pubblica il saggio Kokyō o ushinatta bungaku (Letteratura della patria perduta) su Bungei shunjū. A ottobre Fonda la rivista letteraria Bungakukai con gli scrittori Kawabata Yasunari, Hayashi Fusao, Takeda Rintarō.


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Il giovane Kobayashi Hideo: l’influenza francese e l’ambiente letterario

1934 (Shōwa 9) A maggio si sposa con Mori Kiyomi 森喜代美. A ottobre pubblica la traduzione di Monsieur Teste di Valéry. 1935 (Shōwa 10) A gennaio diventa il redattore responsabile della rivista Bungakukai e comincia a pubblicare a puntate Dosutoefusukī no seikatsu (La vita di Dostoevskij) fino a marzo 1937, e a maggio Watakushi shōsetsu ron (Saggio sul romanzo dell’io) sulla rivista Keizai ōrai 経済往来. A settembre pubblica la traduzione di Paludes di André Gide. 1936 (Shōwa 11) A luglio pubblica la traduzione del saggio su Edgar Alain Poe di Baudelaire e a dicembre pubblica la traduzione di Quatre-vingt-un Chapitres sur l’esprit et les passions di Alain (Émile Auguste Chartier). 1937 (Shōwa 12) A marzo nasce la prima figlia Haruko 明子. A ottobre muore Nakahara Chūya. A novembre pubblica un’antologia di poesie di Rimbaud tradotte da Nakahara su Bungakukai e a dicembre pubblica la poesia Shinda Nakahara (Nakahara morto) insieme a degli scritti postumi del poeta su Bungakukai. 1938 (Shōwa 13) A marzo va in Cina come inviato speciale della rivista Bungei Shunjū e consegna il premio letterario Akutagawa a Hino Ashihei 火野葦平 per il suo Funnyōtan 糞尿 譚. A giugno diventa professore ordinario all’Università Meiji. Comincia a interessarsi di antiquariato. 1939 (Shōwa 14) A maggio pubblica la traduzione di Mes poisons di Sainte-Beauve. Finisce qui il periodo oggetto della nostra comunicazione. Per gli anni dal 1939 al 1983 (anno della sua morte) si rimanda ad una biografia più esauriente. I dati biografici sono basati su quelli riportati in “Kobayashi Hideo”, Bessatsu Taiyō, CLXII, Heibonsha, Tokyo 2009 ed in Shinchō Nihon bungaku arubamu – Kobayashi Hideo, Shinchōsha, Tokyo 2003.


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Kobayashi Hideo: His Early Works under French Influence and the Literary Environment Kobayashi Hideo (1902-1983), who established modern literary criticism in Japan, is definitely one of the most influential figures in Japanese literature and criticism of the twentieth century to this day. His editorials enjoyed widespread popularity covering a broad range of subjects beyond academic and literary environments including music, fine art, pottery and antiques. This paper aims to be an introduction to this remarkable critic, illustrating his academic background, his fellow writers, his early works which were greatly influenced by the European writers, poets and philosophers, especially those from France, such as Arthur Rimbaud, Paul Valéry, Alain and Bergson, and also the criticism toward him after the World War II, especially around the late 1970’s.

若き日の小林秀雄:フランスの影響と文学的環境

林直美 日本の近代文芸批評の創始者といえる小林秀雄は、20世紀以降の日本 の文学と批評を語る上で避けて通れない、最も影響力を持った文学者 に数えられる。その評論は、文学のみならず音楽、美術、陶器、骨董 等の様々な題材に及び、大学知識人や文学関係者の枠を超えた読者層 に広く読まれてきた。 本論は、イタリアにおいては未だあまり知られていないこの批評家の 紹介的なものであり、小林の学生時代からの知的環境、様々な文学者 との交流、その文芸活動の初期にみられるヨーロッパ、特にフランス の文学・思想(ランボー、ヴァレリー、アラン、ベルクソン等)の影 響、および、戦後特に1970年代後半頃の小林秀雄批判について、解説 する。



Caterina Mazza

Inoue Hisashi e il parodi būmu

There is an expression in Japanese about such a person. It is: Yonin o motte kaegatai, which translates into English as, “There will not be another like him”. Roger Pulvers, “Hisashi Inoue: A great friend, writer and people’s champion is gone”, The Japan Times, 18 Aprile 2010

Inoue Hisashi (井上ひさし, 1934 – 2010) è stato un poliedrico protagonista della vita culturale giapponese a partire dalla pubblicazione dei suoi primi lavori teatrali alla fine degli anni Sessanta. Il suo uso sapiente delle infinite possibilità ludiche della lingua giapponese - declinato nei generi più svariati ed eterogenei (dagli innumerevoli tanpen shōsetsu agli script per radio e televisione, passando attraverso gli scritti teatrali che costituiscono il nucleo centrale della sua produzione) - ha sovvertito l’invalsa marginalizzazione del comico nella letteratura giapponese contemporanea. Definito dalla critica giapponese shin-gesakusha – per ispirazione e atteggiamento nei confronti della cultura nipponica contemporanea – Inoue ha contribuito significativamente a quello che è stato definito il “parodii būmu” (パロデイ・ブーム) nella letteratura e nelle arti iniziato negli anni Settanta. Il termine parodi パロデイ(così come pastiche パスティーシュ, più avanti) è stato in verità largamente utilizzato a partire da quel momento per designare un numero assai vasto di opere che si discostano decisamente da quella che Linda Hutcheon ha definito “ripetizione con differenza critica” (repetition with critical distance1). Una parte considerevole di testi classificati univocamente come “parodia”, può essere in verità ascritta al registro di un comico basato sui giochi di parole (dajare 駄洒落, share 洒落) e a volte addirittura dell’umorismo farsesco, più vicino al genere dello slapstick (dotabata ドタバタ). La produzione letteraria di Inoue si distingue però per il valore altamente metaletterario che la caratterizza, così come per l’uso strategico e politico della lingua giapponese e dei suoi dialetti: in questa presentazione intendiamo mostrare, attraverso l’analisi di diversi testi, la specificità della letteratura parodica di Inoue, indiscusso capofila del genere, ma unico nel suo genere.

1

Linda Hutcheon, A theory of parody, A teachings of Twentieth-Century Art Forms, Methueun, London 1985, p. 32.


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Inoue l’umanista “One person can do a little. Two can do a little more. Three people together can do even more for others.” Inoue Hisashi made this simple statement on Japanese television on October 7, 2004, from Bologna, Italy, a city with a radical political tradition that had fascinated him for thirty years. To my mind, it symbolizes his motivation for his writing and his faith in the goodness of human nature. Inoue, Japan’s most brilliant and popular modern playwright, was above all, a humanist.2

Roger Pulvers – amico e traduttore di Inoue – menziona nell’incipit del suo ricordo dello scrittore scomparso nell’aprile del 2010, la sua passione per la città di Bologna e fa delle sue parole sull’importanza della cooperazione attiva, il simbolo dell’attività di Inoue come “umanista”. In effetti, Inoue, nei rarissimi viaggi compiuti all’estero, ha visitato Bologna in più occasioni; in particolare, nel 2004, ha realizzato un documentario per la NHK dedicato alla “città dei mattoni rossi”3 andato in onda in Giappone nel mese di marzo di quell’anno e più volte replicato. La passione di Inoue per il “modello Bologna” – luogo di sperimentazione delle “cooperazione” tanto in campo economico quanto in quello culturale – risulta perfettamente coerente con la sua poliedrica vicenda umana e artistica. Per Inoue Hisashi, difatti, può sembrare riduttiva persino l’espressione iperbolica hachimenroppi4: scrittore, drammaturgo, autore radiofonico e televisivo, regista, attivista politico ed intellettuale engagé, maestro indiscusso della letteratura giapponese comica e parodica del dopoguerra, ha dedicato la propria lunga carriera alla costruzione di un nuovo “umanesimo” profondamente radicato nel passato del proprio Paese ma continuamente proiettato alla sua necessità di futuro. Un articolo del Time lo ha definito “one of the most successful writers in the world today”5 con i 12 milioni di copie vendute dei suoi 56 volumi. L’articolo risale però al 1983: da allora, fino alla sua scomparsa nel 2010 all’età di 75 anni, Inoue Hisashi ha continuato ad accumulare pagine, riconoscimenti e titoli. Prolifico autore di best seller e di testi teatrali (scritti principalmente per la compagnia Komatsu-za da lui fondata all’inizio degli anni Ottanta), Inoue è stato 2

Roger Pulvers, “A Dialogue with the Japanese People – The Life and Work of Inoue Hisashi”, Japanese Book News, 65, 2010, p.2. 3 Il documentario Inoue Hisashi no Borōnya nikki (“Il diario di Bologna di Inoue Hisashi”,「井上ひ さしのボローニャ日記」) è prodotto dalla NHK, che lo presenta in questo modo al pubblico: “In viaggio alla scoperta della costruzione (e ricostruzione nel dopoguerra) della città, con l’amore per lo spirito di “autonomia” e “rivoluzione” che vive nella città dei mattoni rossi” (赤レンガの街に息づ く「自治・反骨」の精神に恋し、街づくりの秘密を求め旅に出た). Le riflessioni sulla città sono state raccolte da Inoue in un volume omonimo pubblicato da Bungei shunjū nel 2010. 4 八面六臂 (Lett. “otto volti, sei braccia”, in riferimento all’iconografia buddhista). Detto di attività frenetica o di persona estremamente versatile. 5 “Magician of Language: Hisashi Inoue”, “Books”, Time, 1 agosto 1983.


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inoltre presidente del Nihon Pen Club (2003-2007) e direttore del Nihon Gekisakka Kyōkai (Japan Playwrights Association, dalla sua creazione nel 1993); è stato poi membro eletto dell’Accademia giapponese delle arti (Nippon Geijutsuin) dopo aver ricevuto l’onorificenza di Bunka kōrōsha (“Persona dall’alto merito culturale”) nel 2004 ed essere stato insignito del premio dell’Accademia nel 2009 per “il durevole contributo a vari settori dell’arte a partire dal teatro”.6 Questa figura così centrale nella storia culturale giapponese del dopoguerra non ha mai reciso però il profondo legame con la periferia del Paese, con un atteggiamento umano e artistico che lo accomuna all’esperienza del coetaneo Ōe Kenzaburō. All’origine della decisione di diventare scrittore, Inoue pone infatti il ricordo dell’infanzia trascorsa nella piccola città di Komatsu (oggi Kawanishi), nel Tōhoku, dove il padre farmacista coltivava per primo il sogno di scrivere per professione.7 Alla fine degli anni ’30, Inoue Shūkichi vince un premio letterario e viene assunto come sceneggiatore presso l’importante casa di produzione cinematografica Shōchiku, ma si ammala gravemente e muore prima di riuscire a trasferirsi a Tokyo: Hisashi ha all’epoca cinque anni, e la morte del padre – da cui ha ereditato una grande passione per i libri e il teatro, nonché l’attenzione politica alle necessità degli “ultimi” della società – influenzerà in maniera radicale gli anni a venire. Verrà inviato dalla madre a Sendai, nella scuola cattolica per orfani dei Fratelli Lasalliani Higarioka tenshien (“La Salle Home”). Molti anni dopo, è grazie alla raccomandazione di un padre della comunità lasalliana che l’ottimo studente Inoue riesce a essere ammesso – nonostante le difficoltà economiche – alla Jōchi daigaku (Sophia University) di Tokyo, dove si laureerà in lingua francese. È proprio un monaco – qualche anno più tardi – al centro del racconto romanzato degli anni universitari: padre Mockinpott – protagonista del fortunato Mokkinpotto shi no atoshimatsu8 – scopre che uno dei suoi studenti, Komatsu, lavora in un teatro di varietà che ha nel repertorio spettacoli di striptease; lo studente lo rassicurerà del valore altamente culturale e formativo della sua occupazione presso il “Teatro francese”, tentando di convincerlo che quello che appare come un teatro di burlesque è in verità una sorta di succursale nipponica della Comédie Française. Il divertente episodio raccontato ha un fondamento nella vita reale del suo autore: 6

「戯曲を中心とする広い領域における長年の業績」、『芸術院賞に井上ひさしさんら 9氏』, The Asahi Shinbun Digital, 20 marzo 2009, (http://www.asahi.com/showbiz/stage/koten/TKY 200903200186.html [gennaio 2012]. 7 Cfr. l’intervista di Tanaka Nobuko, “Inoue Hisashi: Crusader with a Pen”, The Japan Times, 1 ottobre 2006 (ripubblicato su Japan Focus e disponibile all’indirizzo: http://japanfocus.org/-tanakanobuko/2241 [gennaio 2012]. 8 『モッキンポット師の後始末』(“Le soluzioni di Padre Mockinpott”, Kōdansha, 1972; serializzato nel 1971 su Shōsetsu gendai*); il testo diventa subito un best seller in Giappone, tanto da essere adattato in un dorama di successo l’anno dopo per la Fuji-TV con il titolo Boku no shiawase. Nel 1985, Inoue pubblica anche un sequel con il titolo Mokkinpotto shi futatabi (“Ancora Padre Mockinpott”, Kōdansha). Mokkinpotto è stato tradotto in inglese da Roger Pulvers nel 1976 con il titolo “The Fortunes of Father Mockinpott” (serializzato sul Mainichi Daily News, ma mai raccolto in volume).


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durante gli anni di studio Inoue lavora infatti al Furansu-za di Asakusa come direttore di scena e occasionalmente come sceneggiatore. Il vero debutto teatrale avverrà però solo nel 1969, con la pièce Nihonjin no heso (『日本人のへそ』, “L’ombelico dei giapponesi”, per il Theatre Echo テアト ル・エコー), incentrata su una riflessione insieme comica e profonda sulla lingua giapponese, tema che diverrà centrale in tutta la sua produzione. Inoue è in quegli anni un autore televisivo e radiofonico di successo. Subito dopo la laurea si dedica infatti alla scrittura per la TV, divenendo autore insieme a Yamamoto Morihisa del fortunatissimo programma di marionette per bambini Hyokkori hyōtanjima9 (trasmesso quotidianamente dalle NHK dal 1964 al 1969 per un totale di 1224 episodi, riceve numerosi riconoscimenti critici, tra cui già nel Sessantanove il premio come miglior programma dall’Associazione giapponese degli scrittori televisivi). Per il teatro radiofonico del primo canale della NHK Inoue scrive in quegli stessi anni vari testi, tra cui Kirikiri dokuritsusu (『吉里吉里独立す』, “Kirikiri diventa indipendente”, 1964) sulle vicende di una piccola comunità del Tōhoku che decide di dichiararsi autonoma rispetto al potere centrale di Tokyo. È l’anno delle Olimpiadi e il Giappone non è pronto per la satira dissacrante e antinazionalista di Inoue; la trasmissione sarà sospesa. Il progetto Kirikiri però è destinato al successo: serializzato in forma scritta col titolo Kirikirijin (『吉里吉里人』, “Gente di Kirikiri”) tra il 1973 e il 1974 sul mensile Shūmatsu kara (Chikuma Shobō) e poi ripreso dal 1978 al 1980 su Shōsetsu shinchō, viene infine riunito in volume e pubblicato da Shinchōsha nel 1981: il libro diviene un best seller, anche nell’edizione tascabile dell’anno successivo in cui le ottocento pagine che raccontano le avventure del piccolo villaggio secessionista vengono distribuite su tre volumi. Kirikirijin è un enorme successo di pubblico e di critica: per quest’opera Inoue riceve nel 1981 il prestigioso premio Yomiuri e anche il Nihon SF Taishō; l’anno dopo il libro ottiene un ulteriore riconoscimento come opera di science fiction con il conferimento del Seiunshō. Kirikirijin è senz’altro l’opera che consacra la carriera di Inoue come autore di fiction, ma non è certo la prima ad attirare l’attenzione della critica: dopo aver conquistato un enorme pubblico nel 1970 con Bun to Fun (『ブンとフン』, “Bun & Fun”, Asahi Sonorama), con il racconto Tegusari shinjū (『手鎖心中』, “Doppio suicidio con manette”, Bungei shunjū, 1972) – parodia del celebre motivo del doppio suicidio d’amore ricorrente nella letteratura Edo – nel 1973 Inoue era già stato insignito del premio Naoki. L’ambientazione e l’uso ludico della lingua, 9 『ひょっこりひょうたん島』. Il titolo è stato tradotto come “Unexpected Contradiction Island” ma anche “Bottle-gourd Island”. In effetti, l’avverbio “hyokkori” – fortuitamente, inaspettatamente – è accostato a “hyōtan” (nome dell’isolotto dei mari del sud in cui si svolgono le avventure dei piccoli protagonisti della serie guidati dal professor Sandee, e del vulcano omonimo che eruttando dà inizio alle avventure del gruppetto facendo navigare l’isola per i sette mari). Hyōtan, a seconda dei caratteri impiegati, può valere “ghiaccio e carbone” 氷炭, e quindi per traslato “contraddittorio, opposto”, oppure “zucca lagenaria” 瓢箪 (dalla caratteristica forma a fiasco, che dà la sagoma all’isola di Hyōtan). L’espressione “hyōtan kara koma da” (lett. “un cavallo esce da una zucca”) ha però il valore di “evento del tutto inatteso”; l’uso dello hiragana nel titolo impedisce dunque di esplicitare il significato, ma aumenta la polisemia.


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le tematiche e il frequente ricorso alla parodia gli guadagnano l’etichetta di shingesakusha.10 Nel 1984 Inoue fonda, come accennato in precedenza, una propria compagnia teatrale, dandole il nome che più ricorre nella sua esperienza artistica e personale: Komatsu-za こまつ座.11 Da quel momento i numerosi testi teatrali da lui prodotti saranno messi in scena principalmente dalla compagnia Komatsu, ma scriverà anche per il Shinkokuritsugekijō 新国立劇場.12 Nonostante la vastissima produzione editoriale di Inoue, la sua opera di fiction resta a tutt’oggi quasi sconosciuta al di fuori del Giappone.13 Alcune opere teatrali sono state invece tradotte e rappresentate in più Paesi: in particolare, una pièce del 1994 ambientata a Hiroshima nell’immediato dopoguerra, Chichi to kuraseba (『 父と暮らせば』)14 è stata oggetto di traduzioni, reading e rappresentazioni in Francia, Russia, Cina, Inghilterra, America, Germania e recentemente anche Italia, proprio a Bologna. 15 10 新戯作者, “nuovo gesakusha”. Inoue stesso non ha mai nascosto la profonda ammirazione per la letteratura Edo e il lavoro dei gesakusha in particolare, da cui ha più volte tratto ispirazione (fra le opere che vi fanno esplicito riferimento: la raccolta di racconti Gesakusha meimeiden (『戯作者銘々 伝』“Vite di scrittori del gesaku”, 1979); il testo per il teatro Omote-ura Gennai kaeru gasssen (『表 裏源内蛙合戦』“La battaglia delle rane dei due Gennai”, 1971); Edo murasaki emaki Genji (『江戸 紫絵巻源氏』“Il rotolo illustrato viola Genji di Edo”, 1972); Shin Tōkaidō gojūsan tsugi (『新東海 道五十三次』“Le cinquantatre nuove fermate del Tōkaidō”, 1976). Variegata anche la produzione saggistica di Inoue sull’argomento (in particolare si vedano i saggi contenuti in Parodei shigan 『パロ ディ志願』 , 1979). 11 www.komatsuza.co.jp [gennaio 2012]. 12 Tra le opere realizzate per il Nuovo Teatro Nazionale, si ricorda la “Trilogia del Processo di Tokyo” (『東京裁判三部作』2001 – 2006), che ha come tema la responsabilità individuale dei comuni cittadini durante il secondo conflitto mondiale. 13 Oltre alla già citata traduzione inglese di Mokkinpotto shi no atoshimatsu, mai raccolta in volume, Roger Pulvers ha pubblicato nel 1978 su Japan Quarterly (Vol. 25, n°1: pp. 73-107; n°2: pp. 181-211) una traduzione parziale di Bun to Fun, con il titolo “Boon and Phoon”. In traduzione francese sono stati pubblicati: Je vous écris (Jūninin no tegami『十二人の手紙』, 1978, a cura di Karine Chesneau, Ed. Philippe Picquier, Parigi 1997); Maquillages (Keshō 『化粧』, 1982, tradotto da Patrick De Vos, L’Harmattan, Parigi 1986); Les 7 roses de Tokyo (『東京セブンローズ』1999, tradotto da Jacques Lalloz, Ed. Philippe Picquier, Parigi 2011), opera selezionata nell’ambito del JLPP – Japanese Literature Publishing Project – del Bunkachō per la pubblicazione anche in inglese, tedesco e russo. Di prossima pubblicazione in lingua inglese la traduzione di Shinshaku Tono monogatari (『新釈遠野物語』, 1976), New Tales of Tono, a cura di Christopher A. Robins per Hawai’i UP. 14 Le traduzioni di Chichi to kuraseba (Shinchōsha 2011), opera scritta in dialetto di Hiroshima, sono numerose e alcune sono state pubblicate dalla casa editrice della compagnia Komatsu; la versione inglese è stata curata da Roger Pulvers e pubblicata nel 2004 con il titolo The face of Jizo, quella tedesca da Isolde Asai (Die Tage mit Vater, 2006) e quella italiana da Franco Gervasio e Ai Aoyama (Mio padre, 2006). Il dramma è stato adattato per il cinema dal regista Kuroki Kazuo nel 2004 (premio Mainichi eiga konkūru lo stesso anno). 15 La rappresentazione di Mio padre - coprodotta da Komatsuza, Comune di Bologna e Fraternal Compagnia – è avvenuta l’8 novembre del 2011 presso “Teatri di vita” alla presenza della figlia di Inoue, Maya, che ha ereditato la direzione della compagnia teatrale fondata nel 1984. Inoue Maya si è recata nella città di Bologna a un anno dalla scomparsa del padre per girare un documentario sul viaggio del


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I temi dell’eredità della guerra nella società giapponese contemporanea e dell’impegno civile per la salvaguardia della pace e dell’antimilitarismo sono centrali nella produzione artistica di Inoue, ma anche fondativi per l’impegno politico e sociale profuso negli anni. Nel 2004 è uno dei nove soci fondatori – tra cui figurano intellettuali come Ōe Kenzaburō e Katō Shūichi – del Kyūjō no kai (九条の会, “Associazione dell’articolo 9”), gruppo promotore di numerose iniziative per la sensibilizzazione verso la necessità di salvaguardare intatti i valori pacifisti della carta costituzionale giapponese; negli anni successivi, in qualità di Presidente del Nihon Pen Club, ha più volte fatto sentire la propria voce per contrastare ad esempio la minaccia alla libertà d’espressione portata dalla proposta di una nuova legge sulla cospirazione (2006). Scrittore incredibilmente prolifico, ma lettore ancora più straordinario, Inoue ha donato nel 1987 parte della sua sterminata collezione di libri per la fondazione di una biblioteca nella piccola cittadina di Kawanishi, la Komatsu della sua infanzia: la Chihitsudō bunko 遅筆堂文庫 (“La biblioteca dello scrittore lento”) – a cui Inoue ha dato il proprio soprannome - contiene oltre duecentomila volumi, e dal 1994 è ospitata all’interno di un ampio centro culturale, il Kawanishimachi Friendly Plaza che contiene anche un teatro. Warai to kotoba Sarebbe dunque impossibile – e solo parzialmente utile ai fini di questa presentazione – dare conto qui dell’insieme dell’opera di Inoue che conta centinaia di scritti (più di sessanta scritti per il teatro, una quarantina di shōsetsu e circa cinquanta fra saggi e opere miscellanee). La definizione che ne ha dato Bungakukai nel numero speciale a lui dedicato all’inizio del 2011 – definizione che riprende la concezione di bungaku di Inoue stesso – sembra poter essere particolarmente efficace: Inoue Hisashi paragonava la letteratura ad un uccello: “la testa è la poesia, il busto il teatro, le due ali la narrativa (quella “popolare”, e quella “pura”), la coda che fa da timone è la critica”, diceva. Lo stesso Inoue incarnava questo uccello.16

La letteratura è dunque, nella visione di Inoue un’unica creatura, un unico organismo in cui tutto si tiene. E la sua intera opera è senz’altro non solo varia nelle forme espressive, ma soprattutto altamente intertestuale e profondamente dialogica. Un insieme eterogeneo e multiforme, sorretto dallo spirito “umanista” che ricordacommediografo nella città emiliana compiuto otto anni prima, prodotto dalla NHK e trasmesso il 31 gennaio 2012. (Cfr.: “Hisashi Inoue. Il testamento del drammaturgo innamorato di Bologna”, La Repubblica sezione Bologna, p. 15, 8/11/2011). 16 「井上ひさしは「文学」を一羽の鳥にたとえていた。頭が詩、胴体が芝居、両翼が小 説 (エンタテインメントと純文学と)、しっぽは舵をとる批評である、と。 井上ひさ しこそまさにそれらすべてを体した一羽の鳥だった。」 Kokubungaku Kaishaku to kanshō, “Tokushū: Inoue Hisashi to sekai”, vol.2, 2011, p. 5.


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va Pulvers, e tutto giocato – è il caso di dirlo, considerando il grado di divertissement intellettuale che dà forma a molti dei suoi scritti – su due perni fondamentali: kotoba (la “parola”) e, più d’ogni altra cosa, warai (il “riso”). “Costruire il riso attraverso le parole – afferma in un’intervista rilasciata alla NHK nel 200717 – è la più umana delle attività” (「言葉で笑いをつくっていくのが一番人間らしい仕事と思 う」): la sua definizione ricorda senz’altro da vicino quella di François Rabelais nella dedica del Gargantua (“Mieux est de ris que de larmes escripre/ Pour ce que rire est le propre de l’homme”). Tutta la produzione di Inoue Hisashi ha come pernio la parola e la sperimentazione delle sue infinite potenzialità creative: le possibilità ludiche offerte dalla lingua giapponese (e dai dialetti, in particolare quello della sua regione d’origine) sono al centro della concezione letteraria di Inoue, come afferma in un’intervista del 1979: Le opere di narrativa sono fatte di parole. Ovvero, le parole sono l’unico mezzo attraverso il quale lo scrittore può condividere il mondo di finzione che vuole costruire con il lettore. In questo senso, i giochi di parole sono una delle armi principali dello scrittore. E se “giochi di parole” può avere una reazione negativa, allora chiamiamole “sperimentazioni linguistiche.18

In un saggio dedicato alla parodia qualche anno prima (Parodi shigan, 「パロ ディ志願」, 1972) aveva addirittura affermato che “i giochi di parole sono il destino della lingua giapponese”.19 Proprio gli elementi che costituiscono gli assi portanti della sua complessa opera, sono anche quelli che ne impediscono la diffusione oltre i confini nazionali: il comico, l’uso di giochi di parole e dialetti regionali, sono fra gli elementi che maggiormente resistono alla traduzione. Pochissime delle molteplici opere di Inoue sono tradotte: le poche che esistono, sono spesso manchevoli di alcune parti20 o sono poco rappresentative soprattutto dell’amplissima produzione parodica dello scrittore. Inoue è infatti senza dubbio, come vedremo, uno dei maggiori protagonisti del cosiddetto parody boom iniziato in Giappone negli anni Settanta. Inoue e la parodia The word “parody” (parodii) was not commonly used in Japan even before the war, and certainly not during it. Not until the 1970s did it become part of everyday Japanese, being used widely in weeklies and in pictorial magazines and comics. This probably means that, because the movement to criticize authority 17

L’intervista è visionabile all’indirizzo: http://www.dailymotion.com/video/xcx56s__people [gennaio 2012]. 18 Kokubungaku Kaishaku to kanshō, vol. 24, 15, 1979. 19 「語呂合わせは日本語の宿命なのである」. Dal saggio incluso nella raccolta Parodi shigan, Chūōkōronsha, Tokyo1979, p. 108. 20 Si veda la nota 13 per una breve sinossi dei testi disponibili in traduzione.


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lost the vigour it used to have in the period 1945-1970 and was stifled in the 1970s and 1980s, interest was shown in a mode of expression which tried to hint at something different under the cover of universally accepted sayings. This was also a revival of the popular culture which had existed in the middle Edo Period, when the foreign loan word parodii did not exist.21

Come rilevato da Tsurumi Shunsuke e Aoyama Tomoko,22 a partire dagli anni Settanta del secolo scorso il termine parodi (パロディ o anche parodii パロディ ー, le due trascrizioni vengono usate indifferentemente) diviene ubiquo e trasversale in tutti i campi della cultura e della società giapponesi. Il parodi būmu (“boom della parodia”, パロディ・ブーム) (ri)porta in auge il comico, il gusto per un uso ludico e irriverente della lingua, la caricatura e finanche la satira e il dotabata, lo slapstick; ma l’abuso che viene fatto del termine disorienta riguardo alla sua effettiva portata anche gli stessi parodisti (o coloro che la critica o i mezzi di comunicazione suppongono e definiscono tali). Wada Makoto 和田 誠 (1936- ), illustratore e regista, produce in quegli anni numerosissime immagini “parodiche” in particolare per Hanashi no tokushū (「 話の特集」 )23. Wada, nella postfazione della raccolta Rondon Pari (『倫敦巴里 =London Paris』, 1977) si oppone alla moda di definire parodii qualsiasi cosa ne imiti un’altra. Per Wada il termine può essere applicato solo a quelle opere che abbiano la “forza di prendere di mira l’autorità ed esautorarla, abbassandola” (「本 当に権威を引きずり下ろすくらいの力があるもの」)24: “se lo si confronta con questa definizione, quello che faccio io” – conclude - “è piuttosto a livello di 25 mojiri” 「モジリ」程度). ( Quale sia il “livello mojiri” per Wada non è però chiaro. L’artista chiama in causa una certa confusione terminologica che effettivamente è costante non solo nel lessico dell’epoca, ma anche nella maggior parte della letteratura critica successiva. Parodi e mojiri vengono comunemente usati come sinonimi, per quanto il secondo termine richiami ad una tecnica retorica precisa sviluppatasi in particolare nello zappai 雑俳 di periodo Edo e diffusasi in buona parte della letteratura dell’epoca. Al di là delle disquisizioni terminologiche, quello che risulta particolarmente interessante, dal nostro punto di vista, è la duplice riflessione che scaturisce dal saggio 21

Tsurumi Shunsuke, A Cultural History of Postwar Japan [Iwanami shoten, 1984], Routledge, New York 2011, p. 114. 22 Aoyama Tomoko, “Parodi no aru nihongo kyōiku”, Sekai no nihongo kyōiku, 7, 1999, pp. 3-4. 23 Rivista pubblicata tra il 1965 e il 1995, pionieristica nel campo delle mini-komi-shi ミニコミ誌 in voga negli anni ’60 e ’70, periodici indipendenti che si opponevano allo strapotere del “mass-communication”). Hanashi no tokushū è uno dei luoghi in cui si sperimentano maggiormente in quegli anni la parodia e le sue varie declinazioni, e numerosi sono gli autori e gli illustratori che contribuiscono a più livelli. Anche Inoue Hisashi serializza su questa rivista varie opere, in particolare negli anni Settanta. 24 Wada Makoto, Rondon Pari = London Paris 『倫敦巴里= ( London Paris』 ), Hanashi no tokushū, Tokyo 1977, p. 158. 25 Ibidem.


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di Wada: in prima istanza, il discorso sulla parodia nel Giappone contemporaneo raramente prescinde dall’idea di un “ritorno ad Edo”, nella forme e nell’ispirazione (e dal continuo riferimento al mojiri deriva una quasi comune accettazione di una parodia che abbia necessariamente carattere comico e volgarizzante, anche quando si gioca a livelli di piena coscienza metatestuale); in secondo luogo, molti degli autori che hanno prodotto “parodia” in Giappone fra gli anni Settanta e i Novanta, si sono fatti carico di una riflessione metatestuale che costituisce una parte rilevante della letteratura critica in lingua giapponese concernente le pratiche intertestuali. Spesso, i due aspetti si sovrappongono, e gli autori contemporanei hanno realizzato il proprio discorso sulla parodia scegliendo di rielaborare la tradizione premoderna unendola a una coscienza letteraria “globale”, per creare una letteratura nuova. L’atto della lettura acquisisce per questi scrittori, e per Inoue in particolare, una dimensione metaforica significativa: “il nostro atto della lettura ha alla base la volontà di connetterci col passato; l’atto dello scrivere ha in sé la speranza di essere connessi col futuro”26 dice Inoue nel suo “Libro fatto in casa sull’arte dello scrivere”. Grande sperimentatore nella prosa come nel teatro, Inoue è però allo stesso tempo fortemente legato alla tradizione letteraria giapponese, al punto da meritare come abbiamo già ricordato l’appellativo di shin-gesakusha. Nel medesimo saggio, scritto all’inizio degli anni Ottanta, esprime la propria perplessità per la letteratura giapponese che sembra si stia inevitabilmente trasformando in un prodotto di massa (“prodotto in massa, pubblicizzato in massa, in massa acquistato e in massa buttato via”), mostrando un certo pessimistico conservatorismo e una esplicita disapprovazione per le modalità in cui si esprime il parodi būmu: perché la parodia esista, è necessario che ci sia una fonte = tradizione. Le fonti della parodia recente, però, sono per lo più slogan e pubblicità. Invece di risalire indietro nel tempo, semplicemente si copiano e si parodiano fonti contemporanee. È così che rimaniamo tagliati fuori dal nostro passato. Ed è così che non c’è più speranza di futuro.27

La parodia auspicata da Inoue si colloca nella paradossale posizione di garante della tradizione letteraria essendo essa stessa però esclusa dal junbungaku, o “letteratura pura”. Inoue sa bene, in quanto erede dell’arguta comicità del gesaku, che nel processo di ripetizione-con-differenza che è proprio della parodia, la tradizione è messa in discussione e il canone volgarizzato, “abbassato” come indicato da Wada con il suo “hikizuri orosu” (引きずり下ろす)28. 26

Inoue Hisashi, Jikasei bunshō tokuhon (“Libro fatto in casa sull’arte dello scrivere”), Shinchōsha, Tokyo 1984, p. 12. 27 Ivi, p. 13. 28 Wada a fornisce un interessante esempio di questo “abbassamento”: tra il 1970 e il 1975, infatti, l’artista pubblica su Hanashi no tokushū una serie di illustrazioni dedicate a Yukiguni, l’opera considerata universalmente il capolavoro di Kawabata Yasunari. Due anni dopo l’attribuzione del premio Nobel a Kawabata, Wada propone il suo Yukiguni: mata wa Noberu shō wo moraimashō (“Il paese delle nevi: prendiamoci un altro premio Nobel!”, 「またはノーベル賞をもらいましょう」), realizzando


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La peculiarità del contributo di Inoue all’attenzione per la parodia in quegli anni, è indubbiamente legata alla produzione critica sull’argomento. Particolarmente interessante è la definizione data nel saggio del 1979 Parodi shian 「パロディ思案」 ( , “Riflessioni sulla parodia”),29 che sfrutta efficacemente una similitudine e un ossimoro: essa è paragonata ad uno specchio che deforma (yugamu, 歪む), ma in maniera precisa, accurata (seikaku ni 正確に).30 Lo specchio confonde la destra con la sinistra ma riflette esattamente la forma delle cose: la parodia è l’esatto riflesso della “forma, così come del cuore delle cose” (mono no katachi ya kokoro 「もの の形やこころ」),31 ma allo stesso tempo è lo strumento che ne esagera, ingigantisce, distorce, gonfia le peculiarità, positive o negative che siano; il riso nasce dalla presa di coscienza di uno scarto tra l’immagine reale e quella riflessa. Nel già citato saggio Parodi shigan mette invece in relazione humour e parodia, esplicandone il rapporto di complementarietà: se la parodia abbassa le cose grandi per minimizzarle e criticarle, lo humour innalza le cose piccole in modo da portarle al livello di quelle grandi. Inoue, inoltre, riprende i principi del gesaku e li fa propri: in particolare, il perseguimento dello “shukō wo korasu” 「趣向を凝らす」 ( , “ingegnarsi per lo shukō”) e del gyaku 「逆」 ( , “inversione”, ma anche “sovversione”). Il primo procedimento fa riferimento alla dialettica creativa shukō 趣向/sekai 世 界 fondamentale nel gesaku: l’interazione tra un dato “sekai” (un tema, soggetto, ipotesto) e un inatteso “shukō” (la trasposizione di un “sekai” in nuovo contesto) deriva dai metodi di composizione del teatro kabuki. Nel kabuki, sekai è la storia che l’autore presuppone conosciuta dal suo pubblico; shukō sono tutte le innovazioni che egli introduce nella trama per creare una nuova opera.32 Il secondo procedimento è complementare al primo: “the process of continuous upset or inversion on a multiplicity of levels”, come sintetizza Cohn, è essenziale per comprendere la portata della parodia di Inoue, poiché esso – integrandosi con la dialettica ripetizione/sostituzione che è propria del procedimento shukō/sekai – è riprodotto dall’autore ad ogni livello della creazione intertestuale. On the most basic level of comedy are the smallest irreducible units, the joke and its dramatized version, the gag. These comic atoms appear in a vast variety in totale trentadue caricature di scrittori contemporanei e altrettanti pastiche dell’incipit di Yukiguni prendendo in prestito lo stile degli autori ritratti (che vanno da Hoshi Shin’ichi a Ōe Kenzaburō, passando per Murakami Ryū e lo stesso Inoue Hisashi): autori, in quegli anni, assai lontani dall’immagine internazionale di “letteratura giapponese” che le traduzioni inglesi di Kawabata – e non solo - hanno fortemente contribuito a creare. 29 Saggio contenuto in Parodi shigan, Chūōkōronsha, Tokyo 1979, pp. 39-45. 30 Ivi, p. 39. 31 Ivi, p. 40 (sottolineato nel testo originale). 32 Nel saggio “Shukō wo ou”, contenuto in Parodi shigan (cit.), Inoue cita la definizione di shuko/sekai data da Namiki Gohei I (1747 – 1808), attore ed autore di kabuki, nel suo Kezairoku. Per una visione d’insieme dell’argomento, si veda: Laura Moretti, “Quando la creazione si fa allusiva: la retorica testuale dello shukō nelle forme narrative del periodo Tokugawa”, Asiatica Venetiana, Dipartimento di Studi Orientali dell’Università Ca’Foscari di Venezia, vol. 5, 2000, pp. 59-84.


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of elements and compounds. […] The gyaku principle that informs so many of the atomic units can be expanded to function at the highest levels of narratives, their overall themes and structures, as well as at every level in between. […]33

Un esempio di come questi due principi funzionino nelle opere di Inoue è sicuramente Edo murasaki emaki Genji (『江戸紫絵巻源氏』1972 – 1978, serializzato su Hanashi no tokushū): non si tratta semplicemente di una versione farsesca e volgarizzata del Genji monogatari, ma è anche una parodia di Koshoku ichidai otoko di Saikaku e ovviamente del Nise murasaki inaka Genji di Ryūtei Tanehiko (18151842) da cui riprende il titolo: se Tanehiko aveva trasposto Genji nel periodo Muromachi, Inoue lo fa nel periodo Edo, riprendendone il meccanismo shukō/sekai. Ma lo specchio deformante della parodia non agisce sul celebre ipotesto Heian: esso serve per prendersi gioco dell’ipocrisia e del servilismo verso le autorità politiche e letterarie del suo tempo. Oggetto della parodia di Inoue non sono solo testi del periodo Edo, ma anche di autori canonici della modernità. Un esempio sono sicuramente i vari riferimenti alle opere di Kawabata – e in particolare al celeberrimo incipit di Yukiguni – in vari suoi testi. Quello di Kawabata è in verità un caso assai particolare: dopo aver ricevuto il più alto dei riconoscimenti internazionali (il premio Nobel per la letteratura nel 1968) e aver proiettato la letteratura giapponese sulla scena mondiale, le sue opere diventano oggetto di parodie di ogni tipo in patria. È particolarmente significativo che l’incipit di Yukiguni venga preso di mira in una breve, ma significativa pagina dell’opera più importante di Inoue, Kirikirijin. In questo lungo e complesso testo che Robins definisce “a topsy-turvy parody of the construction of the Meiji nation-state”34 Inoue racconta la vita di una comunità secessionista che vive nel nord di Honshū e che ha dichiarato al Giappone la propria indipendenza. Kirikirijin ha, come accennato in precedenza, fin dalla sua pubblicazione all’inizio degli anni Ottanta, un enorme successo di critica e di pubblico. La sua fama va però ben oltre le riviste di letteratura e gli scaffali delle librerie: inserendosi nelle dinamiche di relazione dialettica tra l’entusiasmo per il kokusaika (“internazionalizzazione”) e la nostalgia per il furusato (o “villaggio natìo”) onnipresenti in quegli anni, la popolarità raggiunta da Kirikirijin arriva a influenzare la società giapponese dando un nuovo impulso al fenomeno dei mini-dokuritsukoku (ミニ独立国).35 33

Cohn Joel R., Studies in the comic Spirit in modern Japanese Fiction, Harvard UP, Cambridge Mass. 1998, p. 161. 34 Christopher Robins, “Revisiting Year One of Japanese National Language: Inoue Hisashi’s Literary Challenge”, Japanese Language and Literature, Vol. 40, 1, 2006, p. 47. 35 Queste “mini-nazioni indipendenti” furono fondate in tutto il Giappone verso la fine degli anni Settanta “for a variety of overlapping objectives, including attracting tourists both as a revenue-building strategy and to counter the adverse effects of the outmigration of young adults. The protection of the environment is another motive, and the mini-nation movement also critiques through parody domi-


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La lingua di Kirikiri, il kirikirigo (吉里吉里語), variante del dialetto della regione del Tōhoku, ha un ruolo determinante tanto nello stile quanto nella più vasta strategia parodica attuata da Inoue nelle oltre ottocento pagine che costituiscono il testo: la lingua regionale, comunemente nota con il termine derisorio di zūzūben (ズーズー弁)36 è elevata al rango di lingua nazionale, secondo quel principio di inversione che è proprio del procedimento parodico dell’autore. Kirikiri è il Paese dell’“inverso”: i ruoli di potere non sono in mano a saggi anziani ma a giovani e folli, le prostitute richiedono servizi sessuali ai clienti e i nomi propri di persona precedono il cognome. Yūichi Komatsu, il più eminente studioso di lingua nazionale, autore del Kirikiriron scritto in difesa dell’unicità della cultura di Kirikiri, è anche il traduttore di un’interessante serie di volumi pubblicati dal “Kirikiri Pen Club”. Il titolo della serie è “Opere complete dell’Asia e dell’Africa”, e il posto che occupano nelle librerie di Kirikiri è quello dello scaffale denominato yōsho (洋書, “Letteratura occidentale”). Lo scrittore Furuhashi, il protagonista arrivato da Tokyo per caso a Kirikiri, sfoglia il primo volume e capisce subito che si tratta delle traduzioni in kirikirigo delle opere canoniche della letteratura giapponese moderna (la selezione comprende autori come Sōseki, Dazai, Kobayashi Hideo). Ovviamente, non può mancare un Yugiguni di Kawabanda Yashinari. L’incipit è indubbiamente significativo: 国境の長げえトンネルば抜けっと雪国だったっちゃ。

(Kokkyō no nangee tonneru ba noketto yugiguni dattatcha)

Come si può notare, Inoue crea una sovrapposizione di lingue, dando attraverso piccoli caratteri (rubi) sovrapposti la lettura del passaggio in kirikirigo, che dà alla scrittura un tono immediatamente colloquiale. The original detached tone of cold aestheticism is replaced by the earthy, convivial voice of the local raconteur sharing a story with neighbors around the sunken hearth: “When we popped out of that long tunnel, there it was: the Snow Country”.37

nant Japanese cultural practices, conspicuous consumption and capitalist excesses. […] Peripheral to the dominant discourse of cultural nostalgia, these mini-nations parody that discourse […] by posturing as “other” to normative Japanese surroundings. The importance of parody as a political strategy cannot be dismissed as frivolous or ineffectual.” Jennifer Robertson, “Empire of Nostalgia: Rethinking ‘Internationalization’ in Japan Today”, Theory Culture Society, vol. 14, 1997, p. 108. 36 Zūzūben (o “dialetto zuu zuu”) descrive con una onomatopea la percezione generale, fuori dal Tōhoku, che i dialetti di questa regione del nordest dell’isola di Honshū, siano costituiti da un’indistinta massa di suoni riducibili allo zuu. “Zūzūben is a false signifier that erase the vast internal differences between regional dialects within the Tōhoku region until they are reduced to a state of absolute incomprehensibility, in other words, the antithesis of national language”. Christopher Robins, “Revisiting Year One of Japanese National Language”, cit., p. 38. 37 Ivi, p. 48.


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Yukaina koto wa, aku made yukai ni. Quello presentato non è che un esempio dei molteplici passaggi significativi della complessa opera di Inoue. Una complessità che egli stesso ha riassunto efficacemente in quello che molti hanno ritenuto essere il suo testamento spirituale, ricordato nel necrologio dello Asahi shinbun38: Le cose difficili, in maniera facile むずかしいことをやさしく

Quelle facili, in profondità やさしいことをふかく

Quelle profonde, in maniera divertente ふかいことをおもしろく

Le cose divertenti, con serietà おもしろいことをまじめに

Quelle serie, con divertimento まじめなことをゆかいに

E poi, le cose gioiose

そしてゆかいなことは

Ostinatamente con gioia. あくまでゆかいに

Fig.1 Wada Makoto, “Sharaku Ringo Star”, 1966 38

Fig. 2 Wada Makoto, “Yukiguni show – Inoue Hisashi”, Hanashi no tokushū, 1970.

“Inoue Hisashi san seikyo” (“La scomparsa di Inoue Hisashi”), “Tensei jinko”(rubrica “Vox populi, vox dei”), Asahi Shinbun, 13 aprile 2010. http://www.asahi.com/shimbun/nie/kiji/kiji/pdf/100419.pdf [gennaio 2012].


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Inoue Hisashi e il parodi būmu

Inoue Hisashi and the parodi būmu Inoue Hisashi, who passed away on April 2010, has been a prominent figure in the world of Japanese post-war culture. In this paper, which was delivered one year later in his beloved Bologna, I try to give a general presentation of Inoue’s work and to focus on his relevant contribution to the so-called “parody boom” started in Japan in the Seventies.

井上ひさしとパロディ・ブームとの関係をめぐって

カテリーナ・マッツァ 2010年4月に亡くなられた井上ひさし氏は戦後日本文化の大立者 であった。井上氏の敬愛したボローニャ市で発表した本論文において は、井上の作品を紹介して、特に70代のパロディ・ブームに関する 著作に注力したい。


Rossella Menegazzo

Fotografia e immaginario fotografico nelle silografie dell’ukiyoe Bakumatsu e Meiji

L’introduzione della tecnica fotografica in Giappone intorno alla metà dell’Ottocento comportò un inevitabile e rivoluzionario mutamento dello sguardo, oserei dire maggiore rispetto a quello che fu l’impatto sulla cultura occidentale già formata da secoli alla tecnica prospettica di rappresentazione della realtà.1 Mutò lo sguardo del fruitore che, anche grazie all’utilizzo di dispositivi ottici, potenziò la sensibilità di osservazione e intuizione della realtà e della sua conseguente rappresentazione visiva; mutò la capacità descrittiva della realtà da parte di artisti e creatori di immagini che, anch’essi supportati da mezzi meccanici e ottici, seppero raggiungere nella riproduzione bidimensionale un livello di fedeltà al soggetto reale sempre più alto.2 Da un punto di vista meramente tecnico, il mezzo meccanico fotografico andò via via soppiantando la tecnica silografica realizzata invece manualmente da matrice in legno, che all’epoca rappresentava la più cospicua e redditizia fetta di mercato delle immagini dell’ukiyoe 浮世絵. Le caratteristiche di precisione e, idealmente, di infinita riproducibilità della fotografia aumentarono quello che era il potenziale già insito nella silografia, cioè la possibilità di produrre una quantità di multipli; qualità che permise da una parte la nascita di un mercato dell’immagine come souvenir, dall’altra di ottenere una resa realistica ancora più fedele al soggetto ritratto. Ciò si aggiungeva a un altro aspetto che affascinò particolarmente il pubblico locale e straniero in quei primi decenni di sperimentazione e diffusione della fotografia, ossia il tocco artistico dato alle immagini fotografiche giapponesi, in particolare con l’aggiunta del colore a mano all’immagine, che si discosta dalle esperienze fotografiche di qualsiasi altro Paese per intensità, raffinatezza e continuità con la tradizione pittorica autoctona. È evidente che sia i primi fotografi giapponesi sia gli stranieri che lavorarono in Giappone e contribuirono attivamente a questa prima produzione mantennero un forte legame con la tradizione estetica delle immagini del Mondo Fluttuante, trasfe1

Si veda Rossella Menegazzo, “Nuove visioni dall’Occidente. L’arrivo della fotografia in Giappone” Atti XXXIII Convegno di Studi sul Giappone, Milano 2009, pp. 259-273. 2 Si veda Rossella Menegazzo, “Anticipando il futuro: macchine e vere ‘vedute’”, in Gian Carlo Calza, Rossella Menegazzo (a cura di), Giappone. Potere e splendore 1568-1868, Federico Motta Editore, Milano 2009, pp. 315-317.


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Fotografia e immaginario dell’ukiyoe Bakumatsu e Meiji

rendone soggetti e modi sulla superficie fotografica, tanto da suscitare l’impressione nell’osservatore di essere di fronte a un già visto, come a un trasferimento naturale in fotografia dei soggetti e del gusto già affermati e noti nelle silografie e nei dipinti dell’ukiyoe. Ritratti di beltà femminili e di attori, vedute di luoghi celebri, ma anche scene di genere legate alla vita quotidiana e ai divertimenti della classe borghese li si ritrova similmente alle silografie sul nuovo supporto fotografico. Naturalmente con una caratteristica rivoluzionaria rispetto all’opera pittorica poiché, trattandosi di fotografie, si è di fronte a immagini che riproducono fedelmente il soggetto che “realmente” sta di fronte all’obbiettivo, pur tenendo da conto lo scarto “soggettivo” legato all’intervento del fotografo. Tuttavia in questa fedeltà di forme, manca nel primo periodo della fotografia l’aspetto tecnico coloristico che viene perciò affidato alla mano del pittore, che di nuovo ripete i canoni, gli stili e le tendenze già assimilati e affermati dall’ukiyoe. Un connubio di precisione tecnica e creatività artistica che solo in Giappone poteva trovare terreno così fertile all’interno di una tradizione estetica senza scalzarla completamente e diventandone piuttosto la naturale evoluzione. Il risultato sono immagini poetiche, affascinanti e allo stesso tempo evocative di un immaginario esotico del Giappone, che ripercorrono luoghi e situazioni già viste, riproponendole all’infinito fino a farle divenire archetipo nel piccolo formato della cartolina. Oggi più che mai questa produzione artistica fotografica è rivalutata e apprezzata all’estero come in Giappone: diversi sono gli eventi espositivi, le pubblicazioni e le scoperte di nuovi archivi fotografici che vengono proposti al pubblico e ai lettori.3 Anche se bisogna ammettere il prevalere, tutt’oggi, dell’aspetto fascinoso di queste immagini sulla ricerca e lo studio storico-artistico dei materiali. Di fatto, quello che risulta ancora pressoché sconosciuto e inosservato di questo processo di modernizzazione dello sguardo è l’aspetto reciproco della relazione pitturafotografia che implica anche una forte influenza della fotografia sulle silografie ukiyoe e sulle più tarde Yokohamae 横浜絵.4 Un impatto che può essere evidenziato attraverso l’osservazione di varie tipologie di soggetti che fecero capolino in seno all’ukiyoe a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento e che qui suddividerò per semplificazione in tre modalità di trattazione del fenomeno fotografico come si manifestò nelle silografie. Fotografia come scoperta della scienza occidentale In questa prima tipologia di immagini l’inserimento della fotografia, o di elementi a essa vicini, all’interno del soggetto della silografia è un richiamo esplicito all’oggetto fotografico in quanto simbolo di modernità oltre che di esotismo. 3 Da menzionare tra le ultime esposizioni e pubblicazioni in Italia sulla fotografia giapponese Meiji: Magda di Siena, East Zone. Antonio Beato, Felice Beato e Adolfo Farsari, fotografi veneti attraverso l’Oriente dell’Ottocento, (mostra e catalogo a cura di), Antiga Edizioni, Treviso 2011. Francesco Paolo Campione e Marco Fagioli, Ineffabile perfezione. La fotografia del Giappone 1860-1910, (mostra e catalogo a cura di), Giunti, Milano 2011. 4 Per approfondimenti sul tema si veda Yonemura Ann, Yokohama, Prints from Nineteenth-century Japan, Arthur M. Sackler Gallery, Washington, D.C., 1990.


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Fig. 1. Shōsai Ikkei 昇斎一景, Vari tipi di buona fortuna (Kaiun zukushi 開運ずくし), silografia policroma, seconda metà dell’Ottocento. Collezione: Japan Camera Industry Institute (JCII).

La macchina fotografica, insieme a tanti altri dispositivi ottici e meccanici provenienti dall’Occidente tra i quali il microscopio, il binocolo, il visore ottico per immagini, la lanterna magica, viene incorporata quale elemento moderno all’interno dei soggetti classici già affermati delle beltà e degli attori di teatro kabuki nel tentativo di stare al passo coi tempi e di rinnovare il tradizionale medium silografico. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la fotografia entra a far parte delle attività cittadine e alcune silografie testimoniano questa nuova presenza. Utagawa Hiroshige III 歌川広重三代目 (1843-1894)5 illustra con un trittico silografico policromo dal titolo Ricchezze di Tokyo. La moda di strada (Tōkyō han’ei hayari no ōrai 東京繁栄流行の往来)6 il movimento delle genti e le attività commerciali e di intrattenimento di fronte a uno studio fotografico, identificabile per l’insegna appesa all’esterno che riporta la scritta, sulla parte superiore, shashinkyō 写真鏡, termine con cui ci si riferiva alla fotografia. Sotto l’insegna sono esposte, quale campionario della produzione del laboratorio, una serie di immagini fotografiche in bianco e nero di ritratto e di paesaggio, che due donne, probabili clienti, stanno osservando. Di Shōsai Ikkei 昇斎一景7 è invece una silografia policroma (fig.1), realizzata nella seconda metà dell’Ottocento e intitolata Vari tipi di buona fortuna (Kaiun zukushi

5 Allievo di Utagawa Hiroshige, il suo nome alla nascita era Gotō Torakichi, prese in seguito il nome d’arte di Shigemasa e, dopo aver sposato la figlia del maestro Hiroshige, nel 1869 quello di Hiroshige III. 6 Il trittico è conservato presso il Hood Museum of Art, Hanover, USA, inv. PR.2004.55. 7 Le sue date sono sconosciute. Allievo di Hiroshige III fu attivo a Tokyo negli anni settanta dell’Ottocento e si dedicò particolarmente a immagini dei costumi e dei simboli della modernità.


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開運ずくし)8, che è parte di una serie dedicata ai Trentasei luoghi celebri di Tokyo (Tōkyō meisho sanjūroku gisen 東京名所三十六戯撰). Soggetto è la bagarre nata tra la folla assiepata su un ponte, in attesa del passaggio di un corteo con i carri, a causa di un fotografo di strada maldestro che, con la sua attrezzatura fotografica con treppiede alquanto ingombrante, urta un passante provocando la sua e dell’altro caduta. L’impostazione dell’immagine pone la figura del fotografo ambulante al centro della scena, descrivendola con tratti comici, veloci e stereotipati, adatti a un personaggio ben conosciuto dalla gente e che ne confermano la consuetudine della presenza nella vita quotidiana della città. Tra le tipologie di silografie che utilizzano la fotografia come elemento distintivo dell’Occidente ve n’è una particolarmente diffusa che vuole identificare la connotazione scientifica della cultura occidentale attraverso la rappresentazione della fotografia e del suo procedimento tecnico, affiancandola ai protagonisti stranieri che per primi la importarono in Giappone insieme a usanze, mode e modi propri della cultura d’origine. Un piccolo foglio policromo, conservato presso il Museo delle Navi Nere (Kurofunekan 黒船館) di Niigata, ritrae una prostituta di Shimoda 下田 in posa davanti a una macchina per dagherrotipo accanto a un uomo occidentale, mentre altri due sono impegnati a scattare la fotografia. Siamo nel 1854 e il fotografo è Eliphalet Brown Junior (1816-1886)9 al seguito della missione navale del Commodoro Perry che portò all’apertura dei porti del Giappone all’Occidente. Una scritta inserita nell’immagine ci conferma che la foto fu scattata presso il giardino del Daianji 大 安寺. Mentre egli era intento nel suo compito di registrazione dei primi dagherrotipi di indigeni giapponesi a Shimoda, la sua figura altrettanto esotica agli occhi dei giapponesi divenne a sua volta soggetto di questa silografia, dimostrando la curiosità reciproca nell’incontro tra le due culture. L’equipaggiamento per dagherrotipo, la sedia su cui la prostituta viene fatta sedere, gli abiti dei tre uomini, i loro tratti somatici accentuati, le folte barbe e i loro gesti sono gli elementi che descrivono l’occidentalità della situazione; diversamente la manica del kimono portata al volto dalla donna, con una gestualità tipicamente giapponese a celare l’imbarazzo, lascia intendere l’estraneità del mezzo fotografico alla popolazione giapponese e la forzatura della messa in posa per il ritratto dello straniero con la prostituta del posto.10 Diversa è l’atmosfera delle silografie di Ichikawa Yoshikazu 一川芳員 (attivo

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Una stampa è conservata presso il Japan Camera Industry Institute di Tokyo. Sul lavoro di Eliphalet Brown al seguito del Commodoro Perry in Giappone si veda Terry Bennett, Photography in Japan 1853-1912, Tuttle Publishing, Tokyo, Rutland, Vermont, Singapore 2006, p. 27. 10 L’immagine porta nell’angolo in alto a destra un sigillo con la dicitura “archivio Perry” (ぺルリ文 庫), conservato presso il Museo delle Navi Nere di Shimoda, prima città di sbarco della delegazione Perry nel 1854 e luogo in cui avvenne la firma del primo trattato di apertura dei porti giapponesi. Diverse immagini come queste circolarono nel formato della fotografia e pittorico. L’esempio più eclatante è certamente il Rotolo illustrato di Shimoda 下田絵巻 che illustra tra gli avvenimenti del soggiorno di Perry anche una scena simile a quella qui descritta che vede alcuni membri del gruppo americano in posa di fronte a una macchina per dagherrotipo con una prostituta locale. 9


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1850-1870)11 realizzate negli anni sessanta dell’Ottocento. Due esempi in particolare mostrano una coppia di stranieri identificati nel titolo della silografia con il loro Paese di provenienza: Russi (Roshiajin 魯四亜人) e Francia (Furansu 俤蘭 西 ).12 I primi passeggiano sulla banchina in riva al mare; dietro di loro una nave occidentale con le vele ammainate; lui probabilmente in uniforme di marina porta l’ombrellino per il sole e un bastone, lei, negli ampi abiti ottocenteschi, tiene invece in mano un’immagine colorata di media dimensione con il ritratto di una coppia che sembra corrispondere a loro. Uno scatto fotografico acquistato in uno degli studi fotografici dell’epoca o, più probabilmente, una silografia policroma simile a quella in questione, un’immagine nell’immagine che testimonia l’uso da parte degli stranieri di portare con sé questo genere di oggetti come ricordo dal Giappone. Ma anche come quello delle immagini fosse un mercato fiorente e costituisse un mezzo anche di entrata in Giappone di moneta straniera in un’epoca in cui il Paese iniziava il suo processo di modernizzazione e occidentalizzazione. La coppia di francesi, l’uomo vestito in uniforme simile a quella del russo, la donna in un ampio abito con scialle e cappello secondo la moda europea dell’epoca, è invece intenta nel procedimento fotografico. Non c’è alcuna ambientazione, l’attenzione è focalizzata unicamente sui materiali e l’azione fotografica che identificano di fatto la Francia, patria dell’invenzione. L’uomo con il telo sulla testa dietro la macchina su treppiede è il fotografo pronto per un nuovo scatto, mentre la donna si muove alle sue spalle continuando a tenere lo sguardo attento su di lui e reggendo un’immagine su lastra su cui si intravede un ritratto già sviluppato. Di fianco alla coppia, un piccolo tavolino con delle bottigliette, forse liquidi di sviluppo, e delle lastre ancora vergini. Un ultimo esempio di soggetto che associa la fotografia a personaggi stranieri, sempre di Yoshikazu, mostra l’interno di un elegante edificio in muratura in stile occidentale con diverse persone raccolte vestite secondo la moda europea (fig.2). In primo piano un signore europeo è piegato sulla grande macchina fotografica puntata verso l’esterno pronto a scattare, mentre un secondo tiene la porta aperta per permettere lo scatto. Il titolo, stampato a grandi caratteri sul bordo superiore della silografia, è Rappresentazione dello specchio copia del vero straniero (Gaikoku shashinkyō no zu 外国写真鏡之圖)13 e ancora una volta la fotografia è identificata con il termine shashinkyō, come nella stampa di Hiroshige III. A partire dagli anni settanta dell’Ottocento la presenza della fotografia si riscontra anche in silografie policrome con soggetti giapponesi classici quali le beltà (bijnga 美人画)e gli attori di teatro kabuki (yakushae 役者 絵), che continuano a essere proposti fino in epoca Meiji (1868-1912) con uno stile e una coloristica rinnovati e l’inserimento di elementi alla moda. 11

Ufficialmente noto come Utagawa Yoshikazu, le sue silografie sono firmate come Ichikawa Yoshikazu. Le due silografie sono datate 1861 e conservate presso il Philadelphia Museum of Art, inv. 1968165-55; 1968-165-47. 13 La silografia è datata 1860 ca. ed è conservata presso il Japan Camera Industry Institute di Tokyo. Si veda Ozawa Takeshi, Bakumatsu – Meiji no shashin, Chikuma Gakugei Bunko, Tokyo 1997, p. 13. 12


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Fig. 2 Ichikawa Yoshikazu 一川芳員, Rappresentazione dello specchio copia del vero straniero (Gaikoku shashinkyō no zu 外国写 真鏡之圖), silografia policroma, 1860 circa. Collezione Japan Camera Industry Institute (JCII).

Fig. 3 Toyohara Kunichika 豊原国周, Specchio dei sentimenti e dei costumi dell’epoca moderna. La fotografia (Kaika ninjō kagami. Shashin 開花人情鏡 写真), silografia policroma, 1878, Collezione: Japan Camera Industry Institute (JCII).

Eloquente è Specchio dei sentimenti e dei costumi dell’epoca moderna. La fotografia (Kaika ninjō kagami. Shashin 開花人情鏡 写真) di uno degli ultimi celebri maestri della silografia ukiyoe del periodo Bakumatsu, Toyohara Kunichika 豊原国周 (1835-1900).14 Egli fece della modernizzazione del Giappone il fulcro delle sue rappresentazioni, pur continuando sul filone dei ritratti di attori e di beltà. La silografia qui citata (fig.3) ritrae in primo piano, di profilo a tre quarti, un’elegante donna giapponese vestita con un kimono dai colori sgargianti vicino a una fotocamera su treppiede con il telo nero oscurante lasciato cadere da un lato. Nella mano destra trattiene con destrezza un piccolo oggetto: è il tappo dell’obbiettivo che lascia intendere sia stato rimosso e che quindi la donna stia tenendo conto dei secondi che servono allo scatto della foto prima di richiuderlo. Una esplicita dichiarazione di modernità e una testimonianza della popolarità della fotografia all’epoca se si considera che la beltà ritratta in questo caso sembra essere una delle prime fotografe giapponesi del periodo Meiji, Hanawa Yoshino 塙芳野 (1848-1884), specializzata in ritratti di attori presso il proprio studio fotografico a Tsukiji dietro il teatro kabuki.15 Interessante è anche il testo, ben leggibile, incorniciato e appeso alla parete di fondo alle spalle della fotografa, che spiega concisamente come il fotografo deve predisporsi per scattare una fotografia di buona qualità: 14

La silografia è datata 1878, secondo giorno del secondo mese Meiji 11 ed è conservata presso il Japan Camera Industry Institute di Tokyo. Si veda Ozawa Takeshi, Bakumatsu…, cit., p. 15. 15 Inoue Mitsurō, Shashin jikenchō: Meiji – Taishō – Shōwa, Asahi Sonorama, Tokyo 1993, pp. 9-11.


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Fig. 4 Morikawa Chikashige 守川周重, Immagine di attori davanti alla macchina fotografica (Sakigake shashin no yakushae 魁写真俳優画), silografia policroma, trittico, 1870, Collezione: Japan Camera Industry Institute (JCII).

Dopo aver adattato la direzione e l’intensità della luce alla statura del cliente e messo a fuoco al meglio sulla bocca, applicare i liquidi chimici nell’oscurità. Regolare la posizione del treppiede della macchina e mettere bene a fuoco. Alzare leggermente il telo nero e inserire la lastra di vetro. Facendo pazientare il cliente immobile per alcuni secondi, ne risulterà uno scatto perfetto.16

Altre due silografie con lo stesso titolo Immagine di attori davanti alla macchina fotografica (Sakigake shashin no yakushae 魁写真俳優画) inseriscono invece il soggetto fotografico nel contesto teatrale, continuando la modalità rappresentativa del ritratto di attori kabuki già popolare nelle silografie ukiyoe, ma con la finzione di una messa in posa davanti all’obbiettivo di una macchina fotografica che nella seconda metà dell’Ottocento stava davvero soppiantando il ritratto silografico. Sono due trittici del 1870, uno di Ochiai Yoshiiku 落合芳幾17 (1833-1904) l’altro di Morikawa Chikashige 守川周重 (attivo 1869-1882), entrambi ambientati all’interno del teatro Ichimuraza 市村座 di Tokyo con un gruppo di attori ritratto in primo piano a tre 16

Kyaku no doryō to kōsen no kagen to miyaku de shirumaai, hodoyoku awaseru kuchimai ni, nagasu kusuri ha kuraki o yoshi to shi, kikai no ashi no yaridokoro, chōdo zuhoshi no ategaite, nuno o makutte sashikomu garasu, sukoshi no aida no shinbō to miugoki mo senu sono naka ni umaku utsushita shuren no wazamai. (Hasegawa Hajime ryōki). 客 の度量と光線の加減と脈で識る間合。程よく合せる口真似に。流す薬剤は暗きを旨と し。器械の足のやりどころ。丁度図星のあてがいて。布を捲くりてさし込むがらす。少 しの間の辛抱と身動きもせぬ其中に味く冩した手練のわざまひ。『長谷川一嶺記』Traduzione di chi scrive. 17 Allievo di Utagawa Kuniyoshi era anche conosciuto come Utagawa Yoshiiku 歌川芳幾, ma più noto come Ochiai.


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quarti. Nel primo la macchina fotografica è posizionata sul treppiede in un angolo in fondo alla stanza con l’obbiettivo puntato verso gli attori, tuttavia questi girano le spalle alla macchina e sono rivolti verso l’osservatore come nei ritratti tradizionali yakushae. Nel secondo (fig.4) è uno degli attori ritratti in primo piano a tenere in mano la macchina fotografica, rivolta verso l’osservatore come gli stessi attori. Sono gli anni di massima fioritura degli studi fotografici, particolarmente a Tokyo dove molti si specializzano proprio nella fotografia di ritratto, che va velocemente diffondendosi sia per i ritratti di individui sia per i ritratti di gruppo, a uso ufficiale ma anche come curiosità giocosa, tanto che anche gli artisti dediti alle silografie di attori non possono esimersi dal registrare questa presenza fagocitante. Fotografia come mezzo per ritrarre fedelmente la realtà e in particolare la fisionomia umana Si tratta di una ricerca già iniziata con i mezzi che furono i precursori della fotografia – quali la camera lucida che facilitava la riproduzione fedele del soggetto che l’artista aveva di fronte e i vari dispositivi inventati per aiutare la tracciatura della silhouette – e che ebbe sviluppi di investigazione scientifica così come di intrattenimento. Alcune silografie del Settecento testimoniano già questo interesse mostrando tra i giochi per bambini e i divertimenti femminili la lanterna magica giocattolo o la proiezione di ombre per intrattenere un pubblico; altri esempi propendono invece per un’analisi più introspettiva della silhouette umana che è vista come espressione della parte più intima e nascosta del soggetto rappresentato, a volte evidenziando il contrasto tra il reale aspetto della persona che salva l’apparenza a discapito del sentimento più vero. È il caso del volume illustrato Lezioni di ombre per bambini (Jikun kage e no tatoe 皃訓影繪喩)18 di Torii Kiyonaga 鳥居清 長 (1752-1815) e Santō Kyōden 山東京伝 (1761-1816) del 1798, in cui una pagina in particolare mostra come un cliente impassibile di fronte a un rotolo dipinto sottoposto alla sua attenzione dal commerciante riveli invece il più sincero disgusto attraverso l’ombra del suo profilo che l’artista fa esprimere in un riquadro con una linguaccia e l’indice chiaramente puntato verso l’opera. Un espediente divertente, ma anche carico di quel significato magico che la riproduzione della figura umana ha sempre trattenuto nella cultura occidentale come in quella orientale, sia nella versione pittorica sia, a maggior ragione, fotografica. Dagli anni sessanta dell’Ottocento sempre l’artista Ochiai Yoshiiku si dilettò con le silhouettes di attori kabuki sfruttandone il potenziale psicologico in una serie di silografie intitolate Silhouettes di luna e fiori copie dal vero (Shinsha gekka no sugatae 真写月花之姿繪). In primo piano è rappresentata l’ombra grigia del profilo dell’attore, caratterizzato dalle fisionomie del volto e da un oggetto tenuto 18

Torii Kiyonaga, Santō Kyōden, Jikun kage e no tatoe, Tōriaburachō, Edo 1798. Consultabile presso la biblioteca della Waseda University.


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tra le mani anch’esso ridotto a ombra e solo intuibile dalla forma. In un angolo superiore della stampa, un piccolo cammeo a colori contiene invece il ritratto realistico dell’attore che mostra qui il profilo opposto. Una duplice visione dello stesso soggetto: quella più intima ed essenziale ripresa con la silhouette (shinsha sugatae 真写姿繪), quella pubblica e di apparenza realizzata seguendo i canoni tradizionali della ritrattistica ufficiale di attori kabuki nelle silografie ukiyoe (yakushae). Simile per impostazione è anche il volume illustrato da Shibata Zeshin 柴田是真 (1807-1891) e datato lo stesso anno 1867, Silhouette senza ombra (Kuma naki kage 隈なき影) (fig.5).19 Ogni pagina è composta di una immagine principale con il primo piano di un volto di profilo stampato in colore grigio uniforme, mentre sulla parte superiore del foglio, in una vignetta a colori si svolgono scene con lo stesso e altri personaggi accompagnate da un testo calligrafico. L’elemento più curioso del volume è senza dubbio il titolo, che gioca sui due termini che definiscono il diverso significato attribuito all’ombra come rappresentazione formale, kuma 隈, e come espressione del vero carattere, kage 影, del soggetto. Fotografia come fonte di imitazione Gli anni settanta e ottanta dell’Ottocento sono espressione del massimo sviluppo artistico e commerciale della fotografia giapponese che si affermò con nomi sia stranieri come Adolfo Farsari (1841-1898), sia giapponesi come Kusakabe Kimbei 日下部金

Sopra, Fig. 5 Shibata Zeshin 柴田是真, Silhouette senza ombra (Kuma naki kage 隈なき影), volume illustrato, 1867, The Metropolitan Museum of Art, The Howard Mansfield Collection, Purchase, Roger Fund, 1936, inv.: JIB117 A destra, Fig. 6 Ochiai Yoshiiku 落合芳幾, Sawamura Tossho no Sasaki Gennosuke (沢村訥升 の佐々木源之助), dalla serie Specchio copia dal vero di attori (Haiyū shashinkyō 俳優写真鏡), silografia policroma, 1870, The British Museum, Purchased from Israel Goldman, inv.: 2010,3015,0.2; foto: AN865665001. 19

Si veda The Metropolitan Museum of Art, The Howard Mansfield Collection, Purchase, Roger Fund, 1936, inv.: JIB117


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兵 (1841-1934). Il sorpasso della tecnica silografica, almeno sul piano della ritrattistica, fu inevitabile. Perciò, se da una parte i paesaggi fotografici continuavano a rifarsi ai colori e all’immaginario già dettato dall’ukiyoe, come è evidente dalla produzione dei due fotografi sopra menzionati, dall’altra le silografie di ritratto, a questo punto dell’evoluzione tecnica, non facevano altro che utilizzare la fotografia come supporto. Non solo cercavano di imitarla nella ricerca della verosimiglianza con il soggetto, ma nel caso dei ritratti di attori realizzati con la tecnica silografica veniva spesso utilizzata la fotografia come modello. Consuetudine in uso anche tra gli artisti dell’Ottocento in Occidente. È sempre Ochiai Yoshiiku a realizzare una serie di cinque silografie, significative in questo senso, intitolate Specchio copia dal vero di attori (Haiyū shashinkyō 俳優写真 鏡) (fig. 6).20 Ognuna corrisponde al ritratto di un celebre attore kabuki mentre interpreta il personaggio che lo ha reso più popolare, ma secondo una modalità fotografica, come si evince anche dal termine shashinkyō 写真鏡 scelto per il titolo.21 Ritratti di tre quarti o a figura intera come carte de visite, con pochi colori, tenui e sfumati, che ne aumentano il realismo e la somiglianza alla fotografia color seppia e bianco e nero, effetto aumentato ulteriormente dalla cornice rossa rettangolare dipinta intorno che ricorda quella vera utilizzata per trattenere il vetro di protezione della fotografia: un ulteriore tentativo di mantenere le immagini silografiche concorrenziali rispetto alla fotografia che, come già detto, negli anni settanta proponeva anche questo genere di ritratti. Tuttavia, il fascino esercitato dall’immagine silografica non smise neppure in epoca successiva. Una serie di ritratti, ancora una volta di attori kabuki, realizzata da Natori Shunsen 名取春仙 (1886-1960) tra il 1925 e il 1929 conferma come la tradizione ritrattistica silografica di attori nel formato ōkubie fosse ancora attiva in epoca Shōwa 昭和 pur risentendo in modo più evidente del realismo fotografico e segna il passaggio di testimone dalla silografia ukiyoe all’innovativo stile dello shin hanga 新版画.22 Diversa l’impostazione e l’utilizzo dell’immagine fotografica scelta da Toyahara Chikanobu23 nella serie Immagini autentiche da lanterna magica al paragone (Gentō shashin kurabe 幻燈寫心競) del 1890 (fig.7). Il riferimento in questo caso è all’immagine proiettata con la lanterna magica e i dispositivi ottici in uso all’epoca per l’intrattenimento, ma allo stesso modo delle silhouettes di Ochiai, in ogni singola silografia Chikanobu propone all’osservatore due visioni contemporaneamente: un soggetto prin20

Si veda The British Museum, 2010, inv.: 3015, 0.1 e 0.2 e 0.5; 1906, 1220, 0.1348. Kinoshita Naoyuki, Shashingaron (Trattato sulla fotografia e la pittura), Iwanami Shoten, Tokyo 1996, pp. 60-65. 22 Si veda The British Museum, inv.: 1966,0613,0.4. La serie fu realizzata da Natori Shunsen, considerato l’ultimo maestro di ritratto di attori kabuki dell’ukiyoe, con Watanabe Shōzaburō 渡辺庄三 郎 (1885-1962), che invece coniò nel 1915 il termine che definì il nuovo movimento dello shin hanga (letteralmente: “nuova stampa”) e ne divenne il primo editore. Per approfondimenti sul tema si veda Kendall Brown, Hollis Goodall-Cristante, Shin-Hanga: New Prints in Modern Japan, Los Angeles County Museum of Art, 1996. 23 Toyohara Chikanobu (豊原周延, 1838-1912), che firmava le sue opere come Yūshū Chikanobu, fu uno degli artisti più prolifici in epoca Meiji. Specializzato soprattutto in silografie di attori e beltà dedicò diverse serie all’analisi dei temi legati alla moda e alla modernità. 21


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cipale in primo piano, che rappresenta la situazione reale del contesto quotidiano, e un secondo soggetto, proiettato in un cerchio che richiama l’effetto di un cono di luce sulla parte superiore della silografia alle spalle del protagonista principale, che invece rivela una sua proiezione mentale, onirica, più intima. In tutti i casi l’immagine proiettata sul fondo, sia di ritratto sia di paesaggio, è definita fin nei minimi particolari, secondo una impostazione prospettica e con l’effetto chiaroscurale derivato dalla pittura occidentale che rincorre di nuovo l’immaginario legato alla precisione fotografica. In tutti gli esempi elencati, l’acquisizione della silhouette e di forme di proiezione fotografica quale modalità rappresentativa del soggetto all’interno delle silografie policrome sottolinea quella che è la peculiarità del nuovo mezzo fotografico di riprodurre fedelmente l’immagine di ciò che sta davanti all’obbiettivo, cogliendo però soprattutto il mistero legato alla potenzialità di questa tecnica di catturare e fissare sulla dimensione piana ogni elemento appartenente alla forma del soggetto, e quindi possibilmente anche la sua parte più intima. L’attrazione che esercita il ritratto fotografico in effetti è proprio legata alla capacità dell’immagine di rivelare una scansione della persona che rimane sconosciuta al soggetto fino al momento in cui non si pone davanti allo sguardo, segnando da quel momento in avanti la creazione di una nuova immagine di sé. Gli artisti dell’ukiyoe, attivi nell’epoca in cui la tecnica fotografica esordì in Giappone e andò velocemente sperimentando e allargando sempre più il suo campo di azione, non poterono esimersi dal fare i conti con questo nuovo sguardo e tutto ciò che implicitamente esso identificava: la fotografia divenne simbolo dell’Occidente, dei suoi costumi, delle novità scientifiche e tecniche, ma anche un modo per esprimere la curiosità e l’aspirazione del Giappone alla cultura occidentale considerata come la modernità in senso assoluto. Il risultato fu un prodotto artistico ibrido che, pur evidenziando una ricerca e una sperimentazione di elementi innovativi al passo coi tempi, rimaneva fortemente ancorato ai propri canoni estetici sia da un punto di vista tematico sia da un punto di vista compositivo. Un equilibrio in cui giocò sicuramente un ruolo importante la tipologia di clientela dell’epoca: cittadini giapponesi che cercavano la modernità e la moda occidentale e tutto ciò che artisticamente le rappresentava, la fotografia tra le altre cose; viaggiatori e visitatori occidentali che, al contrario, cercavano l’esotismo orientale in tutte le sue forme, tra cui si annoverava anche la silografia ukiyoe. Un fenomeno che diventa la rappresentazione stessa del concetto di souvenir, “un souvenir nel souvenir” si potrebbe definire, che rivela ancora una volta la peculiarità della cultura giapponese di saper far convivere attivamente aspetti diversi, per certi versi in apparenza opposti, ricavandone una modalità espressiva nuova, originale, prima inesistente. Di fatto, guardando all’oggi e quindi ai risultati di questa sintesi, la silografia in Giappone è ancora una tecnica artistica affermata e in continua evoluzione secondo nuove forme e nuovi gusti definiti come shin hanga. E continuerà ad assumere nuove modalità espressive, diverse da quelle conosciute in passato, ma prendendo da esse a piene mani e rinnovandosi secondo i canoni estetici e culturali contemporanei.


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Photography and Photographic Imagination in Bakumatsu Meiji Ukiyo-e Prints Subject of this paper is the relation between ukiyo-e prints and the new photographic medium that was spreading throughout Japan from the 1860s. I investigate on how photography and all aspects related to the new Western technique were soon absorbed as subjects themselves in colour woodblock prints of the Bakumatsu and Meiji period. Through the analyzes of some images it’s in fact possible to see how also the most fashionable subjects, such as bijin-ga and yakusha-e, show a presence of elements linked to the photographic means and its new gaze: optical devices, cameras, but also shadow and silhouette games. A way to renew the traditional ukiyo-e print images, giving them a more modern and exotic taste. In this sense, the woodblock image is here considered more as a document than as an artwork, which evidences the growing popularity of photography and photographic gaze from the 1860s on.

幕末・明治の浮世絵版画における写真と写真に対するイメージ

メネガッゾ

ロッセッラ

本研究は浮世絵版画と1860年代から日本に広がっていた新しい写 真技術に関するものである。そして、写真技術が日本に登場したのち の幕末・明治期の版画の中でその西洋の新技術がどのように描かれた かということも調査した。いくつかの浮世絵を選択分析し、のぞき眼 鏡やカメラなどの機材、影絵や輪郭の作りだす効果など新技術がも たらした新たな表現方法が、美人画や役者絵など当時最も人気のあっ た浮世絵にどのように描かれたかを観察し、当時写真技術が日本でど のように驚きを持って受け止められていったかを調べた。写真技術が 日本に紹介されたことで浮世絵に近代風で異国的なテイストが加味さ れ、日本の伝統的浮世絵の刷新が図られていった。このようにして浮 世絵は1860年以降、写真が人気を博していくにつれ芸術作品とし てよりむしろ時代の記録としても考えられるようになっていく。


TOSHIO MIYAKE

Nazionalismi pop nel Giappone contemporaneo: dal revisionismo storico all’antropomorfismo moe delle nazioni

Introduzione: nazionalismi pop, J-culture e media mix1 Sin dal successo editoriale del manga revisionista Sensōron 戦争論 (Teorie sulla guerra, 1998) di Kobayashi Yoshinori (1953), le culture popolari sono diventate oggetto di un’attenzione crescente che sconfina con il dibattito acceso nei confronti della storia, dei giovani e soprattutto dell’identità nazionale. Tuttavia, mentre la discussione pubblica sul revisionismo storico e sui testi scolastici è condizionata da un’interpretazione in gran parte politico-ideologica sia del passato che del presente, alcuni commentatori hanno iniziato a porre l’attenzione sul radicale cambiamento in atto fra le nuove generazioni riguardo al modo stesso di esperire se stessi e la propria nazione come una “comunità politica immaginata”;2 un modo post-ideologico o post-moderno sempre più estraneo o indifferente alla dialettica del vero/falso o del giusto/sbagliato, che continua invece ad accomunare revisionisti, progressisti e istituzioni statali. Il presente saggio intende esplorare questa trasformazione in corso verso forme emergenti di “nazionalismi pop” che hanno fatto della J-culture, la galassia transmediale di manga, anime, videogiochi, character design, subculture giovanili, ecc., un’arena emergente per la ri-definizione del nuovo ‘Giappone’.3 In altre parole, le culture popolari si pongono dagli anni Novanta del secolo scorso come ambito strategico in cui la negoziazione sul passato, presente e futuro della nazione avviene attraverso l’intersezione fluida di nuove egemonie, sia dall’ “alto” che dal “basso”, disseminate e riannodate lungo i circuiti del nuovo media mix nipponico: The “media mix” is a popular and industry term [in Japan] that refers to the practice of releasing interconnected products for a wide range of media “platforms” (animation, comics, video games, theatrical films, soundtracks) and commodity types (cell phone straps, T-shirts, bags, figurines, and so on). It is a state of what we might call the “serial interconnection of media-commodities” 1

La prima versione di questo studio è stata pubblicata con il titolo “Quando la storia diventa sexy: dal revisionismo storico all’antropomorfismo moe delle nazioni”, in Marco Del Bene, Noemi Lanna, Toshio Miyake, Andrea Revelant, Il Giappone moderno e contemporaneo: Stato, media, processi identitari, I libri di Emil-Odoya University Express, Bologna 2012, pp. 237-55. 2 Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri 2000 (I ed. 1983). 3 Per l’impiego dell’idea di “pop nationalism” per analizzare Sensōron di Kobayashi si veda Rumi Sakamoto, “Will you go to war? Or will you stop being Japanese? Nationalism and History in Kobayashi Yoshinori’s Sensoron”, Japan Focus, January, 2008 (www.japanfocus.org/-Rumi-SAKAMOTO/2632).


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Nazionalismi pop nel Giappone contemporaneo

– wherein commodities and media types do not stand alone as products, but interrelate and communicate, generally through the existence of a principal character and narrative world.4

In questo scenario, il ruolo emergente di alcune subculture metropolitane deriva dalla loro affermazione quali pro-sumers (al contempo produttori e consumatori) del mercato globalizzato, tanto da essere diventate protagoniste in prima linea di un più ampio passaggio di paradigma all’interno di una cultura mediatica sempre più convergente: convergence represents a paradigm shift – a move from medium-specific content toward content that flows across multiple media channels, toward the increased interdependence of communications systems, toward multiple ways of accessing media content, and toward ever more complex relations between topdown corporate media and bottom-up participatory culture.5

I risultati di un fieldwork (2010-11) condotto sulla piattaforma multimediale del webmanga Axis Powers Hetalia (2006-oggi) e sul suo fandom, in cui nazioni e storia mondiale sono personificate come ragazzi carini, offriranno l’occasione per illustrare la crescente mobilitazione biopolitica di emozioni, sentimenti e desideri nel configurare il rapporto storia, nazione e giovani.6 Particolare attenzione verrà rivolta alle nuove traiettorie egemoni dal “basso” in grado di stimolare una risposta affettiva di tipo moe 萌え: un neologismo ambiguo e di difficile definizione, ma che all’insegna della parodia scanzonata, del piacere polimorfo e della sessualità cross-gender è diventato nell’ultimo decennio un paradigma dominante di subculture giovanili otaku オタ ク (appassionati di manga, anime, videogiochi, ecc.) e fujoshi 腐女子 (lett. “ragazze, donne marce”; appassionate di storie omosessuali maschili). Nazionalismo pop dall’“alto”: il Cool Japan Il nazionalismo pop dall’alto si identifica sostanzialmente con lo slogan del Cool Japan: uno slogan governativo che si ispira al saggio “Japan’s Gross National Cool” pubblicato su Foreign Policy nel 2002.7 Un saggio molto influente, in cui il giorna4

Marc A. Steinberg, The Emergence of the Anime Media Mix: Character Communication and Serial Conusmption, Tesi PhD, Brown University, Rhode Island 2009, p. 4. 5 Henry Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York 2006, p. 243. 6 Per la versione completa del fieldwork su Hetalia e sul suo fandom transnazionale si veda Toshio Miyake, “Doing Occidentalism in Contemporary Japan: Nation Anthropomorphism and Sexualized Parody in Axis Power Hetalia”, in Kazumi Nagaike, Katsuhiko Suganuma (a cura di), Transnational Boys’ Love Fan Studies, edizione speciale di Transformative Works and Cultures, no. 12, March 2013 (http:// journal.transformativeworks.org/index.php/twc/article/view/436/392). 7 Douglas McGray, “Japan’s Gross National Cool”, Foreign Policy, 130, maggio 2002, pp. 44-54.


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lista statunitense Douglas McGray suggerisce come il decennio post-bubble di recessione economica degli anni Novanta non è stato poi così negativo per il Giappone, perché avrebbe visto invece l’ascesa del paese come super-potenza culturale, grazie alle sue culture popolari e subculture giovanili in grado di dominare l’immaginario globalizzato dei giovani di tutto il mondo (da qui il termine Cool Japan). Ma cosa ancora più importante, questo emergente successo internazionale offrirebbe enormi possibilità ancora tutte da esplorare e da implementare in termini sia economici, sia geopolitici di soft power: una nozione quest’ultima desunta dal politologo Joseph Nye che, in contrasto con gli aspetti coercitivi dello hard power (potere politico, militare, economico), indica l’importanza strategica e crescente degli stati di saper influenzare e controllare gli altri stati con la persuasione e il consenso, grazie all’ideologia, alle proprie idee e soprattutto attraverso la propria cultura.8 Il Cool Japan, sia come programma economico-industriale per aumentare le vendite sul mercato internazionale, sia come programma politico-diplomatico per migliorare l’immagine del Giappone nel mondo, viene adottato entusiasticamente da politici e burocrati come panacea per uscire dalla recessione, diventando in breve un riferimento guida per la strategia nazionale del nuovo millennio. Nei report annuali del Programma per la Promozione della Proprietà Intellettuale (Chiteki zaisan suishin keikaku 知的財産推進計画) avviato nel 2003 sotto il governo Koizumi, ma soprattutto nei report successivi del potente Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria (METI) viene analizzato e sostenuto il passaggio verso una nuova politica industriale basata sulla produzione di beni culturali e intellettuali, e non più sulla produzione manifatturiera (automobili ed elettronica di consumo). Inoltre, aspetto importante, si stabilisce la necessità di investire di ‘nipponicità’ questi beni culturali e intellettuali, di imporre una strategia del branding nazionale, in cui la J-culture in veste di simbologia nazionale dovrebbe creare del valore aggiunto. Nel giugno 2010, questa strategia industrial-culturale viene ulteriormente implementata, con l’istituzione all’interno del METI di un Ufficio apposito per la promozione del Cool Japan, per coordinare tutti gli altri ministeri, l’industria culturale e i creativi emergenti del nuovo Giappone. 9 Con l’avvento del Cool Japan, manga e anime assieme ai prodotti delle subculture giovanili assurgono a nuovo volto ufficiale del Giappone, con la mobilitazione congiunta di tutte le agenzie nazionali: dall’Organizzazione Giapponese Nazionale del Turismo (JNTO), che offre nel suo sito dei “Pellegrinaggi verso luoghi sacri” per l’ambientazione nei manga, anime, videogiochi e dorama televisivi,10 fino all’Organizzazione Giapponese del Commercio Estero (JETRO) che promuove attivamente manga 8

Per una versione rielaborata della nozione di soft power si veda Joseph Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics, Public Affairs, New York 2004. 9 METI (a cura di), ‘Bunka sangyō’ rikkoku ni mukete (Verso la Fondazione di una Nazione dell’Industria Culturale), 2010. I report annuali della strategia Cool Japan sono consultabili nei siti del Gabinetto del Primo Ministro (www.kantei.go.jp/jp/singi/titeki/index.html) e in quello del METI (www.meti. go.jp/policy/mono_info_service/mono/creative/index.htm). 10 www.jnto.go.jp/eng/indepth/cultural/pilgrimage/.


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e anime nei suoi siti esteri.11 Dalla NHK, che dal 2006 ha trasmesso più di cento puntate del programma Cool Japan. Hakkutsu kakkō ii Nippon, per arrivare ai casi forse più eclatanti del Ministero degli Affari Esteri. Nel 2008 il gatto atomico Doraemon viene nominato ‘Ambasciatore anime del Giappone’ e l’anno dopo nel 2009 sono tre ragazze ad essere promosse ad ‘Ambasciatrici del kawaii’, da esporre sistematicamente nelle sedi diplomatiche e culturali giapponesi di tutto il mondo [figura 1].

Fig.1 A sinistra, Doraemon designato “Ambasciatore dell’anime” (Minstero degli Affari Esteri, 2008). A destra, le tre “Ambasciatrici del kawaii” (Ministero degli Affari Esteri, 2009).

A prescindere dall’efficacia concreta di questo nation branding in termini di maggiore competitività internazionale dell’industria culturale o di soft power dello stato giapponese, non c’è dubbio che sotto lo slogan Cool Japan si stia saldando un’alleanza strategica fra forze neo-conservatrici e forze neo-liberali. In altre parole, dal mondo politico e burocratico a quello industriale e massmediatico, si sta assistendo nell’ultimo decennio intorno alla J-culture ad una crescente retorica della mobilitazione nazionale per contribuire a migliorare l’immagine del Giappone sulla scena internazionale, per aiutare un’economia in difficoltà, e per ritrovare orgoglio nella propria cultura.12 Nazionalismi pop dal “basso”: J-culture e giovani Il nazionalismo pop dal “basso” riguarda invece più da vicino i giovani e il loro rapporto con la nazione; ovvero, investe la questione di come venga ri-prodotta la “comunità immaginata” da parte delle nuove generazioni che sono cresciute, sono state acculturate e socializzate proprio nell’ambito della galassia transmediale J-culture. Se il Cool Japan è in gran parte una risposta istituzionale all’instabilità post-ideologica e al traumatico arresto del PIL, scaturiti dalla fine della Guerra 11

Jetro-Economic Research Department (a cura di), Cool Japan’s Economy Warms Up, 2005 (www. jetro.go.jp/en/reports/market/pdf/2005_27_r.pdf ). Per un esempio di promozione estera si veda www. jetro.org/anime_manga (08/01/2011). 12 Per un’analisi critica del Cool Japan si veda Kōichi Iwabuchi, “Leaving Aside ‘Cool Japan’…Things we’ve got to discuss about media and cultural globalization”, Critique Internationale, 38, pp. 37-53; Michal Daliot-Bul, “Japan Brand Strategy: The Taming of ‘Cool Japan’ and the Challenges of Cultural Planning in a Postmodern Age”, Social Science Japan Journal, XII, 2, 2009, pp. 247–66.


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Fredda, dal crollo del regime monopartitico del Partito Liberal-democratico e dalla recessione economica post-bubble, il nazionalismo pop dal “basso” investe piuttosto dei cambiamenti più interni, altrettanto radicali in ambito socio-culturale. Da una parte, crisi del modello kigyōshakai 企業社会 (società aziendale) associato al miracolo economico postbellico; declino quindi del Giappone corporativo e industriale, basato sul lavoro, sullo studio, sulla famiglia nucleare etero-sessuale, simboleggiati dalle icone del sararīman サラリーマン (colletto bianco) e della sengyōshufu 専業主婦 (casalinga a tempo pieno); tutti accomunati dal mito nazionale ichioku sōchūryū 一億総中流 (100 milioni dei ceti medi) di appartenere ad un’omogenea classe media. D’altra parte, affermazione di una società dell’informazione high-tech, dei consumi avanzati, dell’intrattenimento ludico, in cui l’impoverimento dei ceti medi e la precarizzazione del mercato del lavoro ha imposto di recente l’idea di kakusa shakai 格差社会, di una società ineguale.13 In questo scenario sono i giovani che non sembrano essere più disposti a contribuire attivamente alla riproduzione sociale nei termini collaudati di studio, lavoro e famiglia, ad assurgere a centro infuocato di preoccupazioni e discussioni allarmate: ragazzi che non vanno a scuola e rimangono reclusi in casa (hikikomori 引きこも り); ragazzi che commettono suicidi collettivi via internet (nettojisatu ネット自 殺); giovani che continuano anche da adulti a vivere con i genitori (parasite single パラサイト・シングル); donne ‘carnivore’ che si mascolinizzano, lavorano, non vogliono più sposarsi e fare figli (nikushokukei joshi 肉食系女子); uomini ‘erbivori’ che invece si femminilizzano, non vogliono più lavorare e non trovano più un partner da sposare (sōshokukei danshi 草食系男子); giovani che aspirano all’autoaffermazione personale, piuttosto che alla carriera (freeter フリーター); giovani che vorrebbero invece un lavoro sicuro, ma rimangono precari a vita per mancanza di istruzione, impiego, training professionale (NEET ニート), ecc. I mass media giapponesi, e per riflesso anche quelli internazionali, hanno confezionato una lista infinita di nuove icone, una vera e propria costruzione sociale del giovane giapponese inquietante e spettacolarizzato. Questa retorica, piuttosto che documentare dei cambiamenti empirici in senso asociale delle nuove generazioni, costituisce un tipico esempio di ‘panico sociale’; rivela cioè molto di più delle inquietudini crescenti della società adulta, ulteriormente alimentate dall’utilizzo di categorie interpretative obsolete per capire i cambiamenti in corso.14 È in questo contesto che va inserita anche la questione più specifica del nesso identità nazionale, giovani e rapporto con la storia. Da parte istituzionale, si sono intensificati nell’ultimo decennio gli sforzi neo-conservatori per dare una svolta più nazionalistica al paese: tentativi di revisione dell’Articolo 9, partecipazione delle 13 Per una panoramica degli ultimi due decenni si veda Tomiko Yoda, Harry D. Harootunian (a cura di), Japan after Japan: Social and Cultural Life from the Recessionary 1990s to the Present, Duke University Press Books, Durham-London 2006. 14 Per la costruzione sociale dei ‘giovani’ nel Giappone contemporaneo si veda Roger Goodman, Yuki Imoto, Tuukka Toivonen (a cura di), A Sociology of Japanese Youth, Routledge, New York 2012.


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cosiddette Forze di Auto-Difesa ad operazioni internazionali militari e umanitarie, visite controverse di ministri allo Yasukuni jinja, e soprattutto nuove politiche educative di tipo morale e patriotico rivolte alle scuole dell’obbligo. Per esempio, il riconoscimento formale nel 1999 del “Kimigayo” e dello “Hi no Maru”, rispettivamente come inno e bandiera nazionale, da celebrare nelle scuole, o i testi scolastici Kokoro no noto (Quaderni del cuore) di guida etico-morale imposti dal Ministero dell’Educazione, Cultura, Sport, Scienza e Tecnologia (MEXT) nel 2002. A questo si sono affiancate una serie di iniziative meno istituzionali in senso più apertamente revisionista o negazionista della storia moderna del paese, soprattutto in merito alle atrocità commesse durante l’invasione e l’occupazione dei vicini paesi asiatici durante la Guerra del Pacifico. Toni esplicitamente xenofobi contro immigranti e nazioni asiatiche sono diventati pervasivi nei forum internet come “2channel” o nei siti dell’estrema destra (netto uyoku ネット右翼), tra cui “Sakura Channel”, creato dai nuovi gruppi neo-conservatori intenti a promuovere una visione revisionista del recente passato. Tra questi spicca la Società per la Riforma dei Testi Scolastici Storici (Atarashii rekishi kyōkasho o tsukuru kai) in grado di fare approvare dal MEXT il loro manuale revisionista di storia nel 2002.15 Grande allarmismo ha suscitato nell’opinione pubblica nazionale e internazionale il successo di manga revisionisti o negazionisti. Sensōron (Teorie sulla guerra, 1998) è il primo di una lunga serie di manga molto corposi di Kobayashi Yoshinori (1953) intento a correggere la “visione distorta e masochista” della storia moderna giapponese, imposta a suo vedere dai progressisti e considerata come principale ostacolo allo sviluppo di una visione patriottica del Giappone e di un sano nazionalismo. Questo significa tra l’altro, con ricorso ad una copiosa documentazione storiografica selezionata, negare il massacro di Nanchino e lo sfruttamento sessuale delle cosiddette comfort women, e invece glorificare l’eroismo dei kamikaze, o riabilitare militari condannati come criminali di guerra dal Tribunale di Tokyo, quali il generale Tōjō. Mentre Manga Kenkanryū マンガ嫌韓流 (Manga contro l’Onda Coreana, 4 voll., 2005-09) di Yamano Sharin (1971) fa capire già dal titolo gli intenti esplicitamente anti-coreani. In modo analogo a Sensōron spiega attraverso il narratore-autore la sua verità revisionista o negazionista dei rapporti storici fra Giappone e Corea. Entrambi i manga hanno avuto un discreto successo di vendite, il primo volume della trilogia di Sensōron circa 600.000 copie e quello di Manga Kenkanryū circa 450.000 copie [figura 2]. Entrambi gli autori sono strettamente legati alla Società per la Revisione dei Testi Scolastici Storici, di cui Kobayashi è stato uno dei membri fondatori nel 1996, mentre in Manga Kenkanryū vengono riportati per intero molti interventi dei suoi numerosi membri accademici. In altre parole, entrambi usano in modo strumentale il medium del manga per rendere popolare un discorso apertamente ideologico e politico; un messaggio esplicito e ben riconoscibile, ma che per 15

Carolin Rose, “The Battle for Hearts and Minds. Patriotic Education in Japan in the 1990s and Beyond”, in Naoko Shimazu (a cura di), Nationalisms Japan, RoutledgeCurzon, New York 2006, pp132-54.


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quanto si affidi alle potenzialità espressive, simboliche ed emotive del manga, non riesce ad esonerarsi dalle retoriche vecchie e seriose del nazionalismo moderno.16

Fg. 2 A sinistra, Sensōron 1 (1998) di Kobayashi Yoshinori. A destra, Manga kenkanryū (2004) di Yamano Sharin.

Nazionalismo giovanile In questa battaglia per contendersi le menti e i cuori delle nuove generazioni, i giovani sono veramente diventati più nazionalistici? Se si vanno a consultare i rilevamenti statistici, emerge un quadro diametralmente opposto. Secondo i sondaggi nazionali della Dentsū, la più grande agenzia giapponese di pubblicità e di analisi di mercato, riguardo all’“orgoglio di essere giapponesi”, si evince che dal 1990 al 2005 non c’è stata una crescita in questo senso; anzi, si registra una diminuzione di essere “molto orgogliosi” dal 61,7 al 57,4%. Nello specifico, nei rilevamenti del 2005 differenziati per età e genere, l’orgoglio nazionale è inversamente proporzionale all’età: sotto i 29 anni, 52,2% degli uomini e 51,9% delle donne, mentre sopra i 70 anni, 78,6 % degli uomini e 76,6% delle donne. Più si è giovani e meno si è orgogliosi di essere giapponesi [figura 3].

Fig. 3 Sondaggi nazionali sull’“orgoglio di essere giapponese” (1990-2005, a sinistra) e suddivisione per età e genere (2005, a destra). 16

Sull’efficacia reale di questo tentativo per conquistare le menti e i cuori dei giovani ci sono dei seri dubbi, visto che il successo editoriale di questi manga, e anche dei testi scolastici revisionisti, è in gran parte riconducibile a acquirenti progressisti, preoccupati dei contenuti così controversi, piuttosto che a sostenitori delle tesi sostenute.


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A completare il quadro statistico è utile fare riferimento a sondaggi comparativi internazionali riguardo alla “disponibilità di prendere le armi per difendere la propria nazione in caso di guerra”. Dal 2000 al 2005, in Giappone si ha addirittura una lieve diminuzione di questa disponibilità, dal 15,5% al 15,1%. Questi numeri acquistano ancora più senso in ottica comparativa, confrontandoli nel 2005 con il 36,5% dell’Italia o con il 75,7% della Cina che hanno risposto di essere disposti a combattere per la propria nazione in caso di guerra.17 Occorre quindi sottolineare che la grande visibilità mediatica di certe iniziative istituzionali o di manga, film e siti di tipo nazionalistico o xenofobo non coincide necessariamente con un aumento del nazionalismo fra la popolazione, tantomeno fra i giovani; o almeno non di un nazionalismo ideologico riconoscibile secondo parametri moderni. Anzi, ad una lettura più attenta si evince che tali iniziative sono piuttosto una reazione difensiva, e proprio per questo spesso fuori dalle righe, di fronte alle nuove generazioni sempre più diffidenti nel volersi identificare con uno stato-nazione che sembra offrire molto di meno rispetto alla generazione dei loro genitori o nonni. Non a caso il tipo di nazionalismo che caratterizza gli autori dei manuali scolastici o dei manga di tipo revisionista è stato definito un “nazionalismo terapeutico” (iyashi no nashonarizumu 癒しのナショナリズム) o “nazionalismo ansioso” (fuangata nashonarizumu 不安型ナショナリズム), per indicare gli sforzi compensatori e difensivi rispetto alla crescente insicurezza indotta dai cambiamenti macroeconomici globalizzati, dalla flessibilità del mercato del lavoro, e dal passaggio verso una società sempre più fluida, tecnologica e consumistica.18 La pischiatra Kayama Rika, che ha avviato il dibattito accademico nell’ultimo decennio sul nazionalismo giovanile, lo ha definito un “nazionalismo piccino” (puchi nashonarizumu ぷちナショナリズム) o “nazionalismo naif ” (mujakina nashonarizumu 無邪気なナショナリズム), in modo da distinguerlo da forme più ideologiche o politiche del passato. L’entusiasmo giovanile negli ultimi anni intorno alla nazionale di calcio, la partecipazione appassionata nel cantare il Kimi ga yo, il boom della lingua giapponese, o ancora la proliferazione di subculture interessate alla storia nazionale, esprimono evidentemente un trasporto spontaneo

17

I sondaggi sono reperibili online: www2.ttcn.ne.jp/~honkawa/9466.html; www2.ttcn. ne.jp/~honkawa/5223.html (09/01/2011). Sono estratti da: Dentsū Sōken-Nihon Research Center (a cura di), Sekai sanjūsankoku kachikan dētabukku 世界23ヵ国価値観データブック (Libro dati sui valori di 23 paesi nel mondo), Dōyūkan, Tokyo 1995; Dentsū Sōken-Nihon Research Center (a cura di), Sekai rokujūkakoku kachikan dētabukku 世界60ヵ国価値観データブック(Libro dati sui valori di 60 nazioni nel mondo), Dōyūkan, Tokyo 2000; Dentsū Sōken-Nihon Research Center (a cura di), Sekai shuyō koku kachikan dētabukku 世界主要国価値観データブック(Libro dati sui valori delle principali nazioni nel mondo), Dōyūkan, Tokyo 2005. 18 Oguma Eiji, Ueno Yōko, ‘Iyashi’ no nashonarizumu “癒し”のナショナリズム (Il nazionalismo terapeutico), Keiogijuku Daigakushuppankai, Tokyo 2003; Takahara Motoaki, Fuangata nashonarizumu no jidai 不安型ナショナリズムの時代 (L’epoca del nazionalismo ansioso), Yōsensha, Tokyo 2006.


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verso qualcosa che evoca la nazione, ma in termini del tutto de-storicizzati e depoliticizzati.19 Altri, come il sociologo Takahara Motoaki integrano questa interpretazione facendo riferimento anche ad un “nazionalismo hobbificato” (shumika shita nashonarizumu 趣味化したナショナリズム), prodotto da una società in cui sempre più giovani preferiscono definire se stessi attraverso i nuovi media, i consumi e soprattutto i loro hobby, piuttosto che attraverso i canali di socializzazione tradizionali dello studio, del lavoro e della famiglia.20 Infine, il critico della cultura Kitada Akihiro lo ha definito un nazionalismo tutto da ridere (warau nashonarizumu 嗤うナショナリズム); un nazionalismo alimentato da un “romanticismo cinico” (shinikaruna romanshugi シニカルなロ マン主義), che nasce dall’articolazione reciproca di due tensioni apparentemente opposte: da una parte, formalismo cinico, indifferenza e distacco ironico rispetto ai grandi valori e alle metanarrazioni di tipo moderni, che sfocia in una cura estrema o ossessione agli aspetti formali ed esteriori, privi di profondità, sostanza e coscienza storica. D’altra parte, una rinata tensione emotiva di intimità, quasi romantica, una ricerca viscerale di relazione e di condivisione con gli altri. Dalla complicità di entrambi scaturirebbe l’immagine della nazione, sì formale o esteriore, ma un simulacro investito di altissima carica emotiva, affettiva e fisica in grado di stimolare nuove relazioni personali e reti sociali.21 Nuove sensibilità dal “basso”: il moe In questo contesto di inculturazione e di socializzazione sempre più mediatizzati, hobbificati e ironici, grande attenzione è stata rivolta ad una sensibilità emergente e condivisa da molte subculture giovanili dell’ultimo decennio. Il moe è un neologismo di difficile traduzione – il termine in sé rimanda ad una forte passione legata all’idea di far germogliare, accudire – e nasce negli anni Novanta in ambito delle subculture maschili otaku (appassionati di videogiochi, manga, anime, modellini, ecc.), intorno al quartiere dell’elettronica Akihabara a Tokyo. Indica un trasporto spontaneo o passione bruciante per particolari personaggi fittizi, giovani, puri, sexy della galassia J-culture. Personaggi molto kawaii かわいい (carini, adorabili, innocenti), ma connotati sessualmente. Alcuni aspetti della loro iconografia ricorrente sono: occhi giganteschi senza pupilla, contorni arrotondati e teste sproporzionate, pelle diafana, orecchie di gatto, vestiti da domestica, voce zuccherina, personalità innocente, ecc. [figura 4].

19 Kayama Rika, Puchi nashonarizumu shōkōgun ぷちナショナリズム症候群 (La sindrome del nazionalismo piccino), Chūō Kōron Shinsho, Tokyo 2002. 20 Takahara Motoaki, Fuangata..., cit. 21 Kitada Akihiro, Warau Nihon no ‘nashonarizumu’ 嗤う日本の「ナショナリズム」(Il ‘nazionalismo’ giapponese tutto da ridere), NHK Shuppan, Tokyo 2005.


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Fig. 4 Iconografia moe.

Questi singoli elementi possono essere scissi, ricomposti e moltiplicati nella galassia transmediale di manga, anime, videogiochi, gadget, ecc., per configurare dei personaggi kyara キャラ, esonerati da una narrativa complessa e da una personalità caratterizzante; aspetti invece indispensabili per i personaggi kyarakutā キャラクタ ー del mainstream tradizionale e commerciale, i quali finiscono spesso per fungere da ipotesti; ovvero sono ridotti ad un repertorio originario da cui saccheggiare per parodie e ricombinazioni inedite.22 Si tratta di un bricolage che attinge ad un “database” composto da un numero eterogeneo e dinamico di elementi codificati, che, sul modello della navigazione online, non richiede nella sua produzione-consumo una grand narrative, un paradigma e una prospettiva unificati di tipo moderno, che orienti in modo monologico le scelte, letture e interpretazioni. Azuma Hiroki, il teorico più noto del moe e degli otaku, con qualche esagerazione forse, ha indicato questo “consumo database” come cifra esistenziale ed epistemologica del postmoderno giapponese.23 Questa logica combinatoria di tipo rizomatico che ricorda il “formalismo cinico” indicato da Kitada, si alimenta anche in questo caso di una carica affettiva “romantica”, tanto intensa quanto ambigua. Il moe nella sua originaria accezione maschile otaku può essere considerato una combinazione del filone rorikon ロリ コン(complesso lolita) e bishōjo 美少女 (ragazze belle), ma reso più complesso dal connubio ambivalente fra innocenza infantilizzata e desiderio adulto. Una stimolazione polimorfa di sentimenti idealizzati e protettivi verso personaggi carini, infantilizzati e indifesi, da una parte, coniugati con sentimenti perversi verso ragazzine erotizzate, dall’altra.24 Si tratta di una sensibilità sempre più diffusa che è stata appropriata anche in ambito femminile, soprattutto da parte di un’altra subcultura emergente, nota

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Per il passaggio di paradigma in ambito manga, da personaggi moderni di tipo kyarakutā a quelli postmoderni di tipo kyara si veda Itō Gō, Tezuka izu deddo: hirakareta manga hyōgenron e (Tezuka è morto: verso una teoria estesa dell’espressione manga), NTT Shuppan, Tokyo 2005. 23 Azuma Hiroki, Otaku: Japan’s Database Animals, trad. di Jonathan E. Abel e Shion Kono, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009 (I ed. 2001). 24 Patrick W. Galbraith, “Moe: Exploring Virtual Potential in Post-Millennial Japan”, Electronic Journal of Contemporary Japanese Studies, October 2009 (www.japanesestudies.org.uk/articles/2009/Galbraith. html).


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come fujoshi (Lett. “donne avariate, depravate”):25 un termine auto-ironico in uso fra teenager e giovani donne che sono lettrici e autrici del genere manga-anime del Boys’ Love (storie di intimità e amore omosessuale maschile), e in particolar modo di una sua variante, lo yaoi やおい; un acronimo per yama nashi, ochi nashi, imi nashi (senza climax, senza conclusione, senza significato) che comprende adattamenti e parodie di opere originali mainstream, spesso prive di trama e rese sessualmente molto esplicite, tanto da sconfinare nella pornografia. Questi adattamenti sono prodotti e consumati dai milioni di pro-sumers, in prevalenza femminili, che compongono il mondo sterminato del dōjinshi 同人誌, il circuito dei manga, romanzi e videogiochi amatoriali. Il moe in ambito fujoshi, come nel caso degli otaku, si alimenta di una analoga stimolazione polimorfa di sentimenti idealizzati e protettivi per personaggi carini e indifesi, e di sentimenti perversi per ragazzini erotizzati. In questo caso si tratta di un connubio fra il filone dal sapore pedofilo shotakon ショタコン (complesso Shōtarō) e quello bishōnen 美少年 (ragazzi belli), con la differenza però importante rispetto al moe degli otaku improntata su una sessualità etero-sessuale, di fare riferimento ad un immaginario omosessuale maschile. 26 Grazie alla sua elaborazione digitale in discussioni online, fanfiction, amatoriali, il moe ha subito nell’ultimo decennio un’ulteriore evoluzione, tanto da venire utilizzato per personificare qualsiasi tipo di oggetto inanimato o concetto astratto: sistemi operativi, software vocali, macchine da guerra, linee metropolitane, cibi, concetti filosofici, la Costituzione, ecc. Qualsiasi cosa esistente o immaginabile è stata antropomorifizzata in veste di shōjo 少女 e shōnen 少年, ragazze e ragazzi al contempo carini ed erotizzati. A questa moeficazione del mondo intero non si sono sottratte la storia e gli stati-nazione, inaugurando un fenomeno noto come antropomorfismo moe delle nazioni (moe kuni gijinka 萌え国義人化)27 [figura 5].

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La subcultura fujoshi è diventata nell’ultimo decennio la nuova frontiera della critica (post)femminista. Si veda Yuriika sōtokushū: fujoshi manga taikei ユリイカ 総特集・腐女子マンガ体系 (EurekaNumero Speciale: Il mondo manga fujoshi), Seidosha, giugno 2007. 26 Patrick W. Galbraith, “Fujoshi: Fantasy Play and Transgressive Intimacy among ‘Rotten Girls’ in Contemporary Japan”, Signs, 37 (1), 2011, pp. 211–32. 27 Jason Thompson, “Militant Cute and Sexy Politics in Japanese Moe Comics [NSFW]”, i09 invisible manga, November 13, 2009 (http://io9.com/5403562/militant-cute-and-sexy-politics-in-japanesemoe-comics-[nsfw]).


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Fig. 5 Antropomorfismo moe delle nazioni e della storia.

Axis Powers Hetalia: nazioni sexy, nazioni che si amano La piattaforma multimediale Axis Powers Hetalia (Axis Powers ヘタリア, 2006oggi) costituisce il riferimento di gran lunga più rappresentativo della personificazione moe delle nazioni e della storia; sia per il suo successo nazionale e globale, sia per essere il prodotto di un’intersezione strategica fra subculture maschili otaku e femminili fujoshi.28 Hetalia nasce come webmanga, un fumetto online amatoriale di tipo umoristico-demenziale, iniziato nel 2006 da Himaruya Hidekaz (1985) nel suo sito Kitayume.29 Viene poi pubblicato in versione cartacea in cinque volumi da Gentōsha Comics (2008-2012) con una tiratura complessiva di oltre due milioni copie, e trasposto infine in animazione tv online e cinematografica da Studio Deen [figura 6]. Come per ogni opera manga o anime di un certo richiamo, Hetalia ha dato origine ad un suo specifico media mix, ovvero è stato moltiplicato e disseminato attraverso una costellazione sconfinata di media e merchandising: CD delle sigle anime sui singoli personaggi (character songs), CD degli adattamenti audio (drama cd), videogiochi, cabine ludico-fotografiche purikura, distributori automatici con bibite Hetalia, modellini, e naturalmente centinaia di gadget da cancelleria.30 Il termine “Hetalia” del titolo è una combinazione del neologismo gergale hetare ヘタレ (inetto, patetico, fifone) e Itaria イタリア (Italia), quindi grossomodo

28 Per uno studio più completo su Hetalia e sul suo fandom si veda Toshio Miyake, “Doing Occidentalism in Contemporary Japan”, cit. 29 www.geocities.jp/himaruya/hetaria/index.htm (08/01/2011). 30 Per quanto riguarda le sigle dei singoli personaggi tratte dall’adattamento anime online, eccetto il primo CD Italia, i successivi 7 CD rilasciati ogni mese dal 2009-10 sono entrati tutti nella top ten delle classifiche nazionali Oricon Weekly Rankings (www.oricon.co.jp/).


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Fig. 6 Le quattro versioni cartacee manga di Axis Power Hetalia (Himaruya Hidekaz, Gentōsha Comics, 2008-11).

“Italia sfigata”.31 Il webmanga originale contiene una lunga serie di brevissime vignette in cui si descrivono le relazioni internazionali fra i tre paesi delle Potenze dell’Asse (Italia, Germania, Giappone) e i Paesi Alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina). Tutti personificati come shōnen, ragazzi carini e incompetenti sullo sfondo della Prima e Seconda Guerra Mondiale, includendo anche episodi di storia antica, fino ad arrivare a eventi geopolitici contemporanei. Nel corso degli anni, le nazioni personificate sono diventate più di quaranta, secondo una prospettiva storica euro-centrica, vista la prevalenza di paesi euro-americani a discapito di quelli asiatici, arabi, africani, o latino-americani; e secondo una cornice collaudata degli stereotipi nazionali. Per fare solo alcuni esempi, Italia è un fifone piagnucoloso in perenne fuga dal fronte bellico, ma quando non piange è allegro, scanzonato, socievole, e ama cantare, mangiare pasta, e bere vino. Giappone è invece molto serio, educato, maldestro nell’esprimere i suoi sentimenti; ama il cambiamento delle stagioni, i gadget tecnologici e i viaggi in Europa. America è un giovanotto forte, pieno di energie esuberanti, sempre ottimista, a cui piace fare l’eroe e il capo di tutti, amante di hamburger, ma anche superstizioso e timoroso degli alieni.32 Di particolare interesse in ottica moe è la configurazione polimorfa dei personaggi principali. L’Italia è personificata di solito come ragazzo di tipo shōnen, ma è affiancata anche da una versione più adulta e virile (nonno Impero Romano) e da una versione Chibi Italia (Italia premoderna): una mini Italia femminilizzata e insidiata dalle attenzioni fisiche del più aggressivo e mascolino Chibi Austria (Austria pre-moderna) [figura 7]. Il Made in Italy ha ispirato un boom consumistico all’inizio degli anni Novanta, che ha promosso l’Italia a nazione straniera più amata in Giappone fra tutta la popolazione giovanile e femminile. Questa popolarità senza eguali al mondo è tuttavia condizionata ancora da una geografia immaginaria ambivalente che configura il Bel Paese da più di un secolo come “Occidente” orientalizzato: superiorizzabile come culla della civiltà “occidentale” (antica Roma, Rinascimento), e al contempo inferiorizzabile come pre-moderno rispetto a standard giapponesi o statunitensi (instabilità politica, inefficienza, emotività, ecc.). Cfr. Toshio Miyake, “Italian Transnational Spaces in Japan: Doing Racialised, Gendered and Sexualised Occidentalism”, in Maurizio Marinelli-Francesco Ricatti (a cura di), Emotional Geographies of the Uncanny: Reinterpreting Italian Transnational Spaces, edizione speciale di Cultural Studies Review, Vol. 19 (1), 2013 (in corso di pubblicazione). 32 Per una descrizione dettagliata di tutti i personaggi, suddivisi secondo le diverse piattaforme mediatiche e i diversi adattamenti amatoriali si veda http://hetalia.wikia.com/wiki/List_of_Axis_Powers_Hetalia_characters (01/02/2012). 31


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Fig. 7 Polimorfismo originale dell’Italia.

Hetalia rappresenta l’intersezione più riuscita fra il mondo maschile degli otaku e il mondo femminile delle fujoshi, fatto inusuale in Giappone data la spiccata segmentazione per genere maschile/femminile dell’industria culturale e delle culture giovanili. L’autore Himaruya nella creazione dell’opera si è infatti ispirato alle discussioni otaku on-line su “2channel” riguardo a armi, eserciti e nazioni, dalle quali emergeva che quello italiano era il più debole in assoluto, e appunto il più “sfigato”. Tuttavia, la personificazione delle nazioni avviene in veste non di ragazzine erotizzate, ma di ragazzi carini. Infatti il suo successo è stato decretato dal fandom femminile online, e in seguito soprattutto dall’appropriazione, imitazione e adattamento in ambito del dōjinshi: il mare magnum del manga amatoriale giapponese, che costituisce la linfa sotterranea e vitale di tutta l’industria culturale dei prodotti professionistici e mainstream. Nel mondo dōjinshi al femminile, Hetalia si è imposto fra il 2009 e il 2011 come opera più adattata e parodiata, con quasi 10.000 titoli diversi, esposti nei circuiti amatoriali delle grandi fiere interamente dedicate (“Hetalia Only Events”), nelle librerie specializzate di Akihabara e di Otome Road a Ikebukuro (il centro delle subculture fujoshi) e nelle infinite bacheche su internet.33 La rete è stata anche veicolo della sua straordinaria popolarità globalizzata, grazie al lavoro amatoriale di scanlation (scansione e traduzione del manga) e fansubbing (sottotitolazione dell’anime) di appassionati non giapponesi, avvenute prima ancora delle traduzioni ufficiali. Infine, le traduzioni ufficiali in inglese a fine 2010, hanno imposto i primi due volumi di Hetalia come manga più venduti nel mercato nordamericano. Questo successo può sembrare sorprendente se si considera che Hetalia è sin dalle origini un’opera amatoriale, priva di complessità narrativa e sofisticazione estetico-grafica. Buona parte del suo appeal è affidato ad un connubio di humour 33

YahooAuctionsJapan on line, elenca 8.443 titoli dōjinshi giapponesi e 2.565 oggetti cosplay riferiti a Hetalia. Si veda http://auctions.search.yahoo.co.jp/search?p=%A5%D8%A5%BF%A5%EA%A5%A2 &auccat=0&tab_ex=commerce&ei=euc-jp (12/11/2011). Al Komiketto 78 (estate 2010), la più grande fiera al mondo di manga e anime, erano stati registrati 1.586 circoli Hetalia intenti a vendere i propri prodotti Hetalia (manga, romanzi, poesie, illustrazioni, gadget) o a mettere in scena la propria versione cosplay. Si veda http://news020.blog13.fc2.com/blog-entry-788.html (12/11/2011).


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demenziale e personificazione maschile delle nazioni, i cui rapporti sono mediati da primordiali impulsi di attrazione e repulsione, con effetti indubbiamente esilaranti, e messi in scena attraverso brevi episodi ispirati ad eventi della storia mondiale. Infatti, le lettrici giapponesi del manga originale elencano in ordine di preferenza i seguenti termini chiave: 1. Amore; 2. Nazioni; 3. Piacere; 4. Moe; 5. Riso.34 Mentre in ambito dōjinshi, sono due i principali motivi della sua attrazione che trovano d’accordo autrici, lettrici e organizzatori delle grandi fiere nazionali:35 1. Hetalia e i suoi personaggi shōnen hanno esteso ad un pubblico femminile l’antropomorfismo moe della nazioni, finora confinato ad un pubblico maschile di otaku attratti dalle personificazioni shōjo. 2. Rispetto ad altre opere originali adattate in ambito dōjinshi, le storie e i personaggi in Hetalia sono poco vincolanti in termini di struttura narrativa, ambientazione e caratterizzazione psicologica. Questo dischiude spazi infiniti all’adattamento e alla parodia. In altre parole, stimola la fantasia più intima e genuina nei confronti delle nazioni preferite e delle combinazioni/accoppiamenti dei personaggi. Ma quali sono le fantasie sulla propria nazione e su quella altrui che Hetalia ha contribuito a stimolare in ambito amatoriale dōjinshi? Si tratta di fantasie strutturate secondo il codice sessualizzato di tipo yaoi, cardine delle subculture femminili fujoshi, e solo suggerito nella versione originale. Intimità omosessuale maschile declinata secondo la grammatica di coppia seme 攻め e uke 受け. Dove seme (“colui che penetra, attacca”) è il personaggio dominante, attivo, forte e più mascolino; mentre uke (“colui che riceve”) è il personaggio più remissivo, passivo e femminino.36 Il personaggio più adattato è Giappone (Nihon nell’originale, Honda Kiku nelle parodie) che pur rimanendo “biologicamente” uno shōnen, viene femminilizzato in chiave uke e declinato in infinite forme diverse. Da quelle più infantili, a partire da versioni meramente kawaii, ad altre più sessualizzate al limite della pedofilia, fino a comprendere versioni giovanili, con grande ricorso a forme di tipo androgino [figura 8]. I partner seme più ricorrenti nelle fiere Fig. 8 Polimorfismo dōjinshi del Giappone. 34 Sondaggio condotto nel 2010 dalla casa editrice Gentōsha Comics che ha pubblicato la versione cartacea di Hetalia: www.gentosha-comics.net/hetalia/enquete/index.html (03/07/2010). 35 Interviste condotte da chi scrive in Giappone durante sei fiere dōjinshi “Hetalia Only Events” (maggio-ottobre 2010). 36 Hori Akiko, Yokubō no kōdo: manga ni miru sekushuariti no danjosa 欲望のコード-マンガにみる セクシュアリティの男女差 (Il codice del desiderio: le differenze della sessualità maschile/femminile nel manga) Rinsenshoten, Tokyo 2009.


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dōjinshi dedicate solo al Giappone sono tutti personaggi caucasici delle nazioni euro-americane; in ordine di preferenza, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Prussia, Italia e Russia.37 Gli “accoppiamenti” più ricorrenti invece nelle altre fiere sono America (seme)/Inghilterra (uke), Inghilterra (seme)/Giappone (uke), Francia (seme)/ Inghilterra (uke), Germania (seme)/Italia (uke) [figura 9].38

Fig. 9 Da sinistra: America (seme)/Inghilterra (uke), Inghilterra (seme)/Giappone (uke), Germania (seme)/Italia (uke).

È evidente che la gerarchia sessualizzata di tipo seme/uke, adottata in chiave crossgender dai rapporti eterosessuali della società reale, viene in questo caso trasposta ai rapporti geopolitici e storici fra nazioni. Il risultato di questa dialettica geo-sessuale è la superiorizzazione mascolina dell’altro euro-americano “bianco” come seme, l’inferiorizzazione femminina del Giappone come uke, oltre che all’orientalismo esotico o rimozione del “Resto” del mondo. Si tratta in altre parole di una versione etnico-sessuale della moderna cartografia “Occidente”/”Giappone” che è stata egemone sin da fine Ottocento nella costruzione dell’identità nazionale giapponese;39 in questo caso specifico, si alimenta dell’“attrazione per l’uomo bianco” (gaijin akogare 外人憧れ), molto in voga in ambito femminile sin dagli anni Ottanta e non a caso anche cardine del genere più commerciale del Boys’ Love [figura 10].40

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Si veda il catalogo “Hetalia Nihon Uke Only Event: Sekai no Honda 2”, p. 1, organizzato da StadioYou a Tokyo (Ryūtsū Center, 5 settembre 2010). 38 Si vedano i cataloghi delle “Hetalia Sekai Kaigi Series”, organizzati da StadioYou a Osaka (Index Osaka, 19 settembre 2010, p. 1) e a Nagoya (Sangyō Rōdō Center, 12 settembre 2010, p. 8). 39 Toshio Miyake, “Seiyō (‘Occidente’) e tōyō (‘Oriente’) in Giappone: breve esplorazione di una geografia immaginaria”, in M. Del Bene, N. Lanna, T. Miyake, A. Revelant, Il Giappone…, cit., pp. 17-30. 40 Per uno studio sul “sogno occidentale” e sul feticismo dell’“uomo bianco” in ambito femminile, si veda Karen Kelsky, Women on the Verge: Japanese Women, Western Dreams, Duke University Press, Durham 2001. Per la testualità razzista del genere Boys’ Love si veda Kazumi Nagaike, “Elegant Caucasians, Amorous Arabs, and Invisible Others: Signs and Images of Foreigners in Japanese BL Manga”, Intersections: Gender and Sexuality in Asia and the Pacific, 20 (4), 2009 (http://intersections.anu.edu.au/ issue20/nagaike.htm).


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Fig. 10 A sinistra, America (seme)/Giappone (uke). Da 3xCross, Axp Books, vol.11 Himehajine, 2009, copertina e p. 10.

Occorre specificare che non tutte le opere dōjinshi al femminile sono pornografiche (vietate ai minori di 18) o erotiche (vietate ai minori di 15 anni), anche se nel caso degli adattamenti di Hetalia risultano prevalenti. Quello che accomuna comunque la maggior parte è la grammatica yaoi della parodia sessuale: parodia, perché richiede l’esistenza di un originale o ipotesto dove i personaggi sono maschili (in questo caso il manga originale di Himaruya privo però di scene sessuali esplicite); sessuale, perché l’adattamento avviene secondo una logica più o meno erotizzata di tipo cross-gender, in prevalenza omosessuale maschile, alternata da altre combinazioni queer o pedofile, in molti casi solo accennata, in molti altri apertamente rappresentata nei minimi dettagli. Conclusioni: Giappone e ‘post’-Giappone Ritornando ai quesiti iniziali, che cosa può rivelare Hetalia e il suo straordinario successo in ambito subculturale femminile a proposito del rapporto fra identità nazionale, storia e giovani? Come per ogni piattaforma multimediale, quindi non riducibile ad una singola opera e ricezione, sarebbe riduttivo limitarsi ad una interpretazione unilaterale. Ciò vale a maggior ragione per il media mix avviato da Hetalia che, oltre alla sua ulteriore moltiplicazione in ambito amatoriale, è stato in grado in pochi anni di suscitare reazioni tanto eterogenee quanto contrastanti. Da una parte, il fandom giapponese ha cercato di confinarne la fruizione secondo i canali collaudati dell’intimità privata, hobbificata e amatoriale tipiche del circuito dōjinshi al femminile. D’altra parte, la grande visibilità online ha esposto involontariamente il mondo Hetalia ad una serie di reazioni, tra le quali spicca quella indignata di netizens maschili in Corea del Sud per la rappresentazione stereotipata del personaggio Corea. Questo ha portato nel 2009 ad una petizione finita in Parlamento per fermare (con successo)


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l’annunciata diffusione televisiva anime di Hetalia, con accuse di “discriminazione criminale” nei confronti del governo giapponese.41 L’inattesa esposizione pubblica, amplificata dai media nazionali e internazionali, ne ha ulteriormente favorito la diffusione fra il fandom internazionale di manga e anime, provocando al contempo nuove accuse interne al fandom stesso, soprattutto per la trattazione disinvolta della storia mondiale e per le appropriazioni in chiave omosessuale maschile di tipo yaoi, fino a mobilitare infine l’attenzione di studiosi e accademici. Sarebbe facile concludere con una considerazione relativista, intenta a legittimare ogni singola interpretazione in quanto riconducibile a posizioni specifiche, spesso inconciliabili: fangirl giapponesi, anti-nipponisti asiatici, accademiche postfemministe o postmoderne, fandom internazionale bigotto, ecc. Non c’è dubbio in ogni caso che Hetalia esemplifichi bene un’ulteriore fase del “romanticismo cinico” teorizzato da Kitada a proposito del nazionalismo giovanile giapponese. I paradigmi moderni dell’“Occidente bianco”, della “nazione”, della “storia”, ma anche quelli di tipo sociale dell’“amore” e della “coppia (etero)-sessuale” continuano a fornire dei riferimenti imprescindibili di identità, anche se in veste di surrogati trasfigurati. Non si tratta tuttavia, come ben suggerisce Kitada, solo di simulacri vuoti e formali, ma di rappresentazioni e pratiche investite di un’altissima carica emotiva. Nel caso di Hetalia, un’idea di nazione e di storia che risultano ulteriormente disperse nella rete ormai globalizzata del media mix nipponico e, al contempo, ancora più intense e appassionate per la mobilitazione biopolitica di tipo moe in grado di attivare gli ambiti più intimi del piacere parodico, polimorfo ed erotizzato. In conclusione, contro ogni lettura sovradimensionata di Hetalia, è bene ricordare che si tratta di un fenomeno subculturale; sia le versioni originali, sia le migliaia di adattamenti sono sostanzialmente delle parodie nei confronti della nozione moderna e tuttora istituzionalizzata di Nazione e di Storia. Tuttavia, le parodie sono caratterizzate da uno statuto ambivalente, da un legame doppio e paradossale nei confronti del loro ipotesto originario in termini sia di conferma ripetitiva che di sovversione critica. E questo riguarda a ben vedere le subculture giovanili in tutto il mondo nel relazionarsi con la loro società di riferimento, presente e passata. As the postwar finally “ends”, the task in Japan and elsewhere is therefore to reconceive the modern, which is less an idea than an episteme, less a concept than a condition [...]. We all seem to suffer from a kind of conceptual insufficiency, in that we are facing the twenty-first century armed with the notions of the nineteenth. We are still moderns, which explain our obsession with “ends” and the caesura of 1989, but ours is a “nontopia”: we are without a vision of the future. The millennial challenge therefore is less a question of ends or of overcoming the modern than to avoid being overcomed by the modern and drifting visionless into the next millenium. And this problem is not Japan’s alone, but all of ours.42 41 Per l’accusa all’Assemblea Nazionale Coreana (13 gennaio 2009) pronunciata dalla parlamentare al governo Jeong Mi-Kyeong contro Hetalia in quanto insulto criminale al popolo coreano si veda www. youtube.com/watch?v=yo_btds9-kM (10/06/2010). 42 Carol Gluck, “The ‘End’ of the Postwar: Japan and the Turn of the Millennium”, in J.K. Olick (a cura di), States of Memory: Continuities, Conflicts, and Transformations in National Retrospection, Duke


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Pop Nationalism in Contemporary Japan: from Historical Revisionism to Moe Nation Anthropomorphism The increasing intermingling in contemporary Japan between nation branding of Cool Japan, historical revisionism, and youth subcultures have contributed to raise popular cultures as a strategic site in the hegemonic re-definition of the past, present, and future of the nation. This paper addresses the ongoing transformation among younger generations towards a post-ideological and post-modern experience of their national ‘imagined comuntiy’, described as “pop nationalism” (Sakamoto 2008) or “cynical comunity” (Kitada 2005). A fieldwork on the multiple media platform originated by the historical webmanga Axis Powers Hetalia (2006-present) and on its globalised success among female fandom, will provide further insights on the biopolitical mobilisation of moe (“burning passion”), as a combination of polymporphous pleasure and sexualised parody, shaping emergent representations of national history and identity.

歴史がセクシーになるとき -歴史修正主義から「萌え」による国家の擬人化へ-

三宅俊夫 今日の日本で、「クール・ジャパン」という国家のブランド化、歴史 修正主義、そして若者サブカルチャーがますます交錯していくこと で、国家の過去、現在、未来のヘゲモニックな再定義における戦略的 な場所としてのポピュラーカルチャーが盛り上がりを見せている。 本稿が注目するのは、「ポップナショナリズム」(Sakamoto 2007) あるいは「皮肉な共同体」(Kitada 2005)と記述される、若い世代に おける「想像の共同体」としての国家のポストイデオロギカルでポス トモダンな経験への変容である。 歴史を扱ったウェブマンガ『Axis Powers ヘタリア』(2006年連載開 始)によって生み出された複合的メディアプラットフォームと、女性 ファンのあいだでのそのグローバルな成功について、フィールドワー クを行う。それによって、国家の歴史とアイデンティティの新たな表 象を形作っている、多様なたのしみとセクシャライズされたパロディ の組み合わせとしての「萌え」の生政治的な動員について考察する。

University Press, Durham-London 2003, p. 312.



DANIELA MORO

Narrare il “mondo delle maschere”: Kamen sekai di Enchi Fumiko

Il “mondo delle maschere” che viene narrato in Kamen sekai 仮面世界 (Il mondo delle maschere), racconto di Enchi Fumiko 円地文子pubblicato nel 1963, non è solo quello del teatro nō, che nel senso letterale del termine utilizza la maschera per rappresentare personaggi diversi. Si tratta anche di un mondo che nasconde sotto la maschera narrativa una realtà che il lettore può percepire solo a tratti. La narrazione di questo racconto è infatti totalmente guidata dalla voce narrante, una donna di mezza età, affermata esecutrice di danze tradizionali giapponesi. In Kamen sekai la danzatrice “watashi” narra attraverso la lente della sua personale interpretazione la vita del defunto maestro e attore di nō Numanami Kazutoshi 沼波千寿. Questo articolo, concentrandosi sulla palese inaffidabilità della voce narrante, analizza le teorie del maestro Numanami sull’esecuzione del nō e i fatti della sua vita privata come sono narrati da watashi, suggerendo una lettura di quest’opera alla luce delle teorie sul gaze nate nell’ambito della cinematografia ed estese successivamente ad altre aree. L’articolo, esplorando l’accostamento tra narrazione inaffidabile e gaze in ambito narrativo, propone una lettura in chiave ironica di Kamen sekai, dando spazio a una visione critica nei confronti di alcune concezioni stereotipate di genere che sembrano al contrario trovare conferma in altre opere dell’autrice dello stesso periodo. I fatti come ci sono raccontati dalla discepola, prendono inizio da dopo la morte della moglie di Numanami, che lui ammirava e amava profondamente. Persa la moglie, Numanami – che inizialmente era contrario all’esecuzione del nō da parte delle donne – prende come discepola watashi. Successivamente decide di aprire il Nadeshikokai 撫子会, una scuola per giovani donne di buona famiglia, in compagnia delle quali il maestro riesce apparentemente a riempire la sua solitudine. Tuttavia subito prima della morte di Numanami, si viene a scoprire dell’esistenza di una donna – elegante come la defunta moglie – con cui il maestro aveva avuto una relazione per lungo tempo e che aveva sempre tenuto nell’ombra. La narratrice, che all’inizio del racconto aveva mantenuto una certa riservatezza e aveva negato di interessarsi agli aspetti privati della vita del maestro, gradualmente rivela il contrario. Ammette che anche lei è stata vittima del fascino di Numanami e confessa i sentimenti di rancore che ha provato nei confronti di quella donna misteriosa. Il racconto finisce con la grottesca scena della seduta spiritica in cui, se compiamo un atto di fiducia nei confronti della narrazione, il protagonista Numanami ha voce


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Kamen sekai di Enchi Fumiko

per l’unica volta, dopo la morte. Qui la narratrice, insieme alle donne dell’entourage, esprime finalmente il rancore che prova per Numanami parlando direttamente con lo spirito del maestro dopo aver scoperto della sua relazione. La narrazione di Kamen sekai è effettuata da un punto di vista strettamente e palesemente personale, fenomeno che in termini narratologici rientra sotto quello che Ansgar Nünning definisce “il grande ombrello del termine unreliable narration”, definizione apparsa per la prima volta nel 1961, tra le pagine di The Rethoric of Fiction di Wayne Booth.1 Al contrario di molte opere in cui l’inaffidabilità della narrazione è suggerita in maniera velata e dipende principalmente dalla modalità di ricezione del lettore, come viene teorizzato nel recente approccio cognitivo, nel caso di Kamen sekai è piuttosto palese, perché portata alla luce attraverso la netta contraddizione tra la posizione tenuta all’inizio della narrazione e quella rivelata verso la fine, oltre che dal tono chiaramente incerto di watashi sull’interpretazione di alcuni fatti. Per l’analisi di Kamen sekai si può pertanto considerare maggiormente adatto l’approccio retorico, che presuppone una inaffidabilità intenzionale da parte dell’autore implicito, anche se naturalmente il lettore implicito deve possedere gli strumenti per cogliere tale inaffidabilità.2 Watashi inizialmente – differenziandosi dalle altre discepole – afferma con forza di aver sempre ammirato il proprio maestro come artista e mai come uomo e di non essere pertanto a conoscenza della sua vita privata. Tuttavia l’ostinata negazione iniziale lascia via via spazio – come abbiamo accennato – a una confessione d’amore accompagnata a una forma di risentimento dovuta alla mancanza di interesse del maestro nei suoi confronti. Watashi, nel momento in cui cambia atteggiamento e comincia a narrare i fatti privati del maestro, si giustifica con la sua teoria sul legame indissolubile tra vita privata e rendimento nell’arte. Riguardo alle relazioni amorose del maestro, watashi afferma: “nel caso del maestro Numanami, non c’è modo di parlare separando la vita privata dall’arte, in quanto combaciano perfettamente”.3 Ad aggiungersi a questa contraddizione nei contenuti della narrazione, ci sono numerosi elementi presenti nel testo a livello formale, che secondo questo studio sono un altro forte indice di inaffidabilità. Il registro colloquiale (desu masu です・ます) in prima persona influisce sulla percezione della narrazione come frutto di una interpretazione di parte della narratrice, accentuato dall’uso continuo dei puntini di sospensione e dell’interruzione di frasi, dalle ripetizioni dello stesso concetto e dalle espressioni di incertezza come “probabilmente” (kamoshiremasen かもしれません), che indicano una esitazione riguardo la lettura dei fatti. 1

Wayne C. Booth, The Rethoric of Fiction, The University of Chicago Press, 1983, pp. 339-374. Per un confronto tra i due approcci si veda: Ansgar F. Nünning, “Reconceptualizing Unreliable Narration: Synthesizing Cognitive and Rhetorical Approaches”, in A Companion to Narrative Theory, James Phelan, Peter J. Rabinowitz (a cura di), Blackwell Publishing, 2008. 3 Enchi Fumiko, “Kamen sekai”, in Enchi Fumiko Zenshū, vol. IV, Tōkyō Shinchōsha, 1978, p. 118. L’opera è stata pubblicata per la prima volta sulla rivista Gunzō nel Novembre 1963. Questa e tutte le traduzioni in questo articolo dei testi di Enchi sono di chi scrive. 2


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Attraverso l’uso di tale registro viene riprodotta in Kamen sekai la forma del monologo teatrale a cui Enchi – che aveva esordito come drammaturga – era molto legata. Si tratta di una ipotetica intervista in cui l’interlocutore non ha voce. Mentre nel teatro il monologo è, insieme al dialogo, lo strumento principale per mostrare i pensieri del personaggio, ed è pertanto una tecnica da cui è difficile prescindere, il monologo utilizzato nella fiction acquista inevitabilmente una accezione diversa. Il fatto di riportare la forma dell’intervista – che solitamente è orale e dialogica – in un testo scritto ed eludendone una parte fino a trasformarla in un monologo, suscita nel lettore un sospetto di inaffidabilità, in quanto percepisce di non avere la garanzia né della presenza di un interlocutore, né del contenuto delle domande da lui ipoteticamente rivolte. Watashi, assumendo a pretesto la tecnica dell’intervista, si libera dalla responsabilità di una narrazione oggettiva che in una biografia sarebbe stata d’obbligo e la delega a un ipotetico intervistatore che guiderebbe la narrazione. La narratrice in tal modo ha l’alibi per permettersi di risultare incongruente e di fare riferimento a fatti privati dell’attore dal suo personale punto di vista. Questa sorta di dialogo censurato per metà, potrebbe essere infatti il frutto della volontà della narratrice di imporre il proprio punto di vista su Numanami, che essendo passato a miglior vita non ha la possibilità di replica, come non ce l’ha l’intervistatore le cui parole non sono riportate, ammesso che esista un intervistatore. Ci sono alcuni segnali che permettono al lettore di fare delle supposizioni sulla personalità della narratrice e che superano il contenuto esplicito del testo. Ad esempio il maestro avrebbe tessuto le lodi di watashi in virtù del suo aspetto poco avvenente, in quanto le avrebbe permesso attraverso la fatica di risultare piacente sul palco, di conoscere lo sforzo che un bravo attore deve fare sulla scena per “rompere sé stesso” e allontanarsi dal sé.4 È facile ipotizzare come dietro a tale affermazione si nasconda il complesso per il proprio aspetto e la conseguente invidia di watashi nei confronti delle discepole giovani e avvenenti del Nadeshikokai. Anche il fatto stesso che la narratrice insista più volte sul suo merito di essere servita da sprone al maestro a insegnare alle donne, potrebbe essere un ulteriore modo per trovare una raison d’etre nella propria poca avvenenza come motivo di successo sul palco. In un suo recente articolo che sintetizza i due approcci, retorico e cognitivo, che si sono sviluppati nello studio della narrazione inaffidabile, Ansgar Nünning individua due segnali che attestano la presenza di un narratore inaffidabile nel testo. Il primo consiste in “elementi presenti nel testo” – che ho appena enucleato per il caso di Kamen sekai – e il secondo in “pre-esistenti conoscenze concettuali del mondo e standard di normalità del lettore”.5 In Kamen sekai il fatto che Numanami avesse intrattenuto dopo la morte della moglie una relazione con un’altra donna è presentato come un fattore inaccettabile. Watashi era convinta che il maestro – nell’intento di mantenere una certa neutralità – nella realtà non si concedesse a nessuna e si attorniasse di donne per comprendere l’essenza della femminilità e riprodurla sul 4 5

Ibidem, p. 115. Ansgar F. Nünning, “Reconceptualizing Unreliable Narration…”, cit., p. 105.


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palco attraverso i ruoli femminili. Per questo motivo il fatto di scoprire che la sua bravura non fosse dovuta alla castità, ma al contrario il sospetto che dipendesse dal contatto fisico con una donna, rappresenta per watashi motivo di profondo rancore. Nel pensiero comune il fatto di avere una relazione stabile con una persona è più generalmente accettato rispetto al fatto di intrattenere più relazioni amorose, anche se non sessuali. Al contrario, nel sistema di valori della narratrice, sarebbe stato più accettabile che il maestro avesse flirtato con più donne. Volendo applicare anche l’approccio cognitivo, è evidente che c’è un divario tra il sistema di valori della narrazione e quello condiviso dal lettore implicito, situazione che sfocia nel rafforzamento del sospetto di inaffidabilità della voce narrante. Ci sembra necessario approfondire ora il concetto già accennato di realismo nel nō, che si collega, secondo questo studio, alla scelta narrativa di questo racconto. Watashi inserisce nella narrazione una lettura delle tecniche utilizzate dal maestro per rendere efficace una performance e spiega: Alla base dell’arte del maestro c’era il realismo. Se la paragoniamo alla pittura, era come dare forma allo schizzo utilizzando la tecnica del disegno dal vero. Inglobando le sensazioni che gli suscitava l’esperienza e poi prendendo le distanze dalla realtà, egli mirava ad adattarsi perfettamente al modello [kata 型] per creare qualcosa di solido. In termini contemporanei potremmo forse definirlo psicologia del profondo. Più si rispetta la forma [yōshiki 様式], lasciandosi assorbire dalla forma stessa, più la realtà vi si sovrappone manifestandosi tra un gesto e l’altro. Questa era la teoria del maestro e credo che questa idea abbia trovato la sua massima espressione nelle sue rappresentazioni di Yuya 熊野, Koi omoni 恋重荷, Kinuta 砧, Dōjōji 道成寺, Sotoba Komachi 卒塔婆小町, Utō 善知鳥, etc.6

È difficile dare un’interpretazione certa alla complessa spiegazione di watashi riguardo alle teorie del maestro. Che non si tratti di realismo nel senso stretto del termine è comprensibile dalla frase che afferma il distacco dalla mera descrizione della “realtà” (shajitsu 写実). Sembra piuttosto che l’attenta osservazione della realtà tangibile serva da punto di partenza, da ispirazione, per poi trasmetterne sul palco l’essenza proprio grazie al rispetto della rigida forma. Numanami crede talmente in questa teoria che arriva al punto di recarsi in Corea per ascoltare il suono del kinuta 砧, blocco per battere i panni, prima di eseguire l’omonimo nō Kinuta. Si tratta di una interpretazione delle teorie di Zeami 世阿弥 portata alle estreme conseguenze. Nel secondo capitolo del Kandesho 花伝書 (Libro della trasmissione del fiore), dedicato alla “mimesi” (monomane 物真似), Zeami afferma l’importanza dell’osservazione della realtà narrando ad esempio la difficoltà che si trova nell’interpretare ruoli di dame di alto rango per l’impossibilità a frequentarle e osservarle da vicino.7 Nello stesso capitolo Zeami esplicita la mancanza di interesse che suscita una riproduzione 6

Enchi Fumiko, “Kamen…”, cit., p.117. Zeami, Kadensho (Fūshi kaden), Kawase Kazuma (a cura di), Tokyo, Kōdansha bunko, 1999, p. 26 (trad. giapponese moderno p. 116). Il Kadensho è stato scritto tra il 1400 e il 1402.

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troppo fedele, chiamata “imitazione in stile antico”.8 Inoltre nella celebre teoria esposta più tardi nel Kakyō 花鏡 (Lo specchio del fiore), per la quale il movimento deve essere compiuto solo per i sette decimi, Zeami esplicita la necessità di astrazione affinché un ruolo sia eseguito sul palco in maniera da suscitare l’interesse del pubblico.9 Nella lettura di Numanami i kata, le forme astratte individuate da Zeami per eseguire i diversi ruoli sulla scena, sono dei contenitori vuoti, che accolgono l’attore con il suo bagaglio di esperienze e gli permettono di adattarvisi perfettamente. Tale esperienza del reale è variabile e molteplice, ma diventando un tutt’uno con la forma durante la rappresentazione, viene percepita come immutabile. In un certo senso la teoria di Numanami completa l’interpretazione delle teorie di Zeami ad opera di Benito Ortolani, secondo il quale: “In a real sense identification means that the actor should no longer be aware of imitating an exterior object because the object is no longer “exterior” to him”.10 Così secondo Numanami lo spettatore, attraverso il kata che vede eseguito sul palco, ha la possibilità di cogliere quel qualcosa che emerge “tra un gesto e l’altro” e che deriva dalla multiforme realtà. Una teoria che sostiene che il realismo sia fondamentale per l’esecuzione del nō, risulta tutt’ora alquanto controversa, se si prendono in considerazione alcuni degli studi dei maggiori teorici del nō dal dopoguerra ad oggi. Alcuni di essi, tra cui Toida Michizō 戸井田道三 e Hamamura Yonezō 濱村米蔵, teorizzano un certo realismo nel concetto di monomane nel nō del periodo di Kan’ami 観阿弥 e del primo Zeami, per poi sostenere che con l’affinamento derivato dai trattati di Zeami, il realismo sia andato via via perdendosi per lasciare spazio all’astrazione.11 Kanze Hisao 観世寿夫, colui che ha riproposto le teorie di Zeami dopo molti secoli in cui si eseguiva il nō senza essere a conoscenza dei suoi trattati, in un breve articolo intitolato “Astrattismo nel nō e natura” (Nō no chūshōsei to shizen 能の 抽象性と自然), parla del nō contemporaneo nei termini di una performance in cui inizialmente bisogna ridurre ad un’astrazione tutte le tecniche dalla musica al movimento, per poi aspirare alla naturalezza dello spirito e del corpo.12 Ci sembra tra queste la teoria più vicina a quella di Numanami, per il quale la stretta fedeltà alla forma è proprio il mezzo che permette in ultima analisi di cogliere la realtà che diventa un tutt’uno con essa nel corpo dell’attore. La natura è introiettata, superata e riproposta attraverso la forma. Ma non è oscurata dall’astrazione. Passando al secondo punto della teoria di Numanami, l’accenno che fa watashi alla proprietà del nō di condurre alla comprensione dell’inconscio, non è nulla di 8

Ibidem, p. 28 (trad. giapponese moderno p. 117) Zeami, Il segreto del teatro nō, René Sieffert (a cura di), trad. Gisèle Bartoli, Adelphi, Milano 1966, p. 146. Il Kakyō è stato scritto da Zeami nel 1424. 10 Benito Ortolani, “Zeami’s Aesthetics of the No and Audience Participation”, Educational Theatre Journal, XXIV, 2, Maggio 1972, p.111. 11 Toida Michizō, “Nōgaku no riarizumu”, Bungaku XVII, 1, Gennaio 1949, p. 12. Si veda anche Hamamura Yonezō, “Nō to kabuki no shajitsushugiteki isō ni tsuite”, Nō, V, 5, Maggio 1951, p. 4. 12 Kanze Hisao, “Nō no chūshōsei to shizen”, Kanze Hisao chosakushū: Zeami no sekai, vol. 1, Heibonsha, Tokyo 1980, p. 84. 9


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nuovo se considerato dal punto di vista odierno. Quando Kamen sekai è stato pubblicato nel 1963, si trattava di una teoria che era già stata presa in considerazione. Nel 1949 il famoso critico e germanista Takahashi Yoshitaka 高橋義孝affronta tra i primi le affinità tra il palcoscenico del nō e le teorie di Freud mettendo a fuoco come questo tipo di teatro abbia la capacità di toccare corde profonde dell’animo umano, e di risolverne i conflitti, non sempre spiegabili razionalmente. Rappresentando sulla scena dei sentimenti umani che, pur universali, sono sfaccettati e sintetizzano stati d’animo contrapposti come la rabbia e il riso, il nō può secondo Takahashi essere paragonato al mondo dell’inconscio.13 Tuttavia, nelle parole di Takahashi questa affinità rimane un po’ generica e non vengono esplicitati i termini del paragone. Anche molti anni dopo questo primo approccio di Takahashi, l’esecuzione del nō ha continuato ad essere vista come una forma di introspezione psicologica da vari studiosi, tra cui Thomas Immoos. Negli atti risultanti da un importante convegno sul nō svoltosi nel 1979 presso la Hosei University, Immoos propone alcuni esempi di drammi nō in cui il personaggio stesso grazie alla presenza dello waki 脇 che lo ascolta e gli fa domande alla stregua di uno psicoterapeuta, supera e risolve un conflitto interiore.14 A differenza di questi due approcci, nel testo di Enchi è invece chiaro come sia non solo lo shite 仕手 a superare i propri conflitti durante lo svolgimento del dramma, ma soprattutto l’attore, che adattando se stesso alla forma e facendo emergere la realtà esperita, può entrare in contatto col lato profondo della propria psiche. Dalle parole di watashi si può ipotizzare perciò che l’attore in questo modo riesca ad esternare sul palco i propri conflitti e possa in ultima analisi aspirare a una forma di auto-liberazione. Bisogna precisare che Immoos cita lo psicodramma moreniano tra gli esempi di utilizzo del teatro a scopo terapeutico, il che fa pensare che anche lui come la narratrice di Kamen sekai ipotizzi l’esecuzione del nō come una terapia direttamente a beneficio dell’attore. Tuttavia Immoos non entra nel merito di tale aspetto, e si limita a considerare la messa in scena della terapia attraverso l’analisi dei drammi, piuttosto che l’esecuzione stessa come terapia. Tornando a Kamen sekai, ci chiediamo cosa abbia spinto la narratrice a dare una spiegazione delle teorie di Numanami oltre che la palese volontà di spostare l’attenzione sulle abilità artistiche del maestro, per negare il proprio sentimento verso di lui. Abbiamo già accennato che il realismo da cui Numanami partiva era basato sull’osservazione, soprattutto per quanto riguarda i ruoli femminili. Watashi afferma: “Avere di fronte agli occhi delle donne giovani, muovere mani e piedi e cantare durante le prove, diventava un esercizio anche per lui, che poteva 13

Takahashi Yoshitaka, Geijutsu no himitsu: geijutsu hihyō ni okeru kyōju no mondai, Tōkyō Daigaku Kyōdō Kumiai Shuppanbu, 1949, pp. 170-89. 14 Thomas Immoos, Konishi Jin’ichi, Koyama Hiroshi, “Nōgaku kenkyū no hōkō”, Sekai no naka no nō: Hōsei Daigaku daiyonkai kokusai shinpojiumu no kiroku, Hōsei Daigaku nōgaku kenkyūjo (a cura di), Hōsei Daigaku Shuppankyoku, 1982, pp. 47-50.


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osservare (nagameru 眺める) la figura di una donna reale.15 Il verbo nagameru in giapponese è quello più vicino al concetto del gaze (sguardo), che è stato al centro della tesi femminista nell’ambito del cinema iniziato da Laura Mulvey nel 1975. Secondo questa celebre teoria lo sguardo inteso come metafora della dominazione di un soggetto (attivo) su un oggetto (passivo) è prerogativa “maschile”. Secondo Mulvey anche se si tratta dello sguardo di una donna nei confronti di un uomo, il gaze rappresenta comunque un rapporto basato sulla dominazione e quindi ha un effetto “mascolinizzante” sul soggetto. Pertanto non ci può essere una degerarchizzazione dell’utilizzo del gaze.16 Analogamente, secondo l’interpretazione che viene suggerita nella narrazione, anche il maestro Numanami nel suo sguardo nei confronti delle discepole nasconde un atteggiamento di dominazione, che sfocia nello sfruttamento della loro vicinanza per mettere in pratica le sue teorie sul realismo e riportare sul palco ciò che ha esperito grazie a loro. La voce narrante di Kamen sekai sottolinea come Numanami “per esprimere sul palco dei drammi di donne (katsuramono 鬘物) così raffinati, probabilmente aveva bisogno di giocare con delle donne”.17A loro volta le discepole acquisiscono sicurezza dal fatto di sentirsi ammirate e traggono un piacere narcisistico dal loro “tradizionale ruolo esibizionistico” di oggetto del gaze.18 Tale armonioso rapporto tra soggetto e oggetto del gaze provoca l’invidia di watashi, che ne rimane esclusa a causa della sua poca avvenenza. A questo proposito ci sembra opportuno approfondire un importante elemento che emerge da Kamen sekai e che provoca la discriminazione di genere in campo artistico, profondamente legato al discorso sul gaze: l’aspetto fisico. Watashi spiega con le seguenti parole la differenza tra un’attrice e un attore dall’aspetto poco gradevole nel campo delle arti tradizionali, facendo riferimento al suo aspetto e a quello del suo maestro, entrambi poco avvenenti. Da questo punto di vista io e altre, pur essendo donne, ci siamo affannate e abbiamo lottato per migliorare le nostre abilità quando eravamo giovani, ma non so quante volte ho pensato con amarezza che se mi fosse stato concesso di presentarmi sul palco al naturale come un uomo, sarebbe stato meno faticoso percorrere questa strada. Se fossi stata una bellezza che non avesse bisogno di preoccuparsi né della pettinatura, né degli abiti per non rischiare di essere considerata brutta, probabilmente il mio stile nella danza sarebbe stato molto più grossolano.19

Watashi è esplicita nell’affermare che il fatto di non avere un aspetto aggraziato è stato per lei d’aiuto nello sviluppo di un’abilità artistica più elevata delle altre 15 16 17 18 19

Enchi Fumiko, “Kamen…”, cit., p. 120. Laura Mulvey, “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, Screen, 16, 3, Autunno 1975, pp. 6-18. Enchi Fumiko, “Kamen…”, cit., p. 125. Laura Mulvey, “Visual Pleasure…”, cit., p. 7. Ibidem, p. 114.


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donne. Con questo concetto della “rottura del sé” per un attore, già accennato in precedenza, viene sottinteso che una donna bella è anche meno spronata in generale rispetto ad un uomo a sforzarsi di raggiungere alti livelli di performance, perché la sua naturale bellezza compensa le lacune a livello artistico. Al contrario, un uomo che deve impersonare ruoli di donna, deve esercitarsi di continuo per mantenere una grazia sul palco che non gli sarebbe richiesta nella vita quotidiana. Fuori dal palco, inoltre, l’uomo brutto esprime al massimo la sua forza interiore (tsuradamashii 面魂) se riesce ad apparire disinvolto anche nelle sue meschine sembianze.20 Si può dire che watashi riporti una visione dell’aspetto fisico che differisce a seconda del genere, perfettamente in linea con le teorie sopra accennate della centralità della donna come oggetto dello sguardo. L’idea di sfruttamento artistico della presenza delle donne da parte del maestro, giustifica l’affermazione di watashi alla quale abbiamo già accennato in precedenza riguardo lo stretto legame tra vita privata e arte. Questa visione viene rafforzata nella narrazione dopo il colpo di scena in cui watashi viene a conoscenza dell’esistenza di una donna che il maestro aveva tenuta nascosta in un appartamento per molti anni. La narratrice comincia a pensare che i ruoli femminili di Numanami avessero acquisito grazia e profondità non tanto per merito della osservazione delle discepole, che gli servivano soprattutto da copertura, ma soprattutto grazie al controllo non solo visivo ma anche fisico e mentale di quella donna. Si può dire allora che il rapporto con questa donna misteriosa fosse più significativo di quello con le discepole per quanto riguarda l’esperienza del reale esaltata dal maestro nelle sue teorie. In particolare, possiamo affermare che la coppia incarnasse il binomio attivo/ passivo teorizzato da Mulvey, tenendo anche conto del fatto che la donna – segregata in casa per mantenere la segretezza del rapporto – sosteneva un ruolo passivo tout court. Watashi, riassumendo il proprio pensiero e quello di Tsuruko 津留子, la nipote del maestro, confessa: Pensavamo che dopo la morte della moglie in quella sua vita solitaria da monaco, il maestro avesse continuato nello sforzo da vero artista di creare sul palco sotto la sua maschera delle figure femminili aggraziate, ispirandosi alle avvenenti discepole di cui si era circondato. Così avevamo interpretato l’esistenza del Nadeshikokai, ma dietro a tutto questo si nascondeva la figura di una donna in carne e ossa, Sawamoto Saya [沢本紗綾]. Non ci sfiorava nemmeno in sogno l’idea che il sentimento che era nato tra lui e quella donna potesse essere stato nascosto agli altri tramite quelle discepole, che funzionavano da paravento o da muro. In questo senso il Nadeshikokai era stato un comodo espediente che il maestro aveva sotto mano da utilizzare per il suo camoufflage.21

Questa interpretazione viene confermata anche dalle presunte parole del protagonista, che sembrerebbe avere voce almeno dopo la morte, attraverso la seduta 20 21

Ibidem, p. 114. Ibidem, p. 133.


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spiritica finale. Tuttavia, proprio perché durante la seduta spiritica è la medium a pronunciare le parole di Numanami, sorge naturalmente il dubbio che siano anche quelle una contraffazione, soprattutto quando afferma: “Come avete potuto pensare che negli ultimi anni potessi eseguire le mie performance senza una donna vera al mio fianco? Non era forse scontato?”.22 Il legame tra il rapporto con una donna e l’abilità sul palco del maestro, che a livello narrativo risulta ovvio, non è invece per nulla scontato nella visione del lettore implicito, il quale è portato ancora una volta a chiedersi se lo sfruttamento da parte di Numanami nei confronti delle donne per avere successo non sia tutta una interpretazione di watashi. Nel caso del rapporto tra Numanami e la donna tenuta nascosta di nome Saya, bisogna sottolineare che il comportamento egoistico del maestro si estende, secondo watashi, non solo ai sentimenti, ma anche agli aspetti materiali. La giovane donna infatti ha dedicato tutti i suoi sforzi per lunghi anni ad assistere l’amante ormai anziano, il quale non si è nemmeno preoccupato di provvedere per lei un sostentamento dopo la sua morte. Questa inaspettata noncuranza del defunto maestro, fa affermare a watashi che la giovane Saya è stata “spremuta fino al midollo”.23 A questo proposito, ci sembra opportuno approfondire ulteriormente il discorso sul gaze. Mary Ann Doane, una delle studiose di riferimento quando si parla di cinema e genere, afferma: “Female specificity is thus theorised in terms of spatial proximity. In opposition to this ‘closeness’ to the body, a spatial distance in the male’s relation to his body rapidly becomes a temporal distance in the service of knowledge”.24 Si tratta di un’interessante aggiunta alle teorie di Mulvey sulla dicotomia soggetto/oggetto, attivo/passivo, tramite la focalizzazione su un’altra opposizione molto importante, che è quella di vicinanza/distanza, teorizzata principalmente dal cosiddetto femminismo francese – ispirato a sua volta dalla psicoanalisi come Mulvey – e posta da Doane in relazione all’immagine. Secondo tale teoria, la donna è incline alla vicinanza con l’oggetto del gaze, mentre l’uomo mantiene sempre una certa distanza, pertanto è più facilitato a trarne profitto, perché ha un distacco che è essenziale alla comprensione. Seguendo la teoria di Numanami nelle parole di watashi, tale distanza potrebbe essere interpretata anche come quella necessaria all’attore di nō, che ripropone sul palco ciò che ha assimilato, in maniera non realistica tout court, ma lo fa attraverso il distacco dalla sua stessa esecuzione che il rispetto della forma gli impone. Un distacco, la “rottura del sé” che, come abbiamo visto, nelle parole di watashi è più difficile da effettuare per un’attrice donna. Doane è stata criticata da varie teoriche di cinema e femminismo, tra cui Patrice Petro e Tania Modleski per aver enfatizzato un binomio – quello di donna e vicinanza – che scade nell’essenzialismo e lega la donna proprio ai vecchi schemi 22

Ibidem, p. 138. Ibidem, p. 135. 24 Mary Ann Doane, “Film and the Masquerade: Theorising the Female Spectator”, Feminist Film Theory: A Reader, Sue Thornham (a cura di), Edinburgh University Press, 1999, p. 136. 23


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di potere del gaze che Doane tenta di superare.25 Un simile approccio essenzialista si ritrova anche in alcune opere di Enchi degli anni 1950-1960, tuttavia la visione che emerge da altre opere più complesse tra cui Kamen sekai è da considerarsi più critica, finendo per mettere in dubbio la visione stereotipata che sembra inizialmente esprimere. 26 È significativo che da metà dagli anni 1970 ad oggi nessuno studioso sia riuscito a sradicare totalmente la teoria di Mulvey de-gerarchizzando il gaze, nonostante come abbiamo visto, ci siano stati tentativi di teorizzare il female gaze in svariati campi, tra cui quello letterario. Una spiegazione a questa difficoltà è data da Mary Ann Doane stessa: The difficulties in thinking female spectatorship demand consideration. After all, even if it is admitted that the woman is frequently the object of the voyeuristic or fetishistic gaze in the cinema, what is there to prevent her from reversing the relation and appropriating the gaze for her own pleasure? Precisely the fact that the reversal itself remains locked within the same logic.27

Uno studio che è parzialmente riuscito a teorizzare il female gaze in letteratura è quello di Beth Newman del 1990, in cui si analizza la voce narrante in Wuthering Heights.28 Mentre Newman nega la possibilità di de-gerarchizzare il gaze, allo stesso tempo teorizza la narrazione di Wuthering Heights come “gaze fittizio, espressione del gaze che struttura la famiglia borghese” e trova uno spiraglio nel completo controllo che tale gaze narrativo opera.29 Nel nostro caso potremmo ipotizzare uno sguardo narrativo espressione del gaze che struttura il mondo delle arti teatrali, frutto del rancore e della volontà di auto-affermazione della narratrice. Watashi è una donna che ha cercato, nonostante il suo aspetto sgradevole, di fare carriera nel mondo delle arti performative tradizionali, ancora restio all’accettazione del successo femminile sul palco, ed è allo stesso tempo una donna che si è sentita sempre messa da parte e che non è stata a sua volta oggetto dello sguardo 25

Un’analisi del dibattito tra Doane e Petro si trova in Kristyn Gorton, Theorizing Desire: From Freud to Feminism to Film, Palgrave Macmillan, 2008, pp. 74-79. 26 Ci riferiamo ad esempio al rapporto tra genere e visione artistica in Ano ie (Quella casa, 1953), o al discorso sulla donna e il karma a proposito di Onnamen (1958). Un esempio di opera che lascia più spazio a una lettura critica dell’approccio della narratrice è riscontrabile invece nell’opera tarda Onnagata Ichidai: Shichisei Segawa Kikunojō- den (Una vita da onnagata: biografia di Segawa Kikunojō VII), pubblicato per la prima volta sulla rivista Gunzō, tra Gennaio e Agosto 1985. Quest’opera può essere a nostro avviso letta come una versione raffinata della narrazione inaffidabile di Kamen sekai. Si veda: Daniela Moro, “The Fatal Charm of the ‘Real Onnagata’ in Enchi’s Works: An Analysis of Onnagata ichidai from a Gender Perspective”, Proceedings of the Association for Japanese Literary Studies, XI, 2010, pp. 121-135. 27 Mary Ann Doane, “Film and the Masquerade…”, cit., p. 131. 28 Beth Newman, “‘The Situation of the Looker-On’: Gender, Narration and Gaze in Wuthering Heights”, PMLA CV, 5, Ottobre 1990, pp. 1029-1041. 29 Ibidem, p.1036.


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del maestro, come invece lo erano chiaramente le altre discepole. Inoltre il fatto che Numanami abbia tenuta nascosta la sua relazione è motivo in più di rancore da parte della narratrice, la quale non è stata in grado di controllare con il suo sguardo – sia reale che metaforico – la vita privata del maestro. In questo senso la tecnica dell’intervista con un interlocutore muto è utile a watashi per esercitare il suo controllo sulla vita del maestro e creare pertanto una forma di female gaze. Il gaze di watashi espressione di una volontà di dominio nei confronti del maestro è espresso non solo metaforicamente, ma anche materialmente in più punti, soprattutto quando lui è a letto in ospedale ormai in coma e non è più in grado di ricambiare lo sguardo: “I miei occhi fissarono il volto del maestro ormai giunto al declino, come a penetrarlo”;30 oppure: Ormai sul procinto di mettermi sulla strada di casa, rientrai per l’ultima volta nella stanza dell’ospedale e guardai il volto del maestro per un po’, rimanendo in piedi. Tutte le sue protezioni di un tempo erano svanite da quel volto ormai senza lucidità, verso il quale la morte si stava avvicinando. Più che un anziano, questa persona che affondava e riaffiorava assorto tra le onde della malattia mi parve infantile come un bambino ingenuo. Non si poteva proprio immaginare che quest’uomo avesse un tempo attirato a sé e deluso molte donne utilizzando dei tranelli.31

Non solo Numanami diventa oggetto dello sguardo dominante di watashi, ma al funerale del maestro anche la donna misteriosa viene continuamente scrutata dalla narratrice. Le espressioni che descrivono il gaze di watashi alludono a una continuità dello sguardo: dalla ricerca della figura di Saya tra la gente, al momento in cui Saya viene individuata e paragonata per la sua bellezza alla maschera dello shite di Yō kihi 楊貴妃, fino alla scomparsa tra gli altri partecipanti vestiti di nero.32 Il fatto che watashi fissi il suo sguardo indifferentemente su un uomo e su una donna, conferma ancora una volta la teoria di Mulvey della “mascolinizzazione” dello sguardo e l’intento di supremazia che sta alla base dell’azione di guardare. Tale tipo di approccio allo sguardo è rafforzato dal fatto che nella descrizione del gradevole aspetto fisico di Saya da parte di watashi, si percepisce chiaramente una erotizzazione dell’oggetto, proprio come se il soggetto femminile del gaze fosse stato costretto ad operare una identificazione con il genere opposto ai fini di fissare il suo sguardo su un’altra donna, fenomeno a cui Mulvey si riferisce con “trans-sex identification”.33 Secondo Doane, tale empatia con l’altro sesso – o con l’altro genere – è una conseguenza dell’associazione vicinanza/donna e sarebbe dovuta alla 30

Enchi Fumiko, “Kamen…”, cit., p. 130. Ibidem, p. 132. 32 Ibidem, pp. 134-5. 33 Laura Mulvey, “Afterthoughts on ‘Visual Pleasure and Narrative Cinema’ Inspired by King Vidor’s Duel in the Sun (1946)”, in Mary Ann Doane, “Film and the Masquerade…”, cit., p. 125. 31


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necessità del soggetto femminile di ottenere la distanza adeguata per trarre piacere dall’immagine.34 Inoltre, sempre in linea con questa teoria, watashi sembra utilizzare parole non sue, ma sentite proferire da persone dell’altro genere, quando insiste nell’affermare ripetutamente alcuni preconcetti nei confronti delle donne. Watashi afferma: “Le donne sono strane”;35 oppure: “Le donne provano questo tipo di bruciante gelosia a prescindere dall’età, quando sono orgogliose del fatto che un uomo le ammiri, anche se non sono innamorate”.36 Allo stesso tempo, però, si vuole far notare come a questo atteggiamento si alterni un altro “femminilizzato” di immedesimazione nell’oggetto dello sguardo, Saya, sfruttata e poi abbandonata dal maestro. Afferma watashi: “…mi appariva di fronte agli occhi la figura di quella giovane, bella donna che come le discepole del Nadeshikokai, anzi… dieci volte tanto appassiva tra le lacrime, e come una pianta da fiore colpita da una pioggia torrenziale, si inzuppava e si accasciava a terra”.37 In queste frasi si percepisce la rabbia provata in nome di tutte le donne che sono state deluse dal maestro, emozione che emerge in uno spirito di alleanza femminile che affianca competizione e compassione, riscontrabile anche in opere più conosciute di Enchi, quali Onnazaka 女坂 (Il sentiero delle donne) e Onnamen 女面 (Maschere di donna).38 La volontà di controllo sulla vita di Numanami, dovuta alle frustrazioni personali di watashi, unita alla voglia di vendicare la delusione che il maestro ha provocato a molte donne del suo entourage, potrebbe essere sfociata nella volontà di dominare Numanami anche con lo sguardo narrativo. Tale female gaze sviluppato attraverso l’invadente voce narrante di Kamen sekai, può quindi essere interpretato come estremo tentativo di ribaltare il controllo maschile in campo artistico, ma anche nel privato. È noto che in Onnamen la trama si sviluppa intorno alla vendetta di una donna nei confronti dei maltrattamenti subiti dal marito. Ci sembra importante sottolineare qui la differenza tra la visione della vendetta che emerge da Onnamen, e quella invece di Kamen sekai, opera scritta solo 5 anni dopo. In Onnamen la vendetta se non giustificata, non è nemmeno condannata. Essa è perpetrata in nome di tutte le donne a conseguenza del loro karma, provocato dalle colpe maschili. La protagonista, nonostante il terribile crimine che compie, rimane un personaggio affascinante ed è difficile per il lettore assumere un distacco critico. Kamen sekai, invece, opera costellata da segnali di palese inattendibilità, mostra un atteggiamento quasi ironico nei confronti della vendetta della narratrice, compiuta attraverso il mezzo letterario, tradendone l’intento e smentendone pertanto la visione. Si può dire 34

Mary Ann Doane, “Film and the Masquerade…”, cit., p. 139. Enchi Fumiko, “Kamen…”, cit., p. 123. 36 Ibidem, p. 124. 37 Ibidem, p. 134. 38 L’opera Onnazaka è stata serializzata in varie versioni, per poi essere pubblicata integralmente da Kakugawa Shoten nel 1957. L’opera Onnamen è apparsa per la prima volta sulla rivista Gunzō, tra Aprile e Giugno 1958. 35


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perciò che la vendetta di watashi non viene portata a termine, ma sortisce l’effetto contrario, scadendo in un tentativo goffo e fallimentare di mettere in cattiva luce Numanami, vittima come si direbbe in termini odierni, dello “stalking” postumo della discepola. Kaja Silverman, un’altra delle maggiori studiose nel campo del cinema, afferma che l’inaffidabilità della narrazione, spesso incarnata da una voce femminile, sia indice per contro della autorevolezza del soggetto maschile.39 Inoltre, possiamo affermare che, essendo la voce della narratrice marcatamente incline alla stereotipizzazione di genere, il fatto di renderla inaffidabile nega in ultima analisi l’autorevolezza di tale punto di vista.40 Così facendo si lascia spazio a una diversa ipotesi sulla lettura della vita di Numanami, lontana dai pregiudizi di genere di cui watashi si fa portavoce. Se paragonata ad altre opere di Enchi dello stesso periodo, in Kamen sekai, grazie alla sua forma narrativa, è evidente lo spiraglio di cui parla Newman. Esso permette ad un lettore attento di percepire la costruzione che sta alla base della narrazione di questo racconto e di liberarsi dal controllo dello sguardo narrativo dominante. Kamen sekai, con il suo gioco di sguardi sia materiali che metaforici, rappresenta un valido seppur poco noto esempio della raffinatezza e dell’arguzia che caratterizzano la letteratura di Enchi Fumiko.

39 Kaja Silverman, “Dis-Embodying the Female Voice”, in Mary Ann Doane, Patricia Mellencamp, Linda Williams (a cura di), Re-vision: Essays in Feminist Film Criticism, The American Film Institute, 1984, p. 131. 40 Gaby Allrath, allieva di Nünning, afferma un concetto semplice, ma basilare a proposito dell’inaffidabilità della voce narrante: “once readers have recognized that they are dealing with an unreliable narrator, they will interpret a text differently”, in Gaby Allrath, (En)Gendering Unreliable Narration: A Feminist-Narratological Theory and Analysis of Unreliability in Contemporary Women’s Novels, Wissenschaftlicher Verlag Trier, Trier 2005, p. 71.


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Kamen sekai di Enchi Fumiko

Narrating “A World of Masks”: Enchi Fumiko’s Kamen sekai Kamen sekai, written in 1963 by Enchi Fumiko, is narrated in monologue, constructed through replies to hypothetical questions during an interview. The narrator “watashi”, a middle-aged woman dancer of traditional dances, tells the story of her master and the famous nō actor Numanami, entirely from her point of view. This paper, focusing on the unreliability of this narration, analyzes Numanami’s theories on the performance of nō and the facts of his private life as narrated by watashi, suggesting a reading of this work in the light of the gaze theories initially produced through film studies. Exploring the combination of unreliable narration and narrative gaze, this article offers an ironic reading of Kamen sekai, giving light to a critical vision of gender stereotypes which interestingly seem to emerge from other works of the same period by Enchi.

仮面の世界を語る -円地文子の『仮面世界』-

モーロ・ダニエラ 1963年に円地文子によって執筆された『仮面世界』は独特な形で書か れており、インタビューにおける質問への返答を集めたモノローグの ような形式をとっている。日本舞踊家である語り手の『私』は、個人 的な観点から見た自分の亡くなった師、能楽師沼波千寿の人生を語 る。 この論文では、信頼できない語り手を意識した上で、能の舞台に関す る沼波先生の持論と、『私』から見た先生の私生活の事情を検討す る。アメリカの映画学で生まれた『ゲイズ』理論を文学に応用し、信 頼できない語り手と同時に取り扱うことによって、『仮面世界』の皮 肉をこめた読みを提案する。また、同時代に書かれた円地のほかの作 品では、ジェンダーにおけるステレオタイプが幾つか現れるが、本作 品はそれへの批判として読み取れることを検討する。


DANIELE RESTA

Metamorfosi del grottesco: riletture contemporanee della leggenda di Shutendōji

La storia di Shutendōji (letteralmente “fanciullo beone” o “accolito beone”) è una delle leggende più popolari del Giappone medievale. Lo testimonia il cospicuo repertorio visivo e narrativo che la riprende, un corpus di testi che spazia dagli emaki, che rappresentano i più antichi documenti scritti sulla leggenda, a paraventi (byōbu), ukiyoe e, ancora, testi per il kojōruri, il nō e il kabuki. Assai ricorrente nel repertorio fiabesco dal periodo Meiji in poi, in tempi più recenti la leggenda ha suscitato l’interesse di personalità molto diverse tra di loro, che l’hanno riadattata secondo i canoni delle più svariate forme espressive: dalle consuete rielaborazioni letterarie a quelle cinematografiche, dai manga alle rappresentazioni teatrali, fino a citazioni più o meno dirette nel mondo dei videogame. Di conseguenza, almeno in Giappone, la storia è stata oggetto di studi nelle più svariate discipline, attraendo esperti di letteratura, religione, folclore, arti visive e performative.1 Pur narrando un evento del periodo Heian (794-1185), la leggenda di Shutendōji ha conosciuto forma scritta solo in tempi medievali. Il più antico documento a noi pervenuto, infatti, rimane lo Ōeyama ekotoba, un rotolo illustrato risalente a un periodo compreso tra fine Kamakura (1185-1333) e inizi Nanbokuchō (1336-92), custodito presso il Museo d’Arte Itsuō di Ōsaka. Tuttavia, la grande quantità di testi che riprendono la leggenda, ma soprattutto il numero delle sue varianti, suggeriscono che le sue origini vadano rintracciate in una più antica tradizione orale. D’altronde, l’appartenenza a una tradizione orale precedente è una delle caratteristiche del genere otogizōshi, di cui Shutendōji rappresenta uno degli episodi più significativi e, senza dubbio, meglio noti.2 Il grande repertorio narrativo e visivo concernente la storia di Shutendōji viene sostanzialmente suddiviso dagli studiosi in due parti: le versioni Ōeyama (monte Ōe) e quelle Ibukiyama (monte Ibuki), dal nome della montagna che ospita la 1

Tra i tanti studi in giapponese, si vedano: Satake Akihiro, Shutendōji ibun, Heibonsha, Tokyo 1977; Takahashi Masaaki, Shutendōji no tanjō: mō hitotsu no Nihon bunka, Chūō kōronsha, Tokyo 1992; Komatsu Kazuhiko, Shutendōji no kubi, Serika shobō, Tokyo 1997; Minobe Shigekatsu, Minobe Tomoko, Shutendōji e o yomu: matsurowanu mono no jikū, Miyai shoten, Tokyo 2009. I maggiori contributi in lingue occidentali sono di Noriko T. Reider, raccolti di recente nel volume Japanese Demon Lore: Oni from Ancient Times to the Present, Utah State University Press, Logan 2010. 2 Gli studi sul genere otogizōshi abbondano ormai anche nella produzione scientifica occidentale. Per una discussione in italiano, si veda Roberta Strippoli (a cura di), La monaca tuttofare, la donna serpente, il demone beone. Racconti dal medioevo giapponese, Marsilio, Venezia 2001.


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dimora del demone. Tuttavia, è possibile distinguere almeno due varianti della versione Ibukiyama: la prima contiene una sorta di proemio in cui si narrano le origini dell’oni sul monte Ibuki, raccontando del suo successivo peregrinare da un monte all’altro, fino al definitivo stabilirsi ai piedi del monte Ōe. La seconda, invece, seguirebbe sostanzialmente la struttura narrativa delle versioni Ōeyama, conservando tuttavia qualche differenza, come appunto il luogo della fortezza.3 La versione più conosciuta, tuttavia, è quella contenuta nella raccolta di ventitré otogizōshi, dal titolo Goshūgen otogibunko (Biblioteca benaugurante di compagnia, successivamente nota col titolo alternativo di Otogizōshi), ideata nei primi decenni del diciottesimo secolo da un libraio di Ōsaka di nome Shibukawa Seiemon. La versione, strutturata in almeno quattro nuclei narrativi, si apre con una descrizione degli eventi nella capitale, dove in seguito alla continua scomparsa di dame di alto rango viene convocato un indovino, il quale sentenzia che le sparizioni sono opera di un demone che vive sul monte Ōe, nella provincia di Tanba. Su ordine imperiale vengono convocati Minamoto no Raikō e i suoi quattro attendenti, gli shitennō, che, prima di partire alla volta della dimora del demone, si appellano alle divinità, affinché li sostengano nell’impresa. Poi mettono a punto la strategia di combattimento: giungere nella fortezza di Shutendōji travestiti da yamabushi, i monaci itineranti. Con l’inizio dell’estenuante viaggio tra l’impervia montagna si apre il secondo nucleo narrativo, che prevede anche uno dei passaggi più significativi dell’intero otogizōshi, che ne sottolinea il messaggio religioso: le divinità precedentemente pregate si manifesteranno ai valorosi guerrieri, ribadendo il loro aiuto durante la missione. Poco prima di giungere alla fortezza del demone, il gruppo si imbatte anche in una giovane dama, assorta a lavare nel fiume delle vesti insanguinate, che rivela per la prima volta agli uomini – e al narratario – l’orrore antropofago che si compie tra le mura della residenza demoniaca. Dopo aver fornito una dettagliata descrizione della sfavillante dimora, il Castello di Lapislazzuli, la giovane offre una descrizione del terrificante aspetto di Shutendōji. Il terzo nucleo narrativo concerne gli avvenimenti nel castello: una volta accolti, Raikō e i suoi hanno modo di appurare la veridicità delle voci sulla frequente pratica dell’antropofagia da parte del demone che, ben presto, li invita a un tanto singolare quanto raccapricciante banchetto a base di carne e sangue umani. Dopo aver bevuto il sake magico donato a Raikō dalle divinità, Shutendōji, assonnato, si ritira nelle sue stanze, ed è qui che i guerrieri lo raggiungeranno per annientarlo definitivamente, ancora una volta con l’aiuto delle divinità, in un tripudio di sangue, mutilazioni e smembramenti. La narrazione si chiude con il ritorno trionfante dei guerrieri nella capitale, tra il caloroso entusiasmo di abitanti e autorità locali.4 Appare chiaro, dunque, che quella di Shutendōji è una storia di bene che trionfa 3

Quitman Eugene Phillips, “The Price Shuten Dōji Screens: A Study of Visual Narrative”, Ars Orientalis, XXVI, 1996, pp. 8-11. 4 Versione contenuta in Ōshima Tatehiko (a cura di), Otogizōshishū, in Nihon koten bungaku zenshū, XXXVI, Shōgakukan, Tokyo 1974. Per una traduzione in italiano, si veda Roberta Strippoli (a cura di), La monaca tuttofare…, cit., pp. 92-110.


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sul male, dal chiaro messaggio didattico-religioso: è infatti grazie alle proprie virtù, ma soprattutto alla costante fede nelle divinità, che i guerrieri riescono a liberare il paese da una spaventosa creatura demoniaca. Recenti studi hanno sottolineato come essa non sia semplicemente rappresentativa dell’autorità imperiale e del potere crescente dell’aristocrazia militare, bensì del cosiddetto sistema kenmon (le porte del potere), sistema delle èlite dominanti e delle famiglie influenti.5 La storia di Shutendōji, tuttavia, è più di un mero elogio delle eroiche gesta di Raikō e i suoi uomini, o di una riflessione sul potere dell’autorità imperiale e sull’infinita pietà celeste. Alla sua fortuna nel corso dei secoli, infatti, deve aver pur contribuito l’inusuale abbondanza di curiosi dettagli grotteschi, resi a livello narrativo e visivo. La rappresentazione di un repertorio violento che attinge alle più estreme parafilie sessuali come cannibalismo e vampirismo, ma anche a massacri, mutilazioni e smembramenti, infatti, assume nella storia un rilievo particolare e sembra aver suscitato un notevole interesse fin dalla sua creazione, stimolando la fantasia di un pubblico sempre più eterogeneo e di svariati autori che, con le proprie riscritture, hanno contribuito a tramandare la storia fino ai nostri giorni. Sebbene descrizioni di demoni dediti alla terrificante pratica antropofaga ricorrano in gran misura in opere precedenti, come il Nihon ryōiki, il Konjaku monogatari e lo Ise monogatari, ma anche in altri otogizōshi, come Kibune, l’atto cannibalico viene sempre narrato come la peggiore delle punizioni che queste creature possono infliggere al genere umano, e descritto come qualcosa di veloce, istantaneo, spesso consumato in un solo boccone (ricorrente, nei testi, è l’espressione oni hitokuchi);6 con Shutendōji, invece, ci troviamo per la prima volta davanti a un demone che ricorre incessantemente al consumo di carne umana, dimostrando di provare una sorta di macabro ed indicibile piacere nel farlo. Shutendōji nel contemporaneo A questo punto, viene naturale chiedersi in che modo una delle più macabre leggende medievali giapponesi sia stata reinterpretata in tempi più recenti, come i suoi aspetti più truculenti rivivano nella fantasia degli autori contemporanei, e quale veste questi ultimi abbiano deciso di far indossare all’enigmatico demone beone. Numerose sono le tracce di Shutendōji nel contemporaneo, tanto che sarebbe difficile compilarne un elenco esaustivo. Alcuni di questi lavori sono fortemente incentrati sull’alternanza tra testo ed elementi visivi, quasi continuando, in qualche modo, la tradizione degli emakimono: è il caso di Otogizōshi Shutendōji (1982), di Nosaka Akiyuki, intervallato da esclusive immagini tratte dallo Shutendōji emaki, 5

Irene H. Lin, “The Ideology of Imagination: The Tale of Shuten Dōji as a Kenmon Discourse”, Cahiers d’Extrême-Asie, XIII, 2002, pp. 379-410. 6 Si veda Amano Fumio, “Shutendōji: Nihon kānivarizumu no keifu no naka de”, Kokubungaku: kaishaku to kyōzai no kenkyū, XXII, 16, 1977, pp. 104-105.


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un rotolo illustrato custodito presso il Manshuin di Kyōto e non più esposto al pubblico, ma soprattutto di Shutendōji (1999) di Funazaki Yoshihiko, edulcorata rilettura in toni da fiaba, pensata per un pubblico molto giovane e impreziosita dalle illustrazioni di Shimomura Ryōnosuke, la cui penna mitiga notevolmente l’aura austera e sinistra del demone medievale, in funzione di una resa rabbonita e, tutto sommato, quasi goffa.7 Anche il mondo dei manga ha attinto in vario modo alla leggenda, adoperandola spesso come punto di partenza per sviluppare delle storie che procedono in direzione totalmente diversa: ne è un esempio Shutendōji, la saga di Nagai Gō, serializzata inizialmente in nove episodi per la rivista Shūkan Shōnen Magajin tra il 1976 e il 1978, e attorno alla quale figurano almeno un prequel, un sequel, un romanzo e una serie animata in quattro episodi, realizzata nel 1989, a circa un decennio di distanza.8 Ambientata in epoca contemporanea, la storia, dal sapore fantascientifico, propone le avventure di Shutendō Jirō, un ragazzino portato nel mondo degli umani da un mastodontico oni, che lo affida a una giovane coppia con la promessa di tornare a riprenderselo una volta raggiunta la maggiore età. Quando all’improvviso nella sua vita iniziano a verificarsi strani avvenimenti, Jirō capisce da sé di non appartenere al genere umano, ma di essere in possesso di poteri paranormali che lo riallacciano al mondo degli oni, e di avere una missione che lo porterà in viaggio tra diverse dimensioni spaziali e temporali, consacrandolo come una sorta di messia di un nuovo mondo. Anche la raffinatissima Kihara Toshie, autrice shōjo nota per i suoi riadattamenti di classici letterari e per i contributi nel genere BL (boys’ love), ha riformulato in maniera molto personale la leggenda del demone beone. In Ōeyama kaden, pubblicato per la prima volta nel 1978 sulle pagine di Shūkan shōjo komikku, lo stesso Shutendōji assume tuttavia un ruolo piuttosto marginale, diventando il padre di Ibarakidōji, braccio destro del demone già nell’otogizōshi, che invece diviene il vero protagonista della storia.9 In questo breve contributo, tuttavia, ci si soffermerà in particolare su due versioni che sembrano non essere state ancora prese in considerazione dagli studiosi in relazione al testo originale, e che invece rappresentano due tra le più originali e singolari riletture della leggenda: il film Ōeyama Shutendōji, diretto da Tanaka Tokuzō nel 1960, affascinante e inconsueto connubio tra jidaigeki e kaijū eiga, e un manga molto più recente, Ōeyama kitan, di Tagame Gengorō, del 2005.

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Nosaka Akiyuki, Otogizōshi Shutendōji, Shūeisha, Tokyo 1982; Funazaki Yoshihiko, Shutendōji, “Kyō no ehon”, Kankō Iinkai, Kyoto 1994. 8 Successivamente ristampati in Nagai Gō, Shutendōji, voll. 1-6, Fusōsha, 1998. Del manga esiste anche una traduzione in italiano, a cura di Federico Colpi, Nagai Gō, Shutendōji, voll. 1-9, d/visual, Tokyo 2004-2005. 9 Riedita in Kihara Toshie, Ōeyama kaden, Shōgakukan, Tokyo 1997.


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Ōeyama Shutendōji (1960) Diciottesimo dei colossal sulla dinastia Heian della Daiei, il film di Tanaka Takuzō uscì nelle sale nella Golden Week del 1960, in contemporanea con Taiheiyō no arashi (Tempesta sul Pacifico, trad. it. L’ultimo volo delle aquile), di Matsubayashi Shūe, prodotto dalla Tōhō. Capitolo minore nella produzione del regista, ingiustamente trascurato dalla critica e quasi dimenticato dalle cronache del cinema, rappresenta, con molte probabilità, la più nota trasposizione sul grande schermo della leggenda. La pellicola apporta alla storia numerose modifiche, distaccandosi notevolmente dal plot originale. Del resto, l’opera su cui si basa non è il sopra discusso otogizōshi, bensì un suo meno noto riadattamento letterario: Ōeyama Shutendōji ki,10 di Kawaguchi Matsutarō (1899-1985), scrittore e drammaturgo prolifico, sceneggiatore, nonché figura a lungo legata alla Daiei, presso cui ricoprì anche incarichi di dirigenza. Come il testo, seppur con qualche differenza, il film introduce personaggi e dinamiche che non compaiono nel repertorio medievale sulla leggenda. 11 Già in apertura, si accenna ad essa con un tono quasi canzonatorio, riproponendone uno degli episodi più rappresentativi, quale il taglio della testa di Shutendōji, per poi introdurre quella che, a discapito di quanto tramandato dagli antichi testi, sarebbe la vera storia del demone beone. La narrazione si apre, dunque, nella residenza del kanpaku Fujiwara no Michinaga, dove il dispotico statista riceve i rappresentanti delle varie province, che gli consegnano le esorbitanti imposte pagate dalla povera gente. Fin dalle prime scene, Fujiwara viene descritto come avido e prepotente, e in questo il film, seppur con qualche imprecisione, si mantiene fedele a quanto solitamente riportato dalle cronache storiche.12 Michinaga (Ozawa Eitarō), tuttavia, è afflitto da un grande tormento: che Nagisa (Yamamoto Fujiko), la sua amata consorte, possa essere rapita dai malvagi demoni che infestano la capitale. La sua apprensione, del resto, è motivata: durante una danza che la dama esegue per il coniuge e i suoi ospiti, dal cielo appare un mostro, dalle fattezze di un bufalo, che tenta di portarsela via. Il fulmineo intervento di Sakata no Kintoki (Hongō Kōjirō) sventa il rapimento. Nagisa viene dunque affidata alla custodia del più valoroso dei guerrieri, Raikō (Ichikawa Raizō VIII), che vive 10

Inizialmente apparso sulle pagine di Shōsetsu shinchō, fu ripubblicato nello stesso anno in Kawaguchi Matsutarō, Sarome no oshiroi, Kōdansha, Tokyo 1960. 11 Per un’analisi del film in relazione al testo di Kawaguchi si veda Daniele Resta, “Shutendōji no kurosumedia: Kawaguchi Matsutarō, Tanaka Tokuzō, Kihara Toshie no hyōgen o megutte”, in Teramura Masao (a cura di), Nihongo gakka nijū shūnen kinen ronbunshū, Daitō Bunka Daigaku Nihongo gakka, Tokyo 2013, pp. 54-63. 12 Fujiwara no Michinaga (966-1027) fu il più influente membro del clan dei Fujiwara e, grazie alla politica matrimoniale che gli permise di essere in stretta parentela con molti imperatori, tra le più potenti figure politiche dell’intero periodo Heian. Nonostante fosse noto con l’appellativo di Midō kanpaku, in realtà non ricoprì mai la carica di kanpaku (consigliere), bensì quella di sesshō (reggente), e solo per circa quattordici mesi, tra il 1016 e il 1017. Durante il regno di Ichijō (986-1011), e cioè nel periodo in cui è ambientata la leggenda di Shutendōji, arrivò a ricoprire la carica di sadaijin.


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contornato dai fedeli shitennō, capitanati anche qui da Watanabe no Tsuna (Katsu Shintarō). I subbugli nella capitale, però, non hanno fine: approfittando degli impegni di Raikō, il brigante Hakamadare Yasusuke (Tazaki Jun) e i suoi assaltano la residenza del Secondo Consigliere Ikeda e ne rapiscono la figlia, la principessa Katsura.13 Tsuna, invece, viene aggredito da Ibarakidōji, ma riesce a tagliargli un braccio; tuttavia, l’astuto demone, che nel film assume connotati femminili (interpretato da Hidari Sachiko), riesce in seguito a riprenderselo. Michinaga ordina quindi a Raikō di procedere alla tanto temuta spedizione verso il monte Ōe, dal quale nessuno ha mai fatto ritorno. Per riparare alle mancanze del fratello Tsuna, la giovane Kotsuma (Nakamura Tamao) parte, in segreto, con Kintoki, alla volta della dimora del demone. I due verranno ben presto catturati, ma intanto Nagisa rivela a Raikō la vera identità di Shutendōji (Hasegawa Kazuo): non un efferato demone, ma Bizen no Suke Tachibana no Tomotada, un tempo nobile guerriero abile nel combattimento, ma soprattutto suo felice consorte, fino a quando la donna non le era stata sottratta dal prepotente Kanpaku, invaghitosi di lei. Da allora, rinominatosi Shutendōji, aveva deciso di unirsi a Ibarakidōji, l’allora capo dei demoni del monte Ōe, per assisterlo nel suo ambizioso progetto di combattere il clan dei Fujiwara ed eliminare il prepotente Michinaga, diventando la sovrana del paese. In chiusura, la consueta spedizione dei guerrieri verso il monte Ōe: tuttavia, il tripudio gore che caratterizza la disfatta del demone nel repertorio medievale, lascia spazio a una più pacata resa volontaria di Shutendōji, amaramente colpito dalla notizia del suicidio della sua amata Nagisa. Questa resa cinematografica di Shutendōji, dunque, lo spoglia delle mostruose vesti di spietato demone cannibale, proponendolo come un personaggio tutto sommato positivo, un guerriero leale e virtuoso in lotta contro l’arroganza dei Fujiwara. Questa rilettura avvalora l’ipotesi degli studiosi che sostengono che il tropo dell’oni veniva usato, storicamente, per indicare coloro soppressi o esclusi dal potente clan; non a caso il regno di Ichijō, che rappresenta il culmine della reggenza dei Fujiwara, viene riconosciuto come il periodo di massimo splendore dell’oni.14 Uno sguardo al film nel contesto delle tante riletture sulla leggenda, inoltre, ci permette di comprendere l’essenza del processo di riscrittura e, soprattutto, in che misura questo sia stato contaminato dagli altri rifacimenti. Particolarmente significativa, in questo senso, si rivela la riproposta del combattimento tra Tsuna e Ibarakidōji, descritto nel film come segue. Nel cuore della notte, Tsuna incontra una misteriosa dama che si aggira tutta sola nei pressi di un ponte; le si rivolge con fare protettivo, avvertendola dei pericoli a cui va incontro andando in giro da sola a tarda ora, ma scorgendo il suo riflesso nello stagno, capisce che si tratta di un demone. La dama prova a sedurlo, ma 13

Anche il bandito Hakamadare è un personaggio a metà tra finzione e realtà storica. Protagonista cattivo di opere letterarie, stampe, drammi teatrali e film, viene talvolta identificato con Fujiwara no Yasusuke (?-988). 14 Baba Akiko, Oni no kenkyū, San’ichi Shobō, Tokyo 1971, p. 150.


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Tsuna le ordina di palesare la sua vera identità. La donna, dunque, che in realtà è il demone Ibarakidōji, si trasforma e lo assale, afferrandolo per il collo, con l’intento di portarselo in volo verso la propria dimora; ma il guerriero riesce a sferrare un colpo di spada alla malvagia creatura, mozzandole un braccio. A decidere sulla sorte dell’arto, viene convocato lo onmyōji Abe no Seimei, il quale sentenzia che se questo rimarrà custodito in una scatola per tre giorni di fila, perderà tutti i suoi poteri. E così, nella dimora di Tsuna, viene organizzata una serratissima veglia al braccio mozzato. Quasi allo scadere dei tre giorni, Tsuna riceve una visita da una anziana signora che dice di essere sua zia. Inizialmente, Tsuna si mostra inflessibile, per poi cedere pian piano ai ricatti della vecchia, che lo accusa di essere diventato inumano, nonostante il successo delle sue prodezze. A tale insinuazione, Tsuna non regge e lascia entrare la donna che dapprima riesce a farsi mostrare il braccio, e poi, assunte le sue vere sembianze demoniache, se lo riprende, volando via dal tetto. L’episodio, spesso presente nelle più recenti rielaborazioni della leggenda di Shutendōji,15 in realtà fa riferimento a un’altra storia: quella della caccia al demone di Rashōmon, che risale a testi come il Konjaku monogatari, lo “Tsurugi no maki” (Capitolo delle spade) dello Heike monogatari e il Taiheiki. Alcuni dettagli della storia differiscono da un testo all’altro: il nome del demone, le modalità del suo palesamento, la durata della veglia al braccio mozzo, il rapporto di parentela tra il demone e il guerriero di turno, l’identità del guerriero stesso, ma soprattutto il luogo teatro del duello, che varia da Ichijō Modoribashi a Rashōmon.16 Nell’otogizōshi Shutendōji, l’episodio viene citato molto vagamente nella parte centrale, durante l’aberrante convito a base di sangue e carne umana che Shutendōji offre ai suoi commensali, e manca del particolare della veglia all’arto mozzato: Solo una cosa mi preoccupa: un guerriero malvagio di nome Yorimitsu, conosciuto da tutti nella capitale, la cui forza in Giappone non teme rivali. Al suo seguito ci sono Sadamitsu, Suetake, Kintoki, Tsuna e Hōshō, e tutti quanti eccellono nelle due vie delle lettere e delle armi. Questi sei mi danno pensiero. La scorsa primavera, quando mandai un mio servo, il demone Ibaraki, alla capitale, questi si scontrò con Tsuna nel Settimo Viale, all’altezza di Horikawa. Ibaraki prese sembianze femminili, e avvicinatosi a Tsuna gli afferrò i capelli con l’intenzione di catturarlo, ma Tsuna in un lampo sfoderò la sua spada di tre shaku e cinque sun e senza sforzo alcuno gli tagliò un braccio. Con uno stratagemma Ibaraki si riprese il braccio e da allora non ci sono stati più incidenti, ma costoro sono veramente malvagi e io stesso cerco di non recarmi troppo spesso alla capitale.17 15

Il modo straordinariamente simile in cui viene riproposto in Ōeyama kaden, di Kihara Toshie, porta a pensare che il film abbia avuto un peso notevole nella riscrittura dell’autrice shōjo. Si veda Daniele Resta, “Shutendōji no kurosumedia…”, cit., pp. 54-63. 16 Per un excursus sull’evoluzione della storia fino al periodo Meiji si veda Sasaki Kiichi, “Rashōmon oni taiji setsuwa no keisei to Tsuna emaki”, Kokugo kokubun, LXXII, 4, 2004, pp. 17-34. Un po’ datato, ma sorprendentemente ricco di informazioni è Shimazu Hisamoto, Rashōmon no oni, Shinchōsha, Tokyo 1929 (riedito nel 1975 dalla Heibonsha). 17 Roberta Strippoli (a cura di), La monaca tuttofare…, cit., p. 103.


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L’ispirazione maggiore nel caso del film, tuttavia, pare venire, più che dalle fonti letterarie classiche, dal repertorio kabuki. In particolare, due drammi hanno avuto una notevole influenza sulla messa in scena, riscontrabile in costumi, musiche, e nell’interpretazione degli attori: Ibaraki (1883) e Modoribashi (1890), entrambi di Kawatake Mokuami (1816-1893).18 Parte dello Shinko engeki jisshu (Dieci tipi di drammi vecchi e nuovi), raccolta di drammi tra i più rappresentativi dei periodi Bakumatsu e Meiji, vengono frequentemente messi in scena ancora oggi. Modoribashi, posteriore di qualche anno, segue gli avvenimenti iniziali della vicenda, ovvero l’incontro tra Tsuna e la donna demone e la lotta che ne consegue. Ibaraki, invece, concerne la veglia all’arto, e la susseguente visita del demone nelle vesti della vecchia zia. Entrambi sono dei matsubamemono,19 un genere di kabuki che trae ispirazione diretta dai nō o dal kyōgen.20 L’impronta kabuki, tuttavia, non è limitata a questa scena, ma è tangibile in tutto il film, dal momento che parte del cast, Hasegawa e Raizō in primis, proveniva da quel mondo. Più avanti nella pellicola, inoltre, si accenna a un’altra leggenda legata alle prodezze di Raikō e degli shitennō: quella degli tsuchigumo, i mastodontici ragni di terra. Tra le tante versioni della storia, la prescelta è proprio quella dell’omonimo dramma kabuki di Mokuami: Raikō, in preda a un malanno, viene raggiunto da un misterioso monaco che si offre di praticargli un rito per guarirlo; quasi ipnotizzato, riesce a svegliarsi appena in tempo per evitare che il monaco, che in realtà è Tsuchigumo, lo annienti tra le trame di una ragnatela. Le tracce di sangue lasciate dalla creatura consentiranno ai guerrieri di raggiungere il suo rifugio, dove l’imponente ragno verrà sterminato, in una straordinaria scena dal sapore kaijū. L’uso di mostri giganti in un jidaigeki è un’altra delle peculiarità della pellicola, e in questo senso, il film segna una sfida della Daiei alla roccaforte del genere tokusatsu, la Tōhō. Di notevole impatto risulta l’operato di Ōhashi Fuminori, a capo degli studi Ōhashi Kōgeisha di Kyōto e pioniere degli effetti speciali in Giappone. In un affascinante contributo contenuto nell’edizione LD del film,21 Murata Hideki sve18

I testi di entrambi i drammi sono contenuti in Toita Yasuji et al. (a cura di), Ie no gei shū, in Meisaku kabuki zenshū, XVIII, Tōkyō Sōgensha, Tokyo 1969. 19 Matsubame indica il fondale fisso del teatro nō su cui è dipinto un pino. Il palcoscenico è decorato dal pino dipinto sul fondo e dai bambù dipinti sui lati, mentre sul lato sinistro del palcoscenico (rispetto alla platea) scende una tenda a cinque colori, simile all’agemaku del nō, da cui entrano gli attori. I costumi e i soggetti stessi delle danze sono ricavati direttamente da nō e kyōgen. Molti matsubamemono oggi rappresentati sono opere che risalgono al periodo Meiji (1868-1912), quando si è cercato di conferire al kabuki dignità d’arte imitando i modi “colti” ed elevati del nō. Si veda Bonaventura Ruperti, “L’estetica del mutamento continuo e della decadenza: il kabuki”, Sipario, 501, 1990, pp. 16-20. 20 Il dramma nō a cui si rifà Modoribashi è, appunto, il sopraccitato Rashōmon. Nel caso di Ibaraki, invece, sebbene non esistesse un dramma nō a cui ispirarsi, l’accoppiata Onoe Kikugorō V e Mokuami riuscì ugualmente ad ottenere un matsubamemono traendo spunto dal nagauta Tsuna yakata. Si veda James R. Brandon, Samuel L. Leiter (a cura di), Kabuki Plays On Stage: Restoration and Reform, 18721905, University of Hawai’i Press, Honolulu 2003. 21 Murata Hideki, “Ōeyama Shutendōji tokushu satsuei yomoyamabanashi”, Daiei tokusatsu supekutakuru Box, Jeneon Entateinmento, 1999. Nel 2006, il film è stato ripubblicato in versione dvd dalla


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la i retroscena della fabbricazione di queste monumentali creature: il sopraccitato Tsuchigumo, alto due metri e lungo dieci in totale, ottantaquattro chili di peso, fu ricavato da un’armatura di ferro, ricoperta da un rivestimento in lattice cosparso di finissima polvere di madreperla, che risplendeva di uno sfavillio sinistro sotto le luci di scena. Le sue zampe si estendevano per circa cinque metri ciascuna, e tutte e otto venivano manovrate tramite corde di piano fatte pendere dal soffitto. Per realizzare le ragnatele, invece, vennero utilizzate delle corde di plastica incollate con gomma arabica, che ne migliorava l’adesione. Il congegno veniva manovrato da una persona all’interno, e lo sportello per entrarci è, in effetti, visibile anche nel film. Inoltre, tra gli altri artifici di scena, vi era l’uso sul set di paraffina liquida, riscaldata e fatta passare allo stato gassoso per ottenere un effetto miasma più realistico del semplice fumo. Una testimonianza che sorprende e affascina, e che riporta tutto il gusto dell’artigianalità degli effetti speciali prima dell’avvento della computer graphics. Ōeyama kitan (2005) Il secondo lavoro qui discusso, Ōeyama kitan, si contraddistingue, invece, non solo per essere uno dei più recenti riadattamenti della leggenda ma, con molte probabilità, il più eclettico e controverso. Il suo autore è Tagame Gengorō (1964-), esponente di spicco della subcultura gay giapponese. La sua opera si colloca principalmente nel genere del manga gay, storie sostanzialmente concepite, realizzate e “consumate” all’interno della comunità GLBT, e in particolare, nella sottocategoria ero SM.22 Dal debutto nel 1986, le sue storie sono apparse in diverse riviste queer, come Sabu, Badi e G-Men, per poi essere in seguito ristampate in volumi singoli. Negli ultimi anni, Tagame si è fatto notare anche all’estero, come testimoniano le numerose traduzioni e le mostre dedicategli, in particolare in Francia. In patria, il suo talento non è sfuggito all’occhio attento di Tsutsui Yasutaka, che lo ha voluto nel suo Tsutsui manga tokuhon futatabi (2010), secondo capitolo di un progetto che raccoglie manga realizzati da diversi autori, ispirati a opere dello scrittore. Tuttavia, il suo nome è ancora sconosciuto a molti: non sorprende che non figuri nei più noti dizionari biografici sui mangaka,23 e che il numero di studi accademici dedicatigli sia, ad oggi, estremamente esiguo. I suoi lavori vengono spesso fin troppo facilmente etichettati come mera pornografia, nella variante più cruda e violenta. Nelle sue pagine, d’altronde, che pullulano di abusi di ogni tipo, trovano espressione le più recondite parafilie sessuali, dallo stomping all’urofilia, passando persino per la coprofagia, ma soprattutto gli scenari misteriosi e suadenti degli amKadokawa eiga. 22 Si veda William S. Armour, “Representations of the Masculine in Tagame Gengoroh’s Ero SM Manga”, Asian Studies Review, XXXIV, 4, 2010, pp. 443-465. 23 Nagatani Kunio, Nippon mangaka meikan, Dētahausu, Tokyo 1994; Manga seek e Nichigai Asoshiētsu Henshūbu (a cura di), Mangaka jinmei jiten, Nichigai Asoshiētsu, Tokyo 2003.


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bienti sadomasochistici, di cui l’autore stesso dichiara di essere un cultore.24 I suoi personaggi sono estremamente virili: muscolosi e irsuti, non sono dissimili da quelli del collega europeo Tom of Finland, con l’eccezione che nel caso di Tagame si tratta quasi sempre di uomini giapponesi. Apparso per la prima volta nell’edizione del gennaio 2005 di Kinniku otoko, rivista indirizzata, come il titolo eloquentemente suggerisce, agli amanti del genere muscle,25 Ōeyama kitan riflette palesemente le caratteristiche del genere a cui appartiene, nonché le aspettative della readership della rivista.26 Nella sua rilettura, Tagame sceglie di confinare la storia geograficamente e dal punto di vista temporale nella residenza di Shutendōji, conferendogli, tuttavia, nuovi connotati: lo sfavillante Castello di Lapislazzuli lascia infatti posto a una modesta caverna, che ben si sposa con l’insolita veste data al demone stesso: un possente cavernicolo caucasico, barba e capelli rossastri, il corpo statuario avvolto in una pelle d’animale legata ai fianchi, e una grossa clava in mano, come nelle più tradizionali rappresentazioni dell’uomo delle caverne. Anche se visibilmente accigliato, il suo è un volto umano, non demoniaco come quello della sinistra creatura degli emaki. L’intento ironico e sovversivo dell’opera appare evidente fin dalle prime battute, dove si vede lo hoshikabuto, l’elmetto magico tanto celebrato nel repertorio medievale, cadere bruscamente da una scatola insieme ad altre cianfrusaglie. “È così che pensavate di annientare il demone, travestendovi da yamabushi?”,27 dice un’irriverente voce fuoricampo a tre uomini feriti, visibilmente affaticati, il cui volto tradisce una certa espressione di disfatta. Pur accennando in modo esplicito ad aspetti peculiari della leggenda, Tagame sceglie deliberatamente di privilegiare la libertà espressiva del manga alla rigorosa osservazione della verità storica: è così che, ad esempio, il numero degli shitennō di Raikō viene dimezzato, e che le acconciature dei guerrieri risultano ben diverse da quelle in voga nel periodo Heian.28 Poco dopo, ritroviamo Raikō e i suoi due attendenti seminudi, resi nel perfetto stile grafico dell’autore: corpi dai muscoli guizzanti, possenti, le caviglie e il torace cinti da solide corde che li tengono appesi a un palo; una scena che richiama la più classica delle sessioni di bondage. Nella stessa pagina compaiono anche i primi riferimenti al cannibalismo e al vampirismo di Shutendōji: la “disgustosa carne 24

Wim Lunsing, “Yaoi Ronsō: Discussing Depictions of Male Homosexuality in Japanese Girls’ Comics, Gay Comics and Gay Pornography”, Intersections: Gender and Sexuality in Asia and the Pacific, XII, 2006, p. 22, http://intersections.anu.edu.au/issue12/lunsing.html (30/01/2011). 25 Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan”, Kinniku otoko, XI, Kōsai shobō, Tokyo 2005; poi riedito in Tagame Gengorō, Tenshu ni sumu oni/Gunji, Furukawa shobō, Tokyo 2005, pp. 51-82. 26 Sulla rigorosa categorizzazione del mondo gay giapponese secondo tipologie specifiche di immaginario erotico, riscontrabile anche nelle riviste di settore, si vedano Mark McLelland, Male Homosexuality in Modern Japan, Curzon, Richmond 2000, pp. 113-129; Erick Laurent, “Homosexualités masculines dans le Japon contemporain”, in Nadine Lucas e Cécile Sakai (a cura di), Japon Pluriel 4, Picquier, Arles 2001, pp. 299-310. 27 Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan”, Tenshu ni sumu oni/Gunji, cit., p. 51. 28 Ivi, p. 83


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animale” (ozomashii jūniku) che mangia, e il “nauseante colore rosso” della bevanda nel suo calice (ano magamagashii akai iro).29 In risposta alle accuse di Raikō, Sven, così si chiama il cavernicolo, sferra un colpo di spada alle funi che legano il generale, facendolo cadere al suolo. Poi, strattonandolo per i capelli, lo porta in disparte e gli si mostra completamente al nudo: “Guardami, non siamo forse uguali?”, gli dice. E in effetti, la descrizione grafica non lascia dubbi: Sven si distingue dai suoi “ospiti” solo per il colore della pelle e dei capelli, per la forma degli occhi e per la maggiore prestanza fisica. Ma la riluttanza di Raikō è forte, e così il cavernicolo ricorre, ancora una volta, alla violenza: al di là di ogni previsione, stupra il guerriero, umiliandolo davanti ai suoi compagni che basiti assistono alla scena. Il suo modo di fare, tuttavia, è ben diverso da quello degli stupratori sadici e autoritari che spesso compaiono nei manga di Tagame. L’amplesso, infatti, sembra fornire a Sven l’occasione per diventare più intimo con Raikō, aprendogli il proprio cuore. Così come Shutendōji nell’otogizōshi, in preda all’effetto euforico e disinibitorio del sake magico, raccontava della propria infanzia e dei propri punti deboli, Sven narra del suo passato, delle sue origini da vichingo nella terra di Birka, e di come aveva scelto di dare una svolta alla propria esistenza da navigatore sempre in cerca di nuovi posti da conquistare, stanco delle violenze che una simile vita comportava. È così che aveva optato per diventare un mercante, sempre in rotta per nuove mete da esplorare, da Occidente a Oriente. Un giorno, nel tragitto dalla Korea al Vietnam, la sua imbarcazione era accidentalmente naufragata al largo del monte Ōe. Per la realizzazione del monologo, Tagame ha dichiarato di essersi ispirato a una delle più celebri sequenze della storia del cinema: il soliloquio del replicante Roy Batty, interpretato da Rutger Hauer, nel film Blade Runner, di Ridley Scott (1982), che si apre con la celeberrima battuta: “Ho visto cose che voi umani non potete immaginare…”.30 Il coito continua, ma dopo un primo orgasmo, Raikō persiste a mostrarsi restio, a tal punto da insinuare che il calice di vino che Sven gentilmente gli offre contiene del sangue umano. A quelle parole, Sven ironizza sull’atteggiamento provinciale della sua vittima, frutto dell’ignoranza di una persona che ha sempre vissuto relegata sull’isola in cui è nata, rifiutando il confronto con il diverso e ignorando la sua stessa sessualità. La sua provincialità, infatti, è enfatizzata dalla sua inesperienza sessuale, e dal fatto che Raikō non ha neppure imparato a trarre piacere dal proprio corpo. I due riprendono a copulare, ma questa volta Raikō si abbandona totalmente al piacere della penetrazione, fino a mutare in modo radicale l’atteggiamento nei confronti del suo carnefice. L’aria di disgusto e il timore iniziali, infatti, lasciano gradualmente spazio a un’attrazione che si tramuterà presto in innamoramento devoto. A questo punto, i toni della narrazione passano dal pornografico al romantico. Ritroviamo i due cullarsi nella tenera e intima atmosfera di una grotta, a scambiarsi promesse d’amore, in uno scenario idilliaco destinato, purtroppo, a infrangersi di lì a 29 30

Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan”, cit., p. 53. Tagame Gengorō, “Ōeyama kitan ni tsuite”, cit., p. 83.


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poco: gli shitennō, infatti, riescono a liberarsi e irrompono sulla scena, e proprio Tsuna, il più fedele di essi, scaglia una freccia contro il povero Sven, colpendolo a morte. La storia si conclude con un breve accenno all’ultima unità narrativa dell’otogizōshi, ovvero il viaggio di ritorno nella capitale. In questo caso, tuttavia, non ci sono carri festosi e strade colme di gente pronta ad accogliere calorosamente i guerrieri trionfanti; l’atmosfera è quella lugubre e struggente di un funerale, con Raikō, silente e distaccato dai suoi uomini, chiuso nel dolore della perdita. Nel finale, poi, un breve flashback riporta agli ultimi istanti di vita di Sven, quando, prima di spirare, svela il suo vero nome a Raikō, pregandolo di non dimenticarlo mai, allorché solo così tutti avrebbero capito la sua vera natura di essere umano, e non di oni. Appare chiaro, dunque, che l’opera di Tagame è una riflessione sul confronto con il diverso, incentrata sulla fortunata idea di rendere Shutendōji come un forestiero ai margini della società. Una scelta, questa, ispirata da un precedente rifacimento manga della leggenda, Onimaru taishō (1969), di Tezuka Osamu,31 ma che in realtà coincide con una teoria ancora in voga nei circoli accademici giapponesi all’inizio del ventesimo secolo, secondo cui Shutendōji sarebbe potuto davvero essere un occidentale, probabilmente tedesco o russo, naufragato sulla costa nei pressi del monte Ōe.32 La personalissima riscrittura di Tagame è fortemente mitigata da elementi tipici del suo stile e delle convenzioni che contraddistinguono il genere narrativo in cui opera. È in questa chiave che vanno lette l’introduzione di abbondanti pagine di sesso, infarcito quasi sempre di elementi sadomasochistici, la trascurata attenzione ai dettagli storici, e la totale eliminazione della presenza femminile, che già nella versione originale della leggenda trovava ben poco spazio, figurando in un ruolo passivo e marginale come quello della damigella in pericolo: rapita, mutilata, talvolta cannibalizzata, e nel migliore dei casi, passivamente salvata e riportata alla propria famiglia dagli eroici guerrieri uomini. La natura sovversiva del manga viene infine ribadita dal processo di ridimensionamento di Minamoto no Raikō (948-1021), figura storica i cui trattamenti letterari e folcloristici precedenti hanno sempre decantato valore, coraggio e abilità nel combattere. Il Raikō di Tagame, invece, è un uomo fragile, doppiamente umiliato, incapace di dialogare con l’altro, ma facilmente sedotto da esso, al punto da rinunciare a potere, onore e posizione sociale, nell’illusione di un amore effimero che svanisce con la stessa rapidità con cui è nato. In conclusione, che sia un distinto guerriero che ha subito un grave torto, o uno straniero erroneamente naufragato in Giappone, lo Shutendōji contemporaneo è spesso un essere incompreso ed emarginato, posto in una situazione di liminalità da severe convenzioni sociali o logiche politiche. Nel dare un nuovo volto al demone beone, gli autori contemporanei sembrano preferire la via del riscatto, liberando il demone medievale dall’aura di inquietante mostro antropofago, e ponendo maggiore enfasi sulla sua natura di reietto ai margini di una struttura sociale e politica conformista e spesso troppo omologante. 31 32

Ivi, p. 83. Takahashi Masaaki, Shutendōji no tanjō…, cit., pp. 3-5.


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Metamorphosis of the Grotesque: Contemporary Retellings of the Shuten Dōji Legend The demon Shuten Dōji is the subject of one of the best known Japanese oni legends. Set in the Heian period (794-1185), the story seems to have found written form only in medieval times, and has since then inspired, with its horde of macabre imagery, a number of works of art and literature. This paper will focus on contemporary renderings of the legend, analysing in particular two of them: Tanaka Tokuzō’s film Ōeyama Shuten Dōji (1960), an unusual and fascinating combination between jidaigeki and kaijū eiga, and the short story Ōeyama kitan (2005), by SM homoerotic manga cult-author Tagame Gengorō. Particular attention will be devoted to the process of rewriting that, I argue, is rarely neutral and often influenced by factors as diverse as the authors’ ideology, the conventions of the medium and the genre they choose to work in, and the expectations of the specific audience to which the works are addressed.

グロテスクの変身-酒呑童子説話の現代改作

ダニエーレ・レスタ 酒呑童子説話は、平安末期を舞台とした源頼光による鬼退治伝説であ り、日本における有名な説話の一つに数えられる。現存する最古の酒 呑童子絵巻である逸翁美術館所蔵・重要文化財『大江山絵詞』に続い て、江戸期の版本、明治期以降の絵本、能、歌舞伎の演劇などの主題 となり、さまざまな展開の様相をみせる。更に現代においては、小 説、マンガ、アニメ、映画、ビデオゲームに再生産されていることが 確認できる。 本論文は現代の「酒呑童子」像をたどり、その変遷の様相を整理す る。主に、時代劇と怪獣映画の珍しい組合せである田中徳三監督『大 江山酒天童子』(1960)、田亀源五郎『大江山綺譚』(2005)を考察 の対象とした。さらに、変遷の所以についてあきらかにする。



STEFANO ROMAGNOLI

Identità nazionali e logiche di potere nella narrativa di Kuroshima Denji

Contadino e antimilitarista. Sono questi i tratti distintivi sistematicamente attribuiti alla figura di Kuroshima Denji (1898-1943) seguendo una ideale divisione in due filoni della sua produzione letteraria: da un lato i racconti incentrati sulla vita rurale, con cui lo scrittore si affacciò sul mondo letterario a partire dal 1925 guadagnandosi una stabile reputazione come autore di nōminbungaku (letteratura contadina). Dall’altro i racconti cosiddetti “siberiani”, rielaborazione della propria esperienza di militare in Siberia. Questa divisione (di cui si è avvalsa anche una parte della critica occidentale)1 non è assolutamente erronea, anche se suggerisce una distribuzione diacronica dei due filoni che, nei fatti, non si ebbe mai, dal momento che Kuroshima continuò a scrivere letteratura “contadina” fino ai primi anni Trenta. Tuttavia essa non tiene conto di una serie di racconti che risalgono agli ultimi anni di attività dello scrittore (dal 1929 al 1932), una produzione consistente e sottesa da una visione politica e letteraria qualitativamente differente rispetto a quanto l’aveva preceduta. In questo contributo mi propongo di analizzare le due serie di racconti con particolare attenzione alle modalità di descrizione dell’Altro, e di evidenziare il sostrato ideologico che è alla loro base, provando così che la serie più recente costituisce un ciclo a se stante che possiamo considerare come evoluzione di quella siberiana. I racconti “siberiani” (shiberia mono) sono un gruppo di undici racconti, scritti tra il 1925 e l’inizio del 1929, e basati sull’esperienza diretta dello scrittore sul continente.2 Nel 1919 Kuroshima fu infatti costretto a svolgere il servizio di leva che all’epoca durava tre anni, interrompendo così gli studi universitari da poco intrapresi, e nella primavera del 1921 fu inviato come infermiere militare presso 1

Keene, ad esempio, asserisce che: “Kuroshima’s stories fall into two main groups, those describing people in farm communities, and those related to his experiences in Siberia”. In Donald Keene, Dawn to the West, Japanese Literature of the Modern Era, FICTION, Columbia University Press, New York 1998, p. 605. 2 Kakurishitsu (La stanza di isolamento, ottobre 1925), Kurimoto no fushō (Il ferimento di Kurimoto, settembre 1926), Ryārya to Marūsha (Lyalya e Marusha, dicembre 1926), Yuki no Shiberia (Siberia innevata, marzo 1927), Sori (La slitta, settembre 1927), Uzumakeru karasu no mure (Uno stormo vorticante di corvi, ottobre 1927), Ana (La fossa, maggio 1928), Paruchizan Uorukofu (Il partigiano Volkof, settembre 1928), Sakin (Polvere d’oro, novembre 1928), Hyōga (Il ghiacciaio, gennaio 1929) e Horyo no ashi (Le gambe del prigioniero, gennaio 1929).


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Identità e potere nella narrativa di Kuroshima Denji

l’ospedale dell’esercito di Nikol’sk (l’attuale Ussurijsk), durante l’intervento militare giapponese in Siberia (1919-1922). Kuroshima mal sopportò la vita in caserma: molte delle pagine del diario che tenne mentre era sotto le armi, pubblicato postumo nel 1953, traboccano di avversione per le routine e le storture del sistema militare; su questa stessa linea si muovono anche i racconti di ambientazione siberiana, che coniugano la descrizione di un contesto profondamente diverso da quello giapponese con un forte messaggio antimilitarista.3 Nella visione di Kuroshima l’ambiente militare siberiano è un micro-universo, un pezzo di Giappone trapiantato in un ambiente estraneo e ostile, attorniato e popolato da individui che “non potevano più rimanere in patria”, o per cui la Siberia rappresenta un luogo “privo di leggi” in cui poter dar sfogo ai propri istinti peggiori. Nella sua organizzazione gerarchica il microcosmo siberiano ripropone la contrapposizione tra classi sociali: quella dominante, qui rappresentata dagli ufficiali, e quella dominata, costituita dai gradi inferiori e dalla popolazione locale. Ogni tentativo di uscire da questa logica di potere, ogni sforzo di ribellione è destinato al fallimento e, molto spesso, conduce alla morte. A volte poi non si tratta nemmeno di ribellione vera e propria, ma piuttosto di un involontario sconfinamento nel territorio delle prerogative altrui. È questo il caso del più noto racconto della serie, Uzumakeru karasu no mure (Uno stormo vorticante di corvi, ottobre 1927): i protagonisti disturbano inavvertitamente un maggiore che si sta intrattenendo con una ragazza russa, oggetto dell’amore non corrisposto di uno dei due. I due soldati non si rendono pienamente conto dell’accaduto, ma la punizione per aver esposto l’ufficiale alla vergogna, cogliendolo in un momento di debolezza, è inesorabile: la loro compagnia viene inviata verso un presidio isolato. Il drappello perde però la strada e muore assiderato nella neve; quel che ne resta viene ritrovato soltanto in primavera, sovrastato da uno stormo di corvi intento a cibarsi dei cadaveri. I protagonisti sono stati “vittime della lussuria del maggiore”, scrive Kuroshima, ma in realtà questi si è limitato a mandare la compagnia dei due protagonisti al posto di un’altra. La gerarchia militare è sì un sistema perverso che permette la sopraffazione di pochi su molti, ma ciò che Kuroshima qui critica con veemenza è piuttosto la guerra stessa. A quelli che li avevano inviati in Siberia non importava un accidente se loro cadevano preda delle (pallottole), o se venivano (uccisi e) divorati dai lupi. Che due o tre morissero era una cosa scontata. Che i caduti fossero duecento era una cosa da niente. Per loro la morte di un soldato significava meno della morte di 3 Il diario va dal 20 novembre 1919 al 22 aprile 1921 e reca un doppio titolo, in giapponese e in inglese: Jotai no hi made (guntai ikkanenkan no nikki) To the day of the discharge from military service [Fino al giorno del mio congedo dal servizio militare (diario di un anno di servizio militare)]. Venne affidato come testamento spirituale a Tsuboi Shigeji (1897-1975), scrittore e conterraneo di Kuroshima, prima della partenza per la Siberia e fu lo stesso Tsuboi a curarne la pubblicazione postuma, nel 1953, primo passo verso la riscoperta di Kuroshima nel dopoguerra.


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un cucciolo di cane. Di rimpiazzi ne avevano quanti ne volevano. Gli bastava un ordine scritto di coscrizione per farne venire altri.4

Questo spirito di denuncia si esaurisce però in se stesso, si concentra sul mondo militare e non diventa qui occasione per un’analisi più approfondita dell’essenza della guerra, e fu proprio questo limite ad essere stigmatizzato nelle critiche mosse allo scrittore dall’intellighenzia dell’epoca, come si vedrà più avanti. È innegabile che alla base della dinamica oppresso-oppressore vi sia una visione marxista della società, visione che si ritrova anche nel filone tematico incentrato sulle fabbriche e sulle campagne. È una visione che non affiora però in superficie, ma rimane piuttosto l’ossatura portante di una narrativa che, seppur non esplicitamente autobiografica, ha un forte radicamento nell’esperienza di vita dello scrittore. Questa intrinseca “sotterraneità” del messaggio marxista costituisce un punto di differenza rilevante tra il ciclo siberiano e i racconti degli ultimi anni Venti, ed è probabilmente grazie ad essa che alcuni dei racconti siberiani sono scampati al destino di oblio che ha subito la letteratura “proletaria” e sono ancora oggi annoverati tra i capolavori della letteratura pacifista. Nei racconti “siberiani” emergono due caratteristiche di estremo interesse, la prima delle quali è senza dubbio lo sguardo sull’Altro nella rappresentazione dello straniero. Rispetto ai racconti “contadini”, infatti, l’ambientazione siberiana offrì a Kuroshima l’occasione di introdurre etnie diverse da quella giapponese – russi, naturalmente, e coreani – e di rappresentare l’interazione tra queste etnie e i giapponesi stessi. L’Altro appare in prima istanza in tutta quella sua diversità fisica che lo rende, appunto, “altro”, in una sorta di esotismo ambiguo. I sensi predominanti sono qui l’olfatto e la vista: Dentro alle abitazioni c’erano vecchi tavoli e samovar. Vi erano appese tende ricamate. Tuttavia mandavano un odore di strane pellicce e di grasso animale, come fossero delle stalle. Per i soldati giapponesi quello era senza dubbio l’odore dei bianchi.5 I bambini avevano occhi azzurri. Erano avvolti in cappotti laceri di pelliccia ormai consunta, la testa contratta e infossata nel colletto. C’erano delle ragazze. C’erano anche dei ragazzini. Le scarpe erano sfondate e la neve vi entrava dentro come degli aghi.6

4

Tratto da Uzumakeru karasu no mure in Odagiri Hideo, Tsuboi Shigeji (a cura di), Kuroshima Denji zenshū, vol. 2, Chikuma Shobō, Tokyo 1970 [da qui in avanti abbreviato come KDZ], p. 271. Le parti segnate tra parentesi sono censurate nell’originale; per la traduzione si è fatto riferimento alle integrazioni proposte in Nihon puroretaria bungaku shū vol. 9 : Kuroshima Denji shū, Shin Nihon shuppansha, Tokyo 1984. 5 Uzumakeru karasu no mure, in KDZ, vol. 2, p. 256. 6 Ibidem, p. 254.


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Identità e potere nella narrativa di Kuroshima Denji

Yoshida fu gettato a terra e tenuto fermo da un giovane che puzzava di sacchi di juta, e non riusciva quasi a respirare.7

Nel caso dei coreani e, come si vedrà più avanti, anche nel caso dei cinesi – casi in cui la dissomiglianza fisica non è particolarmente evidente – Kuroshima si serve di descrizioni stereotipiche: Mentre i due parlavano, entrò l’interprete portando con sé un coreano dal volto piatto e dalle sopracciglia cadenti. L’odore dell’oppio gli arrivò penetrante alle narici. Aveva dei baffi sottili e il suo corpo era intriso di un sentore di lurida stamberga. Era un vecchio, sporco di polvere. […] Tra le labbra cadenti si intravedevano i denti gialli, pieni di sudiciume, e l’alito fetido si spandeva tutt’intorno, arrivando fino al suo naso. Ne sentì la sporcizia come se quello gli stesse respirando addosso. […] Il vecchio aveva un volto abbattuto, comune a tutti i coreani. Lui non si era quasi mai avvicinato a dei coreani, al punto che gli sembrava che avessero tutti la medesima espressione. I loro volti esprimevano quella malinconia di persone rassegnate, continuamente sottomesse e soggette ad ogni umiliazione.8

Non è chiaro se si tratti di una scelta cosciente e deliberata e c’è chi ha sostenuto che, per quanto scrittore “proletario” e nonostante le buone intenzioni, l’autore non fosse immune dall’atteggiamento prepotente e oppressivo del Giappone nei confronti dei paesi più deboli; sembra tuttavia un’interpretazione poco plausibile, se si considera anche la produzione successiva e la forte ispirazione all’ideologia marxista in essa evidente.9 In Paruchizan Uorukofu (Il partigiano Volkof, settembre 1928) la prospettiva è rovesciata: il punto di vista è quello dei partigiani russi che combattono contro i giapponesi. Partigiani che, significativamente, non sono “comunisti” facinorosi ma semplici contadini e allevatori locali; esasperati e furiosi per il trattamento barbaro e le razzie commesse dall’esercito giapponese, hanno imbracciato le armi e si sono dati alla guerriglia. Lo stesso Volkof, da cui il racconto prende il nome, era il pope, il parroco di un villaggio messo a ferro e fuoco dai giapponesi, causando la morte di gran parte dei suoi abitanti, tra cui suo padre. Nella visione dei partigiani russi e della popolazione locale, i soldati giapponesi – fonte di danno e distruzione – vengono assimilati a cani, facendo convergere nell’epiteto ingiurioso tutto il loro sentimento di ostilità. La gente del villaggio, in quell’occasione, non si lasciò andare a parole d’odio verso i giapponesi. Il loro sentimento verso questi ultimi aveva oltrepassato l’odio ed era diventato ostilità. Per descrivere i giapponesi cominciarono ad

7 8 9

Yuki no shiberia, in KDZ, vol. 2, p. 227. Ana, in KDZ vol. 2, p. 287. Kim Dalsu, “‘Ana’ no buntai to chōsenjinzō”, Geppō 1, KDZ vol. 1.


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utilizzare l’epiteto di cani. Ormai erano pressati dal desiderio impellente di sterminare tutti quei cani che intralciavano la loro esistenza.10

È interessante notare a margine l’utilizzo della similitudine canina che, negli anni dell’imperialismo giapponese, diventerà di uso frequente sia con connotazioni positive (si pensi al manga Norakuro di Tawada Suihō o all’espressione cinese Gǒu qù zhū lái11) che negative, come nella propaganda di guerra statunitense, ad esempio. I protagonisti di una parte dei racconti siberiani sono personaggi che potremmo definire “liminari”: personaggi che vivono e si muovono sul confine tra sé e l’Altro.12 Trasportati dal Giappone in una realtà profondamente diversa e ostile, la soglia su cui sono posti non è però soltanto fisica: è una soglia culturale, e non è un caso che gran parte di loro cerchi di imparare a parlare un po’ di russo (come d’altra parte fece lo stesso Kuroshima durante la permanenza in Siberia), nello sforzo di superare il confine con il mondo dell’Altro. Ed è proprio nell’aspetto linguistico che risiede la seconda caratteristica interessante del ciclo siberiano: il problema dell’incomunicabilità con l’Altro. Già nei dialoghi frammentati tra la popolazione locale e i soldati, dialoghi in cui si mischiano parole giapponesi e parole russe, l’incomprensione è in agguato. In Uzumakeru karasu no mure, i due protagonisti si informano dalla ragazza su chi sia venuto a farle visita, ma restano perplessi di fronte alla risposta non riuscendo a cogliere il significato del termine russo maǐor, che associano invece al giapponese mai yoru (avvicinarsi danzando). Un significativo esempio di incomunicabilità si trova anche nel racconto Yuki no Shiberia (Siberia innevata, marzo 1927): due soldati giapponesi di stanza in Siberia cercano un diversivo alla noia andando a caccia di conigli, nella neve. Durante una di queste battute vengono catturati da un gruppo di russi – se si tratti di partigiani o di semplici contadini è volutamente omesso – i quali li spogliano dei loro indumenti e sparano loro contro, incuranti delle loro suppliche. Il vecchio si avvicinò ai due, immobilizzati da sette, otto mani ostinate, e con lo sguardo di chi dovesse farli confessare chiese con insistenza qualcosa in russo. Né Yoshida né Komura lo compresero. Ma a giudicare dallo sguardo e dalle movenze del vecchio era chiaro che questi sospettava che i due fossero venuti a spiare le loro condizioni, e che cercava di sapere da loro quanti soldati giapponesi stazionassero ora in città.

10

Paruchizan Uorukofu, in KDZ vol. 2, p. 342. Letteralmente “vanno via i cani e arrivano i porci”; si tratta di un’espressione popolare utilizzata a Taiwan per indicare la transizione dal dominio giapponese (i cani, severi ma fedeli) a quello cinese (i maiali, avidi e corrotti). 12 Il termine liminare ha qui un’accezione diversa rispetto a quella utilizzata da Van Gennep e Turner nell’ambito dell’antropologia dei riti di passaggio. 11


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[…] Yoshida disse in russo qualcosa che ricordava di aver sentito: “ne ponimaju” (non capisco). Il vecchio li scrutò per un po’, con sguardo insistente. Un ragazzo con un cappello indaco si intromise e disse qualcosa. “Ne ponimaju” ripetè Yoshida. “Ne ponimaju”. Il tono si fece involontariamente supplichevole. Il vecchio disse qualcosa ai giovani, e immediatamente quelli si misero a spogliare i due dai pesanti indumenti invernali: l’uniforme, la biancheria, la calzamaglia, le scarpe e persino le calze. … I due furono fatti rimanere in piedi in mezzo alla neve, completamente nudi. Si resero conto che presto li avrebbero fatti fuori con un colpo di arma da fuoco. Due o tre dei ragazzi stavano frugando ad una ad una le tasche delle uniformi che avevano tolto loro. Altri due si incamminarono verso un punto poco distante, con il fucile in spalla. Yoshida pensò che gli avrebbero sparato e, involontariamente, disse in russo: “Aiuto! Aiuto!”. Ma le parole che ricordava non erano esatte. Avrebbe voluto dire “aiuto” (spasite) ma nelle sue parole riecheggiava, piuttosto, “grazie” (spasibo). I russi non sembravano ascoltare le suppliche dei due. Gli occhi feroci del vecchio li guardavano ora senza alcun interesse. I due che si erano allontanati imbracciarono i fucili. Allora Yoshida, che se ne stava buono in piedi, nella neve, scattò improvvisamente in avanti e iniziò a correre. Al che anche Komura gli andò dietro correndo. “Aiuto!” “Aiuto!” “Aiuto!” gridavano i due correndo sulla neve. Ma le loro grida suonavano alle orecchie dei russi come: “Grazie!” “Grazie!” “Grazie!” … fu un attimo: due colpi di fucile risuonarono per tutta la vallata.13

L’incapacità di esprimersi correttamente in russo non è intrinsecamente fatale per i due (possiamo immaginare che la loro fine sia comunque già decisa nel momento in cui vengono catturati); nella sua tragicomicità, tuttavia, il bisticcio marca in modo estremamente efficace il contatto fra due realtà tra cui non può esservi comprensione alcuna. Un terzo e ultimo esempio è tratto dal racconto Ana (La fossa, maggio 1928); qui il protagonista – un soldato semplice, interrogato dalla polizia militare perché trovato in possesso di una banconota falsa – viene a sua insaputa messo a confronto con un vecchio coreano oppiomane, che una spia ha indicato come il falsario. L’incontro tra due persone, due individui di nazionalità diversa ma ugualmente 13

Yuki no Shiberia, in KDZ vol. 2, pp. 227-228.


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“oppressi” dal sistema, si risolve nella drammatica impossibilità di comunicare, di avvicinarsi, di capirsi, nemmeno tramite una lingua franca (il russo). La lingua coreana, sentita parlare da lì accanto, suonava densa di irritazione e sembrava che persino i segni di interpunzione venissero urlati. Toni che suonavano buffi venivano pronunciati dal vecchio con un’espressione seria. [...] Poco dopo anche l’interprete uscì. Nella stanza rimasero soltanto lui e l’anziano coreano. Si guardarono a vicenda, e ognuno osservò il volto e il corpo dell’altro. [...] Lui non sapeva dire nient’altro che “obuso” [Non c’è / Non ho], in coreano. Quindi non poteva parlarci. «Dove vivi?» provò a chiedere, in russo. Il vecchio disse qualcosa, mostrando i denti gialli. Il tono era miserevole e l’aria sconsolata. Le labbra si muovevano e con loro si alzavano e abbassavano i baffi sottili. La risposta era in russo, ma non riuscì a capirne il significato. «Perché sei venuto qui?» chiese di nuovo in russo. Il vecchio piegò la testa mostrando di non aver compreso, e continuò a guardarlo con esitazione, con occhi interrogativi e tristi. Anche lui rimase lì a fissarlo.14

Nel gennaio 1929 il racconto Horyo no ashi (Le gambe del prigioniero) chiude la serie dei racconti “siberiani”. Da qui in avanti la produzione anti-bellica di Kuroshima prende una direzione diversa: forte della reputazione ormai consolidata di scrittore “antimilitarista” si rivolge dal passato al presente e cerca di farsi interprete degli sviluppi storico-politici a lui contemporanei. Sono gli anni in cui la politica giapponese verso la Cina, nello sforzo di proteggere i propri interessi sul continente, innesca il processo che porterà, nel 1931, all’invasione della Manciuria. Tra il 1929 e il 1932 Kuroshima scrive una serie di racconti brevi, alcuni articoli e un racconto lungo, tutti incentrati sulle dinamiche che coinvolgono militari e popolazione civile nel continente. Una produzione che, in un parallelo con quella precedente, potremmo definire racconti “cinesi”. Kuroshima cerca anche di sistematizzare, in uno sforzo teorico, la sua visione della letteratura anti-bellica. Nasce così Hansenbungakuron (Saggio sulla letteratura di opposizione alla guerra, maggio 1929), un’opera unica nel panorama della letteratura “proletaria” e pilastro concettuale dei racconti “cinesi”. Il saggio è diviso in tre parti; nella prima, dal titolo Hansenbungaku no kaikyūsei (Classismo della letteratura di opposizione alla guerra), vengono passati in rassegna diversi esempi di letteratura antimilitarista giapponese e straniera, elogiando quelli di matrice ideologica “proletaria” e stigmatizzando quelli di matrice borghese in cui, per quanto si manifesti opposizione alla crudeltà della guerra, non vi è alcuna volontà di estirparla definitivamente. Il pacifismo borghese, sostiene Kuroshima, non mira altro che a preservare lo status quo.

14

Ana, cit., pp. 287-288.


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Nella seconda parte (Puroretariāto to sensō, il proletariato e la guerra) Kuroshima riflette sul significato che ha la guerra per il proletariato, e sul ruolo della letteratura in questo rapporto. Non tutte le guerre sono sbagliate: quella del proletariato è una lotta giusta e necessaria. Vi sono molti generi di guerra. Ci sono le guerre di aggressione, volte a soggiogare. Ci sono le guerre di difesa. Ci sono anche le guerre di liberazione nazionale e, ancora, c’è la rivoluzione. [...] L’atteggiamento del proletariato verso la guerra deriva da principi profondamente diversi da quelli dei pacifisti borghesi, degli anarchici e di tutti gli altri scrittori antimilitaristi che provengono da tali ideologie. La lotta della classe dominata contro quella dominante è una lotta necessaria ed ha un valore in termini di progresso. Le lotte degli schiavi contro i padroni, dei servi contro i signori feudali, dei lavoratori contro i capitalisti sono lotte necessarie. Le guerre si accompagnano ad atrocità, azioni brutali, povertà e miseria ma ciò nonostante vi sono state nella storia delle guerre utili per abolire dei sistemi malvagi, perniciosi e reazionari. Queste guerre devono avere la nostra approvazione in virtù del loro contributo nello sviluppo del genere umano.15

Le guerre contemporanee sono guerre imperialiste e come tali vanno condannate, dal momento che l’imperialismo non è animato da una volontà di progresso bensì dall’obiettivo di soggiogare tutti i popoli. La guerra imperialista può però essere trasformata in rivoluzione del proletariato contro la borghesia, ed è questo il compito che si deve prefiggere la classe operaia. La letteratura deve quindi dispiegare la sua potenzialità propagandistica per esortare contadini e operai alla lotta di classe e alla rivoluzione. Nella terza ed ultima parte, Hansenbungaku no kōjōsei (La costanza della letteratura anti-bellica), lo scrittore sottolinea la necessità di produrre letteratura antimilitarista prima che scoppi la guerra e non solo durante i conflitti. Per il capitalismo, infatti, non esiste la pace ma solo l’intervallo tra una guerra e l’altra: il tempo di pace è in realtà tempo necessario a preparare la guerra successiva. È quindi necessario produrre letteratura antimilitarista, che renda manifesta la vera essenza del militarismo.16 Lo scopo della letteratura proletaria, dice Kuroshima, è infatti quello di “smascherare l’imperialismo e il militarismo”, e allo stesso tempo di “sollevare le masse dei lavoratori”, ed è questo un compito che va portato avanti incessantemente. Queste istanze teoriche erano perfettamente in linea con le tesi del Comintern sul Giappone del 1927, in particolare per quanto riguarda la condanna dell’imperialismo giapponese in Cina, che costituiva una minaccia per l’Unione Sovietica.17 15

Hansenbungakuron, in KDZ vol. 3, p. 127. Kuroshima opera qui una distinzione tra hansenbungaku (letteratura di opposizione alla guerra) e hangunkokushugi bungaku (letteratura antimilitarista). 17 Per un’esauriente trattazione dell’argomento si veda Germaine Hoston, Marxism and the crisis of development in prewar Japan, Princeton University Press, Princeton 1986, pp. 55-75. 16


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Kuroshima non si limitò però a dotare di una struttura ideologica più consistente la sua narrativa ma, nei racconti “cinesi”, si impegnò in un tentativo ambizioso di produrre qualcosa di nuovo, tanto nel contenuto che nello stile e nella struttura diegetica.18 Questo sforzo è evidente fin dal primo racconto della serie, Jinan (maggio 1929), basato sull’omonimo “incidente” del maggio 1928: Kuroshima giustappone, in uno stile narrativo che è a mio avviso estremamente filmico (una tendenza, questa, già presente negli ultimi racconti del ciclo siberiano, e in particolare in Paruchizan Uorukofu), sette scene che sembrano apparentemente scollegate.19 Ma proprio attraverso questi singoli episodi si vanno componendo i due messaggi che l’autore tenta di trasmettere ai lettori. Il primo è di natura interpretativa, una differente lettura della realtà contemporanea: il presunto massacro di residenti giapponesi a Jinan è stato di fatto perpetrato dall’esercito giapponese, in modo da creare un pretesto per l’occupazione militare della città. Il secondo è invece ideologico: la ribellione a questo modus operandi, e in senso lato alla guerra imperialista, può nascere dall’interno del sistema ad opera dei soldati stessi, e a differenza del ciclo siberiano questa ribellione non è più un qualcosa di individuale ma assume un carattere collettivo. Tematiche analoghe si ritrovano in tutti i racconti del ciclo, e ad esse si accompagna la descrizione delle sofferenze che la guerra civile e l’ingerenza giapponese provocano nella popolazione cinese. “Il proletariato” aveva scritto Kuroshima, abbracciando il messaggio dell’internazionalismo proletario, “deve rifiutare categoricamente di ferirsi e annientarsi a vicenda, di uccidersi tra poveri, tra compagni, tra persone dal diverso colore della pelle [...]”.20 Cinesi e coreani residenti in Cina vengono descritti in conformità a questa linea di pensiero. Tratteggiandone le condizioni miserevoli, lo scrittore aspira a mettere in evidenza le responsabilità del capitalismo giapponese che, non soddisfatto di sfruttarne la manodopera, li vessa con una guerra di aggressione; Kuroshima cerca in questo modo di veicolare l’affinità tra il proletariato giapponese e quello cinese e coreano, in pieno spirito internazionalista. Nell’esempio che segue, tratto dal racconto Heihi (Soldati e farabutti, dicembre 1930), Kuroshima descrive dei cinesi che vanno a cercare fortuna in Manciuria. Si tratta di individui che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi in seguito alle razzie degli eserciti dei vari signori della guerra, e sono emigrati, spinti dalla necessità. Lo scrittore calca la mano sulle caratteristiche fisiche che rendono evidente la loro miseria di profughi. “Questo è il mio bagaglio”: i ragazzi, che si presentavano masticando semi di cocomero, con un sacco di juta e un materasso bisunto, emanavano un odore di 18

Odagiri Hideo, Kaisetsu, in KDZ vol. 2, pp. 355-356. L’incidente di Jinan, del 3 maggio 1928, fu un conflitto armato tra l’esercito giapponese, arrivato nella città nell’ambito del cosiddetto dai ni santō shuppei (la seconda spedizione nello Shandong), e le forze del Guomindang. Negli scontri perirono anche dei residenti giapponesi. 20 Hansenbungakuron, cit., p. 129. 19


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sporco dalle parti basse, e una puzza d’aglio che feriva il naso. Erano contadini, i cui villaggi erano stati devastati. Vittime quotidiane dei saccheggi, non avevano più la pazienza di sopportarli.21

Lo sfruttamento della manodopera cinese da parte delle industrie giapponesi sul continente, realizzato con la connivenza e il favore dell’esercito imperiale, è uno dei temi portanti di Busō seru shigai (Sobborghi armati, novembre 1930), l’unico racconto lungo scritto da Kuroshima. Si tratta di una ricostruzione romanzata della situazione a Jinan prima del conflitto armato del 3 maggio e delle cause di quest’ultimo, e rappresenta probabilmente la migliore espressione della sua nuova politica letteraria. Lo scrittore non risparmia feroci critiche a nessuno: zaibatsu, esercito imperiale, faccendieri giapponesi, cinesi e persino statunitensi, e non è un caso che il racconto abbia subito delle censure non soltanto nel 1930, immediatamente dopo la sua uscita, ma anche nell’immediato dopoguerra, sotto l’occupazione americana. Di estrema efficacia e drammaticità sono le descrizioni delle condizioni disumane dei lavoratori-schiavi nelle fabbriche, e il brano che segue ne è un esempio particolarmente rappresentativo. I cinesi venivano in città portando i bambini piccoli nelle ceste sulle spalle, quelli un po’ più grandi li facevano camminare, e li vendevano. Una buona metà [dei bambini che lavoravano nella fabbrica] erano stati comprati per sette o dieci yuan. Ce n’erano anche di molto piccoli. Dal momento che erano bassi, non riuscivano a lavorare seduti in fila con gli operai e le operaie: le loro mani non sarebbero arrivate al bancone. Perciò si facevano mettere dei vassoi per terra, ci poggiavano sopra degli sgabelletti, ci si sedevano e riempivano le scatole con le loro manine graziose. I loro volti avevano assunto il colore della terra, un giallo cinereo. La punta delle loro dita, ulcerata ed ustionata a causa della combustione spontanea dei fiammiferi e della polvere di vetro che era attaccata sui due lati delle scatole, era avvolta in bende nere di polvere. Gli era vietato chiacchierare, o scambiarsi qualche frase durante il lavoro, fino al momento di fare pausa. Per sei ore muovevano soltanto le mani come piccoli robot sordi e muti.22

L’opera è, nel suo insieme, eterogenea e la fruizione è complicata dalla narrativa “episodica” che caratterizza lo stile di Kuroshima e che qui, a differenza dei racconti brevi, mina irrimediabilmente l’unitarietà della storia. La propensione di Kuroshima per la rappresentazione dell’Altro raggiunge nei racconti di questo ciclo, e in particolare in Busō seru shigai, la sua massima espressione, sostenuta dall’apparato teorico di cui si è detto e rafforzata dall’ambientazione continentale. Nella provincia dello Shandong e nella città di Jinan erano molte le etnie che vivevano fianco a fianco: cinesi, giapponesi, coreani, russi e anche qualche 21 22

Heihi, in KDZ vol. 2, p. 166. Busō seru shigai, in KDZ vol. 3, pp. 4-5.


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americano, e ognuno, nei confronti dell’altro, cova pregiudizi, nutre aspettative o prova ostilità. I personaggi “liminari” che qui compaiono presentano caratteristiche di notevole interesse. A differenza dei loro omologhi nel ciclo siberiano si tratta infatti di individui che non sono più “sulla soglia” ma che l’hanno invece attraversata e sono divenuti affini all’Altro, snaturando se stessi. A spingerli non è più l’interesse verso l’Altro, ma il tornaconto personale; in altre parole questi personaggi si fanno “altri” per prevaricare o sfruttare chi li circonda. È il caso di Yamazaki, un faccendiere giapponese che si adopera come spia, il cui modo di parlare, vestire e muoversi lo rende indistinguibile da un cinese: Si faceva un vanto del fatto che il suo modo di parlare, il suo aspetto e il modo in cui camminava non differissero affatto da quelli dei cinesi. Non si faceva problema a soffiarsi il naso con le dita e gettare per terra il muco che vi rimaneva attaccato. Indossava un cappello nero privo di bordo, con un bottone sulla sommità, e i vestiti e le scarpe erano le stesse dei cinesi. Imitava persino la loro abitudine di farsi crescere le unghie. Soltanto l’eccessivo stacco tra l’iride e il bianco dell’occhio, un occhio troppo definito, costituiva l’unica imperfezione; un difetto di cui non si rendeva conto.23

È significativo che sia proprio questa sua natura duplice a procurargli la morte. Nel momento in cui passa davanti ad un posto di guardia giapponese, compreso in un sentimento di forte appartenenza al Giappone, dimentica il suo aspetto esterno da cinese e si comporta come un giapponese: non si ferma all’alt. Lo sfasamento tra le due identità gli è fatale: la sentinella gli spara e lo uccide. Un caso analogo è presente nel racconto Senjin (Coreano, maggio 1931). Qui un vecchio contadino coreano viene investito da un giapponese in bicicletta (sempre indicato nel testo come yōfuku no shinshi, il distinto signore in abiti occidentali). Questi, anziché scusarsi, lo copre di insulti e lo minaccia in giapponese, senza che l’altro capisca. Il tempestivo intervento di un giovane coreano svela l’inaspettata verità: l’uomo non è affatto giapponese, bensì coreano, e la folla che sopraggiunge inferocita lo lincia. E ancora, un impiegato della Mantetsu24 che gira per i villaggi spacciandosi per un cinese, e cerca di reclutare forza lavoro da inviare in Manciuria con l’illusoria prospettiva di lauti guadagni e ottimo trattamento, riesce a ingannare gli adulti ma non un gruppo di bambini, che lo riconoscono come giapponese e gli chiedono qualche spicciolo in elemosina. … Già, in Cina i vestiti erano la cosa fatta meglio! Questo era quanto pensava Mihara, in base alla sua esperienza, entrando nel villaggio. In Cina i vestiti erano 23

Busō seru shigai, cit., p. 7. Abbreviazione per Minami Manshū tetsudō kabushikigaisha, Compagnia ferroviaria della Manciuria meridionale.

24


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la cosa migliore. Erano ottimi non solo come protezione contro la polvere ma anche per non farsi riconoscere come [censura]; come membri di uno stesso gruppo etnico che condivideva la medesima pelle gialla, il naso schiacciato e il volto con gli occhi neri, bastava vestirsi nel loro stesso modo e conoscere bene la lingua. E questo gli tornava utile per occultare il fatto che, [censura] della Mantetsu, si affaccendava in giro per raccattare forza lavoro a basso costo. […] «Riben ren [giapponese], caccia una moneta!» Gli occhi dei bambini erano più acuti di quelli degli adulti nel riconoscere le persone. Mihara, sicuro di sé quando si trattava di camuffarsi da cinese, rimase sconcertato. «Che dici? Non sono un riben ren! Sono un zhongguo ren [cinese], io!» «Racconti balle, giapponese [censura]!» «Idiota! Sono cinese! Stai zitto!» Mihara prese una moneta di rame e la lanciò sulla strada polverosa, distante cinque o sei ken [10/12 metri]. I bambini si fiondarono all’assalto di quell’unica moneta, gettata a tre di loro, contendendosela.25

Sono questi alcuni dei molti esempi che si ritrovano nei racconti del ciclo cinese. La liminarità che caratterizzava positivamente alcuni personaggi dei racconti siberiani si ripresenta qui in versione negativa. Kuroshima è come sempre avaro di spiegazioni, ma è ragionevole supporre che questa caratterizzazione vada interpretata alla luce dell’internazionalismo che anima Hansenbungakuron: l’unica motivazione condivisibile nell’avvicinarsi all’Altro è il desiderio di riconoscervi qualcosa di noi stessi, vedendo in lui un nostro simile, oppresso e sfruttato. Non vi deve essere tornaconto, ma soltanto solidarietà umana. E a ben vedere sono proprio queste le caratteristiche del protagonista di Busō seru shigai, Kantarō, impiegato come supervisore degli operai cinesi nella fabbrica di fiammiferi giapponese. Kantarō si pone in contrapposizione con il gruppo dirigente, non approvando la politica disumana nella gestione dell’azienda. Si sente “più vicino ai cinesi che non ai giapponesi” (anche per via di una difficile situazione familiare, che lo relega ai margini della comunità dei residenti giapponesi), familiarizza con gli operai ed è un personaggio “liminare” positivo, alla maniera dei racconti “siberiani”. Nel panorama dei racconti di questo ciclo, si tratta però di un caso isolato. Per uniformità di ambientazione e soprattutto sistematicità di tematiche, entrambi i gruppi di racconti costituiscono due cicli intrinsecamente coerenti e, come emerge da quanto si è detto, il ciclo “cinese” costituisce un’evoluzione più consapevole del ciclo “siberiano”. Ne è una prova anche l’ultimo racconto del ciclo, Zenshō (L’avamposto, 1932) in cui all’incomunicabilità dei racconti siberiani viene contrapposta, se non proprio la comunicazione, la cooperazione: soldati giapponesi e cinesi, posizionati in due avamposti remoti che si fronteggiano, cominciano a scambiarsi cibo e alcolici, stringendo un legame che trascende la comunicazione verbale. All’arrivo del resto 25

Heihi, cit., pp. 168-169.


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della guarnigione, il comandante intima ai soldati del presidio di sparare subito ai nemici, ma questi rivolgono invece le proprie armi contro l’ufficiale, proponendo una ribellione risolutiva che in nuce si era già vista nel racconto Sori (La slitta, 1927) del ciclo siberiano. I racconti “cinesi” hanno avuto una sorte piuttosto ingrata. Già all’epoca della loro pubblicazione molti vennero censurati, talvolta anche in modo da compromettere la comprensione di interi passaggi; Busō seru shigai e Zenshō furono integralmente censurati non appena dati alle stampe. All’intervento censorio si aggiunse anche uno scarso apprezzamento da parte dell’intellighenzia proletaria dell’epoca, e in particolare di Miyamoto Kenji, che nel famoso articolo “Verso il superamento degli indugi e dell’arretramento nella letteratura proletaria scrisse: Ciò che fa difetto a queste opere è che Kuroshima non restringe in esse la natura concreta di quella guerra, non discostandosi di molto dalla cognizione generica di “spedizione siberiana”, e che la “guerra” viene concepita come una mera competizione sul campo di battaglia e non vi è alcuna consapevolezza del fatto che, nell’ambito della situazione nazionale e internazionale dell’epoca, essa fosse una guerra di interferenza del Giappone imperialista contro l’Unione Sovietica. […] La guerra è un’estensione del potere borghese. La cosa essenziale è quindi chiarire che collegamento essa abbia con la vita quotidiana degli operai, degli agricoltori e dei lavoratori, e mostrare quale interesse essa rivesta per il proletariato, non come un’idea generica ma come una realtà che interessa tutti quanti. Tutto questo manca tuttavia nelle opere di Kuroshima. Il fatto che il racconto della ribellione da parte dei soldati si risolva semplicemente in una rabbia spontanea, che non ne venga menzionata la motivazione sociale, e che in tutto questo non venga sottolineata l’azione d’avanguardia del proletariato, tutto ciò forma nel suo complesso una grossa pecca. Anche in Jinan e nelle altre opere recenti ciò è lampante.26

La sua critica, in sostanza, si risolve nel biasimare l’insufficiente esplicitazione di quelle che erano le istanze ideologiche del Comintern e dell’Unione Sovietica. In altre parole, per Miyamoto la narrativa di Kuroshima non era abbastanza “proletaria”, e non era conforme alle nuove linee guida del movimento (la cui tragica fine era, peraltro, prossima). Zenshō fu l’ultimo racconto scritto da Kuroshima; censurato dal governo e osteggiato dai suoi sodali, si ritirò dalla scena letteraria e trascorse i suoi ultimi dieci anni di vita nel villaggio natale, dedicandosi all’agricoltura. Nel dopoguerra vi fu una riscoperta della sua opera, a cominciare da tre articoli pubblicati sulla rivista Shin nihon bungaku nell’agosto 1949. Uzumakeru karasu no mure fu ripubblicato nel 1951 all’interno del primo volume dedicato alla letteratura proletaria del Gendai 26

Miyamoto Kenji, “Puroretaria bungaku ni okeru tachiokure to taikyaku no kokufuku e” (1932), in Miyamoto Kenji bungei hyōron senshū, vol. 1, Shin Nihon shuppansha, Tokyo 1980, pp. 206-207.


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nihon shōsetsu taikei, e nel 1953 Tsuboi Shigeji curò la pubblicazione dei diari tenuti da Kuroshima mentre era sotto le armi. Tuttavia, fino al 1970 (data di uscita del primo zenshū), nessun racconto del ciclo “cinese” rivide la luce, con la sola eccezione di Busō seru shigai. L’immagine di Kuroshima che si andò creando in quegli anni fu quindi strettamente legata alla produzione antimilitarista dei racconti siberiani, e c’è chi ha sottolineato il ruolo fondamentale che ebbero Tsuboi, Odagiri e altri esponenti del mondo letterario nella creazione di questa immagine, in cui avrebbero riversato i loro ideali pacifisti.27 È singolare che il ciclo dei racconti cinesi sia stato giudicato non abbastanza “proletario” all’epoca della sua pubblicazione, e che nel dopoguerra gli siano state preferite altre opere meno schierate, ascrivendo sì Kuroshima alla corrente della letteratura “proletaria” ma accentuando il carattere antimilitarista della sua produzione. Stemperando insomma l’etichetta di scrittore proletario. Eppure Kuroshima non solo ha saputo coniugare il messaggio politico con la ricerca di un’espressività efficace dal punto di vista letterario, riuscendo abilmente a scansare il rischio di trasformare la propria letteratura in mera propaganda marxista. È stato anche un attento osservatore della realtà a lui contemporanea, una realtà osservata in prima persona e attentamente ponderata, nello sforzo di trovare un modo per trasmetterla al pubblico attraverso l’espediente narrativo. I racconti del ciclo cinese rappresentano senza dubbio il punto di arrivo di questo percorso.

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Tano Shin’ichi, “Kuroshima Denji ni okeru hansenshōsetsu no ronri”, Shakaibungaku, XXII, 2005, p. 90.


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National Identities and Power Dynamics in Kuroshima Denji’s Fiction The works of Kuroshima Denji (1898-1943) are usually divided into two main groups. On the one hand the works of nōminbungaku (rural literature), written by Kuroshima from 1925, which granted him the acknowledgment and the appraisal of the literary establishment. On the other hand the short stories based on the author’s experience as a soldier during the Siberian Intervention (1918–1922), filled with antimilitarism. However, this subdivision does not take into account a series of works written between 1929 and 1932 and set in the mainland (China, Korea, Manchuria). In this paper I analyze comparatively these works by Kuroshima and his Siberian stories, focusing on the issue of otherness and elucidating their founding ideology. This will prove that the former series, which we can refer to as “China stories”, is an intentional development of the latter, endowed with its own consistency and underlying literary and political outlook.

黒島伝治の作品における国家アイデンティティーと権力力学

ステファノ・ロマニョーリ 黒島伝治の作品は普通二グループに分けられている。一方は黒島が 文壇に出た頃好評を博し、1925年から執筆された農民小説である。も う一方にはシベリア出兵における従軍の体験を基に書かれた、反戦主 題に満ちた「シベリアもの」という短編小説群がある。しかしこの分 別は、1929年から1932年にかけて執筆された大陸を背景にした小説を 除外してしまい、その作品を通しての統一性や、一貫した文学的・社 会的な観点を無視してしまう結果となる。 本稿では、「シベリアもの」とその作品を対照的に分析し、その特 徴(特に他者の描写に関わる表現)とその差異を検討し、その基盤と なるイデオロギーを明らかにする。その結果、後者、つまり「支那も の」は一貫性のある一続きの小説であることや「シベリアもの」の進 化であることなど解説した。



MARCO SIMEONE

Il jidai shōsetsu tra convenzione e innovazione: Kennan jonan e Naruto hichō

È invero possibile scrivere qualcosa che non contenga falsità, ma è impossibile scrivere l’assoluta verità. Un autore può solamente scrivere la sua personale versione della verità. […] Quando si ricerca del materiale tra le fonti storiche, non è raro scoprire che fraintendimenti ed esagerazioni compaiono in gran numero. Allora è meglio tenere a mente i fatti generali di un argomento storico, aggiungervi la propria interpretazione, impregnarlo di uno spirito vitale, e infine scrivere menzogne: dal punto di vista dell’opera stessa, le menzogne diventano un’assoluta realtà.

Hasegawa Shin (1884-1963)1

Le parole dello scrittore giapponese riflettono le posizioni opposte di un dibattito che ha impegnato scrittori e critici di narrativa storica fin dall’era Taishō. Da un lato erano schierati coloro che si opponevano a qualsivoglia alterazione del fatto storico in nome di un asservimento all’intrattenimento del pubblico; dall’altro, coloro che dubitavano dell’infallibilità delle fonti, e che vedevano giustificata un’alterazione del dato storico in favore di un avvicinamento al lettore moderno, a patto di rimanere fedeli allo spirito dell’epoca ritratta. In generale, il rapporto tra letteratura e storia si sviluppa presto all’interno delle varie culture – dal momento che le prime fonti scritte sono spesso di natura storica – ed è di certo problematico: stabilire una linea di demarcazione dove la storia diventa finzione non è sempre facile. Anche in Giappone il rapporto tra verità storica e finzione è stato particolarmente sentito, complice anche la matrice culturale di stampo cinese, che stabiliva una gerarchia tra le arti che vedeva al primo posto le cronache storiche; proprio alle fonti storiche ufficiali si rivolgevano ad esempio gli yomihon (come il Chinsetsu yumiharizuki di Takizawa Bakin) per trovare una giustificazione al loro essere.2 È tuttavia solo con la nascita di un romanzo storico in senso moderno, che si sviluppa un dibattito critico sul romanzo storico che vede impegnati autori di letteratura pura così come scrittori di letteratura popolare. In tale dibattito è invalsa la tendenza a distinguere tra una narrativa storica “seria” (rekishi shōsetsu) e una di stampo più “popolare” (jidai shōsetsu), sebbene non siano poi molto chiari i criteri mediante i quali questa distinzione sia tracciata: 1

Hasegawa Shin, “Shōsetsu, gikyoku wo benkyō suru hito he” (A chi studia il romanzo e il dramma), in Hasegawa Shin zenshū, XII, Asahi shinbunsha, Tokyo 1972, p. 164. 2 Come sottolineato in Suzuki Tomi, Narrating the Self – Fictions of Japanese Modernity, Stanford University Press, Stanford 1996, pp. 16-17 e 191.


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Kennan jonan e Naruto hichō di Yoshikawa Eiji

a volte sembra essere lo status dell’autore – così che la produzione di Mori Ōgai, viene definita romanzo storico, mentre quella di Naoki Sanjūgo (1891-1934), scrittore di romanzi d’appendice, è semplicemente romanzo d’epoca; altre volte la discriminante sembra essere la maggiore o minore aderenza al dato storico, per cui i rekishi shōsetsu raffigurerebbero il passato con fedeltà, mantenendo un senso di estraniazione dal presente, mentre i jidai shōsetsu ambienterebbero, su uno sfondo storico più o meno accurato, drammi di tipo contemporaneo. Non è questa la sede per una disanima della diatriba fra romanzo storico e romanzo d’epoca, basti ricordare come si inserisca all’interno del più ampio dibattito fra jun bungaku e taishū bungaku, che ha dominato il panorama letterario nel tardo periodo Taishō, e che vedeva contrapposti i sostenitori della letteratura prodotta dal (e destinata al) bundan, a quelli della letteratura di massa, che mirava al raggiungimento di un elevato numero di lettori mediante opere di intrattenimento. Prima specificazione temporale della tasihū bungaku, se si accetta la comune opinione per cui la data di nascita effettiva della letteratura popolare sia il 1913,3 il jidai shōsetsu ha avuto una gestazione travagliata, che può essere analizzata sotto diversi aspetti – ma sono assolutamente da sottolineare due punti: innanzitutto il romanzo d’epoca trae le sue origini dalle forme d’arte del periodo Edo che più si rivolgevano a un pubblico popolare, principalmente il jōruri e i kōdan (al cui repertorio di trame e personaggi il jidai shōsetsu attinge a piene mani),4 ma anche la produzione in prosa dal carattere “disimpegnato” che va sotto il nome di gesaku. Secondariamente, va ricordato che, nonostante i suoi legami con le arti popolari di epoca Edo, il jidai shōsetsu è un fenomeno che nasce nel XX secolo, e come tale ha aspetti moderni che lo contraddistinguono, non ultima la relazione di simbiosi che legava gli autori di romanzi d’epoca con l’industria di stampa di massa: il miglioramento delle tecniche tipografiche e di distribuzione permettevano all’industria delle pubblicazioni di raggiungere centinaia di migliaia di lettori su base giornaliera, e questo vasto strato di lettori/consumatori, ceto medio urbano frutto della massiccia migrazione nelle città dovuta al rapido processo di industrializzazione del paese, era indispensabile al sostentamento dei quotidiani e delle riviste, che si rivolgevano agli autori per avere romanzi d’appendice che attirassero il maggior numero possibile 3 Sebbene il termine taishū bungaku si sia istituzionalizzato a partire dal 1926, anno in cui la rivista Taishū bungei diffonde l’espressione “letteratura di massa” presso il grande pubblico, opere definibili come taishū bungaku, in particolare appartenenti al filone del romanzo d’epoca, erano già apparse da tempo: il critico Nakatani Hiroshi considera il 1913, anno in cui viene per la prima volta pubblicato sul Miyako shinbun un episodio di Daibosatsu tōge (Il valico del grande bodhisattva, 1913-41) di Nakazato Kaizan, l’anno di nascita del jidai shōsetsu. Si veda Ozaki Hotsuki, Taishū bunagku (La letteratura popolare), Kinokuniya shoten, Tokyo 1980, p. 9. 4 Si veda Maria Teresa Orsi, “Recitativi e narrativa nel Giappone degli anni Tokugawa-Meiji: kōdan e rakugo”, Il Giappone, XVII, Roma 1979; ma anche Matilde Mastrangelo, “Un kōdan su Mito Kōmon”, in Asia Orientale, 5/6, Napoli 1987, pp. 259-86; Matilde Mastrangelo, “Tokugawa Mitsukuni fra storia e leggenda – il personaggio di Mito Kōmon e lo ‘shōgun dei cani’”, in Il Giappone, XXVII (1987), Roma, 1989, pp. 107-58.


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di lettori.5 A loro volta, gli autori per raggiungere o mantenere il proprio successo (di pubblico e conseguentemente economico) non potevano fare a meno delle pubblicazioni di massa, che uniche potevano garantire loro la larga base di sostenitori necessaria. I lettori cui si rivolgevano gli autori di romanzi d’epoca avevano sicuramente familiarità con le trame e i personaggi che il jidai shōsetsu mutuava dalla tradizione, ma questo non era un fattore negativo: l’uso di trame convenzionali o personaggi stereotipati costituiva un terreno comune tra il lettore e l’autore, che rendeva più immediata la comunicazione. Ovviamente, i fruitori chiedevano qualche elemento di novità che rendesse sempre originale e stimolante la riproposizione di temi a loro familiari, e gli autori di jidai shōsetsu si rivolgevano all’osservazione della società contemporanea per trovare quegli elementi di freschezza e novità che impedivano al pubblico di annoiarsi. Spesso il successo di un autore di romanzi d’epoca era proprio dato dalla sua capacità di saper interpretare le richieste del pubblico, di intuire gli aspetti del mondo contemporaneo che colpivano il lettore e inserirli nella narrazione di eventi passati, costruendo una cornice storica in cui muovere personaggi dotati di una psicologia moderna, con cui i lettori potessero facilmente identificarsi. Uno degli autori di jidai shōsetsu più significativi sotto questo aspetto fu senza dubbio Yoshikawa Eiji (1892-1962). Dopo un’infanzia e una giovinezza trascorse a Yokohama all’insegna della povertà, Yoshikawa Hidetsugu, questo il suo vero nome, si trasferisce a Tokyo con la speranza di trovare un lavoro che gli permetta di prendersi cura della famiglia. Mentre lavora come produttore di beni damaschinati, si dedica dapprima al senryū, inviando poi dei racconti in occasione dei concorsi letterari indetti da alcune riviste, e vincendo anche premi importanti. Con il calo di richiesta dei suoi beni, Yoshikawa intraprende la carriera giornalistica, che viene bruscamente interrotta dal terremoto del 1923, evento in seguito al quale decide di diventare uno scrittore professionista. Yoshikawa si rivolge alla rivista Omoshiro kurabu per compiere il suo primo passo come autore di romanzi: durante il 1924 sono pubblicati – sotto diversi pseudonimi – numerosi suoi scritti su molte delle riviste edite dalla Kōdansha, fra cui Shōjo kurabu, Kōdan kurabu, Yūben e Gendai. 6 Ma è nel 1925, anno in cui gli viene commissionato un romanzo a puntate per la nuova rivista della Kōdansha, Kingu – che sarebbe divenuta poi una delle riviste popolari di punta nel tardo periodo Taishō e inizio Shōwa – che Yoshikawa guadagna fama come scrittore. La sua opera Kennan jonan (Problemi di spade, problemi di donne, 1925), comparsa sul primo numero del periodico ricevette un’ottima accoglienza da parte del pubblico. 5

Su quest’aspetto della letteratura popolare si vedano Gregory J. Kasza, The State and the Mass Media in Japan, 1918-1945, University of California Press, Berkeley 1988, pp. 3-6 e Adachi Ken’ichi, Tachikawa bunko no eiyūtachi (Gli eroi della collana Tachikawa), Bunwa shobō, Tokyo 1980, p. 15. 6 Tra i numerosi nomi d’arte usati da Yoshikawa abbiamo Yoshikawa Shiranami, Yoshikawa Ryōhei, Yoshikawa Kijirō, Tachibana Hachirō, Sugimura Teitei; Sugimura Kenpachi, Setsuya Konnosuke, Fugo Sentei, Chūjō Sentarō e Mochizuki Jūsanshichi. Ozaki Hotsuki rileva come solo Osaragi Jirō usò altrettanti pseudonimi letterari. Si veda Ozaki Hotsuki, Yoshikawa Eiji: denki (Yoshikawa Eiji: biografia), Kōdansha, Tokyo 1970, pp. 215-218.


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I numeri iniziali di Kingu contavano diversi romanzi d’appendice e numerosi articoli, per cui è difficile stabilire effettivamente quanto Kennan jonan abbia contribuito al successo della rivista.7 Tuttavia, critici e storici della letteratura sottolineano come il successo di pubblico di Kennan jonan lanciò la carriera di scrittore di Yoshikawa. Ozaki Hotsuki sostiene, ad esempio, che è proprio con quel romanzo che l’autore si afferma fra il grande pubblico con lo pseudonimo di Yoshikawa Eiji, che non avrebbe più cambiato per via del richiamo che esso aveva per i lettori.8 Momose Akiji indica Kennan jonan come “l’opera che ha stabilito la carriera di Yoshikawa”, nel senso della notorietà che ha fatto acquisire all’autore;9 Kiyohara Yasumasa afferma che con questo romanzo Yoshikawa “è diventato di colpo popolare”;10 più pragmaticamente Sasamoto Tora suggerisce che l’impatto dell’opera nella carriera di Yoshikawa Eiji lo si può notare dal cambiamento nello stile di vita dell’autore, che passò da un modesto appartamento in affitto a Umabashi nel 1924, a una lussuosa casa in Kami-ochiai nel 1928.11 Questi commenti, per quanto positivi, rivelano poco di come l’opera venne accolta dai lettori; ciononostante, possiamo cogliere degli indizi a riguardo in un saggio dello scrittore Niwa Fumio (1904-2005) nel dopoguerra: Ben prima di incontrare Yoshikawa di persona, avevo imparato a conoscere le sue opere. Quella che ho trovato più interessante è stata Kennan jonan; sono rimasto affascinato dallo spregiudicato sviluppo della sua trama. […] Ho letto molti romanzi di Yoshikawa, ma nessuno supera questo in termini di attrattiva: il suo fascino sta nella sua eterna freschezza. Certo, questa dovrebbe essere una qualità intrinseca di ogni buon romanzo, ma in Kennan jonan si rivela apertamente, senza sotterfugi.12

Se è vero che il fascino dell’opera risiede nella sua “freschezza”, tuttavia essa si va ad inserire su formule tipiche del genere: la trama ruota attorno a una vendetta, e 7

Fra le altre opere apparse nel primo numero di Kingu vanno menzionate Ningen mi (Sapore di umanità) di Murakami Namiroku, Shojo (La vergine) di Nakamura Murao, e Shishi-ō (Il re leone) di Watanabe Katei. Accanto a questi scrittori già affermati, la rivista costituì un ottimo trampolino di lancio per giovani scrittori emergenti come Yoshikawa Eiji: il primo numero di Kingu vendette 740 mila copie; per la fine del 1925 la tiratura era arrivata al milione di copie, mentre l’apice lo raggiunse nel 1928, toccando la vetta di un milione e 400 mila copie vendute. Ozaki Hotsuki, Taishū bungaku no rekishi (La storia della letteratura di massa), I, Kōdansha, Tokyo 1989 p. 127; Wada Hirofumi, “Masumedia to modanizumu” (I mass media e il modernismo ), Iwanami kōza nihon bungakushi, XIII, Iwanami shoten, Tokyo 1996, p. 332. 8 Ozaki Hotsuki, Taishū bungaku …, cit., p. 128. 9 Momose Akiji, “Kennan jonan no tabi” (I viaggi in Kennan jonan), in Yoshikawa Eiji zenshū (d’ora in avanti YEZ), I, Kōdansha, Tokyo 1983. 10 Kiyohara Yasumasa, “Omoshirosa no enerugi” (L’energia dell’intrattenimento), in YEZ, I, p. 418; un’affermazione simile compare in Ozaki, Yoshikawa Eiji…, cit., p. 234. 11 Riportato in Kiyohara, “Omoshirosa no enerugi”, cit., p. 418. 12 Tratto dal saggio di Niwa Fumio “Yoshikawa-san no koto” (Su Yoshikawa Eiji), in Kiyohara, Yasumasa, “Omoshirosa no enerugi”, cit., pp. 418-419.


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include rivalità amorose, combattimenti contro banditi, e tutta una serie di personaggi stereotipati – come il prode samurai, i nemici malvagi, la bella fanciulla e le ingannatrici dokufu. Combattimenti all’arma bianca, situazioni sul filo del rasoio, coincidenze improbabili, violenza ed erotismo, sono tutti elementi che compaiono in quest’opera. In particolare, Manabe Motoyuki nota come il ruolo giocato dalla violenza e dall’erotismo nel romanzo sia ovvio già dalla scelta del titolo: “Considerando che i temi costanti della narrativa d’intrattenimento sono l’erotismo e i duelli con le spade, mi stupisce sempre più quanto sia perfetto questo titolo”.13 Ad ogni modo, nonostante tutta questa sua “convenzionalità”, Kennan jonan presenta un elemento di novità, vale a dire la tematica dell’androginia. L’offuscamento della distinzione tra i sessi fu particolarmente sentito nella cultura popolare urbana del Giappone degli anni Venti. Le moga (modern girl) che portavano i capelli corti e indossavano talora vestiti da uomo, e i mobo (modern boy), coi capelli lunghi e un fondo di rosso applicato sulle guance, erano una vista non rara nel quartiere à la mode di Ginza. D’altra parte, manifestazioni di quest’androginia potevano essere rintracciate anche negli spettacoli della compagnia teatrale femminile Takarazuka, le cui attrici impersonavano ruoli maschili, o nella figura del nimaime nel mondo cinematografico dell’era Taishō.14 Donald Roden, parlando delle origini dell’atteggiamento flessibile nei confronti dell’identità dei sessi tra la fine dell’era Taishō e l’inizio dell’era Shōwa, scrive: All’inizio del secolo, specialmente negli anni Venti, l’espressione e la rappresentazione dell’ambivalenza dei sessi catturò l’immaginazione di una consistente fetta della popolazione urbana letterata in un modo che sembrava semplicemente impensabile ai tempi della “civiltà e illuminismo”. […] La “gioventù angustiata” dei primi anni del 1900, e gli scrittori naturalisti che ne esprimevano la voce […] contribuirono a fornire una nuova immagine della virilità, caratterizzata da ansietà, indecisione, nervosismo e un’inclinazione all’innamoramento – tratti, tutti, che si ponevano in netta opposizione con la concezione del maschio capofamiglia. Dall’altra parte, la celebrazione che fece Yosano Akiko del potere della sensualità femminile contribuì alla concettualizzazione di una “nuova donna” (atarashiki onna) che emergeva dai primi numeri della rivista letteraria femminista Seitō. Se il “nuovo uomo” del tardo Meiji era sensibile al punto da dimostrare dipendenza emozionale, la “nuova donna” emanava quello che Itō Noe chiamava nel 1913 “una decisa fiducia di sé” (kakko taru jishin) e un’autonomia a livello emozionale dalla famiglia patriarcale.15

13 Manabe Motoyuki, Taishū bungaku jiten (Enciclopedia di letteratura popolare), Seiabō, Tokyo 1967, p. 96. 14 Si veda, sulla compagnia Takarazuka, Donald Roden, “Taishō Culture and the problem of Gender Ambivalence”, in J. Thomas Rimer (a cura di), Culture and Identity: Japanese Intellectuals during the Interwar Years, Princeton University Press, Princeton 1990, pp. 47-48. Sulla figura del nimaime si veda Satō Tadao, Nimaime no kenyū (Uno studio sul nimaime), Chikuma shobō, Tokyo 1984, pp. 20-21. 15 Donald Roden, “Taishō Culture…”, cit., p. 43; la traduzione dall’inglese è di chi scrive.


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La raffigurazione che Yoshikawa Eiji fa di due dei personaggi principali di Kennan jonan mostra chiaramente l’influsso di queste immagini del “nuovo uomo” sensibile e della “nuova donna” autoritaria. Il romanzo, ambientato nel XVII secolo, ha per protagonista il giovane ed effeminato samurai Kasuga Shinkurō, che vive a Fukuchiyama, nella provincia di Tanba (attuale prefettura di Hyōgo), con il fratello maggiore, Jūzō, un rōnin che dirige una scuola di scherma. Se questi è uno spadaccino abile e valoroso che si allena quotidianamente per affinare la propria abilità, Shinkurō predilige la pittura, il flauto e il giardinaggio alle arti marziali. Sebbene abbia 19 anni, ufficialmente non è ancora diventato adulto, poiché indossa ancora i furisode, e non si rasa i capelli sulla fronte. Inoltre, il suo aspetto suggerisce implicazioni omosessuali: l’amore fra uomini e giovinetti era un evento comune durante il periodo Edo, sia tra i samurai che tra i mercanti. Nella letteratura di quell’epoca, in particolare in quella di Ihara Saikaku, la frangia non tagliata e il furisode indicavano spesso la disponibilità al ruolo passivo nella relazione omosessuale. Dunque la raffigurazione che Yoshikawa ci offre del protagonista, rende la sua identità sessuale ambigua.16 Nonostante tutto, il fratello perdona a Shinkurō tutte le sue mancanze, e addirittura la bella Chinami si invaghisce del pavido ed effeminato samurai. Ma una tragedia sconvolge la vita di tutti: in un duello contro lo spadaccino Kanemaki Jisai, Jūzō viene ferito a una gamba, rimanendo invalido: spetta ora a Shinkurō vendicare il fratello e ristabilire l’onore della famiglia sconfiggendo Jisai, cosa impossibile per il giovane, a cui Jūzō si rivolge così: Se tu fossi una donna, non ci sarebbe problema. Ma sei figlio di una famiglia di guerrieri. Che dirà la gente se continui ad andartene in giro agghindato con abiti sgargianti in un momento come questo? Pensa all’onore di nostro padre! Fa quello che farei io! Oh, Shinkurō, perché non sei nato femmina?” Shinkurō rimaneva seduto, le mani abbandonate sulle gambe, e la testa china in segno di acquiescenza. La sua sagoma afflosciata somigliava in tutto e per tutto a una marionetta separata dalle mani del suo burattinaio. Era talmente remissivo da non osare neppure rispondere alle dure parole di condanna del fratello, che di fronte a questo atteggiamento, alla fine si era sempre rassegnato al fatto che non poteva fare affidamento su Shinkurō. Ma oggi era diverso, Jūzō era molto nervoso. “Siamo diventati gli zimbelli di tutto il paese: un samurai quasi ventenne che non sa neppure impugnare una spada di bambù e il suo invalido fratello… Che coppia! Shinkurō, ti prego, mostra un po’ di senso dell’onore. Suicidati!” Shinkurō, incredulo, cominciò a tremare di paura e tentò di allontanarsi dal

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Si vedano Gary Leupp, Male Colors: The Construction of Homosexuality in Tokugawa Japan, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995, pp. 122-25; Greg Pflugfelder, Cartographies of Desire: Male-Male Sexuality in Japanese Discourse, 1600-1950, University of California Press, BerkeleyLos Angeles 1999, p. 33; si veda anche quanto scrive Andrea Maurizi in Ihara Saikaku, Il grande specchio dell’omosessualità maschile, Frassinelli, Roma 1997.


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letto in cui giaceva il fratello, ma Jūzō allungò la mano e lo trattenne per un lembo della veste. “Non aver paura! Nascere in una famiglia di guerrieri è stata la tua sfortuna, ma dov’è l’onore quando si vive coperti dalla vergogna? Ucciditi, ti prego.” “Ma, Jūzō, io…” “Che c’è, ora, eh? Sei patetico!”. Jūzō afferrò la spada corta che giaceva accanto al suo guanciale. Shinkurō sbiancò. Un secondo dopo, era già fuori della casa, correndo a perdifiato.17

Shinkurō cerca conforto in Chinami, che però rifiuta di vederlo, evitandolo per il suo bene, affinché in lui si risvegli il suo spirito guerriero: dice al giovane samurai di dimenticarla finché non sia riuscito a sconfiggere Kanemaki Jisai. I restanti tre quarti del romanzo seguono Shinkurō nella sua missione, durante la quale incontra banditi, rōnin malvagi e donne fascinose. Tra queste merita sicuramente menzione un’intrigante nobildonna, Onkata, che lo distrae dal suo addestramento e lo corrompe coi piaceri della carne.18 Se il timido e sensibile Shinkurō rispecchia il “nuovo uomo”, allora Onkata mostra tutte le qualità della “nuova donna”. Nonostante le venga ordinato dai genitori di farsi monaca per aver dato scandalo tirando di scherma con un gruppo di samurai nel mercato di Kyoto, ella rifiuta, e fugge a Edo, dove – libera dal controllo dei genitori – si gode la sua piena libertà, prendendo come amante chi desidera, e tagliandosi i capelli corti; è in pratica la versione del XVII secolo della moga di epoca Taishō. Tuttavia, con il dipanarsi della storia, i personaggi caratterizzati come sessualmente ambigui – Shinkurō e Onkata – “rinsaviscono”, e cominciano ad agire secondo la morale convenzionale: lui vince la sua timidezza e ristabilisce l’onore della famiglia vincendo il suo antagonista; lei supera il vizio della sua egoistica sensualità e, arresasi alla purezza di Chinami, si dedica a una vita di clausura. Tuttavia per buona parte del romanzo questi due personaggi androgini costituiscono un’eccezione nel panorama dei jidai shōsetsu scritti nel 1925. Se da una parte la raffigurazione “fuori dagli schemi” (dal punto di vista dell’identità sessuale) che Yoshikawa fa di Shinkurō e Onkata andava incontro ai gusti del suo pubblico urbano del tardo periodo Taishō, il loro “ravvedimento” verso la fine del romanzo tradisce un conservatorismo che probabilmente era gradito alla fetta di lettori meno cosmopolita. La capacità dell’autore di distinguere correnti talvolta divergenti nella cultura a lui contemporanea, e incorporare nelle opere temi e per17

Yoshikawa Eiji, Kennan jonan, in YEZ, I, cit., p. 39. Così viene descritto l’appetito sessuale di Onkata: “Appena il suo sguardo si posò su Shinkurō, le fiamme di un’ardente passione, una brama infuocata, avvamparono nei suoi occhi. Sebbene fosse un uomo adulto, Shinkurō non riusciva a sostenere lo sguardo della donna. In quel momento, Onkata sembrava fremere spasimi di desiderio immaginando che lui affondasse i denti nelle sue carni, che la violentasse, che la torturasse. Questo fuoco la consumava”. Ovviamente, è lei a fare la prima mossa nei rapporti con Shinkurō. Ibidem, p. 109.

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sonaggi che li riflettono – e farlo in modo tale da attrarre un’ampia fascia di lettori – testimonia la sua abilità come scrittore di letteratura popolare. Dopo il successo di Kennan jonan, l’Ōsaka mainichi shinbun avvicinò Yoshikawa chiedendogli di scrivere un romanzo, richiesta alla quale l’autore rispose con Naruto hichō (Il manoscritto segreto di Naruto, 1926-27). Isogai Katsutarō definisce Naruto hichō come un’opera “che ben rappresenta la letteratura di Yoshikawa Eiji”, affermando che non solo “fu uno dei più grandi romanzi d’epoca del suo tempo”, ma che è “un caposaldo della letteratura popolare”;19 Ozaki Hotsuki usa simili espressioni, considerandola “un’opera che ha segnato la storia della letteratura popolare” e la cui “influenza nello stabilire la taishū bungaku [come genere legittimo] è stata smisurata”.20 L’Ōsaka mainichi shinbun vantava nel 1926 una tiratura di oltre un milione di copie, per cui i potenziali lettori del nuovo romanzo di Yoshikawa erano comparabili a quelli di Kennan jonan. Per attirare i lettori del Kansai, l’autore scelse il Giappone occidentale come sfondo delle vicende narrate: gli eventi si susseguono ora a Ōsaka, ora a Aizu, ora a Kyoto o nella provincia di Awa, e solo una volta l’azione si sposta a Edo. Nonostante queste caratteristiche la rendessero principalmente rivolta al pubblico del Kansai, l’opera ebbe un grande successo in tutto il paese. Ancora prima che la pubblicazione a puntate fosse completata, il romanzo era stato scelto per essere incluso in uno dei sessanta volumi della Gendai taishū bungaku zenshū (Collezione di letteratura popolare contemporanea, 1927-32), l’opera che segnò l’entrata della Heibonsha nel mercato dei cosiddetti enpon (libri a uno yen), fenomeno che conobbe un grande sviluppo tra la fine dell’era Taishō e l’inizio di quella Shōwa.21 Per la prima serie di enpon, la Heibonsha puntò su Shirai Kyōji e il suo Shinsengumi (1924-25): la scelta si rivelò vincente, e fece guadagnare alla casa editrice circa 330 mila abbonati. Per la seconda campagna di sottoscrizioni, lanciata nel 1928, la Heibonsha si affidò a Naruto hichō di Yoshikawa Eiji, e anche in questo caso la scelta fu azzeccata, poiché registrò ben 400 mila abbonamenti.22 Naruto hichō è simile a Kennan jonan nella misura in cui anche in questo caso l’autore opera una commistione tra convenzione e innovazione all’interno della sua narrativa. Come nel romanzo precedente compaiono una serie di personaggi stereotipati: l’intrepido spadaccino, la bella fanciulla e tutta una serie di cattivi – da seguaci del daimyō di Awa a semplici rōnin. Il protagonista Norizuki Gennojō è aiutato – fra gli altri – nella ricerca del padre della sua innamorata Ochie da un in19

Isogai Katsutarō, “Taishū bungaku no kinenbiteki sakuhin”, in YEZ, III, cit., p. 423. Ozaki Hotsuki, Yoshikawa Eiji: denki, cit., p. 236. 21 Dal 1926 al 1934 gli editori si contesero i lettori lanciando sul mercato antologie di opere – giapponesi e occidentali – dal costo di uno yen a volume. I libri venivano perciò detti enpon, ed erano acquistabili solo dagli abbonati, che ogni mese ricevevano un nuovo volume. Questi enpon ebbero un grande successo, e contribuirono a risollevare le finanze di non pochi editori. Inagaki Tatsurō, Shimomura Fujirō (a cura di), Nihon bungaku no rekishi, XI, Kadokawa shoten Tokyo, pp. 364-65. 22 Ibidem, pp. 425-26; Ozaki Hotsuki, Taishū bungaku no rekishi, cit., pp. 134-36. 20


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vestigatore di Ōsaka, Mankichi, e dall’affascinante borseggiatrice Otsuna. Tra i personaggi, ne spicca in particolare uno per la sua caratterizzazione fuori dagli schemi: il rōnin nichilista Ojūya Magobei, un personaggio malvagio, il cui passato è avvolto nel mistero, così come la sua testa è sempre coperta da un cappuccio (zukin), anche quando dorme o fa l’amore. Concepita sullo sfondo dell’incidente Hōreki del 1758,23 la trama si presenta complicata e rocambolesca sin dalle prime battute, e riassumerla sarebbe impossibile, fra viaggi, colpi di scena, improbabili salvataggi dell’ultimo minuto, duelli, amori non corrisposti e rivalità sentimentali. Tuttavia ci si vuole soffermare qui sulla riproposizione delle tematiche della violenza e dell’erotismo, spesso combinate insieme nei passaggi in cui l’autore descrive la passione dai tratti sadici di Magobei per Otsuna. Dopo essere stato narcotizzato dalla ladra in una casa da tè, egli si mette sulle sue tracce per ucciderla e vendicarsi, ma quando la trova con la sua guardia abbassata, estasiata dal suono del flauto di Gennojō, la sua passione per lei gli fa cambiare idea, e ritrae la spada: Gli occhi iniettati di sangue e i denti serrati davano al volto di Magobei un terribile aspetto demoniaco. Impugnando l’elsa della spada, fissò lo sguardo sul collo eburneo di Otsuna. Se avesse menato un fendente ora, quel collo così sottile sarebbe stato tranciato di netto. In un’altra occasione Otsuna, sempre attenta, si sarebbe accorta della presenza del suo assalitore dal fruscio dell’erba, ma stavolta la sua attenzione era tutta rivolta all’ascolto della melodia suonata dal flauto di bambù. I suoi pensieri erano catturati dall’immagine del monaco itinerante. Era realtà? Oppure solo la sua immaginazione? Magobei non sapeva dirlo, ma il fascino di Otsuna era più prorompente del solito: l’elegante curva della sua nuca, i lineamenti dolci delle sue spalle e delle gambe, la pienezza del suo seno che premeva contro l’erba del suolo… La splendida figura della donna non faceva che alimentare la rabbia di Magobei, finché egli non realizzò che tagliarla semplicemente in due non lo avrebbe appagato. In quel momento di esitazione, la rabbia di Magobei si trasformò in selvaggio istinto animale.24

Il suo atteggiamento sadico non è rivolto in particolare solo all’affascinante ladra, ma anche ad altre donne, come si vede dall’episodio in cui i samurai di Awa interrogano la moglie di Mankichi percuotendola. Sebbene l’interrogatorio non serva per ottenere informazioni utili, esso tuttavia fa eccitare Magobei, che confida ai suoi compagni: 23

L’incidente vede coinvolti lo studioso scintoista Takenouchi Shikibu (1712-1767) e diversi nobili di corte. Nei primi anni del 1750, Takenouchi insegnava ai nobili della corte le dottrine scintoista e confuciana, e le arti militari, il tutto modellato sulle sue prospettive lealiste e avverse allo shogunato – che trovavano terreno fertile fra i membri dell’aristocrazia. Quando il bakufu scoprì tutto ciò nel 1758, mise agli arresti in casa i nobili, mentre esiliò Takenouchi da Kyoto. Si veda Tahara Shirō, “Hōreki jiten” (L’incidente Hōreki), Heibonsha daihyakka jiten, XIII, Heibonsha, Tokyo 1985, p. 915. 24 Yoshikawa Eiji, Naruto hichō, I, Kōdansha, Tokyo 1989, pp. 113-114.


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Kennan jonan e Naruto hichō di Yoshikawa Eiji

“È vero che non è più nel fiore della sua giovinezza, però ammetto che non mi dispiacerebbe affatto possedere la moglie di Mankichi. Il suo volto dopo che Tendō l’ha colpita, il modo con cui cercava di trattenere le lacrime... era seducente oltre ogni dire”.25

L’origine dell’atteggiamento sadico e nichilista di Magobei viene rivelata solo alla fine del romanzo, dove si capisce come egli sia diviso tra il suo bisogno patologico di indugiare in atti illeciti e la sua devozione al ricordo della defunta madre, una fervente cristiana. Il simbolo del suo conflitto interiore è il cappuccio che egli indossa sempre per mascherare il suo volto. L’autore riesce a stuzzicare la curiosità dei lettori per tutta l’opera, senza mai svelare il segreto di Magobei. Solo quando questi viene ucciso, e Otsuna sta per sfilargli il cappuccio, compare un misterioso nano che racconta la storia di Magobei. Sua madre Isabel discendeva dai missionari spagnoli giunti a Nagasaki nel 1614. La nonna di lei scampò alle persecuzioni contro i cristiani rifugiandosi nel feudo di Awa, dove il daimyō le concesse di mantenere la sua fede, che tramandò poi ai suoi discendenti insieme a un pettine con incisa l’immagine della Vergine. Magobei non dimostrava nessun interesse per il cristianesimo, dedito piuttosto al bere, alle donne e al gioco. Isabel, preoccupata per il figlio, in punto di morte, chiamò Magobei per scongiurarlo di redimersi. Al suo rifiuto, ella lo fece immobilizzare da alcuni seguaci cristiani e incise con tagli profondi la forma di una croce sulla fronte del figlio, poi gli infilò il pettine con l’effigie della Vergine fra i capelli e gli fece giurare di non toglierselo fino a che non avrebbe abbandonato la sua vita dissoluta; fece inoltre promettere agli altri cristiani di uccidere Magobei se egli fosse venuto meno al suo impegno. Il nano era il guardiano che doveva controllare che il giuramento fosse mantenuto, e alla morte del rōnin incappucciato chiede a Gennojō e gli altri di poter portare il corpo di Magobei ad Awa, come prova che la sua missione era conclusa. L’elemento grottesco di questo episodio completa l’elemento erotico (pur nella sua dimensione sadica) illustrato sopra, e mostra ancora una volta la sensibilità di Yoshikawa Eiji nel rispondere ai gusti dei lettori: l’espressione ero guro nansensu (talora abbreviata in ero guro), combinazione nata dall’abbreviazione delle parole inglesi erotic, grotesque e nonsense, veniva spesso usata per descrivere i prodotti culturali del Giappone degli anni Venti e Trenta. Come indica il critico Kida Jun’ichirō, i tre termini erano già in circolo da tempo separatamente, ed è solo successivamente che essi formarono lo slogan che apparve con tanta insistenza nei media.26 Le parole avevano comunque una stretta relazione l’una con l’altra già dagli inizi degli anni Trenta: nel 1932, la rivista Fujin kōron pubblicò un glossario dei neologismi “alla moda” come supplemento; il mini-dizionario definisce la parola guro come “ciò che è bizzarro (kaiki) e inquietante (kimi no warui), usato anche per riferirsi a 25

Ibidem, II, p. 315. Kida Jun’ichirō, “Toshi no yami to meikyū kankaku: Ero guro nansensu to Edogawa Ranpo”, in Bessatsu taiyō, LXXXVIII, Heibonsha, Tokyo 1995, pp. 13-14. 26


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dimostrazioni di erotismo tanto palesi da essere sgradevoli (minikui bakari akudoi rokotsuna ero)”.27 Nello stesso periodo il fondatore della Shinchōsha, Satō Giryō (1878-1951), compilò una raccolta di immagini e foto dividendola in tre sezioni, intitolate erochiku, gurotesuku e nansensu: era il segno che questi tre termini si erano ormai uniti l’uno all’altro nell’inconscio popolare.28 Ciò che lega le parole è la consapevolezza che ognuna rappresenta un aspetto di quelle forze che, svincolate dai codici etici e morali imposti dall’alto, serpeggiavano nella società; il tormentone ero guro nansensu rappresentava il fascino di quegli istinti selvaggi, irrazionali, erotici generalmente soppressi dall’etica sociale. Per usare le parole di Pflugfelder: La celebrazione dell’‘erotico’ (ero) in tutte le sue molteplici forme costituiva un rifiuto dell’imperativo Meiji secondo cui la sessualità non era atta ad essere mostrata o rappresentata pubblicamente, a meno che non si conformasse ai ristretti standard della “moralità civilizzata”. L’elevazione del “grottesco” (guro) tradiva un simile rifiuto per i codici estetici dominanti, incentrati sui canoni tradizionali di bellezza e offuscamento dei lati più sordidi dell’esistenza. Infine la valorizzazione dell’“assurdo” (nansensu) era indice di un malcontento nei confronti della rigida morale vigente e delle certezze epistemologiche.29

Lo slogan ero guro nansensu che i media usarono tanto spesso per descrivere i tempi, andò particolarmente di moda nei primi anni del periodo Shōwa, durante la depressione degli anni Trenta, quando forme di intrattenimento occidentali invasero le città del Giappone – in particolare Osaka e Tokyo; questa inondazione assunse diversi aspetti: il jazz, il proliferare dei bar-caffè (kissaten), dance-club, cinema, e altre forme di intrattenimento moderno. Nonostante le forze conservatrici dell’epoca avessero definito il fenomeno come decadente (e in letteratura l’ero guro nansensu veniva considerato diretta derivazione del decadentismo europeo), recentemente alcuni autori lo rivalutano positivamente come espressione della vitalità della cultura dagli anni Venti agli anni Quaranta.30 Anche in questo caso, come pure per l’introduzione delle figure del mobo e della moga in Kennan jonan, l’inserimento in formule già consolidate (trame e personaggi stereotipati) di elementi innovativi, frutto dell’osservazione dell’autore nei confron27

Fujin hisshū modango jiten (Dizionario dei neologismi essenziali per le signore), supplemento a Fujin kōron, XVII, 1, Chūō kōronsha, Tokyo 1932, p. 33. 28 Satō Giryō, Gendai ryōki sentan zukan (Libro illustrato sulle ultime tendenze grottesche odierne), Shinchōsha, Tokyo 1931. 29 Greg Pflugfelder, Cartographies…, cit. p. 290. La traduzione dall’inglese è di chi scrive. 30 Si veda Miriam Silverberg, Erotic Grotesque Nonsense – The Mass Culture of Japanese Modern Times, University of California Press, Berkeley & Los Angeles 2006, p. XVI. Utilizzando quello che lei stessa definisce un “montaggio” (montage) di vari media, testi, luoghi del Giappone urbano, l’autrice oltrepassa la definizione letterale di ero-guro nansensu, per rendere giustizia della complessa estetica culturale del fenomeno, che rispecchiava la cacofonia del calderone culturale del Giappone degli anni Venti e Trenta, dove accanto ai desideri consumistici del ceto urbano si andava delineando la costruzione di un impero nazionalista.


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Kennan jonan e Naruto hichō di Yoshikawa Eiji

ti della realtà che lo circonda, non deve far pensare a una particolare o profonda riflessione sulla cultura e la società del periodo; nei jidai shōsetsu di Yoshikawa Eiji, i due fenomeni fanno un’apparizione piuttosto superficiale, sono una veste di “contemporaneità” che ammanta la storia, allo scopo di accostare la raffigurazione del passato ai lettori moderni – tratto questo che è stato spesso criticato negli autori di romanzi d’epoca dai sostenitori della letteratura pura, dimenticando talora la natura e lo scopo della taishū bungaku. Come fatto notare da Cawelti, la convenzione e l’innovazione assolvono a funzioni culturali diverse: la prima è costituita da immagini e significati familiari e condivisi da tutti, e conferma la continuità dei valori; la seconda ci pone davanti a una nuova percezione o un nuovo significato. Entrambe le funzioni sono importanti in una cultura, poiché la convenzione aiuta a mantenerla stabile, mentre l’innovazione l’aiuta a rispondere ai cambiamenti.31 Va da sé che la riproposizione di formule note non è caratteristica propria solamente al genere del jidai shōsetsu, né l’introduzione in un romanzo di elementi mutuati dall’osservazione della realtà appare esclusiva di Yoshikawa Eiji (o degli altri scrittori di letteratura storica di consumo), dal momento che qualsiasi autore inserisce nella propria opera, in maggiore o minore quantità, la sua consapevolezza nei confronti dell’ambiente che lo circonda. Tuttavia, ciò risulta particolarmente significativo nel caso del jidai shōsetsu: come genere letterario, il romanzo d’epoca nasce dall’incontro tra passato e presente, tra i repertori propri delle forme d’arte popolare del periodo Edo (in particolare i kōdan e il jōruri), e lo sviluppo di una moderna editoria di massa, intimamente legata al pubblico di lettori che mira a soddisfare. Inoltre, trattandosi di romanzi d’appendice, spesso lunghissimi, che venivano pubblicati per anni (si pensi a Daibosatsu tōge di Nakazato Kaizan, pubblicato dal 1913 al 1941 o a Tokugawa Ieyasu di Yamaoka Sohachi, apparso su più riviste tra il 1950 e il 1967), era di particolare importanza che l’autore di jidai shōsetsu fosse attento ai mutamenti socio-culturali del tempo e fosse in grado di interpretare i gusti dei suoi lettori, e adattare la propria opera di conseguenza, per non perdere il favore del pubblico. Le tematiche dei jidai shōsetsu sono tanto diverse quanto lo sono i gusti delle masse. Spesso hanno più successo temi che vadano contro la morale convenzionale, ma in genere il romanzo d’epoca tende alla fine a riaffermare l’etica tradizionale e l’ordine sociale stabilito; questo dipende anche dal fatto che i jidai shōsetsu sono diffusi tramite i mass media, per cui l’autore deve scendere a patti con l’imposizione di valori dall’alto e con quanto dettato dall’industria editoriale. In buona sostanza, il romanzo d’epoca unisce elementi convenzionali e innovazioni nella misura in cui ciò è richiesto dal pubblico di lettori: le masse nel presente rappresentano la guida dell’autore nel ritrarre il passato.

31

John G. Cawelti, “The Concept of Formula in the Study of Popular Literature”, Journal of Popular Culture, III, 3, Michigan State Unviersity, 1969, p. 385.


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Convention and Innovation in jidai shōsetsu: Kennan jonan and Naruto hichō by Yoshikawa Eiji The historical fiction (jidai shōsetsu), a sub-genre of popular literature (taishū bungaku), incorporated conventions borrowed from popular arts of Edo era, such as formulaic plots and stock characters found in kōdan. Apart from the re-proposal of traditional elements, jidai shōsetsu has a component of innovation, which stems from the writer’s efforts to appeal to contemporary mass audience, by projecting his consciousness of his own milieu onto the past. In this paper I present two of Yoshikawa Eiji’s novels, aiming to show how elements taken from author’s present are reflected in the description of past events: namely, I will consider the two protagonists of Kennan jonan and the villain of Naruto hichō as the projections of the concept of mobo and moga, and of ero-guro nansensu.

伝統と革新の間の時代小説 - 吉川英治著『険難女難』および『鳴門秘 帖』

マルコ・シメオーネ 大衆文学のサブジャンルにあたる時代小説は、江戸時代の話芸、芸能など より、講談にも現れるステレオタイプのプロットや人物等を吸収した。 しかし、伝統的なリメイクの隣に、時代小説には革新的な部分もあ り、それは著者が読者の興味を引くための努力の結果でもあるに違い ない。作者は、同時代の社会を過去に移動したとも言える。 本発表で紹介する、吉川英治の二つの小説では、現代の世界が過去に 移されている。詳しくは、『険難女難』の2人の主人公と『鳴門秘 帖』の悪浪人、お十夜孫兵衛に、それぞれモボ、モガ、エロ・グロ・ ナンセンスの、現代の流行がどのように移されているかを説明する。



Giapponese e italiano lingue a confronto



Fabiana Andreani

Verbi deittici di moto in italiano e giapponese: due diverse rappresentazioni del movimento e della soggettività a confronto

Quando si legge un’opera in lingua originale, una sensazione comune è quella di sentirsi disorientati di fronte al testo: sebbene i personaggi siano i medesimi della versione tradotta, spesso i toni delle discussioni, le descrizioni degli stati d’animo, lo scorrere del tempo così come il ritmo delle vicende possono apparire dotati di un’espressività irriconoscibile e a tratti persino innaturale. Questo contributo trae il suo spunto originario proprio da questa comune e apparentemente banale esperienza, ed ha lo scopo di mostrare come, parafrasando le parole di Coseriu,1 “le lingue parlino delle stesse cose ma non dicano le stesse cose”. Ovverosia, nel caso specifico di italiano e giapponese, come esse non facciano uso delle stesse strategie per esprimere un medesimo contenuto. Si cercherà infine di mostrare come tali scelte influenzino la visione ed interpretazione dello spazio.2 1 Si veda Eugenio Coseriu, “Les universaux linguistiques (et les autres)”, in Luigi Heilmann, (a cura di) Proceedings of the Eleventh International Congress of Linguists, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 47-73. Nell’articolo sono esposte le differenze che intercorrono fra significato, designazione e senso; dove il primo indica il significato di lingua, cioè il valore che una data parola ha all’interno del sistema lessicale della lingua a cui appartiene; la seconda indica invece la realtà extra-linguistica a cui una data parola fa riferimento; e infine il terzo consiste nel contenuto semantico del testo, cioè appunto nel senso che il testo comunica. Secondo Coseriu quindi non è possibile tradurre da una lingua a un’altra il significato, dal momento che questo è legato in maniera vincolante al sistema linguistico di cui una data parola fa parte; ciò che invece bisogna fare è comprendere la designazione di un dato termine e da lì ricercare nella lingua in cui stiamo traducendo il termine corrispondente che ha identica designazione di quello tradotto. 2 Si veda Dan I. Slobin, “From ‘thought and language’ to ‘thinking to speaking’, in John J. Gumperz & Stephen C. Levinson (a cura di), Rethinking linguistic relativity, Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 70-96. Leonard Talmy, “The relation of grammar to cognition”, in Brygida Rudzka-Ostyn (a cura di), Topics in cognitive linguistics, John Benjamins, Amsterdam 1988, pp. 165-205. Talmy Givón, “Definiteness and Referentiality” in John H., Greenberg, C. A. Ferguson & E. A. Moravcsik (a cura di), Universal of human language, Stanford University Press, Stanford 1988, vol.4 Syntax, pp. 291-330. Come hanno fatto notare Slobin, Givón e Talmy, in ogni lingua esistono modi privilegiati per descrivere gli eventi e, in tal senso le scelte dei traduttori “are strongly influenced by the typologies of the source and target languages.” (Givòn, “Definiteness and Referentiality”, cit. p. 2, poiché, oltre che rispondere ad esigenze puramente stilistiche devono essere orientate a rendere il testo quanto più naturale per un lettore madrelingua.


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Verbi deittici di movimento

Oggetto d’analisi saranno i cosiddetti “verbi deittici di movimento”,3 definiti da Ricca4 come: “verbi il cui impiego dipende criticamente dall’organizzazione deittica dello spazio in cui si svolge l’evento da essi denotato”, rappresentati nelle due lingue dall’opposizione lessicale di un elemento centrifugo ad uno centripeto (andare vs venire e iku vs kuru). Tali verbi descrivono il moto nei tratti più essenziali di allontanamento o avvicinamento e sono strettamente vincolati nell’utilizzo alle condizioni pragmatiche (spaziali, temporali, emotive) del contesto d’utilizzo.5 Possiedono insomma una duplice natura concreta e cognitiva: se da un lato permettono di osservare come sia codificato lo “spostamento” nei suoi tratti più basici, dall’altro, consentono di studiare come si manifesti il contatto e la reciproca influenza tra la realtà interna al parlante e la situazione dell’enunciazione. Lingue del fare e lingue del divenire Il tema dell’arbitrarietà del linguaggio e della relatività linguistica, al centro delle

riflessioni di numerosi studiosi europei (tra i più famosi ricordiamo Saussure, Sapir e Whorf ), è alla base della celebre contrapposizione proposta da Ikegami Yoshihiko6 tra “lingue del fare” e “lingue del divenire”, che prenderemo come cornice nel quale inserire questo lavoro. Ikegami, tramite un’analisi contrastiva principalmente svolta sulle strutture predicative di inglese e giapponese, il lessico verbale e l’attribuzione di ruoli grammaticali, teorizzò l’esistenza di due poli nella rappresentazione linguistica della realtà: quello rappresentato dal gruppo dei cosiddetti BECOME-languages [o Naru-teki gengo in giapponese, di seguito BL], che trovano il loro prototipo nella lingua giapponese, vs il tipo DO-languages [Suru-teki gengo, abbreviato DL], rappresentato in primis dall’inglese e, più in generale, dalle lingue europee. Secondo l’autore, il contrasto tra i due tipi appare con particolare evidenza nell’espressione del movimento spaziale. Nel tipo BL, il modello espressivo di riferimento è quello del mutamento di stato [change in state / jōtai no henka]: in pratica, la lingua descrive le azioni come fa3

La scelta dell’etichetta “verbi deittici di movimento” ricalca la terminologia adottata da Fillmore (1966, 1975) nei confronti di “to go”/ “to come” nei suoi lavori sulla deissi, e poi ripresa in gran parte degli altri studi successivi (Gathercole, 1977 e 1978; Rauh, 1981; Wilkins and Hill, 1995; Ricca, 1993; Nakazawa, 1990, 2002, 2005, 2006). 4 Davide Ricca, I verbi deittici di movimento in Europa: una ricerca interlinguistica, La Nuova Italia, Firenze 1993. 5 Inoltre, aspetto che non tratteremo, questi verbi sono al centro di numerosi usi astratti e grammaticalizzazioni. 6 Ikegami, Yoshihiko, Suru to Naru no Gengogaku [Linguistica del fare e del divenire], Taishūkan, Tokyo 1981. Ikegami Yoshihiko, “Do-Language And Become-Language: Two Contrasting Types Of Linguistic Representation”, in Ikegami Yoshihiko (a cura di) The Empire of Signs, John Benjamins, Amsterdam - New York 1991, pp. 285–326.


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centi parte di un flusso di eventi in lenta e continua transizione e, nelle descrizioni, maggiore attenzione è riservata all’intera scena [focus on the whole event / zentaiteki jōkyō he no chūmoku] piuttosto che al singolo agente. L’esatto contrario tende ad avvenire in inglese (DL) dove l’agente ha sempre un ruolo centrale [focus on the individuum / kotai he no chūmoku] e le azioni seguono il modello del “fare” con particolare rilievo sul mutamento di luogo [change in locus / basho no henka], la volontarietà, l’agire del protagonista e i suoi effetti sull’oggetto. Sintetizziamo i punti principali di questa riflessione nella tabella 1. Moto come “locomozione” (DO-language)

Moto come “transizione” (BECOME-language)

Cambio di Luogo

Cambio di Stato

Focus sull’individuo

Focus sull’intera scena

Goal-Oriented

Process-Oriented

Enfasi sull’agentività

Soppressione dell’Agentività

Tabella 1

Con un’efficace metafora, potremmo dire che, mentre il giapponese propone il “film” (rappresentazione cinematica) di un’azione, le lingue europee ne propongono una “foto” (rappresentazione fotografica). Adattando gli spunti della teoria di Ikegami all’oggetto di studio, questo lavoro verterà su due aspetti fondamentali: mostrare come gli utilizzi dei verbi deittici di movimento portino effettivamente a una diversa rappresentazione degli eventi di moto ed evidenziare come le due lingue codifichino grammaticalmente i confini della sfera personale. La metodologia per raggiungere lo scopo sarà duplice: un breve studio degli usi grammaticalmente ammessi dei verbi in questione e un’analisi comparata delle occorrenze verbali provenienti da opere di letteratura contemporanea in versione originale e traduzione. Confronto sugli usi grammaticali Per quanto riguarda la coppia centrifuga, iku/andare condividono sia il significato deittico di allontanamento dal parlante sia quello di moto generico: i due verbi si possono così considerare quasi semanticamente equivalenti. Evidenti divergenze, invece, si incontrano mettendo a confronto venire e kuru quando è il parlante a muoversi verso chi ascolta (o quando una terza persona va dall’interlocutore): mentre l’italiano ammette quello che Fillmore7 definisce “deictic shift” del pun7

Charles Fillmore, “Coming and Going”, in Charles Fillmore, Santa Cruz Lectures on Deixis, Indiana University Linguistics Club, Bloomington 1975, pp. 50-69.


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Verbi deittici di movimento

to di vista, il giapponese non prevede questa possibilità. Infatti se venire implica nella sostanza un’entità in avvicinamento ai partecipanti (parlante e/o ascoltatore) all’enunciazione, kuru è utilizzabile per designare esclusivamente ciò che si avvicina al parlante, o meglio ciò che interagisce con i domini cognitivi di colui che percepisce l’evento8 (si veda oltre). Il soggetto, in giapponese, potrà infatti “spostare” il suo punto di vista, identificandosi in altri partecipanti, solo se non coinvolto e/o presente nella scena dell’enunciato.9 Un discorso a parte meritano strutture peculiari della lingua giapponese del tipo V1-te iku e V1-te kuru, che nelle espressioni di movimento reale possono esprimere i seguenti significati:10 •Azioni in successione o contemporaneità: L’agente si ferma in un luogo per fare qualcosa e poi riparte o ritorna al luogo di partenza. V1 e V2 sono da considerarsi come due predicati distinti (di solito nel parlato sono interrotti da una pausa prosodica). 1) tabete iku (Mangiare e poi andare via) •Ausiliari deittici: iku/kuru orientano l’azione nei confronti del parlante (l’azione principale è V1) esprimendo qualcosa in avvicinamento o allontanamento. V1-teV2 sono un’unità lessicale indivisibile e la marca deittica serve a esprimere la posizione del parlante nei confronti di azione a lui (o persone/oggetti nel quale si identifica). 2) dete-iku (Uscire e andare via); motte-kuru (Portare verso chi parla). •Modalità dell’azione: iku/kuru rappresentano l’azione principale mentre V1-te (di solito un verbo di modo) precisa il mezzo o il modo di locomozione.11 3) hashitte-kuru (Arrivare correndo) 8

Altro differente uso lo si incontra anche nei complementi comitativi. Es. Vengo con te! che diventa Watashi mo iku yo! 9 Nakazawa precisa però che quando a muoversi verso l’ascoltatore è una terza persona “emotivamente prossima” (come ad esempio un familiare) al parlante, questi può prendere il punto di vista dell’individuo che sente più “stretto” a sé e utilizzare il verbo centrifugo IKU per descrivere la scena: in pratica come se fosse esso stesso a muoversi. Si confronti “koe-o kakeru-to, dareka-ga KURU darō”. ( “Se chiami, qualcuno forse verrà.”) con “ashita haha-ga anata-no tokoro-ni IKU” ( “Domani mia mamma verrà da te”) [Letteralmente: “Domani mia mamma, ovvero una persona psicologicamente molto vicina, andrà da te.] Per maggiori riferimenti: Nakazawa Tsuneko, “On come and go in English, Japanese, and Chinese: Why do they come while others go?”, in Language, Information, Text, vol. 12, University of Tokyo, Tokyo 2005, pp. 43-62. 10 Per maggiori riferimenti si veda Teramura Hideo, Nihongo no shintakusu to imi II (Sintassi e significato del giapponese II), Kuroshio, Tokyo 1984; Hasegawa Yoko, A Study of Japanese Clause Linkage: The Connective -TE in Japanese, CSLI Publications, Stanford, 1996; Shibatani Masayoshi, “Directional Verbs in Japanese in Motion”, in Erin Shay and Uwe Seibert, Direction and Location in Languages: In Honour of Zygmunt Frajzyngier (Typological Studies in Language), John Benjamins, Amsterdam 2003. 11 Tali composti sono centrali anche nell’espressione di connotazioni aspettuali quali la progressione, l’iteratività, la incoatività o la resultatività dell’azione che però non saranno oggetto di questo studio.


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Infine, un utilizzo del verbo kuru che si colloca a metà tra gli utilizzi concreti e quelli astratti è la cosiddetta “affective deixis” (o “deissi emotiva”) attraverso la quale il parlante esprime il suo coinvolgimento personale con l’accaduto descritto dal verbo principale.12 Nel parlare o nello scrivere un testo su eventi o azioni che sono “rivolte a noi”, “ci colpiscono” oppure “entrano nella nostra sfera d’interesse” vi è la necessità di manifestare il punto di vista del parlante tramite il ricorso a costruzioni V1-kuru. Il verbo centrifugo in questo caso rappresenta una marca obbligatoria da apporre a V1, come nel seguente: (5) kawa-ga afure-te KI-TA “Il fiume è straripato (e ne sono stato direttamente interessato)”. Come Tokunaga13 ha già notato, le manifestazioni di “affective deixis” rappresentano un vincolo non eludibile al momento di una descrizione: “The fact is that there are many situations in Japanese in which there are no ways to describe neutrally a situation in which the speaker is involved […]”. Confronto sui dati Attraverso l’analisi14 di un corpus di verbi verificheremo empiricamente come avvenga la distribuzione delle coppie verbali nelle due lingue, in presenza di uno stesso contenuto da descrivere. L’insieme dei dati è costituito da occorrenze di andare/venire e iku/kuru provenienti dalle versioni originali e rispettive traduzioni delle opere di narrativa contemporanea elencate di seguito: CORPUS GIAPPONESE-ITALIANO Murakami Haruki, Noruwee no mori, Kōdansha, Tokyo 1987. Vol. 1: pp. 267 - Vol. 2: pp. 260. Murakami Haruki, Norwegian wood, Einaudi, Torino 2006, pp. 374. Traduzione di Giorgio Amitrano. 12

Tokunaga Misato, Affective Deixis in Japanese : A case study of directional verbs, The University of Michigan, Ph.D. Dissertation, 1984. 13 Tokunaga, Affective Deixis in Japanese, cit., p.16. 14 In primo luogo, i dati si ripartiscono in due macro gruppi a seconda della lingua originale, italiano o giapponese, in modo da evidenziare pattern peculiari, differenze di frequenza nell’uso dei verbi e la presenza o meno strategie di traduzione ricorrenti. In secondo luogo, l’analisi è avvenuta su due piani distinti per quello che riguarda la direzione del moto. Vi saranno così due raccolte: una di verbi centripeti (venire/kuru) e l’altra di verbi centrifughi (andare/iku) in modo da facilitare anche l’individuazione di utilizzi non congruenti tra versione originale e traduzione. La terza, ed ultima, distinzione riguarda gli usi “autonomi” e “ausiliari” di iku/kuru del tipo V1te-iku/kuru in modo da evidenziare come la traduzione risolva una struttura grammaticalmente impossibile in italiano. Eventuali utilizzi idiomatici sono stati tralasciati perché più legati al substrato culturale della lingua d’origine che al riferimento motorio.


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Verbi deittici di movimento

CORPUS ITALIANO-GIAPPONESE Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1946. Italo Calvino, Kumo no su no komichi, Byakuya Shobo, Tokyo 1977. Traduzione di Hanano Hideo. Tabucchi Antonio, Notturno indiano, Sellerio, Palermo 1984. Tabucchi Antonio, Indo yasōkyoku, Hyakusuisha, Tokyo 1993. Traduzione di Suga Atsuko.

Tra dati di traduzioni giapponese > italiano (jp > it) e quelli italiano > giapponese (jp > it), in totale abbiamo preso in considerazione 1083 lessemi verbali, comprensivi di elementi autonomi e termini compresi in costruzioni coverbali, ottenendo la seguente classificazione:15 CORPUS GIAPPONESE > ITALIANO A) Verbi singoli centripeti (kuru) Totale 116 verbi

kuru > venire (61) kuru > contenuto omesso o rimodulato (31) kuru > andare (7) kuru >path (1) kuru > verbo telico (16)

CORPUS ITALIANO > GIAPPONESE B)Verbi singoli centripeti (venire) Totale 96 verbi

kuru non presente nell’originale >venire (13) C)Verbi singoli centrifughi (iku) Totale 246 verbi

iku > andare (156) iku > contenuto omesso o rimodulato (51) iku > venire (6) iku > path (17) iku > manner (7) iku > verbo telico (9) iku non presente nell’originale >andare (60)

D)Verbi singoli centrifughi (andare) Totale 182 verbi

venire > kuru (71) di cui anche venire> path + kuru 5 venire>altri verbi + kuru 4 venire > path (8) venire > contenuto omesso o rimodulato (4) venire > altri verbi (7) venire > iku (6)

andare > iku (111) di cui anche andare > path + iku 11 andare > manner + iku 1 andare > path (23) andare > altri verbi (18) andare > altri verbi+path (3) di cui altri verbi+manner+path 1 andare > contenuto omesso o rimodulato (16) andare > kuru (11)

15 Qualche chiarimento rispetto ai termini usati nella tabella: il termine “path” si riferisce a verbi che esprimono il percorso (come salire, entrare, scendere…), “manner” individua verbi che esprimono il modo nel quale si svolge lo spostamento (correre, camminare, nuotare…), “telici” indica i verbi goal focused (arrivare, giungere…), “altri verbi” rappresentano gli elementi che non possono essere ricondotti nelle categorie appena elencate (verbi di possesso, di stato ecc…), “altre espressioni” rappresentano predicati nominali o altri nei quali non sono presenti verbi.


Fabiana Andreani E) Costruzioni coverbali (V1-te iku) Totale 51 verbi

G) Costruzioni coverbali (V1-te kuru) Totale 226 verbi

tipo path + iku (42) > path 29 > manner 2 > andare 7 > contenuto omesso o rimodulato 3 > verbo telico 1 tipo manner + iku (9) > manner 6 > path 1 > andare 1 > contenuto omesso o rimodulato 1

F) Altri Verbi / Espressioni in italiano resi con iku

tipo path + kuru (102) > path 64 (con prefisso iterativo 5) > manner 1 > venire 9 >contenuto omesso o rimodulato 24 >verbo telico 4

H) Altri Verbi / Espressioni in italiano resi con kuru

tipo manner + kuru (1) >manner 1

Totale 54 casi

Totale 112 casi

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path > iku (6) path > path + iku (10) path > manner + iku (1) path > manner + path + iku (1) telico > iku (1) manner > iku (1) altro verbo > iku (10) altri verbi > altri verbi+ iku (15) altra espressione > iku (9)

path > kuru (3) path > path + kuru (29) path > altro verbo + kuru (2) manner > path + kuru (2) telico > kuru (12) verbi telici > manner +kuru (1) altro verbo >altro verbo+kuru (30) altro verbo > kuru (4) altre espressioni > kuru (26) altre espressioni > path+kuru (3)

tipo altro verbo + kuru (120) > path 15 (con prefisso iterativo 3) > manner 5 > venire 5 > andare 3 >contenuto omesso o rimodulato 31 > verbo telico 21 > altro verbo 40 tipo itte kuru (3) > venire 3 Tabella 2

Principali punti d’interesse Salta subito all’occhio la diversa distribuzione dei verbi nelle due lingue: nonostante i libri presi in esame (edizione in italiano), abbiamo quasi lo stesso numero di pagine (all’incirca 360) i verbi giapponesi contano quasi il triplo delle occorrenze


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Verbi deittici di movimento

italiane e, nello specifico, le occorrenze di kuru, sia per quanto riguarda gli usi singoli che quelli composti, superano di più di tre volte la presenza del verbo italiano venire. Utilizzi autonomi del verbo iku (Tabella 2, riquadri A e F) sono invece superiori alla frequenza dell’italiano andare: questo sembrerebbe in accordo con studi precedenti16 che hanno dimostrato come il giapponese disponga di un repertorio di verbi di percorso (path verbs) e verbi di maniera (manner verbs) più limitato rispetto ad altre lingue e quindi si trovi ad utilizzare ampiamente il verbo iku anche in qualità di default motion verb. Inoltre, scorrendo lo sguardo sulla tabella 2 nei riquadri A e B, si notano casi nei quali verbi centrifughi corrispondono verbi centripeti (e viceversa), occorrenze nei quali a andare/venire e iku/kuru corrispondono verbi di percorso (path verbs come salire, uscire, passare ecc…), verbi di maniera (manner verbs ovvero correre, saltare, nuotare ecc..), verbi telici (arrivare, giungere…) o contenuti rielaborati: dati che provano la sicura presenza di differenze funzionali e semantiche nelle due lingue. In particolare è interessante soffermare l’attenzione su kuru: il suo frequente utilizzo sembrerebbe confermare l’esigenza pragmatica della lingua giapponese di esprimere tutto quello che direttamente o indirettamente ha un effetto sui confini sensoriali di chi parla. Confini della sfera personale Deictic shift Per prima cosa prendiamo in considerazione le coppie di occorrenze opposte nelle quali la traduzione contiene un verbo deitticamente antitetico con il testo di partenza. Abbiamo già visto, infatti, come italiano e giapponese si distinguano nell’uso di venire / kuru nel caso che a muoversi sia il parlante. Oltre a queste condizioni, i dati raccolti mostrano ulteriori scenari dove italiano e giapponese non concordano: il discorso riportato e il ricordo, ovvero situazioni nel quale il moto non è contemporaneo all’enunciazione, ma avviene in un momento distinto,17 come mostrano gli esempi successivi. 16

Ci si riferisce si seguenti: Koga Hiroaki et al., “Expressions of spatial motion events in English, German and Russian: with particular reference to Japanese”, in Christine Lamarre et al. (a cura di), Typological studies of the Linguistic Encoding of Motion Events, Center for evolutionary cognitive sciences at the University of Tokyo, Tokyo 2008. Matsumoto Yo, “Typologies of lexicalization Patterns and Event Integration: Clarification and Reformulations”, in Chiba Shuji et al. (a cura di), Empirical and Theoretical Investigations in Language, A Festschrift for Masaru Kajita, Kaitakusha, Tokyo 2004, pp. 403-418. Sugiyama Yukiko, “Not all verb-framed languages are created equal: The case of Japanese”, Proceedings of the Thirty-First Annual Meeting of Berkeley Linguistics Society, Berkeley Linguistics Society, Berkeley 2005, pp. 299-310. 17 Nell’intestazione delle tabelle l’indicazione riguarda la versione originale: 1 = Murakami, Noruwee no mori vol. 1; 2 = Murakami, Noruwee no mori vol. 2;


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Discorso Riportato Vol

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Versione Originale

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Versione Tradotta

2

171

何 日 頃 に 会 い に 来 て 314 (V-ven) ほしいという 直子からの手紙がい つ来るかもしれない からだ。

La lettera di Naoko che mi diceva quando sarei potuto andare (V-and) a trovarla poteva arrivare in qualunque momento.

2

225

僕 は 自 分 の う ち に 来 353 て(V-ven)泊まれと僕に 言ったが、

Mi invitò ad andare (V-and) a dormire a casa sua,

Tabella 3a

Ricordo 1

35

我 々 は 何 か の 目 的 が 25 あってここに来た(Vven) わけではなかっ た。

Non eravamo andati (V-and) da quelle parti per qualche ragione in particolare.

2

199

大 き く な っ た ら デ パ 334 ートの食堂に一人で きて(V-ven)食べないも のをいっぱい食べて やろうと思った、

Pensavo che da grande sarei andata (V-and) da sola al ristorante nei grandi magazzini,

Tabella 3b

Boundary crossing Con tale etichetta, letteralmente “attraversamento di confine” ci riferiamo ad azioni di entrata o uscita da una stanza o un luogo circoscritto. In pratica quando qualcosa o qualcuno “appare” o “scompare” dalla vista o dai sensi, cambiano anche i contenuti della propria sfera percettiva personale e questo fatto non sembra ricoprire un’uguale importanza nelle due lingue. In italiano l’“attraversamento di confine” è reso principalmente tramite path verb o da costruzioni sintagmatiche del tipo andare/venire + preposizione/avverbio direzionale: l’utilizzo di riferimenti deittici rimane comunque una variante facoltativa. Al contrario, in giapponese, il boundary crossing è un evento dotato di una notevole salienza cognitiva, tanto da essere marcato (ingresso nel campo percettivo del parlante vs uscita) rispetto alla posizione del parlante. Si confrontino gli esempi in basso. C= Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno; T= Tabucchi, Notturno Indiano. I dati sono classificati secondo la seguente legenda: V-and (Verbo deittico centrifugo), V-ven (Verbo deittico centripeto), Pv (Path verb), Mv (Manner Verb), Tel (Verbo telico), Altro (Altro verbo o espressione, compresi verbi stativi).


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Versione Originale

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Versione Tradotta

1

63

僕が入って(Pv) いく(V-and)と 236 その赤く充血した目を少しだ け動かして我々の姿を見た。

Quando entrammo (Pv) si mossero un po’, rossi e iniettati di sangue, verso di noi.

1

105

そして机のふちをぎゅっとつ 76 かんで足を下におろし、杖を とって足をひきずりながら教 室を出て(Pv)いった(V-and)。

Poi aggrappandosi forte al bordo della cattedra, mise giù la gamba, prese il bastone e, trascinando la gamba, uscì (Pv) dall’aula.

Tabella 4

Inverse Marker Non tutte le numerose (226) occorrenze di costruzioni V1-te kuru (Tabella 2, riquadro G) riguardano il boundary crossing, la maggior parte infatti costituisce una manifestazione del cosiddetto fenomeno di inverse marking. In questo caso, la presenza di kuru nella struttura segnala che l’azione espressa in V1 è diretta verso il centro deittico rappresentato dal parlante. Sakahara18 (1994) ne parla in termini di “jūyō o arawasu hyōgen” [“espressione che esprime conferimento”], Shibatani e Koga & Ohori19 denominano quest’uso di kuru come inverse marker, mentre Matsumoto20 (comunicazione personale) lo chiama direction effect marker. Ad esempio, nel primo passo sotto riportato (2: 144, 293), il predicato composto kakete kita non esprime un moto di avvicinamento al parlante ma il fatto che l’azione di V1 è rivolta ad esso. Stessa cosa anche nel secondo esempio della lista, nel quale il verbo kuru, presente nel composto verbale okutte kite, non segnala un reale movimento, ma esprime un coinvolgimento del parlante come oggetto diretto dell’azione.

18

Sakahara Shigeru, “Fukugō doushi Vte kuru”(Il verbo composto Vte kuru), in Gengo, Jōhō, Tekusuto, 2, Tokyo daigaku gaikokugo kyōikugaku kenkyūkai, Tokyo 1994, pp. 109–143. 19 Si veda Shibatani, cit., 2003. Koga Hiroaki & Ohori Toshio, “Reintroducing inverse constructions in Japanese. The deictic verb kuru “to come” in the paradigms of argument encoding”, in Robert Van Valin (a cura di), Investigations of the syntax-semantics-pragmatics interface, John Benjamins, Amsterdam 1996, pp. 37-58. 20 Ringrazio il Prof. Matsumoto Yo del Dipartimento di Linguistica dell’Università di Kobe per i suoi preziosi consigli.


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Versione Tradotta

2

144

そして最初に声かけて(Altro)き 293 た(V-ven)人と寝ちゃうわ。

E poi andrò a letto con il primo che mi rivolge (Altro) la parola.

1

155

僕は直子の送って(Altro) きた 113 (V-ven)七枚の便箋を手にした まま、とりとめない想いを委 ねていた。

Con quei sette fogli spediti (Altro) da Naoko tra le mani lasciai andare le mani alla deriva.

2

156

夜に闇のなかからいろんな人 113 が話しかけて(Altro)きます(Vven)。

In quei momenti sento che dal buio della notte c’è qualcuno che mi chiama (Altro).

Tabella 5

Un tale utilizzo non è rintracciabile nel verbo italiano venire, come non è possibile rintracciare nella lingua un rigido obbligo, equivalente a quello presente in giapponese, di marcare le azioni orientate al parlante: le traduzioni difatti tendono ad ignorare il verbo centripeto e riportare solamente V1. In italiano significati benefattivi o di coinvolgimento personale del parlante sono piuttosto trasmessi da fattori d’ordine extralinguistico oppure segnalate da forme pronominali aggiunte ai verbi come “ci aiuta”,“mi piace”, “ti disturba” e come appunto kakete kita (2:144, 293) che è tradotto come “mi rivolge la parola” o hanashikakete kimasu (2:156; 113) è reso attraverso “mi chiama”. Notiamo insomma nell’uso di kuru come inverse marker, un’altra sostanziale differenza tra i contenuti semantici dei verbi centripeti in giapponese e italiano. Lingue del fare e lingue del divenire Passiamo ora a osservare come in italiano e giapponese siano effettivamente presenti quei tratti distintivi dei DL e BL individuati da Ikegami. Verbi telici In diverse occorrenze (vedi tabella 2 riquadro A) kuru è tradotto con verbi telici come arrivare o giungere, mentre venire, tranne in alcuni casi, non è grammaticalmente ammesso, se non a condizione di modificare il senso della frase. Vol.

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Versione Originale

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C

62

ma se Lupo Rosso non arriva (Tel) è tutta 104 fatica sprecata.

Versione Tradotta ルーポ・ロッソがきて(V-ven) くれなければこういう苦労も みなむだになる。


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2

256

彼女は東京に来た(V-ven) 時と同じ 373 ツイードのジャケットを着て、

Lei aveva la stessa giacca di tweed e i pantaloni bianchi che portava quando era arrivata (Tel) a Tokyo.

Tabella 6

Si può notare l’evidente presenza di una divergenza tra i contesti d’utilizzo possibili dei verbi kuru e venire. Mentre in giapponese kuru può essere utilizzato nei casi precedenti, in italiano alcune occorrenze ammettono sia arrivare che venire (es. C: 62, 104) mentre altre necessitano esclusivamente di arrivare (es. 2: 256, 373). Secondo una definizione generale, arrivare e venire hanno in comune il significato di “giungere ad un luogo previsto come meta”21 tuttavia la lingua italiana opera, nella maggior parte dei casi, una precisa distinzione tra le strutture morfosintattiche che ammettono l’uso dell’uno o dell’altro verbo. L’essenza di tale differenza si coglie meglio se ci si sposta a livello di Aktionsart (azionalità): mentre arrivare esprime eventi non durativi, telici e non dinamici, venire è usato in riferimento a eventi durativi, atelici e dinamici. In parole più semplici arrivare offre l’immagine conclusiva dell’azione mentre venire propone un’animazione dell’intero svolgimento. Volendo riassumere le caratteristiche generali22 dell’azionalità dei due verbi in una tabella: DINAMICO

TELICO

DURATIVO

ARRIVARE

No

No

VENIRE

No

Tabella 7

I dati invece mostrano come il verbo deittico centrifugo kuru possa prendere, a seconda dei contesti, anche un significato simile a quello di arrivare. 21 Definizione da Salvatore Battaglia (a cura di), Grande dizionario della lingua italiana, UTET, Torino, 1961-2002: Venire: 3. Giungere, arrivare, capitare in un luogo; arrivare a destinazione; farsi su una soglia. Arrivare: Giungere (al luogo previsto come meta); toccare un limite, un termine, un traguardo [...] Di oggetti: giungere a destinazione; essere recapitato [lettere, pacchi, ecc..]. 22 La realtà linguistica è come sempre però molto più ricca e differenziata. Per esempio “arrivare” può prendere delle caratteristiche durative nel caso compaia in perifrasi progressive (“Sta arrivando”) oppure “venire” può prendere connotazioni non durative se diciamo “È venuto da me alle dodici in punto”. È quello che Bertinetto chiama “ibridismo azionale”, al quale rimandiamo per maggiori specificazioni, Inoltre non bisogna dimenticare che in diverse varietà regionali (ad es. in Sardegna) la differenza azionale tra i due verbi è poco avvertita e l’uso di “venire” ricopre anche le occorrenze d’uso di “arrivare”. Si veda Piermarco Bertinetto, Tempo, Aspetto e Azione nel verbo italiano. Il sistema dell’indicativo, Accademia della Crusca, Firenze 1986.


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Nei passi di testi presi in considerazione, le frasi grammaticalmente impossibili con il verbo venire, risultano difatti del tutto appropriate quando rese in giapponese con kuru. Ciò in particolare succede quando ci troviamo davanti a: • Moto (causato) di cosa inanimata, come il recapitare corrispondenza o consegnare merci al soggetto parlante o che osserva la scena. 2

195

五月の半ばにレイコさんか 331 ら手紙が来た(V-ven)。

Verso la metà di Maggio arrivò (Tel) una lettera da Reiko.

Tabella 8

• Raggiungimento di un obiettivo tramite moto centripeto rispetto a chi parla o descrive l’evento.23 1

155

ココに来て(V-ven)もう四ヶ月 11 近くになります。

Sono già quattro mesi che sono arrivata (Tel) qui.

Tabella 9

• Manifestazioni di eventi o situazioni. 2

113

人が誰かを叱るべき時期が 271 来た(V-ven) からであって、 その誰かが相手に理解して 欲しいと望んだからではな い。

Se uno capisce un altro è perché è arrivato (Tel) il momento, non certo perché quella persona desiderava tanto che l’altra lo capisse.

Tabella 10

Condizione essenziale perché kuru possa essere utilizzato in tutti questi contesti, rimane la direzione del moto, che deve essere verso chi parla o osserva la scena. A differenza dell’italiano, infatti sarebbe assolutamente innaturale, oltre che errato, utilizzare kuru per segnalare il raggiungimento di un punto dopo un allontanamento dal luogo dove si trova chi descrive la scena, come dimostrato nell’esempio (7). Es. (6) mukō-ni TSUI-TE kara, tegami-o chōdai-ne vs *mukō-ni KI-TE kara, tegami-o chōdai-ne “Quando arrivi là, per favore scrivimi.”

23

Parlanti nativi interrogati a proposito delle traduzioni di espressioni come “arrivare a” hanno risposto utilizzando il verbo tsuku, propriamente “giungere, arrivare in un punto”. La scelta sembra vincolata dalla volontarietà (o meno) dell’azione e dal voler metter in risalto il mezzo di trasporto o la meta (tsuku è preferito in frasi come “La nave è giunta al porto”, “giungere al confine di stato”) piuttosto che la direzione del moto (kuru naturalmente si riferisce solo a qualcosa che si avvicina o che giunge al parlante).


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Predicati complessi con più di due verbi Nei dati analizzati, la tendenza della lingua giapponese a concentrarsi sulla processualità dell’azione si evince con particolare efficacia da costruzioni coverbali a tre verbi con struttura V1- V2 -V3 dove: -il primo verbo V1-appare in Ren’yō-kei, ovvero conserva solo la radice verbale di base, -il secondo verbo V2 si presenta in forma –te con valore sospensivo (=SOSP), -il terzo verbo V3, la testa del composto, è il verbo deittico che si presenta in forma finita e prende le marche temporali (PASS=Passato) o aspettuali. Nella fattispecie dei dati del presente studio, tra le occorrenze dei verbi deittici centrifughi sono state riscontrate le seguenti costruzioni: 8) FUKI SUGI-TE IT-TA (V1=fuki; V2 =sugi-te; V3=it-ta) soffiare, superare-SOSP, andare-PASS 9) TOBI SAT-TE IT-TA (V1=tobi; V2 =sat-te; V3=it-ta) saltare, allontanare-SOSP, andare-PASS 10) TŌRI SUGI-TE IKU (V1=tōri; V2 =sugi-te; V3=iku) passare, Superare-SOSP, andare

Vediamo qui come le informazioni sull’evento motorio e il suo svolgimento siano ripartite tra diversi componenti: V1 dà informazioni su manner o path, V2 esprime il path e V3, il verbo deittico, oltre che orientare l’azione nei confronti del parlante, enfatizza la dinamicità dello spostamento spaziale. La traduzione italiana, che non presenta tali strutture nel suo repertorio morfosintattico, si trova di fronte ad una duplice scelta su quali informazioni mantenere e su come esprimere tali contenuti attraverso le risorse grammaticali disponibili. I casi che abbiamo recuperato sono poco numerosi e purtroppo non permettono effettivamente di dire quali sia la strategia più comune, così ci limiteremo a riportare le scelte traduttive presenti nei dati. Nel primo caso viene mantenuto solo il primo path verb (jp tōri “passare” > it passare) mentre l’informazione contenuta nel secondo verbo (sugite “superando”) è in parte riproposta nell’avverbio di luogo “davanti”. 2

34

Tabella 11

人々が通り(Pv) 過ぎて(Pv) いく(V- 216 and)のを僕はその間ぼんやりと眺 めていた。

Osservando nel frattempo la gente di tutti i tipi che passava (Pv) davanti alla vetrina.


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Nel caso successivo è sempre il path verb (sat-te) ad essere tradotto letteralmente mentre il manner verb (tobi) passa ad essere un complemento di modo (in volo). 1

86

そしてその光の線が風ににじむ 62 のを見届けるべく少しのあいだ そこに留まってから、やがて東 に向けて飛び (Mv) 去って(Pv) い った(V-and)。

Restò ferma lì per un po’a guardare la sua scia di luce confondersi col vento, poi finalmente si allontanò (Pv) in volo, in direzione est.

Tabella 12

Infine (tabella 13) la versione italiana riporta il moto delineandone solo i tratti essenziali: la scena in giapponese che descrive un vento che soffia, supera e prosegue oltre chi osserva è semplicemente descritta dal generico verbo riflessivo “muoversi” che rende ben poco della dinamicità del verbo composto ed elimina tutta l’evocatività della scena in originale. 1

85

風だけが我々のまわりを吹き(Al- 62 tro) すぎて (Pv) いった (V-and)

L’unica cosa che si muoveva (Altro) attorno a noi era il vento.

Tabella 13

Focus sul processo vs Focus sulla meta I dati hanno evidenziato anche un’interessante contrapposizione per quanto riguarda gli eventi di moto, del tutto aderente al modello proposto da Ikegami. A numerose occorrenze di iku, in particolare, e di kuru l’italiano contrappone l’uso di verbi stativi i quali, più che dare l’idea di movimento, si concentrano sulla risultante dell’azione. Questo fenomeno lo si nota chiaramente dagli esempi successivi nei quali al verbo originale iku, la traduzione italiana presenta il verbo “stare”. Questo verbo infatti possiede anche il significato di “Soggiornare in un luogo per un tempo limitato. […] Trattenersi in una sede, anche temporaneamente per svolgervi un’attività o esercitarvi una carica o esservi reperibile”.24 La scena viene quindi descritta non come un evento di moto ma come una situazione statica. 2

33

私もそこに一度だけ行った(V-and) 215 Ci sono stato (Altro) anche io una volta. ことがあります、

2

33

東京に行かれた (V-and) というの 215 Quand’è che lei è stato (Altro) a Tokyo. は?

Tabella 14

Inoltre “stare” possiede anche l’uso idiomatico di “recarsi, passare momentaneamente del tempo in luogo anche per svolgere qualcosa”:25 in pratica, l’idea 24 25

Definizione 23 di “stare” su Battaglia (a cura di), Grande dizionario, cit. Si veda la definizione di “stare” (punto 23) su Battaglia (a cura di), Grande dizionario, cit.


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dello spostamento non è esplicitamente espressa ma deve essere inferita. Anche in questo caso, la lingua giapponese invece tende a sottolineare la processualità degli eventi preferendo l’uso di un verbo di moto che evidenzia l’azione nel suo svolgimento. C

149

È stato (Altro) a lavarsi.

230 体の洗いに行っていた(V-and)のだ。

T

124 Lei è mai stato (Altro) a Cal- 136 「あなたはカルクッタに行ったこと (Vcutta? and)あるの?」

Tabella 15

Anche kuru può essere utilizzato in riferimento a spostamenti abituali, come appunto possiamo vedere mostrato nella tabella 16. Scegliere di tradurre con kuru, naturalmente, sottolinea la posizione del parlante ed enfatizza le componenti deittiche del moto. T

21

Capì che il luogo non era fre- 14 quentato (Altro) da occidentali

西 洋 人 は あ ま り 来 な い (V-ven)の だ ろ う。

Tabella 16

Un discreto numero di occorrenze (si veda tabella 2, riquadri F e H) inoltre presenta traduzioni che procedono da path verb e da manner verb a verbi deittici in giapponese, ovvero adattamenti nei quali dalle caratteristiche inerenti al moto si passa a dare informazioni sul solo orientamento dello spostamento. In giapponese, ancora una volta la posizione del parlante dimostra avere una salienza cognitiva dotata di maggiore risalto rispetto alla descrizione dei tratti (come percorso, maniera) dell’evento motorio stesso. T

62

Immaginavo sarebbe tornata (Pv) 61

「いずれ来る(V-ven)だろうとは思ってまし た」

T

83

Le circostanze della mia vita 79 non mi permettono che io torni (Pv) a passeggiare lungo le rive dell’Adyar

一度そちらに行って(V-and)、アディヤー ルの河畔を散策することはもう吐いませ ん。

Tabella 17

Il modello “fare qualcosa e tornare” La struttura V1te-kuru è utilizzata frequentemente in giapponese con il significato letterale di “fare qualcosa e tornare” nel caso che il parlante abbia intenzione di fare ritorno alla posizione attualmente occupata una volta svolto il compito per il quale si era allontanato.


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Sottolineare l’esistenza, o meno, di un ritorno alla posizione attualmente occupata dal parlante dopo l’azione, nella coscienza pragmatica dei parlanti serve soprattutto a specificare che l’azione è conclusa o è stata svolta per intero. L’aggiunta dell’informazione del ritorno alla base, tramite kuru, contribuisce quindi a dare un aspetto perfettivo e completivo all’intero evento.26 Come è possibile rintracciare nei successivi esempi: 1

20

親が心配してその寮を見つけて(Al- 13 tro) きて(V-ven)くれた。

A trovare (Altro) il collegio erano stati i miei, preoccupati per me […].

2

133

勝手にお酒買って(Altro) きたり(V- 285 ven)、お寿司取ったり、慰めてくれ たり、ないたり、

Comprano (Altro) loro il saké e il sushi per gli ospiti, ti consolano, piangono…

Tabella 18

In italiano, come si nota nella colonna a destra, non c’è quest’esigenza di specificare il ritorno e la traduzione tende nella maggior parte a mantenere solo il primo verbo oppure, in altri casi, a ignorare entrambi e rielaborare il contenuto. L’unica corrispondenza a questa struttura è quella che riportiamo sotto (1: 163, 118) dove viene espresso il significato generale di “fare qualcosa e tornare” però utilizzando una struttura sintattica decisamente diversa: ad un katte kite (letteralmente “comprando” e “venendo”) è fatto corrispondere “comprai” e il verbo sintagmatico “tornai su”. 1

163

そして下に降りて自動販売機でコ 118 ーラを買って(Altro)きて(V-ven)、 それを飲みながらまたもう一度読 みかえした。

Scesi giù, comprai (Altro) una Coca-Cola al distributore automatico, tornai (Pv) su e lessi ancora una volta la lettera mentre bevevo.

Tabella 19

Inoltre, da notare è che, quando nelle traduzioni italiane della struttura V1te-kuru è riportato il verbo deittico questo è sempre centrifugo, ovvero opposto al testo originale, come nei casi sotto mostrati (1: 246, 178 e 1: 263, 190) i quali offrono una rappresentazione dell’evento praticamente da punti di vista opposti. Al contrario del giapponese, in italiano particolare enfasi appare rivolta al fine o all’obiettivo dell’azione tramite delle costruzioni sintattiche che integrano verbi centrifughi con complementi di moto a luogo (“andare a…”, oppure complementi di termine “a fare una passeggiata” cfr. sotto ). 1

26

246

これから三人で外を散歩して(Al- 178 tro)くる(V-ven)、三時くらいで戻っ てくる と思う、とレイコさんが言った。

-Stiamo andando (V-and) a fare una passeggiata (Altro), - disse Reiko, - dovremmo essere di ritorno per le tre.

In questo caso se al posto di kuru viene sostituito iku: V1te-iku il significato cambia totalmente prendendo una sfumatura di iteratività e ripetitività dell’azione.


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1

263

私がピアノのレッスンから戻って 190 くると六時半で、お母さんが夕食 の仕事していて、もうご飯だから お姉さん呼んで(Altro)きて(V-ven)っ ていったの。

Ero tornata dalla lezione di piano verso le sei e mezzo. Mia madre stava preparando la cena e mi disse: “ Vai (V-and) a chiamare (Altro) tua sorella che è pronto”.

Tabella 20

In italiano, come abbiamo visto sopra, il focus cognitivo appare nel raggiungimento di una meta più o meno definita, mentre quello della lingua giapponese si riconferma nella descrizione della processualità sempre tenendo conto della posizione del parlante. Conclusioni Dall’analisi condotta, le occorrenze della lingua giapponese hanno mostrato la tendenza ad enfatizzare la centralità del parlante, marcandone linguisticamente i confini della sfera sensoriale-percettiva e dimostrando l’esigenza pragmatica di specificarne la posizione nel contesto d’enunciazione. Una prima conferma di questi fenomeni può essere riconosciuta nella impossibilità di deictic shift da parte del parlante nell’utilizzo di kuru: data la netta separazione tra il soggetto e “l’altro”27 non è possibile prendere il punto di vista di un partecipante all’enunciato (come nella frase italiana “vengo da te”) proprio perché esterno ai proprio confini percettivo-cognitivi.28 Il soggetto e la sua posizione spazio-temporale sono elementi dotati di un risalto cognitivo in tutte le lingue, tuttavia in giapponese il parlante dimostra possedere una salienza del tutto particolare tanto che ogni azione, evento o stato che lo interessi (o modifichi la sua sfera cognitiva) deve essere marcato tramite kuru, inteso sia come lessema autonomo sia come ausiliare, ed è specialmente in quest’ultima forma che potremmo riconoscere al verbo centripeto la funzione che potremmo definire di “marca deittica di coinvolgimento”. Il secondo aspetto che abbiamo approfondito riguarda la descrizione degli eventi di moto secondo i due diversi modelli di rappresentazione proposti da Ikegami: il movimento come “transizione” (tipico dei BECOME-languages) vs “locomozione” (DO-languages). A questo proposito, risorsa espressiva della lingua giapponese sono risultati essere i predicati complessi costituiti da due o tre verbi (struttura V1te-V2 o V1-V2teV3), i quali offrono una descrizione della scena nella sua progressiva evoluzione di momenti successivi, permettendo quasi di “vedere” nel testo lo svolgersi delle azioni del protagonista: una rappresentazione che abbiamo definito come “cinematica”. 27

Sui confini della sfera personale si veda anche Suzuki Masaru, “Kikite no shiteki ryōiki to teinei na hyōgen” (Espressioni di cortesia e sfera personale dell’ascoltatore), in Nihongogaku VIII-2, 1989, pp. 58-67. 28 Si veda Oe Saburō, A comparative study of Japanese and English: On subjectivity, Nanundō, Tokyo 1975.


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A questo flusso di eventi in sequenza si contrappone l’italiano (DO-language) con una “rappresentazione fotografica” dove i contenuti azionali sono espressi spesso da un verbo solo e focalizzati sulla meta o sul risultato finale. Per esempio, in situazioni in cui il contenuto da esprimere era quello di uno spostamento di breve durata, mentre l’italiano utilizza prevalentemente verbi stativi, in giapponese si traduce con verbi di moto: è questo il caso di iku (enfasi sul moto) spesso reso con stare (enfasi sulla situazione risultante) o viceversa. Infine, con particolare forza, emerge la differente rappresentazioni degli eventi nelle due lingue in tutti quei casi in cui a kuru corrisponde nella traduzione un verbo telico come “giungere”, “arrivare”, semanticamente ben diverso da venire. I verbi telici, infatti, offrono una rappresentazione dell’evento che mette in evidenza la sua parte conclusiva (goal), e che prescinde dalla posizione del parlante (sono infatti privi di riferimenti deittici). Il fatto che il giapponese utilizzi principalmente kuru riconferma ancora una volta come questa lingua tenda a dare risalto allo svolgimento dell’intera azione e alla posizione del parlante. Attraverso uno studio delle risorse espressive caratteristiche di ciascuna lingua offerte dai dati raccolti, ci sembra di aver dimostrato sia l’esistenza di una differente rappresentazione cognitiva degli eventi di moto in italiano e giapponese. Ciò ha portato anche ad individuare delle divergenze a livello semantico-funzionale dei verbi deittici di movimento motivate da una diversa concezione della soggettività e della sfera cognitiva individuale. Tradurre si conferma ancora una volta “adattare” un testo alle strutture della lingua d’arrivo, attraverso l’impiego delle risorse espressive più appropriate, piuttosto che cercare delle “corrispondenze” tra versione originale e testo tradotto.


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Verbi deittici di movimento

Deictic Motion Verbs in Italian and Japanese: a Comparison of Two Different Representations of Subjectivity This paper aims to compare usages and cognitive values of Italian and Japanese deixis motion verbs andare/venire and iku/“kuru which express motion in their basic features (“away from me” and “toward me”) and depend from utterance context and speaker’s knowledge of it. Through the theoretical frameworks of cognitive linguistics and Ikegami’s “Dolanguages vs. Become-languages” model, I investigate how motion and speaker saliency are represented, by comparing data from contemporary novels and their translations. While Italian chooses mainly goal-oriented patterns (“photographic representation”), Japanese shows the tendency to use process-oriented (“cinematic representation”) descriptions. Moreover, a frequent occurrence of kuru seems to demonstrate the need for Japanese to emphasize and linguistically mark all the events that physically or psychologically interact with the subject.

イタリア語と日本語におけるダイクシス移動動詞、 二つの移動と主観性の概念の比較

アンドレアーニ・ファビアーナ 本稿の目的はイタリア語と日本語におけるダイクシス移動動詞の使用 方法を比較しながら、各言語の移動表現の特徴と主観性の概念を明ら かにすることである。 ダイクシス移動動詞とは基本的な移動表現で、イタリア語の「 andare/venire」、日本語の「行く/来る」が用いられる。その使用 は発話状況の意識によって異なる。 認知言語学における「なる的言語・する的言語」(池上 1981)の理論 的枠組を基に、現代小説の原語版とその翻訳から収集されたコーパス より、ダイクシス移動動詞の出現頻度や使用傾向、主語の際立ちなど を比較・検討した。 結果として、テクストは同じ内容にも関わらず、両言語ではそれぞれ に特徴的な描写の方法がとられていることがわかった。イタリア語で は主に、移動の到達点に注目した「写真的な描写」がなされている。 一方、日本語では、移動の過程に注目した「映画的な描写」が多く用 いられている。さらに、イタリア語に比べ、日本語での「来る」の使 用が圧倒的に多いことから、日本語では主語との身体的・心理的な関 わりを強調し、言語化していることも明らかにされた。


Paolo Calvetti

L’uso di corpora bilanciati nella compilazione di dizionari bilingui. Il caso del progetto del grande dizionario giapponese-italiano

Introduzione Lo sviluppo di software dedicato al trattamento di dati testuali, la presenza di computer sempre più potenti e veloci, e la creazione, per le principali lingue nazionali, di banche-dati testuali di ampie dimensioni, hanno determinato negli ultimi decenni un’attenzione maggiore per le potenzialità della “linguistica dei corpora” (corpus linguistics) sia in ambito teorico, sia nei suoi usi pratici nella didattica delle lingue straniere, nella traduzione automatica, nella lessicografia. Nel caso della lingua giapponese, grazie alle iniziative di istituti di ricerca di eccellenza,1 sono stati realizzati corpora linguistici di dimensioni notevoli, comparabili al British National Corpus (BNC), al Corpus di Italiano Scritto contemporaneo (CORIS/CODIS), al Corpus de Referencia de la Lengua Española Contemporánea (CREA) o al Corpus Storage, Maintenance and Access System (COSMAS) dell’Institut für Deutsche Sprache. L’utilizzazione di tali risorse può essere di grande aiuto anche per la compilazione di dizionari bilingui, permettendo un agevole reperimento di esempi testuali da inserire nelle fraseologie esemplificative dei lemmi e facilitando lo studio delle collocazioni lessicali, particolarmente importanti in quei dizionari bilingui destinati a fruitori che non siano madrelingua dell’idioma di partenza, quale è il caso di un dizionario giapponese-italiano destinato a lettori italiani. In precedenza, presentando il Progetto del Grande Dizionario Giapponese-Italiano, vi è stata occasione di descrivere lo stato della lessicografia bilingue italiano-giapponese2 e lamentare la carenza di dizionari raffinati che possano venire incontro alle sempre più articolate necessità di quanti in Italia utilizzano il giapponese per motivi di studio, lavoro, ricerca. Non è quindi necessario ritornare in questa sede sull’argomento. Vale piuttosto la pena di chiarire brevemente i vantaggi della linguistica dei corpora e soffermarsi sui progressi del trattamento dei dati testuali della lingua giapponese, per analizzare le potenzialità che questa metodologia può avere anche nel campo della lessicografia bilingue.

1

Basti ricordare il Departement of Corpus Linguistics del National Institute for Japanese Language and Linguistics (Kokuritsu Kokugo Kenkyūjo) di Tokyo o il Computational Linguistics Laboratory del NAIST (Nara Sentan Kagaku Gijutsu Daigakuin Daigaku) di Nara. 2 Paolo Calvetti, “Perché un nuovo dizionario giapponese-italiano”, in Luisa Bienati e Matilde Mastrangelo (a cura di), Un’isola in Levante. Saggi sul Giappone in onore di Adriana Boscaro, ScriptaWeb, Napoli 2010, pp. 389-403.


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L’uso di corpora bilanciati nella compilazione di dizionari bilingui

La linguistica dei corpora Più che una branca della linguistica a sé, la linguistica dei corpora costituisce un approccio metodologico. Grazie ai sistemi informatici che permettono la consultazione sincronica di grandi quantità di dati provenienti da testi distinti e indipendenti, si è tornati a dar peso all’osservazione dei “fatti” reali della produzione linguistica, dopo decenni di ricerche teoretiche sulle lingue naturali che hanno messo in ombra l’importanza del controllo, tramite exempla testuali, della validità delle intuizioni dei linguisti. La convinzione che le competenze innate di ogni parlante madrelingua siano sufficienti ad accertare l’accettabilità di un dato enunciato, senza il ricorso ad una prova “testuale”, ha fatto sì che linguisti come Noam Chomsky abbiano svalutato tale approccio metodologico, convinti che i corpora non costituirebbero una risorsa esaustiva, risultando persino fuorvianti perché registrano errori e distorsioni: Any natural corpus will be skewed. Some sentences won’t occur because they are obvious, others because they are false, still others because they are impolite. The corpus, if natural, will be so wildly skewed that the description would be no more than a mere list.3

Questo tipo di osservazioni, di per sé non prive di fondamento, non legittimano tuttavia in maniera automatica la pretesa infallibilità delle competenze del parlante madrelingua. È vero, infatti, che qualsiasi corpus, per quanto quantitativamente esteso, non può essere considerato “completo”, mentre può finire per registrare fedelmente “errori”, intesi come atti linguistici non accettati dalla comunità di parlanti. Al tempo stesso, però, è anche vero che il repertorio che il madrelingua è in grado di realizzare in base alle sue “competenze innate” (non in via teorica ma nella realtà) è altrettanto incompleto e l’analisi introspettiva del madrelingua non è garanzia assoluta di rappresentatività, né è esente da cosiddetti errori.4 Per contro l’utilizzazione di banche dati testuali, qualitativamente e quantitativamente rappresentative, rende possibile un’osservazione della lingua “oggettiva” grazie a strumenti informatici che permettono l’interazione di più variabili (tratti morfologici, lessicali, sintattici, ecc.) nella selezione degli exempla, offrendo allo studioso (madrelingua o meno) un campionario di atti linguistici “veri” che posso3

Noam Chomsky, “A Transformational Approach to Syntax, in Archibald Hill (a cura di) Proceedings of the Third Texas Conference on Problems of Linguistic Analysis in English, University of Texas, Austin 1962, pp. 124-159, citato in Tony McEnery, Andrew Wilson, Corpus Linguistics, Edimburgh University Press, Edimburgh 20012, p. 10. 4 Ciò che un singolo parlante crede essere vero a proposito di un determinato fatto linguistico (per esempio che un certo verbo o aggettivo possa essere usato in un determinato contesto), non è necessariamente vero per un altro parlante, come dimostrano le comuni discussioni tra parlanti madrelingua a proposito di cosa “si possa o non si possa dire” nella propria lingua. A tal proposito si veda, come esempio di falsa convinzione, un’affermazione proprio di Chomsky a proposito del verbo inglese perform, citata in McEnery, Wilson, Corpus Linguistics, cit., p.11.


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no andare oltre le esperienze performative personali del singolo parlante. Le banche dati testuali, compilate in base a principî espliciti (il tipo di campione linguistico: lingua parlata o lingua scritta, testi tecnici o testi letterari, ecc.) costituiscono perciò una preziosa risorsa di ricerca e, se strutturate come “corpora bilanciati”,5 assicurano una più alta rappresentatività qualitativa della lingua oggetto di studio. Va ricordato che la lessicografia ha tradizionalmente fatto ricorso a dati empirici, come le citazioni da testi reali – in genere appartenenti ad un canone riconosciuto all’interno di una cultura – e che quindi l’uso di corpora non è una novità del recente passato. Ma è anche vero che la “linguistica dei corpora” ha cambiato oggi l’approccio con cui il lessicografo, e il lessicologo, osservano la lingua. Le potenzialità relative al dato quantitativo, vale a dire la possibilità dello studioso di richiamare con un personal computer centinaia o migliaia di contesti fraseologici di una determinata parola da un corpus di milioni di parole, ha mutato anche la qualità dell’analisi, permettendo un’osservazione più precisa, per esempio, della semantica dei lemmi oggetto dell’analisi, così come delle loro collocazioni, vale a dire delle combinazioni di parole che più spesso ricorrono in presenza del lemma ricercato, o ancora delle espressioni polirematiche la cui semantica è frutto del concorso sincronico di più elementi lessicali e non della sommatoria dei significati delle singole parole.6 Il BCCWJ (Balanced Corpus of Contemporary Written Japanese) Il Kokuritsu Kokugo Kenkyūjo (National Institute for Japanese Language and Linguistics) di Tōkyō ha realizzato, con un progetto durato 5 anni, un corpus bilanciato basato sulla lingua scritta contemporanea che registra un totale di circa 100 milioni di “parole”7 conosciuto come BCCWJ (Balanced Corpus of Contemporary Written Japanese, in giapponese Gendai nihongo kakikotoba kintō kōpasu). Sul lavoro, terminato nel 2011, sono stati scritti ormai numerosi articoli, relativi al progetto e alla sua struttura, così come alle potenziali applicazioni e utilizzazioni future.8 5

Come si dirà più avanti a proposito del BCCWJ (Balanced Corpus of Contemporary Written Japanese), per “corpus bilanciato” comunemente si intende una raccolta di dati testuali selezionati sulla base di un determinato equilibrio tra generi testuali diversi (lingua scritta, lingua parlata, linguaggio tecnico, testi di chat di internet, testi letterari, articoli di quotidiani, saggi accademici, ecc.) che mira a rappresentare differenti ambiti della produzione linguistica di un dato idioma. 6 Sull’uso dei corpora e sul contributo della linguistica dei corpora alla lessicografia si veda Vincent B.Y. Ooi, Computer Corpus Linguistics, Edimburgh University Press, Edimburgh 1998; in part. pp. 1-19. 7 Per “parole”, o più correttamente tokens, si intendono le unità morfologiche segmentate nel corpus. Sono quindi computate come singole unità sia lessemi (uchi, utsukushii, taberu) sia parti funzionali del discorso (wa, to, -reru, -saseru, ecc.) 8 Tra gli altri, Maekawa Kikuo, “Kotonoha, the Corpus Development Project of the National Institute for Japanese Language”, Language Corpora: Their Compilation and Application (Proceedings of the 13th NIJL International Symposium), Tokyo 2006, pp. 55-62. Si vedano, in part., gli Atti del Convegno


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La successiva tabella (Fig.1) illustra schematicamente le tipologie dei campioni di testo selezionati per costruire il corpus e assicurare il suo “bilanciamento”. Subcorpus pubblicazioni

Subcorpus biblioteche

Libri, riviste e quotidiani pubblicati tra il 2001 e il 2005

Libri acquisiti in 13 biblioteche pubbliche di Tōkyō pubblicati dopo il 1985

35 milioni di parole

30 milioni di parole

Subcorpus a fini speciali Libri bianchi, testi da internet, trascrizioni parlamentari, best seller, ecc. 35 milioni di parole Fig. 1 I principali subcorpora che costituiscono il BCCWJ

Il primo subcorpus raccoglie una campionatura di libri, riviste e quotidiani pubblicati tra il 2001 e il 2005: sono incluse anche opere considerate ormai “classiche”, per esempio della letteratura moderna, tuttora ristampate e vendute. La lingua rappresentata nel BCCWJ è quella quindi utilizzata in anni recenti, anche solo in funzione “passiva” (quella di lettura) e non necessariamente “prodotta” nell’arco di tempo che racchiude la campionatura dei testi. Il secondo subcorpus pone invece l’accento sulla diffusione e popolarità delle pubblicazioni: sono state qui raccolte opere che godono del favore dei frequentatori delle biblioteche pubbliche della capitale. Infine il terzo subcorpus include testi tecnici, come leggi o libri bianchi del governo, ma anche blog comparsi su Yahoo! Japan: si tratta in tutti i casi di registri linguistici peculiari che esprimono sottolessici settoriali (della politica, del diritto, ma anche slang giovanili come nel caso dei testi raccolti sul web). I campioni contenuti nel BCCWJ sono accompagnati da una ricca messe di informazioni relative al testo (autore, anno di pubblicazione, sesso dell’autore, genere testuale), e anche all’analisi linguistica: dalle etichettature morfologiche (le parti del discorso), alle notazioni morfologiche per le parti del discorso soggette a flessione (indicazione delle coniugazioni e delle basi dei verbi e degli aggettivi). Queste annotazioni mostrano un alto livello di coerenza e facilitano il lavoro del lessicografo nell’identificazione di informazioni quali le etichette grammaticali (aggettivo, aggettivo nominale, nome ecc.) che, come diremo più avanti, non sono sempre evidenti. L’uso del BCCWJ è reso particolarmente efficace da Chūnagon, un programma on-line di consultazione del corpus del Kokuritsu Kokugo Kenkyūjo, grazie al quale è possibile operare selezioni dei subcorpus e delle fonti, in base al genere dei testi (ma anche alla data di pubblicazione, al sesso dell’autore, ecc.), e di introdurre diverse variabili nella ricerca dei contesti. Si potrà, per esempio, decidere di cercare un determinato verbo, nella sua forma passiva, al passato, che termini con il suffisso colloquiale gentile -masu e che sia preceduto da un agente animato. La possibilità internazionale MEXT-Monbukagakushō, a cura di, Tokutei ryōiki kenkyū “Nihongo kōpasu” Heisei 22 nendo kōkai wākushoppu yokōshū, Kokuritsu Kokugo Kenkyūjo, Tokyo 2011.


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di introdurre diverse variabili nella ricerca di un determinato contesto frasale ci permetterà di studiare quale tipo di particella abbiamo dopo l’agente di una frase passiva (ni, ni yotte, kara nel caso citato del passivo) e vedere quale particella è statisticamente più rilevante dal punto di vista quantitativo. Potremo anche studiare quali siano gli elementi che interagiscono con la selezione delle forme alternative, o individuare eventuali variazioni tra frasi di registro linguistico diverso o frasi con tempi verbali diversi. Consideriamo l’alternativa di uso di o e ga come marca dell’oggetto di un predicato desiderativo (come nella frase ringo ga/o tabetai ‘vorrei mangiare una mela’): Chūnagon ci permette di impostare la maschera di ricerca come segue (Fig.2), indicando di volta in volta le due diverse posposizioni (in questo caso utilizzate come variabile principale della ricerca) e premettendo che il suffisso desiderativo -tai sia ricercato in tutte le sue possibili realizzazioni (passato, condizionale, gerundivo, negativo, ecc.).

Fig. 2 Le maschere di ricerca di Chūnagon con i parametri *nome-ga/o suff-v -tai

Nei due casi esemplificati nelle illustrazioni, la ricerca è stata quindi impostata secondo i parametri: • qualsiasi nome-ga/o suffisso verbale -tai (entro 3 parole dopo posp. oggetto) • Chūnagon ci restituisce schermate come le seguenti (Figg. 3 e 4) dalle quali possiamo osservare i diversi contesti frasali (con le informazioni metalinguistiche di cui abbiamo già detto in precedenza) e i relativi dati quantitativi. Nel caso di una ricerca di dati con i parametri nome-ga/o V-tai, abbiamo come risultato 21.573 occorrenze, di cui 2.551 dove ga marca l’oggetto, e ben 19.022 casi in cui l’oggetto è invece marcato dalla posposizione o.9 9

Si tratta di una mera osservazione quantitativa, ma è utile perché di norma il modello “minoritario” N-ga V-tai viene indicato come forma standard, o come prima alternativa, nella formazione della frase


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Fig. 3 Un campione di esempi con la struttura N-o V-tai elicitati con Chūnagon dal BCCWJ.

Fig.4 Un campione di esempi con la struttura N-ga V-tai elicitati con Chūnagon dal BCCWJ. Un’osservazione sulla correlazione tra l’uso delle posposizioni e la semantica dei predicati verbali è utile sia ai fini della descrizione della sintassi, sia per le possibili applicazioni nell’insegnamento del giapponese a discenti stranieri, in quanto la presentazione secondo categorie semantiche di modelli sintattici può facilitare l’apprendimento e la memorizzazione della combinazione di nomi-posposizioniverbi. Prendendo il caso del verbo hashiru si nota che l’occorrenza alternativa delle posposizioni contribuisce in maniera determinante al cambiamento della semantica del verbo stesso:

a.N ni hashiru ‘scivolare verso’ (anche metaf.) popyurizumu ni hashiru minshutō seiken ‘il governo del Partito Democratico che sta scandendo nel populismo’ desiderativa giapponese, anche nei manuali o nelle grammatiche per stranieri più recenti e accurate. Si veda per esempio Silvana De Maio, Carolina Negri, Junichi Oue, Corso di lingua giapponese, I, Hoepli, Milano 2007, p.174; Matilde Mastrangelo, Naoko Ozawa, Mariko Saito, Grammatica giapponese, Hoepli, Milano 2006, p. 100.


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b.N o hashiru ‘correre/spostarsi in un luogo’ Kodomotachi ga kōen no naka o hasshitte iru. ‘I bambini corrono nel parco’ c.N e / ni hashiru ‘passare rapidamente / fuggire verso un punto’ Nanbei e hashitta ga, tōtō tsukamatta. ‘Era fuggito in Sud America, ma alla fine è stato catturato.’ d.0 hashiru (intr. correre, muoversi rapidamente; metaf. volare) Mainichi yonjuppun gurai hashitte iru. ‘Ogni giorno faccio circa 40 minuti di corsa’.

In casi come questi il dato quantitativo permette un ampio riscontro delle correlazioni tra modelli sintattici e realizzazioni semantiche, divenendo un ausilio importante per l’organizzazione di una mappatura dei significati espressi da una determinata forma, o degli elementi morfologici che ricorrono in quanto collocazioni sintattiche e lessicali: tutti fattori importanti anche per la compilazione di un learner’s dictionary. Le osservazioni possibili non si limitano certo alle singole parti del discorso, come negli esempi appena citati, ma possono, tra l’altro, interessare strutture sintagmatiche che, a seconda delle collocazioni lessicali, danno esiti semantici diversi. Si consideri per esempio la seguente struttura: suji no tōtta n linea gen attraversare-perf n

La costruzione suji no tōtta costituisce un sintagma che modifica il nome che segue, come nelle frasi 1. e 2.: 1.suji no tōtta kaishaku una spiegazione logica 2.suji no tōtta kireina hana un bel naso dritto

Il sintagma risulta assumere significati diversi, a seconda del tipo di nome che segue, in espressioni che: a. hanno una valenza polirematica; b. si applicano a campi semantici con valore distinto (metaforico oppure concreto); c. si legano ad una gamma di collocati ristretti a campi semantici individuabili (sfera del ragionamento o della morale oppure tratti somatici). La frase 1. è un esempio di espressioni come suji no tōtta riron (‘una teoria razionale’), suji no tōtta benkai (‘una scusa plausibile’), suji no tōtta kōdō (‘un comportamento retto’). La frase 2. descrive qualità fisiche del corpo umano, ma il sintagma si applica solo alla collocazione hana (‘naso’, come nella frase 2.) nel caso abbia funzione di modificatore del nome, altrimenti il morfema suji diviene a sua


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volta modificato da un primo elemento lessicale di un composto (modificatoresuji) come in hana-suji no tōtta hosoomote (‘un volto delicato con un naso dritto’), se-suji no tōtta rōkyōju (‘un’anziano professore dalla schiena [ben] dritta’). Il verbo tōru (‘attraversare’), lo stesso che compare negli esempi precedenti, è usato anche in espressioni equivalenti a ‘passare un esame’ (shiken ni tōru) o ‘essere approvato’ (p.es. in kokkai o tōru, ‘essere approvato in parlamento’). Anche in questo caso il verbo, utilizzato con sensi diversi, prevede prescrittivamente che le posposizioni ni e o marchino il nome che è paziente dell’azione del verbo (nei due esempi, rispettivamente, shiken ‘esame’ e kokkai ‘parlamento’). Una ricerca sul BCCWJ rileva che, anche se l’uso normativo è predominante, non sono pochi i dati in cui troviamo frasi in cui l’uso delle posposizioni ni e o risulta inverso rispetto agli esempi appena citati (come in kokka shiken o tōreba gakusei demo shikai to shite no shikaku o motte imasu ‘anche uno studente, se passa l’esame di stato, acquisisce lo status di odontoiatra’; hōan ga dekite ite, kokkai ni tōreba shikō suru mikomi desu ‘la proposta di legge è pronta e se passa in parlamento si prevede che entri in vigore’). È interessante rilevare che l’uso shiken ni e kokkai o sembra esercitare un forte effetto normativo, come si è dimostrato con un’indagine su un campione di madrelingua.10 Sottoponendo infatti una selezione di esempi estratti dal BCCWJ a 8 parlanti di madrelingua giapponese una grande maggioranza (7 a 1) ha seguito il modello shiken ni e kokkai o, pur avendo ricevuto istruzioni per le risposte che includevano l’alternativa d’uso delle due posposizioni. Questo avvalora l’ipotesi che ciò che i madrelingua pensano circa la “correttezza” degli enunciati non corrisponde necessariamente all’uso reale della lingua, come già osservato a proposito dei postulati di Chomsky. Va inoltre rilevato che gli esempi che contraddicono la norma nell’uso delle posposizioni abbinate al verbo tōru sono tratti da pubblicazioni verosimilmente passate al vaglio di editor e, di conseguenza, che non possono essere considerati lontani dallo “standard” linguistico giapponese, né frutto di “errori” di grammatica. L’uso dei corpora bilanciati nella redazione dei dizionari bilingui Le potenzialità dell’utilizzazione di corpora bilanciati, fin qui delineate in modo sintetico e parziale, per quel che riguarda l’analisi delle lingue, e nello specifico del giapponese, trovano applicazione anche nella compilazione di dizionari bilingui, con una particolare utilità, come si è detto, per i cosiddetti learner’s dictionary. 10 Agli informatori madrelingua è stata sottoposta una campionatura di frasi in cui erano presenti proposizioni del tipo shiken ni tōru oppure kokkai o tōru cancellando le posposizioni del nome e chiedendo, come per gli esercizi a riempimento, di completare le frasi con ni oppure o. Si veda Paolo Calvetti, “Itariajin muke no Wa-I jiten no hensan ni okeru BCCWJ no kōken. The Contribution of BCCWJ in the Editing on a Japanese-Italian Dictionary for Italian Readers”, in Monbukagakushō kagaku kenkyūhi tokutei ryōiki kenkyū “Nihongo kōpasu” sōkatsuhan (a cura di), Gendai nihongo kakikotoba kinkō kōpasu. Kansei kinen kōenkai, Kokuritsu Kokugo Kenkyūjo, Tokyo 2011, pp. 217-225; in part. p. 223.


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Qui, per learner’s dictionary si intende, restrittivamente, “un dizionario bilingue, destinato a fruitori che non siano madrelingua della lingua di partenza, e i cui lemmi non si limitino al lessico di base”. Com’è risaputo, i dizionari bilingui, al di là delle eventuali intenzioni dei compilatori e, ancor più delle pubblicità e delle promesse delle case editrici, non sono utilizzabili in modo equivalente e con pieno profitto da fruitori madrelingua dei due idiomi inclusi nel dizionario. Vale a dire che, di norma, un dizionario giapponese-italiano viene usato da un italiano per “comprendere” quali siano gli equivalenti in italiano (lessicali, fraseologici, grammaticali) di un testo giapponese di cui non riesce a cogliere pienamente il significato, mentre serve a un nipponofono per “produrre” in italiano un enunciato che veicoli un messaggio equivalente a quello della frase giapponese di cui ha piena competenza in quanto madrelingua. A mo’ di esempio, si può ipotizzare il caso in cui un italiano, cercando il lemma kome, troverà come corrispondente italiano riso, accompagnato da esempi fraseologici del tipo kome o taku (‘cuocere il riso’), kome o togu (‘lavare il riso strofinandolo’), kome o tsukuru (‘coltivare il riso’), kome o tsuku (‘brillare il riso’). Nessuna informazione, per esempio, sarà fornita circa la limitazione del campo semantico di kome che non permette di usare la forma per indicare il ‘riso sulla pianta’ (ine), il ‘riso come pietanza’ (meshi/gohan), né le differenti accezioni di significato delle due frasi kome/meshi o taberu dove kome e meshi (o gohan) non sono intercambiabili.11 Se la funzione del vocabolario giapponese-italiano si limitasse alla trasposizione “passiva” verso la madrelingua del fruitore (una traduzione uno-ad-uno dei singoli elementi lessicali della frase), anche un dizionario concepito per giapponesi assolverebbe lo scopo. Tuttavia il lessico delle lingue costituisce una rete di significanti che sottendono legami semantici tra dominî lessicali e campi semantici di cui i dizionari dovrebbero dar conto. Il lettore italiano, rimanendo all’esempio di kome, verrebbe portato ad attribuire una relazione biunivoca tra kome e riso e sarebbe indotto in errore in caso di “produzione” della lingua, pensando che le occorrenze dell’italiano riso possano essere sempre rese in giapponese con kome. Parlare di ‘riso’, in giapponese, necessita, oltre ai termini citati, di altri numerosi significanti tra cui raisu, un prestito dall’inglese, che benché designi lo stesso referente di meshi e gohan, connota la stessa parola con il senso di ‘riso cotto per una pietanza yōshoku’ (‘cucina occidentale’), oppure come shari, che fa parte del sottolessico della cucina giapponese riferendosi alla parte di riso che forma il sushi. Altra questione è la presentazione, all’interno dei lemmi, delle accezioni semantiche. I dizionari, in verità non solo quelli bilingui, tendono ad organizzare i diversi sensi dei lemmi secondo una gerarchia che ripete i modelli lessicografici del passato, spesso ispirati ad una presunta semantica “propria” del lemma (come se al processo 11

Infatti mentre meshi o taberu è una forma non marcata, equivalente all’italiano ‘mangiare riso’ (una pietanza possibile del menu), kome o taberu significa ‘mangiare riso’ (come alimento base, in alternativa ad altro alimento, gli spaghetti per esempio, o altro cereale) come nella frase bengarujin wa asaban, kome bakari tabete iru (‘i bengalesi, mattina e sera, mangiano sempre riso’). Infine, ma non è pertinente in questa discussione, la prima frase può essere equivalente di ‘fare un pasto’ dove ‘riso’ diviene ‘alimento’ per antonomasia.


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di significazione non concorressero altri elementi della frase). Come ha evidenziato Yamazaki Makoto, sulla distribuzione dei sensi in termini polisemici, spesso i dizionari privilegiano i sensi concreti rispetto a quelli metaforici, quelli storicamente predominanti rispetto all’uso nella lingua contemporanea.12 Per esempio, nel Meikyō Kokugo Jiten13 le accezioni del verbo atsukau, e del suo deverbale atsukai, sono presentate entrambe secondo il medesimo ordine, cui si riferiscono i numeri della Fig. 5: 1. ‘manovrare, azionare’ (una macchina, un utensile), 2. ‘trattare, accogliere’ (una persona), 3. ‘occuparsi’ (come lavoro) di qualcosa, ‘occuparsi di una questione, 4. ‘rispondere, relazionarsi’ (a/con qualcosa). Questa tendenza, pur con le dovute eccezioni e differenze nella suddivisione delle accezioni (che possono variare da vocabolario a vocabolario), si manifesta anche nei dizionari bilingui. Yamazaki ha invece dimostrato che, come nel caso di atsukau/atsukai, la distribuzione delle accezioni non riflette la gerarchia presentata nei dizionari e che non vi è simmetricità tra la distribuzione del verbo e quella del nome da esso derivato. Come si evince dalla figura seguente, nel caso del verbo, è la terza accezione che ha il primato statistico, seguita dalla prima, dalla seconda e poi dalla quarta, mentre è proprio la quarta accezione che risulta più usata quando si tratta di atsukai, nome, nel senso di ‘trattamento’, ‘modo di trattare’ come nei sintagmi kodomo atsukai (‘il trattare qualcuno come [fosse] un bambino’), tokubetsu atsukai (‘trattamento speciale’). accezione

verbo atsukau

nome atsukai

1

27% (2)

2

15,5%(3)

28,5%(2)

3

47,5%(1)

13,5%(3)

4

10%%(4)

48,5%(1)

9,5%(2)

Fig. 5 Distribuzione delle accezioni di atsukau e atsukai

Ciò significa che chi consulta il dizionario ha una probabilità di trovare risposte alla sua ricerca con una proporzione diversa, se non a volte inversa, rispetto alla frequenza d’uso. L’utilizzazione di corpora bilanciati, quindi, oltre a consentire, come risultato marginale, la realizzazione di dizionari di più facile consultazione, apre interessanti prospettive per quel che riguarda la descrizione della distribuzione dei significati 12

Yamazaki Makoto, “Tagigo ni okeru imi no bunpu. Distribution of Senses in Polysemy”, in Monbukagakushō Kagakukenkyūhi Tokutei Kenkyūryōiki Nihongo Kōpasu Sōkatsuhan (a cura di), Tokutei ryōiki kenkyū “Nihongo kōpasu”, Kokuritsu Kokugo Kenkyūjo, Tokyo 2011, pp. 395-402. La Fig. 5 è adattata da Yamazaki, cit., p. 399. 13 Kitahara Yasuo, Meikyō Kokugo Jiten, Taishūkan, Tokyo 2002, citato in Yamazaki, ibidem.


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delle forme lessicali, riuscendo a restituire il quadro del peso specifico delle diverse accezioni dei lessemi e dei loro rapporti statistici, e rendendo ancora più chiaro che la semantica delle forme lessicali dipende dal processo di significazione all’interno della frase e può variare diacronicamente sulla base di mutate consuetudini d’uso. Altro aspetto cruciale nella compilazione dei dizionari bilingui è quello delle collocazioni e del raffronto delle corrispondenze tra le lingue. Com’è risaputo, i diversi campi semantici di un lessema di una data lingua non necessariamente (o meglio quasi mai) coincidono con quelli di un’altra. Di conseguenza in un dizionario bilingue ci si confronta prima di tutto con l’anisomorfismo lessicale, vale a dire la differenza dell’organizzazione delle forme del lessico per “coprire” i campi semantici relativi alla stessa realtà fattuale. Per esempio, la forma scala copre in italiano i campi semantici che in giapponese sono distinti ed i cui significanti hanno due forme differenti: kaidan (scala di un immobile) e hashigo (una scala portatile, a pioli). Viceversa scalinata o gradinata rientrano nel campo semantico espresso dal solo lessema kaidan e una esplicitazione, in giapponese, dei tratti semantici che distinguono scalinata e gradinata da scala, necessiterebbe di un elemento modificatore come dai- (‘grande’) in daikaidan (sia per ‘scalinata’, sia per ‘gradinata’ nella sua accezione di sinonimo di scalinata). Ma l’asimmetricità del lessico non si limita ai singoli lessemi. Come si è detto, un importante aspetto della lingua è rappresentato dalle collocazioni sintattiche che costituiscono un elemento ulteriore di asimmetricità nella compilazione di un dizionario bilingue. Le informazioni relative all’uso delle posposizioni (si è visto in precedenza il caso del verbo tōru) così come le combinazioni di un determinato lemma con altre parole, mentre sono di scarsa importanza per un giapponese che consulti un dizionario giapponese-italiano, sono invece di alta rilevanza per un madrelingua italiano, sia per un eventuale uso produttivo delle informazioni contenute nel dizionario, sia per la ricerca rapida e mirata nella fraseologia esemplificativa nelle diverse sezioni della voce, distinte secondo i sensi del lemma. Consideriamo il verbo kasu (‘prestare’). Nei dizionari giapponesi i campi semantici sono generalmente due: 1. ‘concedere l’uso ad altri, per un tempo limitato, di un oggetto o di una cosa di propria proprietà’; 2. ‘offrire ad altri le proprie capacità, il proprio lavoro’. Nei dizionari bilingui, spesso questi due campi semantici vengono distinti in tre accezioni, soprattutto perché il campo 1. ha un’utilizzazione specializzata nel senso di ‘prestare dietro pagamento’, equivalente in italiano (e ad altre lingue come l’inglese, il francese, ecc.) a ‘concedere in affitto’. Tuttavia una più ampia analisi delle collocazioni che accompagnano il verbo kasu, condotta per esempio con il BCCWJ, svela una gamma di combinazioni che necessitano di una correlazione articolata con gli “equivalenti” frasali italiani. Le seguenti sono solo una selezione limitata delle più ricorrenti che meriterebbero l’inclusione in un dizionario bilingue: te o kasu (‘dare una mano’, soprattutto metaf.), kata o kasu (‘sostenere’ metaf.) mimi o kasu (‘dare ascolto’) kao o kasu (‘partecipare ad un incontro su richiesta di qualcuno’) mune o kasu (‘aiutare fisicamente/fare da sparring partner per allenamenti di sumō’)


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L’uso di corpora bilanciati nella compilazione di dizionari bilingui

ude o kasu (‘dare il braccio per sostenere qualcuno’) chie o kasu (‘dare un consiglio’) toire o kasu (‘permettere l’uso del gabinetto’) hi o kasu (‘fare accendere una sigaretta’) na / meigi o kasu (‘concedere l’utilizzo del proprio nome/nominativo’) manshon o kasu / ie o kasu / apāto o kasu (‘dare in affitto un appartamento’)

Si nota infatti che all’interno della bipartizione dei campi semantici (1. e 2. poc’anzi ricordati), proposta tradizionalmente dai dizionari monolingui giapponesi, le collocazioni danno vita a espressioni che in italiano corrispondono a polirematiche, e che non sarebbero quindi ricavabili dalla traduzione dei singoli elementi lessicali. I sintagmi kao o kasu e kata o kasu sono, per esempio, costituiti da un lessema che designa una parte del corpo (rispettivamente ‘la faccia’ e ‘la spalla’), entrambi oggetto del verbo transitivo kasu. Il significato delle due espressioni è metaforico ed equivale all’italiano ‘partecipare ad un incontro su richiesta di qualcuno’ (p.es. per sostenere colui che l’ha chiesto) e ‘sostenere qlcu.’. Stessa osservazione potrebbe essere estesa agli altri esempi. Qui è evidente che il verbo kasu come arcisemema di ‘offrire qualcosa (oggetto concreto o cosa astratta), senza remunerazione, a favore di qualcuno’ funge da elemento formante di espressioni che utilizzano elementi metaforici (faccia nel senso di ‘ruolo sociale’, spalla nel senso di ‘supporto’, orecchio nel senso di ‘ascolto’) per significare un generico ‘concedere’ specificato proprio dagli elementi che nel sintagma hanno il ruolo grammaticale di oggetto. Per un madrelingua italiano il legame metaforico non risulta trasparente e diviene quindi necessario fornire corrispondenti frasali per ciascuna delle collocazioni. Anche in questo caso, da cui escludiamo le pur possibili espressioni idiomatiche,14 è evidente l’importanza di un corpus ampio a cui fare riferimento per enucleare le collocazioni statisticamente rilevanti dei lemmi selezionati per la compilazione di un dizionario. Il BCCWJ, come si è detto all’inizio, fornisce anche informazioni a proposito delle categorie grammaticali (le “parti del discorso”) che sono organizzate secondo principî descrittivi e pragmatici e perciò non seguono necessariamente la tradizione grammaticale giapponese. È il caso, per esempio, dei cosiddetti aggettivi nominali (o “aggettivi in -na) che nella terminologia scolastica, ripresa dai dizionari monolingui, sono definiti keiyō dōshi (‘verbi descrittivi’). Com’è noto si tratta di una categoria di parole che hanno funzione di modificatori dei nomi (come gli aggettivi), morfologicamente uguali ai nomi e che talvolta possono svolgere anche funzione di nomi comuni. Tali variabili non sono prevedibili e la categoria grammaticale può essere definita solo sulla base di un’analisi contestuale. Mentre di kirei (‘bello’; pulito’) non è attestato l’uso come nome15, nel caso di zankoku (‘crudele’, ‘brutale’) troviamo che la stessa forma può ricorrere in frasi con valore di nome comune (‘cru14

Come nella frase hisashi o kashite omoya o toreru (lett. ‘prestata la tettoia si viene privati della fabbricato principale’), che può essere parafrasata dall’italiano ‘dai un dito e ti prendono il braccio’. 15 Nel BCCWJ kirei, su un totale di 6373 occorrenze, ricorre solo 7 volte seguito dalla marca dell’oggetto o (indice quindi di un suo possibile uso come nome), ma in contesti stilistici molto particolari che non autorizzano a considerarlo un sostantivo.


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deltà’, ‘brutalità’). L’indicazione morfologica nei dizionari monolingui giapponesi, è uguale per entrambe le forme che sono categorizzate come keiyō dōshi (‘verbi descrittivi’), quindi “aggettivi nominali”. In più è interessante notare che, limitandoci agli esempi ora proposti, nel caso di zankoku, accanto ad una forma nominalizzata ottenuta per derivazione dall’aggiunta del suffisso -sa (zankokusa ‘crudeltà’, analogamente a kirei ‘bello’ > kireisa ‘bellezza’) esiste anche la forma zankoku con funzione di nome, come nella frase zankoku o kirau (‘provare ripugnanza per la brutalità’). Anche in questo caso scopriamo che le funzioni sintattiche di zankoku hanno una distribuzione che varia quantitativamente: il suo primo uso assoluto è quello di aggettivo nominale, il secondo quello di nome derivato tramite il suffisso -sa e solo al terzo posto lo troviamo usato indipendentemente come nome. Sommando le diverse considerazioni che abbiamo fatto sino a questo punto, e a mo’ di esempio dei risultati potenziali dell’uso del BCCWJ per la compilazione di un dizionario giapponese-italiano, riportiamo una prova della voce zankoku redatta per il Progetto del Grande Dizionario Giapponese-Italiano (IsIAO e Università Orientale di Napoli) messa a confronto con quella che compare nel Dizionario Giapponese-Italiano di Nishikawa Ichirō e nel Progressive Japanese-English Dictionary di Kondō Ineko et al..16 Il confronto principale è con l’esempio del Dizionario di Nishikawa, ma è utile osservare anche la soluzione del Progressive Dictionary poiché le due opere, pubblicate dalla casa editrice Shōgakukan, mostrano un’impostazione lessicografica molto simile.

Prova di voce del Grande Dizionario Giapponese-Italiano 16

Per la prova di voce del Progetto del Grande Dizionario Giapponese-Italiano ringrazio per le acute osservazioni il Dr. Giuseppe Giordano (Dipartimento di Studi Asiatici – Università “L’Orientale” di Napoli), schedatore del lemma zankoku, con cui ho discusso alcune soluzioni per la compilazione del lemma.


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L’uso di corpora bilanciati nella compilazione di dizionari bilingui

Nishikawa Ichirō, Dizionario Giapponese-Italiano, Shōgakukan, Tokyo 20082

Kondō Ineko et al., Progressive Japanese-English Dictionary, Shōgakukan, Tokyo 20023

Come si evince dai tre esempi, con l’ausilio dei dati del BCCWJ è possibile redigere una voce di dizionario che descriva in maniera molto più dettagliata: a. le categorie grammaticali; b. gli usi fraseologici; c. le collocazioni lessicali e di conseguenza una più ampia gamma di “corrispondenze” semantiche e lessicali con la lingua di arrivo. L’etichettatura (taggatura) delle parti del discorso fa stato dell’uso reale dei lemmi e, come abbiamo visto nel caso di zankoku, è possibile presentare gli usi ordinati secondo la loro rappresentatività statistica, indicando la differenza di status rispetto ad altre forme omologate tutte sotto l’etichetta di “aggettivo nominale”.17 Va ricordato per inciso che spesso i dizionari bilingui giapponesi, concepiti per lettori giapponesi, non forniscono nessuna informazione sulle parti del discorso, dando per scontato che il madrelingua giapponese abbia già tali conoscenze.18 Conclusioni Riassumendo brevemente quanto si è descritto sino ad ora sull’uso dei corpora bilanciati nella compilazione di dizionari bilingui, pensiamo di aver contribuito ad affermare che il corpus testuale, pur non rappresentando una risorsa esclusiva per

17

Qui indicato come a.2 (aggettivo di secondo tipo), per differenziarlo dagli aggettivi “veri e propri” (a.1) che in giapponese, com’è noto, hanno una radice e una parte variabile (taka-i, utsukushi-i, ecc.). 18 Un’eccezione è rappresentata dal “classico” Kenkyūsha’s New Japanese-English Dictionary curato da Masuda Kō, Kenkyūsha, Tokyo 19744. Nel caso specifico di zankoku assegna al lemma le categorie di nome e aggettivo in -na, anche se non registra la possibilità di avere due usi di nome: il sostantivo nella sua forma originaria e la nominalizzazione dell’aggettivo in -na per mezzo del suffisso nominalizzatore -sa.


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l’analisi della lingua (e conseguentemente per il lavoro del lessicografo), costituisca un ausilio imprescindibile per l’osservazione funzionale della lingua. Grazie ad una selezione mirata delle tipologie dei campioni testuali, che sono identificabili e perciò controllabili dal punto di vista del genere e delle sue caratteristiche stilistiche, lessicali, sintattiche, i corpora bilanciati forniscono un laboratorio circoscritto ma ben “attrezzato” per la ricerca degli usi lessicali. La selezione è di per sé soggettiva e passibile di correzioni, integrazioni e variazioni del peso relativo dei vari generi rappresentati nel corpus ma permetterà, per esempio, di scegliere il sesso dello scrivente e, attraverso la scelta di campioni di parlato-scritto (i dialoghi di un romanzo o la trascrizione sottoposta a riadattamento editoriale di interviste), osservare i tratti morfo-sintattici che caratterizzano, per esempio, il linguaggio femminile o quello maschile. Gli strumenti informatici ora a disposizione sono infine il mezzo attraverso il quale una messe di dati, fino a epoche recenti magmatica e di difficile fruizione, può essere consultata tramite l’interrogazione dei computer ed organizzata secondo variabili anche complesse che possono coinvolgere, contemporaneamente, diversi piani dell’analisi morfologica e sintattica, come pure diafasica e diastratica. Le obiezioni di Chomsky negli anni ’60 del secolo scorso, forse sono in parte il frutto dello stato dell’arte delle tecnologie informatiche applicate alla linguistica. Oggi è invece possibile consultare corpora di dimensioni considerevoli, ricavando in pochi secondi enormi quantità di esempi d’uso che mettono in grado lo studioso di svolgere autonomamente ricerche tecnicamente impossibili fino a qualche anno fa, una condizione che rende pragmaticamente favorevole l’approccio della linguistica dei corpora. Ulteriori passi in avanti a favore della lessicografia bilingue si potranno probabilmente compiere grazie alla compilazione di corpora paralleli19 e di strumenti informatici ancora più raffinati per la loro consultazione. Sarà possibile attraverso di essi approfondire le differenze interlinguistiche di semantica lessicale, sintassi e pragmatica contribuendo alle ricerche sulla traduzione automatica.

19

Si veda in questo volume il contributo di Patrizia Zotti, “Costruire un corpus parallelo giapponeseitaliano. Metodologie di compilazione e applicazioni”.


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L’uso di corpora bilanciati nella compilazione di dizionari bilingui

Using Balances Corpora in Editing Bilingual Dictionaries Up to recent time the editing of Japanese bilingual dictionaries has not made use of electronic data bases projected and carried out during many years. This is true also for Japanese-Italian and Italian-Japanese dictionaries available on the market. The possibility to use balanced corpora (very large data bases constituted by text samples belonging to different genres) gives new and unusual research’s perspectives. As a matter of fact, corpus linguistics, differently from computational linguistics that reduces languages to syntax-grammar’s procedures, focuses on the meaning’s negotiation amongst the participants to a certain discourse (the realization of a text), having the interpretation of sense situated in a real and pragmatic sphere. By applying this epistemological procedure to the work of the lexicographer is possible to have dictionaries in which a sampling of the “real language” is represented. At the same time it is also possible to add much information about the use of words besides semantics explanations usually listed in traditional bilingual dictionaries. In this paper I introduce the project of editing a modern Japanese-Italian dictionary conceived for Italian readers, using the BCCJW (Balanced Corpus of Contemporary Written Japanese) a corpus of more than one hundred million words developed by the Kokuritsu Kokugo Kenkyūjo. A part is dedicated to “collocations”, i.e. the co-occurences of different parts of speech that contribute together to the formation of meaning, which are very important for the “right” interpretation of the language in particular for not native speakers. 対訳辞典編纂における均衡コーパス使用の利点

パオロ・カルヴェッティ 最近まで日本語対訳辞典の編纂の作業では、以前より作成されてきた 言語データベースが利用されていなかった。事実、市販の日伊・伊日 辞典の場合も同様である。 現在、利用可能になった均衡コーパス(各種ジャンルの文章を収集し た大規模な言語データベース)は未曾有の新しい研究の展望を切り開 ける。コーパス言語学は、言語をシンタクス・文法の仕組みに転向す る計量言語学と違い、ディスコース(文の実現としての)に関わって いる話者の意味のネゴシエーションを扱い、意味解釈を現実かつプラ グマティックな範囲に置く。 このような認識論的なやり方を辞書編纂に適用することによって、日 常の言語実態に近い言葉のサンプルが含まれている辞典を編纂するこ とが可能になり、意味解釈関係の情報のほか、現存の辞典、特に対訳 辞典より実用的な数多くの情報を提供することができるようになる。 本稿ではBCCJW(『現代日本語書き言葉均衡コーパス』、1億語以上 のデータを収納したコーパス)を利用して、イタリア語の母語話者向 けの新構想の辞典の編纂計画を紹介する。更に、別して外国人にとっ て「正しい」意味解釈に大切である、コロケーション(意味形成に貢 献する単語の共起)についても言及する。


GIUSEPPE PAPPALARDO

Analisi contrastiva dell’inventario fonetico giapponese/italiano. Per una trascrizione fonetica del giapponese standard.

Introduzione L’obiettivo di questo contributo è la codifica di un sistema coerente di trascrizione fonetica del giapponese standard utile per un pubblico di fruitori italofoni. Attraverso un’analisi contrastiva degli inventari fonetici del giapponese e dell’italiano si cercherà di individuare i simboli dell’alfabeto fonetico internazionale (IPA) più adatti per una trascrizione larga del giapponese standard. Per la selezione dei simboli e diacritici da utilizzare, si farà di volta in volta riferimento alle trascrizioni presenti in letteratura, evidenziandone limiti e potenzialità. Perché una trascrizione fonetica? A differenza delle traslitterazioni in caratteri alfabetici della lingua giapponese come il sistema Hepburn e il sistema Kunrei, che si limitano a segnalare le opposizioni fonologiche e le differenze tra gli allofoni più importanti, la trascrizione fonetica che si vuole qui proporre segnala tutte le differenze allofoniche e la presenza di foni non presenti nell’inventario fonetico dell’italiano. Un sistema convenzionale di trascrizione fonetica può avere diversi utilizzi. Innanzitutto potrebbe essere utilizzato nella compilazione di dizionari bilingui giapponese-italiano. Come in molti dizionari bilingui di lingue occidentali, la trascrizione fonetica segnalerebbe in maniera accurata la pronuncia di ogni lemma, spingendo il fruitore italiano a porre attenzione a fenomeni fonetici altrimenti non interpretabili nella normale trascrizione (sia essa in caratteri latini o in alfabeto giapponese), come l’assordamento delle vocali in determinati contesti e l’accento di picco (pitch accent).1 Ad oggi non esistono dizionari bilingui giapponese-italiano che riportano la pronuncia dei lemmi in giapponese mediante la trascrizione IPA. Esistono invece dei dizionari di pronuncia del giapponese standard in cui viene esplicitato principalmente l’andamento prosodico dell’accento, oltre ad alcune caratteristiche segmentali come l’assordamento delle vocali e la nasalizzazione di oc1

Si veda Paolo Calvetti, “Perché un nuovo dizionario Giapponese-Italiano”, in Luisa Bienati e Matilde Mastrangelo (a cura di), Un’isola in Levante. Saggi sul Giappone in onore di Adriana Boscaro, ScriptaWeb, Napoli 2010, pp. 389-403.


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Trascrizione fonetica del giapponese

clusiva velare sonora.2 Le trascrizioni fonetiche potrebbero essere inoltre utilizzate come strumento didattico nell’insegnamento del giapponese lingua seconda (L2) nei corsi universitari, nonché come sistema di riferimento in ricerche di fonetica, fonologia e dialettologia giapponese, in cui diviene elemento essenziale la reale pronuncia delle parole. Quale varietà? Per codificare un sistema di trascrizione fonetica occorre scegliere una particolare varietà all’interno del repertorio linguistico di una lingua. È inutile dire che nel nostro caso la varietà di Tokyo, assunta come standard nazionale, è senza dubbio la varietà più appropriata. La pronuncia del giapponese standard, codificata negli anni trenta al fine di stabilire un modello linguistico a cui tutti gli annunciatori della emittente radio-televisiva NHK dovevano fare riferimento, si basa sulla varietà parlata presso le classi sociali medio-alte della città di Tokyo.3 Lo standard è anche la varietà di riferimento nell’insegnamento del giapponese L2, nonché la varietà più studiata nella ricerca linguistica. Accuratezza della trascrizione Una trascrizione fonetica può essere classificata in base al suo grado di accuratezza. Il sistema di simboli fonetici offerti dall’IPA è abbastanza ampio, e grazie all’utilizzo di diacritici permette la codifica di trascrizioni fonetiche molto accurate. In alcune circostanze però l’eccessivo uso di simboli e diacritici può risultare troppo complesso e ingombrante per il fruitore e per le necessità pratiche della trascrizione. La trascrizione può essere definita una procedura di semplificazione e di approssimazione, e come in ogni approssimazione, può prevalere di volta in volta l’esigenza della massima precisione possibile o quella del massimo risparmio di tempo e fatica. Possiamo così classificare le trascrizioni fonetiche in strette (narrow transcription) e larghe (broad transcription). Le prime sono più complete e accurate, ma allo stesso tempo risultano di difficile fruizione per l’elevato numero di simboli e diacritici utilizzati. Le seconde sono più rapide e approssimative e quindi più accessibili per un fruitore non specialista. Bisogna considerare che i termini stretta e larga sono relativi e correlativi, nel senso che tra i due estremi definiti in maniera astratta è sempre possibile immaginare una scala continua di livelli di accuratezza. La trascri2 Hirayama Teruo, Zenkoku akusento jiten, Tōkyōdō shuppan, Tokyo 1960; NHK hōsō bunka kenkyūjo, NHK nihongo hatsuon akusento jiten, Nippon hōsō shuppan kyōkai, Tokyo 1998; Akinaga Kazue e Kindaichi Haruhiko, Shinmeikai nihongo akusento jiten, Sanseidō, Tokyo 2010. 3 Shibatani Masayoshi, The languages of Japan, Cambridge University Press, Cambridge 1990, p. 186.


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zione che si vuole qui proporre si colloca in un punto intermedio di tale continuum. È un tipo di trascrizione che segnala tutte le opposizioni fonematiche e allofoniche, nonché i suoni non presenti nell’inventario fonetico dell’italiano, in cui, però, si fa un uso limitato di simboli e diacritici per renderne più facile la fruizione da parte di un pubblico di non esperti. Per questo possiamo dire che la trascrizione che verrà proposta tenderà verso una trascrizione fonetica larga.4 Lo stato dell’arte Troviamo tentativi di trascrizione fonetica mediante l’IPA in diversi saggi e manuali di linguistica e fonetica del giapponese.5 Nei dizionari di accento e pronuncia non si fa uso dell’IPA ma di segni diacritici convenzionali sovrapposti al katakana per indicare ad esempio la caduta dell’accento di picco e l’assordamento delle vocali. I sistemi di trascrizione utilizzati nei manuali sono frutto di una serie di scelte fatte a seconda del grado di accuratezza che si vuole dare alla trascrizione e per questo risultano spesso diversi tra di loro. Alcuni sono semplificati, altri troppo accurati, altri ancora presentano degli evidenti errori di codifica dei suoni. Per la codifica del nostro sistema di trascrizione larga si farà spesso riferimento al manuale di Timothy J. Vance The Sounds of Japanese, mentre per quanto riguarda l’accento ci affideremo al dizionario di accento e pronuncia NHK nihongo hatsuon akusento jiten. Analisi contrastiva e codifica della trascrizione Vocali Iniziamo l’analisi contrastiva degli inventari fonetici del giapponese e dell’italiano partendo dal sistema vocalico. Il sistema eptavocalico dell’italiano standard include sette delle otto vocali cardinali primarie che vengono comunemente trascritte con i simboli [i u e o ɛ ɔ a]. In figura 1 vediamo come si posizionano nello spazio vocalico le sette vocali dell’italiano (○) e le cinque vocali del giapponese (●). 4

Di seguito useremo la grafia “trascrizione larga” per segnalare che non si tratta di una trascrizione larga in senso stretto. 5 Akamatsu Tsutomu, Japanese Phonetics: Theory and Practice, Lincom Europa, München-Newcastle 1997; Inozuka Emiko e Inozuka Hajime, Onseigaku no nyūmon: kaisetsu to enshū, Baberu Puresu, Tokyo 2003; Kindaichi Haruhiko e Hubert Maes, Phonologie du Japonais standard, Travaux de Linguistique Japonaise volume 5, Université de Paris 7, Paris 1978; Matsuzaki Hiroshi e Kawano Toshiyuki, Yoku wakaru onsei, Aruku, Tokyo 1998; Okada Hideo, “Japanese”, in International Phonetic Association, Handbook of the International Phonetic Association, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 117-119; Toki Satoshi, “Gendaigo no onseigaku-on’inron”, in Kudō Hiroshi (a cura di), Nihongo yōsetsu, Hitsuji shoten, Tokyo 1993, pp. 129-168; Tsujimura Natsuko, An introduction to Japanese Linguistics, Blackwell, Oxford 1996; Timothy J. Vance, The Sounds of Japanese, Cambridge University Press, Cambridge 2008.


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Figura 1. Spazio vocalico del giapponese e dell’italiano a confronto.6

La posizione della vocale i (イ) del giapponese coincide con quella della vocale italiana i e per questo utilizzeremo lo stesso simbolo fonetico [i]. La vocale giapponese e (エ) si trova in una posizione di altezza intermedia tra le vocali italiane anteriori semichiusa e e semiaperta ɛ. In una trascrizione stretta potremmo utilizzare il diacritico che indica la posizione sollevata rispetto ad un’anteriore semiaperta [ɛ̝] o il diacritico che indica la posizione abbassata rispetto ad un’anteriore semichiusa [e̞]. Stesso discorso vale per la vocale o (オ) che si trova tra le posteriori semichiusa o e semiaperta ɔ. Nella nostra trascrizione larga non faremo uso del diacritico che indica la posizione sollevata o abbassata e trascriveremo le due vocali medie del giapponese con i simboli di anteriore semichiusa [e] e posteriore semichiusa [o]. La vocale a (ア) del giapponese si trova in una posizione posteriore rispetto alla a dell’italiano che viene comunemente trascritta con il simbolo di anteriore aperta [a]. Per la nostra trascrizione useremo quindi il simbolo che indica una vocale aperta posteriore [ɑ]7, in modo da segnalare la posizione arretrata rispetto alla vocale a dell’italiano. La vocale giapponese di più difficile descrizione è la posteriore chiusa u (ウ). Comunemente si dice che la vocale u del giapponese, a differenza dell’italiano, non comporta la protusione o l’arrotondamento delle labbra. Bisogna innanzitutto distinguere la protusione labiale dalla compressione labiale. La protusione è la posizione arrotondata delle labbra che caratterizza le vocali posteriori dell’italiano o e u. La compressione labiale, invece, è il movimento verticale delle labbra che si avvicinano tra di loro senza arrotondarsi. Ciò che caratterizza la realizzazione della u giapponese è proprio la compressione labiale, anche se probabilmente in un parlato trascurato essa è debole o del tutto assente. In una trascrizione stretta, al simbolo di posteriore chiusa non protusa [ɯ] sarebbe opportuno aggiungere i seguenti segni diacritici: il diacritico che indica la centralizzazione [ ̈], perché più centrale rispetto 6

Grafico riadattato da: Pietro Maturi, I suoni delle lingue, i suoni dell’italiano. Introduzione alla fonetica, Il Mulino, Bologna 2006, p. 72; Vance, The Sounds of Japanese, cit., p. 54. 7 Sebbene poco utilizzato nelle trascrizioni, il simbolo di vocale aperta posteriore [ɑ] è di facile lettura e per questo adatto anche per una trascrizione larga.


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ad una vocale cardinale, soprattutto quando è preceduta da una consonante occlusiva o affricata alveolare;8 il diacritico che indica una posizione abbassata [ ̞], perché ha un’altezza inferiore rispetto ad una vocale chiusa cardinale; il diacritico che indica una debole protusione labiale [ ̹], usato in mancanza di un simbolo che indica la compressione labiale. Nella nostra trascrizione larga non utilizzeremo questi tre diacritici e trascriveremo la vocale u del giapponese con il simbolo di posteriore chiusa non protusa [ɯ], proprio per segnalare la differenza nell’arrotondamento labiale rispetto all’italiano. Riassumiamo quanto finora detto in tabella 1. Vocali dell’italiano

Vocali del giapponese Trascrizione stretta

Trascrizione larga

i

i

i

e

e̞ / ɛ̝

e

o̞ / ɔ̝

o

ɛ o ɔ a

ɑ̟

ɑ

u

ɯ̹̞̈

ɯ

Tabella 1. Simboli fonetici delle vocali dell’italiano e del giapponese.

Occlusive Passiamo adesso all’analisi contrastiva dell’inventario dei suoni consonantici cominciando dalle consonanti occlusive. Tra italiano e giapponese non ci sono differenze sostanziali dal punto di vista articolatorio e i simboli generalmente usati per trascrivere le occlusive dell’italiano e quelle del giapponese sono identici, come osserviamo negli esempi riportati in tabella 2. Italiano

Giapponese

p

[ˈkaːpo] “capo”

[pɑ̃⌉ɴˑ] パン “pane”

b

[ˈbokːa] “bocca”

[bɑ⌈ɾɑ] 薔薇 “rosa”

t

[ˈtuːbo] “tubo”

[tɑ⌉ko] 蛸 “polpo”

d

[ˈdoːno] “dono”

[kɑ⌉ɑdo] カード “scheda”

k

[ˈkaːɾo] “caro”

[kɑ⌉sɑ] 傘 “ombrello”

ɡ

[ˈaːɡo] “ago”

[ɡɑ⌈] 蛾 “falena”

Tabella 2. Consonanti occlusive in italiano e giapponese.

8

Si veda Matsuzaki, Yoku wakaru onsei, cit., p. 189.


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Trascrizione fonetica del giapponese

Nel parlato trascurato le occlusive sonore subiscono spesso una spirantizzazione, cioè diventano delle fricative, quando si trovano tra vocali o semivocali (tabella 3).9 Poiché la nostra trascrizione fa riferimento ad un parlato accurato, ignoreremo questo fenomeno. Nel parlato trascurato b→β/V_V

[t͡sɯ⌈βɑsɑ] 翼 “ala”

d→ð/V_V

[mɑ⌉ðo] 窓 “finestra”

ɡ→ɣ/V_V

[mɑ⌈ɣo⌉] 孫 “nipote”

Tabella 3. Spirantizzazione delle occlusive sonore nel parlato trascurato

Nella varietà standard è prevista la nasalizzazione dell’occlusiva velare sonora come nei seguenti esempi: [de⌉ŋɯt͡ɕi] 出口 “uscita”, [hɑ⌈nɑ⌉ŋɑ] 花が “il fiore”. Tuttavia, secondo recenti ricerche, il suo uso è diminuito sensibilmente fino a sparire del tutto tra le nuove generazioni dell’area metropolitana di Tokyo.10 I dizionari di accento e pronuncia riportano mediante l’utilizzo di un segno diacritico la nasalizzazione dell’occlusiva e gli annunciatori vengono ancora oggi addestrati a questa pronuncia. Poiché la nostra varietà di riferimento è lo standard, utilizzeremo il simbolo di nasale velare [ŋ] là dove i dizionari di pronuncia ne prevedono l’utilizzo, pur consci del fatto che si tratta di una indicazione normativa. Fricative In giapponese esistono due fonemi realizzati attraverso dei suoni fricativi: /s/ e /h/. Il fonema /s/ è fricativa alveolare sorda [s] e la sua realizzazione è identica a quella di fricativa alveolare sorda dell’italiano (come negli esempi: [kɑ⌉sɑ] 傘 “ombrello” e [ˈsasːo] “sasso”). Davanti a vocale anteriore chiusa è fricativa alveolo-palatale come in [ɕi⌈] 詩 “poesia”. Essa è leggermente diversa dalla pronuncia italiana [ˈʃi] “sci” dove si ha una fricativa postalveolare. La differenza di queste due consonati sta nella posizione delle labbra e nel punto di articolazione che nella prima è più arretrato e ampio.11 In molti manuali degli anni novanta la fricativa alveolo-palatale del giapponese viene ancora trascritta con il simbolo della postalveolare [ʃ],12 mentre nei manuali pubblicati negli ultimi anni è prevalente l’uso del 9

Si veda Vance, The Sounds of Japanese, cit., p. 76. Ivi, p. 215. 11 In alcune lingue caucasiche come l’adighè e il cabardo, questi due suoni [ɕ ʃ], la cui differenza può sembrare a molti italofoni quasi impercettibile, coesistono nel sistema fonologico e sono quindi in opposizione fonemica (cfr. Bernard Comrie, The languages of the Soviet Union, Cambridge University Press, Cambridge 1981, pp. 200-207). 12 Come in Shibatani, The languages of Japan, cit., pp. 163-166. 10


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simbolo dell’alveolo-palatale [ɕ]. Al fine di segnalare la differenza di pronuncia con l’italiano e in coerenza con le recenti tendenze di trascrizione, useremo nella nostra trascrizione larga il simbolo di fricativa alveo-palatale [ɕ].13 I foni corrispondenti alle varie realizzazioni del fonema /h/ del giapponese non appartengono all’inventario fonetico dell’italiano. /h/ è fricativa glottidale sorda [h] come in [hɑ⌉ɕi] 箸 “bacchette”, ma ha ben tre allofoni in distribuzione complementare rispetto al contesto vocalico: è fricativa palatale sorda [ç] davanti a vocale anteriore chiusa come in [çi⌉] 火 “fuoco”; è fricativa bilabiale sorda [ɸ] davanti a vocale posteriore chiusa come in [ɸɯ⌈de] 筆 “pennello”14; è fricativa glottidale sonora [ɦ] in contesto intervocalico e a condizione che la vocale successiva non sia chiusa come in [hɑ⌉ɦɑ] 母 “madre”. Nella nostra trascrizione larga faremo uso solo dei primi tre simboli [h ç ɸ] scartando il quarto [ɦ] per ragioni di economia. La fricativa glottidale sonora verrà trascritta con il simbolo della sorda come in [hɑ⌉hɑ] 母 “madre”. Affricate Le consonanti affricate sono dei foni caratterizzati da un’occlusione seguita da una frizione. Come in italiano, in giapponese esistono quattro tipi di affricate. Nella sua trascrizione larga, Vance15 trascrive le affricate del giapponese con i simboli fonetici usati nei seguenti esempi: [t͡sɯ⌈bɑme] 燕 “rondine”; [d͡zɯ⌈] 図 “grafico”; [c͡ɕi⌈] 血 “sangue”; [ɟ͡ʑi⌉] 字 “carattere”. Nell’IPA le affricate vengono rese graficamente attraverso due simboli sormontati da un trattino che li unisce: il primo indica l’occlusione, l’altro indica la frizione. Nei primi due esempi l’occlusione e la seguente frizione hanno luogo in zona alveolare. Negli altri due, l’occlusione e la seguente frizione hanno luogo in una posizione posteriore all’alveolo, e per questo Vance utilizza dei simboli di occlusive palatali [c ɟ] per indicare minuziosamente il luogo della chiusura. Tuttavia questi simboli sono usati raramente e per questo di difficile decodificazione per il fruitore. Per questo motivo, in linea con le trascrizioni di altri manuali,16 useremo i simboli di occlusive alveolari anche per la trascrizione delle consonati affricate alveolo-palatali, come negli esempi [t͡sɯ⌈bɑme] 燕 “rondine”; [d͡zɯ⌈] 図 “grafico”; [t͡ɕi⌈] 血 “sangue”; [d͡ʑi⌉] 字 “carattere”. Il simbolo della fricativa indicherà comunque il luogo articolatorio. L’affricata alveolare sonora [d͡z], quando è preceduta da vocale, perde generalmente la chiusura anche in un parlato accurato, e viene quindi realizzata come 13

Il simbolo di fricativa alveolo-palatale [ɕ] verrà inoltre usato per trascrivere le parole di origine straniera in cui la consonante è seguita dalla vocale e, come in [ɕe⌉ebɑɑ] シェーバー “rasoio elettrico”. 14 Il simbolo di fricativa bilabiale [ɸ] verrà inoltre usato per trascrivere le parole di origine straniera in cui la consonante non è seguita dalla vocale u, come in [ɸɑ⌈ɑsɯ̥tokɯ⌉ɾɑsɯ] ファーストクラス “prima classe” e [ɸe⌉ɾii] フェリー “traghetto”. 15 Si veda Vance, The Sounds of Japanese, cit., pp. 82-87. 16 Come in Inozuka, Onseigaku no nyūmon, cit., pp. 74-75, e Matsuzaki, Yoku wakaru onsei, cit., pp. 76-77.


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una fricativa alveolare sonora [z]. Nella nostra trascrizione larga renderemo chiaro questo fenomeno segnalando questa variante come negli esempi [t͡ɕi⌉zɯ] 地図 “mappa” e [kɑ⌈ze] 風 “vento”. Liquide Nell’inventario fonetico dell’italiano sono presenti quattro tipi di liquide: laterale alveolare [l] come in [ˈpaːla] “pala”, laterale palatale [ʎ] come in [ˈpaʎːa] “paglia”, vibrante alveolare [r] come in [ˈroːma] “Roma” e, in contesto intervocalico, monovibrante alveolare [ɾ] come in [ˈkaːɾo] “caro”. In giapponese esiste un solo tipo di liquida, la cui realizzazione però è instabile e varia a seconda del parlante.17 Tra le realizzazioni più comuni troviamo: monovibrante alveolare [ɾ], vibrante alveolare [r], vibrante retroflessa [ɽ], laterale alveolare [l]18. Nella nostra trascrizione larga, come nella maggior parte delle trascrizioni presenti in letteratura, utilizzeremo il simbolo della monovibrante alveolare [ɾ], come nell’esempio [bɑ⌈ɾɑ] 薔薇 “rosa”. Nasali Nell’inventario fonetico dell’italiano standard sono presenti cinque consonanti nasali che si differenziano per il punto di articolazione: bilabiale [m] come in [ˈlaːma] “lama”, labiodentale [ɱ] come in [iɱˈviːto] “invito”, alveolare [n] come in [ˈnaːve] “nave”, palatale [ɲ] come in [ˈɲɔːmo] “gnomo” e velare [ŋ] come in [ˈbaŋka] “banca”. La nasale labiodentale e la nasale velare sono degli allofoni di uno stesso fonema che occorrono per una regola di assimilazione regressiva.19 In giapponese, se escludiamo la realizzazione nasale dell’occlusiva velare, abbiamo due consonanti nasali a inizio di sillaba: bilabiale [m] come in [kɑ⌉me] 亀 “tartaruga” e alveolare [n] come in [kɑ⌈ni] 蟹 “granchio”. A fine di sillaba, come diremo di seguito, la situazione è più complessa. Nasale moraica A fine sillaba esiste una serie di consonanti nasali che sono allofoni di un fonema o arcifonema che in fonologia viene indicato con il simbolo /N/. In giapponese viene chiamato hatsuon 撥音 o haneruon 撥ねる音; in italiano potremmo chiama17

Si veda Kawakami Shin, Nihongo onsei gaisetsu, Ōfūsha, Tokyo 1977, pp. 50-51. Okada Hideo, “Japanese”, cit., p. 118; Akamatsu, Japanese Phonetics, cit., pp. 105-116. 19 È un fenomeno fonologico per cui si estende alla nasale il luogo di articolazione del fono consonantico successivo. 18


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rla “nasale moraica”, in quanto forma da sola un’unità moraica. Ci sarebbe molto da aggiungere riguardo alle caratteristiche di questo fonema, ma in questa sede ci limiteremo a elencare i simboli fonetici che potrebbero essere utilizzati per la nostra trascrizione larga. Nel suo manuale di linguistica giapponese, Tsujimura afferma che questo fonema segue una regola di assimilazione regressiva e cioè che la nasale estende il luogo di articolazione del fono consonantico successivo: /n/ is realized as the bilabial nasal [m] when it is immediately followed by a bilabial consonant. /n/ is realized as the alveolar nasal [n] when it is immediately followed by an alveolar consonant. /n/ is realized as the velar nasal [ŋ] when it si immediately followed by a velar consonant.20

Questo è vero in parte, perché se la regola è valida per le occlusive non è valida per le fricative. Quando la nasale moraica è seguita da una consonante fricativa, non occorre, infatti, nessun fenomeno di coarticolazione e la sua realizzazione è identica ai casi in cui è seguita da vocale. Fono successivo

Allofono

Esempio

[p] [b] [m]

m

[sɑ̃⌈mˑpo] 散歩 “passeggiata”

[t] [d] [t͡s] [d͡z] [n] [ɾ]

n

[kẽ⌉nˑdoo] 剣道 “kendo”

[t͡ɕ] [d͡ʑ]

ɲ

[kɑ̃⌈ɲˑd͡ʑi] 漢字 “carattere cinese”

[k] [ɡ] [ŋ] (i_)# (e_)# (ɯ_)# (o_)# (ɑ_)#

ŋ

[õ⌉ŋˑŋɑkɯ] 音楽 “musica”

ɴ

[hõ⌉ɴˑ] 本 “libro” [ɡẽ⌈ɰ̃ˑĩŋˑ] 原因 “causa”

[ɑ] [i] [ɯ] [e] [o] [j] [ɰ]

[ɡĩ⌉ŋˑ] 銀 “argento”

ɰ̃

[ɸ] [s] [ɕ] [ç] [h]

[kẽ⌈ɰ̃ˑjɑkɯ] 倹約 “risparmio” [kẽ⌉ɰ̃ˑsɑ] 検査 “esame”

Tabella 4. Realizzazioni fonetiche della nasale moraica.

Come viene rappresentato in tabella 4, avremo: nasale bilabiale [m] prima di occlusiva o nasale bilabiale come in [sɑ̃⌈mˑpo] 散歩 “passeggiata”; nasale alveolare [n] prima di occlusive, affricate, nasali o liquide alveolari come in [kẽ⌉nˑdoo] 剣道 “kendo”; nasale palatale [ɲ] prima di affricata alveolo-palatale, come in [kɑ̃⌈ɲˑd͡ʑi] 漢字 “carattere cinese”; nasale velare [ŋ] prima di occlusiva o nasale velare, come in [õ⌉ŋˑŋɑkɯ] 音楽 “musica” e a fine di parola preceduta da vocale anteriore come in [ɡĩ⌉ŋˑ] 銀 “argento”; nasale uvulare [ɴ] a fine di parola dopo vocali posteriori come 20

Tsujimura, An Introduction to Japanese Linguistics, cit., p. 29.


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Trascrizione fonetica del giapponese

in [hõ⌉ɴˑ] 本 “libro”. Quando è seguita da vocali, approssimanti o fricative si realizza come un suono vocalico nasalizzato imprecisato. Per la nostra trascrizione larga useremo il simbolo proposto da Vance e cioè un’approssimante velare nasalizzata [ɰ̃]21 come negli esempi: [ɡẽ⌈ɰ̃ˑĩŋˑ] 原因 “causa”, [kẽ⌈ɰ̃ˑjɑkɯ] 倹約 “risparmio”, [kẽ⌉ɰ̃ˑsɑ] 検査 “esame”. Ai simboli scelti sono stati aggiunti il diacritico che indica l’estensione della durata di una mezza unità [ˑ] e il diacritico che segnala la nasalizzazione della vocale che precede la nasale moraica [ ̃]. Approssimanti Nell’inventario fonetico dell’italiano sono presenti due approssimanti: l’approssimante palatale [j] come in [ˈjɛːɾi] “ieri” e l’approssimante labiovelare [w] come in [ˈwɔːvo] “uovo”. In giapponese, oltre alla palatale [j], la cui realizzazione è identica a quella dell’italiano, abbiamo un’approssimante velare che si differenzia dalla labiovelare italiana in quanto non è presente un arrotondamento delle labbra ma una leggera compressione come per la u. Per questo motivo useremo il simbolo di approssimante velare non protusa [ɰ], come in [ɰɑ⌉kɑ] 和歌 “waka”. Bisogna inoltre notare che il simbolo usato per trascrivere l’approssimante palatale [j] è una “i lunga” j nell’alfabeto fonetico internazionale, a differenza dei sistemi Hepburn e Kunrei in cui è traslitterato con una “ipslon” y. Palatalizzazioni In giapponese, le sillabe costituite da consonante, approssimante e vocale /CyV/ vengono realizzate foneticamente con una consonante palatalizzata seguita da vocale. Le trascrizioni che troviamo in letteratura si differenziano nella scelta di inserire il simbolo dell’approssimante palatale [j] tra la consonante palatalizzata e la vocale. Per ragioni di semplicità, nella nostra trascrizione larga useremo solo il diacritico della palatalizzazione che è una “i lunga” piccola [ʲ] posta in alto a destra rispetto alla consonante. In tabella 5, troviamo esempi di trascrizione di consonanti del giapponese nella loro variante palatalizzata. pʲ

[hɑ⌈ppʲoo] 発表 “annuncio”

[bʲo⌈oĩŋˑ] 病院 “ospedale”

[tʲɯ⌉ɯbɑ] テューバ “tuba”

[dʲɯ⌉etto] デュエット “duetto”

[kʲo⌉o] 今日 “oggi”

ɡʲ

[ɡʲɑ⌈kɯ] 逆 “contrario”

21

Si veda Vance, The Sounds of Japanese, cit., pp. 96-100.


Giuseppe Pappalardo ɸʲ

[ɸʲɯ⌉ɯd͡ʑõɴˑ] フュージョン “fusione”

[bɯ̃⌈mˑmʲɑkɯ] 文脈 “contesto”

[nʲɯ⌉ɯsɯ] ニュース “notizia”

ɾʲ

[ɾʲo⌉o] 寮 “dormitorio”

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Tabella 5. Consonati palatalizzate in giapponese.

Per le consonati palatali e alveolo-palatali [ç ɕ t͡ɕ d͡ʑ] non sarà necessario aggiungere il diacritico della palatalizzazione, in quanto si tratta di consonati il cui punto di articolazione è già palatale, come negli esempi: [ɕɑ⌉ko] 車庫 “garage”, [o⌈t͡ɕɑ] お茶 “tè”, [d͡ʑɯ⌉ɯsɯ] ジュース “succo”, [ço⌉o] 雹 “grandine”. Nella maggior parte dei sistemi di trascrizione proposti in letteratura si fa uso del simbolo della palatalizzazione [ʲ] per tutte le sillabe formate da una consonante seguita dalla vocale i (/Ci/), come nell’esempio [kʲi⌉] 木 “albero”. In effetti, la vocale anteriore chiusa i provoca, per un effetto di coarticolazione, la palatalizzazione della consonante che la precede. Questo fenomeno, comune al giapponese come all’italiano, è particolarmente evidente per le occlusive velari [k g], che davanti a i diventano delle vere e proprie occlusive palatali [c ɟ]. Tuttavia, come nelle trascrizioni larghe dell’italiano, trascureremo questo effetto di coarticolazione e faremo a meno del diacritico che indica la palatalizzazione per le sillabe di tipo /Ci/, come nell’esempio [ki⌉] 木 “albero”. Inoltre, in alcuni manuali, la sillaba /ni/ viene trascritta utilizzando il simbolo di nasale palatale [ɲ], come in [kɑ⌈ɲi] 蟹 “granchio”. Nelle trascrizioni fonetiche dell’italiano quest’ultimo simbolo viene generalmente utilizzato per trascrivere la nasale palatale (che nell’ortografia italiana corrisponde a gn), come in [ˈɲɔkːi] “gnocchi”, e l’uso dello stesso simbolo nelle trascrizioni del giapponese non farebbe altro che creare confusione nel fruitore italofono. Per questo motivo trascureremo nella nostra trascrizione larga l’effetto di palatalizzazione della nasale davanti a i e trascriveremo la sillaba /ni/ come nell’esempio [kɑ⌈ni] 蟹 “granchio”. Accento In italiano esiste un accento di intensità (kyōjaku akusento 強弱アクセント in giapponese), per cui una sillaba accentata viene realizzata con una maggiore forza articolatoria e un maggior consumo di aria egressiva. Nell’alfabeto fonetico internazionale si segnala con un trattino verticale in apice [ˈ] posto prima della sillaba accentata, come in [ˈaːpe] “ape”.22 L’accento giapponese è di tipo diverso. In inglese è chiamato pitch accent, in giapponese kōtei akusento 高低アクセント. In italiano si usano le espressioni “accento melodico”, “accento intonativo” e “accento di picco”. Esso si basa sulla variazione di frequenza di vibrazione delle corde vocali. Nei dizionari di accento e pronuncia si segnala la caduta del picco (pitch) mediante un simbolo diacritico ⌉ 22

In italiano, le vocali accentate sono sempre lunghe quando si trovano in sillabe aperte (cioè prive di coda consonantica).


Trascrizione fonetica del giapponese

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che in giapponese viene chiamato akusento kaku アクセント核. Una descrizione dell’accento in giapponese richiederebbe ampio spazio, ma in questa sede ci limiteremo a individuare la resa grafica più appropriata per la nostra trascrizione larga. In IPA esistono due modi per segnalare l’accento di picco giapponese. Il primo è quello di aggiungere degli accenti tonali che indicano il livello alto o basso come in tabella 6.23 箸 “bacchette”

[hɑ́ɕì] HL

橋 “ponte”

[hɑ̀ɕí] LH

端 “bordo”

[hɑ̀ɕí] LH

Tabella 6. Accento di picco segnalato con accenti tonali

Il grosso limite di questa resa grafica è l’impossibilità di prevedere l’andamento dell’accento oltre la parola stessa. Infatti, le parole giapponesi contengono un accento inerente in fine di parola che può determinare la variazione dell’altezza dell’accento della posposizione successiva. Ritornando agli esempi in tabella 6, nel caso dell’equivalente italiano “ponte” la posposizione successiva avrà un tono basso, mentre nel caso dell’equivalente italiano “bordo” la posposizione successiva avrà un tono alto. In tabella 7 vediamo le stesse tre parole seguite dalla posposizione del soggetto ga が. 箸が “le bacchette”

[hɑ́ɕìɡɑ̀] HLL

橋が “il ponte”

[hɑ̀ɕíɡɑ̀] LHL

端が “il bordo”

[hɑ̀ɕíɡɑ́] LHH

Tabella 8. Accento di picco segnalato con accenti tonali (con posposizioni).

Inoltre, questo tipo di accento grafico è del tutto simile a quello usato in italiano, e un fruitore italofono non esperto di trascrizioni fonetiche potrebbe pensare a una variazione di apertura vocalica o ad un accento di intensità. Per questi motivi gli accenti tonali non verranno utilizzati nella nostra trascrizione larga. Un altro modo per indicare l’accento di picco giapponese attraverso l’IPA è l’utilizzo del diacritico downstep [ꜜ], che indica il punto in cui cade l’accento come negli esempi in tabella 9.24 箸 “bacchette”

[hɑꜜɕi] HL

橋 “ponte”

[hɑɕiꜜ] LH

端 “bordo”

[hɑɕi] LH

Tabella 9. Accento di picco segnalato con il diacritico downstep. 23 24

Si veda Okada Hideo, “Japanese”, cit., pp. 117-119. Si veda Vance, The Sounds of Japanese, cit., pp. 142-205.


Giuseppe Pappalardo

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Per un fruitore italiano, che non conosce le regole accentuali del giapponese, sarebbe opportuno indicare anche l’ascesa dell’accento attraverso il diacritico upstep [ꜛ], come negli esempi in tabella 10. 箸 “bacchette”

[hɑꜜɕi] HL

橋 “ponte”

[hɑꜛɕiꜜ] LH

端 “bordo”

[hɑꜛɕi] LH

Tabella 10. Accento di picco segnalato con i diacritici downstep e upstep.

Tuttavia, l’uso di simboli IPA per segnalare l’accento di picco risulta pesante e poco efficace. Per questo motivo, si è deciso di utilizzare il tradizionale simbolo della caduta del picco ⌉ per la nostra trascrizione larga. A differenza dei dizionari di accento e pronuncia che indicano solo la caduta del picco,25 inseriremo anche un diacritico ⌈ che ne indica l’ascesa. Anche nel dizionario bilingue giapponese-inglese della casa editrice Kenkyūsha26 troviamo questi due simboli sovrapposti ai lemmi scritti in sistema Hepburn. Utilizzeremo, quindi, dei simboli non appartenenti all’IPA per rendere la nostra trascrizione più pratica e intuitiva (tabella 11). 箸 “bacchette”

[hɑ⌉ɕi] HL

橋 “ponte”

[hɑ⌈ɕi⌉] LH

端 “bordo”

[hɑ⌈ɕi] LH

Tabella 11. Accento di picco segnalato con simboli non appartenenti all’IPA.

Diacritici È noto che nella varietà di Tokyo esiste un fenomeno fonologico che è l’assordamento vocalico in contesto sordo. Vengono assordate le vocali chiuse i e u tra due consonanti sorde, come in [ki̥⌈ɕi⌉] 岸 “riva”. Inoltre, Tsujimura ci suggerisce che le vocali i e u vengono assordate anche a fine di parola quando sono precedute da una consonante sorda, e riassume il fenomeno con la seguente regola fonologica: V [+high]→V→/C[-voiced]__{C[-voiced] #}27

A sostegno della sua teoria, Tsujimura riporta una lista di esempi di assordamento vocalico in cui, però, le vocali assordate a fine di parola si trovano, non

25 26 27

L’ascesa del picco, infatti, è prevedibile secondo dei modelli accentuali. Masuda Koh, Kenkyusha’s new Japanese-English dictionary, 4th ed., Kenkyūsha, Tokyo 1974. Tsujimura, An Introduction to Japanese Linguistics, cit., p. 28.


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Trascrizione fonetica del giapponese

a caso, in sillabe non accentate.28 Sebbene Tsujimura non ne faccia menzione, in alcuni contesti l’assordamento vocalico dipende molto anche dall’andamento dell’accento. I dizionari di accento e pronuncia segnalano l’assordamento vocalico attraverso un segno diacritico29 solo quando la vocale si trova tra due consonti sorde,30 perché a fine di parola esso non si verifica in maniera costante. In alcuni contesti si verifica anche l’assordamento di vocali non chiuse come la prima a di [kɑ̥⌈kɑ⌉ɾɯ] かかる “volerci, occorrere” e la prima o di [ko̥⌈ko⌉ɾo] 心 “anima, cuore”. Anche questo tipo di assordamento, però, non viene segnalato nei dizionari di accento e pronuncia. Per la nostra trascrizione larga del giapponese standard seguiremo le indicazioni dei dizionari di pronuncia e segnaleremo solo l’assordamento di vocale chiusa tra due consonanti sorde attraverso il diacritico dell’IPA che indica l’assordamento [ ̥], come negli esempi: [çi̥⌈to⌉] 人 “persona”, [kɯ̥⌈ɕi⌉] 串 “spiedino”, [t͡sɯ̥⌈ki⌉] 月 “luna”. Non segnaleremo quindi l’assordamento di vocale a fine di parola, come in [ɑ⌉ki] 秋 “autunno”, e quello relativo alle vocali non chiuse, come in [ko⌈ko⌉ɾo] 心 “anima, cuore”. Per indicare la maggiore lunghezza della nasale moraica si utilizzerà il diacritico che indica l’estensione della durata di una mezza unità [ˑ], come in [ni⌈hõ⌉ɴˑ] 日 本 “Giappone” e [ɡẽ⌉ŋˑkɑ̃ɴˑ] 玄関 “ingresso”. Alla vocale che precede la nasale moraica sarà aggiunto il diacritico che ne indica la nasalizzazione [ ̃]. Per la geminazione consonantica e l’allungamento vocalico non si utilizzeranno diacritici di allungamento ma si ripeterà due volte il simbolo della consonante o della vocale per facilitare l’inserimento del simbolo della caduta o ascesa dell’accento, come negli esempi: [ki̥⌈ppɯ] 切符 “biglietto”, [kʲo⌉o] 今日 “oggi”. Conclusione Attraverso un’analisi contrastiva dell’inventario fonetico giapponese e italiano sono stati individuati i simboli e diacritici dell’IPA più appropriati per una trascrizione fonetica larga del giapponese standard. Concludiamo con la lista dei simboli selezionati (tabella 12). Gli esempi di trascrizione accanto ad ogni simbolo ne mostrano la sua applicazione. Oltre ai simboli IPA utilizzeremo due segni grafici per indicare l’ascesa ( ⌈ ) e la caduta ( ⌉ ) dell’accento di picco del giapponese.

28

Ivi, p. 27. La mora con vocale assordata viene inscritta in una circonferenza a linea tratteggiata. 30 Ci sono dei casi in cui, quando la consonante che segue la vocale è una fricativa, l’assordamento diventa difficile o non si verifica affatto (cfr. NHK hōsō bunka kenkyūjo, NHK nihongo hatsuon akusento jiten, cit., p.228), come in [sɯ⌈ɕi⌉] 寿司 “sushi”. 29


Giuseppe Pappalardo [i] [i⌉do] 井戸 “pozzo”

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[ɸ] [ɸɯ⌉mi] 文 “lettera”

[n] [nɯ⌈no] 布 “stoffa”

[e] [e⌉ki] 駅 “stazione”

[s] [sɯ⌈ɕi⌉] 寿司 “sushi”

[ɲ] [ɾɑ̃⌉ɲˑt͡ɕi] “pranzo”

[ɑ] [ɑ⌉sɑ] 朝 “mattina”

[z] [kɑ⌈ze] 風 “vento”

[ŋ] [ɾĩ⌈ŋˑŋo] リンゴ “mela”

ランチ

[o] [o⌉no] 斧 “ascia”

[ɕ] [hɑ⌈ɕi⌉] 橋 “ponte”

[ɴ] [ɾɑ̃⌉ɴˑ] 蘭 “orchidea”

[ɯ] [ɯ⌉zɯ] 渦 “vortice”

[ç] [çi⌉] 火 “fuoco”

[ɾ] [i⌈ɾo⌉] 色 “colore”

[p] [pɑ̃⌉ɴˑ] パン “pane”

[h] [hɑ⌉] 歯 “dente”

[j] [t͡sɯ⌉jɯ] 露 “rugiada”

[b] [bɑ⌈ɾɑ] 薔薇 “rosa”

[t͡s] [t͡sɯ̥⌈ki⌉] 月 “luna”

[ɰ] [kɑ⌈ɰɑ⌉] 川 “fiume”

[t] [to⌉mi] 富 “ricchezza”

[d͡z] [d͡zo⌉o] 象 “elefante”

[ʲ] [ɾʲo⌉o] 寮 “dormitorio”

[d] [do⌈ɾo⌉] 泥 “fango”

[t͡ɕ] [t͡ɕi⌈] 血 “sangue”

[ˑ] [ɕĩ⌉mˑpo] 進歩 “progresso”

[k] [kɑ⌈be] 壁 “muro”

[d͡ʑ] [kɑ⌉d͡ʑi] 火事“incendio”

[ ̃] [ĩ⌈ŋˑ] 韻 “rima”

[ɡ] [ɡɑ⌈] 蛾 “falena”

[m] [ɯ⌉mi] 海 “mare”

[ ̥] [kɯ̥⌈sɑ⌉] 草 “erba”

Tabella 12. Simboli IPA per una trascrizione larga del giapponese standard.


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Trascrizione fonetica del giapponese

Contrastive Analysis Of Japanese And Italian Phonetic Inventories. Towards A Phonetic Transcription Of Standard Japanese. The aim of this paper is the encoding of a consistent system of phonetic transcription of standard Japanese for Italian speakers’ use. Through a contrastive analysis of Japanese and Italian phonetic inventories, appropriate phonetic symbols from the International Phonetic Alphabet (IPA) will be selected for a broad phonetic transcription of standard Japanese. In selecting symbols and diacritics, attempts at phonetic transcription found in previous studies will be considered. A conventional system of phonetic transcription may be used in the compilation of bilingual dictionaries, as a tool in the teaching of Japanese as second language (L2) and as a reference system in studies of phonetics, phonology and Japanese dialectology.

標準日本語の表記を目指した日本語とイタリア語の音声目録の対照研究

ジュゼッペ・パッパラルド 本論文の目的は、イタリア語母語話者にとって有用である標準日本語 の一貫した音声表記システムを構築することである。日本語とイタリ ア語の音声目録の対照分析を通して、日本語の簡略表記のためのIPAの 適切な記号を選択する。精密表記ではなく簡略表記を採用するのは、 細かすぎる表記では利用者にとって煩雑になるためである。記号と補 助記号を選択する際、先行研究における表記システムの提案も参照す る。従来提案されてきた表記システムは過度に精密であるために利用 しづらい、あるいは簡略すぎるために日本語の音声の実際を正確に伝 えていないという問題があった。本論文では様々な目的にとって有用 な表記システムを提案する。統一された音声表記システムは日伊辞書 の編纂や日本語教育にとって有用であり、また音声学、音韻論、日本 語方言学の研究における参照資料としても価値があると考えられる。


PATRIZIA ZOTTI

Costruire un corpus parallelo giapponese-italiano Metodologie di compilazione e applicazioni

A partire dagli anni ’90 la diffusione delle tecnologie informatiche, l’interesse della comunità scientifica internazionale e il rapido sviluppo di applicazioni di linguistica computazionale, hanno permesso il fiorire della cosiddetta ‘linguistica dei corpora’ e dei suoi prodotti, tra cui i corpora paralleli – raccolte di testi annotati in una o più lingue di origine e delle relative traduzioni in una o più lingue di destinazione1 – utilizzati nell’ambito di analisi linguistiche avanzate e della didattica delle lingue straniere, della lessicografia multilingue, degli studi traduttologici e della linguistica computazionale (estrazione di terminologia bilingue, disambiguazione e traduzione automatica).2 La produzione di corpora paralleli, tuttavia, è fortemente influenzata dalla disponibilità di dati nelle lingue in esame e per questo ancora abbastanza limitata a quelle coppie di lingue nelle quali è più facile reperire risorse tradotte o comparabili. Non è un caso dunque che, sebbene esistano corpora comprendenti testi in giapponese e inglese (principalmente articoli giornalistici,3 traduzioni di brevetti4 o manualistica software5) siano ancora pochi quelli che includono 1

Secondo alcuni autori sarebbe preferibile parlare di ‘corpus traduttivo’ (S. Johansson “On the role of corpora in cross-linguistic research”, in S. Johansson, S. Oksefjell (a cura di), Corpora and Crosslinguistic Research: Theory, Method, and Case Studies, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1998, pp. 3-24; K.M. Lauridsen, “Text Corpora and Contrastive Linguistics: Which Type of Corpus for Which Type of Analysis?”, in K. Aijmer, B. Altenberg, M. Johansson (a cura di), Languages in Contrast, Lund University Press, Lund 1996, pp. 63-71), ‘bi-texts’ (B. Harris, “Bi-text. A New Concept in Translation Theory”, Language Monthly, 54, 1988, pp. 8-10) oppure ‘core parallel corpus’ (S. Johansson, K. Hofland “Coding and Aligning the English-Norwegian Parallel Corpus”, in K. Aijmer, B. Altenberg, M. Johansson (a cura di), Languages in Contrast, Lund University Press, Lund 1996, pp. 87-112), per evitare possibili confusioni con insiemi di testi bilingue ‘comparabili’ ma non in rapporto di traduzione. 2 Si veda E. Picchi, C. Peters, “Reference Corpora and Lexicons for Translators and Translation Studies”, in A. Trosborg (a cura di), Text Typology and Translation, John Benjamin Publishing, AmsterdamPhiladelphia 1997, pp. 247-276; S. Laviosa (a cura di), “L’Approche basé sur le corpus/The CorpusBased Approach” in Special Issue of Meta 43/4, Les Presses de l’Université de Montreal, Montreal 1998; T. McEnery, A. Wilson, Corpus Linguistics, Edinburgh University Press, Edinburgh 20012. 3 Utiyama M., Isahara H., “Reliable Measures for Aligning Japanese-English News Articles and Sentences”, Proceedings of the 41st Annual Meeting of the ACL - Association for Computational Linguistics, 2003, pp. 72-79. 4 Utiyama M., Isahara H., “A Japanese-English Patent Parallel Corpus”, Proceedings of Machine Translation Summit XI, 2007, pp. 475-482. 5 Ishisaka T., Yamamoto K., Utiyama M., Sumita E., “Development of a Japanese-English Software Manual Parallel Corpus”, Proceedings of MT Summit XII, Ottawa, 2009, pp. 254-259.


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Corpus parallelo giapponese-italiano

testi in giapponese e lingue europee diverse dall’inglese. Si ricordino, tra gli altri, il corpus giapponese-sloveno,6 il corpus tedesco-giapponese sviluppato presso l’Università di Hiroshima ed utilizzato prevalentemente per la didattica, ed il corpus giapponese-inglese-spagnolo-italiano (Pivot Corpus).7 Con il presente contributo si intende illustrare PEI,8 un piccolo corpus parallelo giapponese-italiano contenente dati estratti da articoli giornalistici, sedute parlamentari, testi narrativi e relative traduzioni, creato ai fini di un’analisi contrastiva sulla semantica degli eventi condotta nell’ambito di un dottorato di ricerca. Il corpus ha subito le successive fasi di allineamento, lemmatizzazione, analisi morfologica, etichettatura delle parti del discorso, analisi delle dipendenze ed annotazione temporale, ed è disponibile sia in formato grezzo sotto forma di coppie allineate, che in formato annotato. Creazione di PEI, il Corpus parallelo Giapponese-Italiano Il corpus è suddiviso in tre sezioni e composto complessivamente da 7.260 frasi allineate tratte da sedute parlamentari, articoli giornalistici e testi narrativi che risalgono agli anni dal 1965 al 2004. Data l’assenza di risorse parallele facilmente accessibili la selezione dei testi è stata fortemente influenzata dalla disponibilità dei dati. La sezione sedute parlamentari contiene 1916 coppie di frasi: i dati giapponesi sono il frutto di una traduzione dei testi spagnoli del data-set estratto dal Corpus Europarl9 predisposto per l’Europarl test shared task nell’ambito del ‘Workshop on Statistical Machine Translation ACL 2007’;10 le corrispondenti frasi in italiano sono state ricavate dalla sezione italiana completa del corpus Europarl. La sezione articoli giornalistici contiene 2000 coppie di frasi tratte dal Pivot Corpus (si veda nota 7). La sezione testi narrativi, infine, comprende 3.345 frasi tratte da romanzi giapponesi e relative traduzioni in italiano.11 6

K. Hmeljak Sangawa, E. Tomaz, “Nihongo, Surobeniago heiretsu kōpasu no lōkosuto kōchiku no kokoromi”, Technical Report of IEICE. Thought and Language, 108/50, 2008, pp. 7-10. 7 Corpus parallelo giapponese-spagnolo-italiano con Inglese come ‘pivot language’ sviluppato nell’ambito del progetto ‘PivotAlign: Structural Alignment for Bridging Parallel Corpora with Pivot Language’ (Eric Nichols, Jessica C. Ramírez, Patrizia Zotti, Matsumoto Yuji) finanziato da Microsoft Research Asia per il periodo 2009-2010. I dati giapponesi sono tratti dal corpus parallelo ‘Yomiuri Shinbun’, che comprende 180.000 frasi allineate in giapponese e inglese, corrispondenti agli articoli pubblicati negli anni 1989-1996 (59.086 articoli) e 1996-2001 (35.318 articoli). Utiyama M., Isahara H., “A Japanese-English…”, cit. 8 PEI è un nome di fantasia. 9 Il ‘Corpus Europarl’ contiene una raccolta di sedute del Parlamento Europeo tradotte in undici lingue ufficiali dell’Unione Europea, per un totale di circa un milione e mezzo di frasi allineate per ciascuna coppia. P. Koehn, “Europarl: A Parallel Corpus for Statistical Machine Translation” Proceedings Machine Translation Summit X, 2005, pp. 79-86. 10 http://www.statmt.org.europarl/ (24.01.2012). 11 Si desidera ringraziare il Prof. Gianluca Coci dell’Università di Torino, la dr.ssa Laura Testaverde e il dr. Alessandro Clementi per aver messo a disposizione le bozze delle proprie traduzioni di romanzi


Patrizia Zotti

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Il corpus ha al momento una dimensione complessiva di 155.428 tokens12 e 63.889 types nella sezione italiana e di 162.062 tokens e 28.743 types nella sezione giapponese (si veda tabella 1). La quantità di dati è stata definita in modo da mantenere un certo bilanciamento tra i tre generi, sebbene si sia preferito incrementare la sezione narrativa perché caratterizzata da testi più funzionali alla tipologia di analisi per cui il corpus è stato creato (semantica degli eventi con particolare attenzione alle realizzazioni aspettuali). Sezione Giapponese

Corpus

Genere

Anno

Europarl

Sedute parlamentari

Bungaku Pivot Corpus TOT

Sezione Italiana

Tokens

Types

Frasi

Tokens

Types

Frasi

2000

64.087

7.287

1.916

55.932

16.125

1.916

Narrativa

19652004

43.432

13.195

3.345

53.586

29.358

3.345

Articoli giornalistici

19892001

54.543

8.261

2.000

45.910

18.406

2.000

162.062

28.743

7.261

155.428

63.889

7.261

Tab. 1 – PEI Corpus. Alcuni dati statistici.

Il processo di acquisizione dei dati è avvenuto in quattro fasi successive: 1. acquisizione dei testi, 2. normalizzazione dei dati, 3. correzione, 4. codifica. I dati tratti dalle sedute parlamentari e dagli articoli giornalistici erano già disponibili in forma di testo semplice senza formattazione e non hanno richiesto un trattamento particolare se non quello di codifica; quelli tratti da testi narrativi giapponesi, viceversa, sono stati acquisiti allo scanner, mentre le relative traduzioni in italiano erano disponibili in formato elettronico, sebbene ricchi di formattazione ed elementi di stile. Per queste ultime due categorie si è resa necessaria una fase di normalizzazione, ovvero conversione dei vari formati in testo semplice, e di eliminazione di tutte le formattazioni, compresi titoli, paragrafi, titoletti, tabelle, figure ed elementi di stile. È stato inoltre necessario verificare e correggere manualmente tutti gli errori derivati dall’acquisizione tramite OCR, un processo laborioso che ha richiesto notevoli sforzi in termini di tempo ed energie. I testi sono stati infine giapponesi in Italiano. Per motivi di copyright sono stati utilizzati solo estratti dei romanzi giapponesi e le versioni pre-stampa delle rispettive traduzioni in Italiano. 12 Il termine ‘(word) token’ è utilizzato per indicare tutte le singole occorrenze di un testo, incluse le forme coniugate dello stesso lessema; il termine ‘(word) type’ è usato per far riferimento al singolo lemma. Il rapporto tra types e tokens rappresenta la frequenza media con cui ciascun type ricorre e restituisce quindi la varietà lessicale o la complessità del testo. Va tuttavia notato che tale rapporto non costituisce di per sé una misura valida, poiché il valore varia al variare delle dimensioni del testo. Per avere un valore di riferimento più appropriato sarebbe necessario normalizzare la lunghezza del testo calcolando il rapporto, ad esempio, ad intervalli di 1000 parole.


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codificati in UTF-8 (Unicode) e ISO (non tutti gli analizzatori morfosintattici gestiscono testi in Unicode). Una volta acquisiti e ‘ripuliti’, i testi in entrambe le lingue sono stati segmentati (suddivisi in singole frasi) e allineati, sia per permetterne un più semplice utilizzo, che per consentire l’accesso a concordanze parallele. Per la segmentazione è stato predisposto uno script basato sulla punteggiatura (‘.’ ‘!’ ‘?’ ‘…’ ) nel linguaggio di programmazione Python. Per minimizzare gli errori inevitabili dovuti ai limiti di una simile metodologia, lo script per i testi italiani non considera il punto ‘.’ come elemento di chiusura nei seguenti casi: quando sia preceduto da un’abbreviazione nota che non ricorra generalmente a fine frase, ma sia normalmente seguito da un nome proprio con l’iniziale maiuscola (ad es. sig., prof. oppure vs.); quando sia preceduto da un’abbreviazione nota e non sia seguito da una lettera maiuscola come nel caso di ‘etc.’ e ‘ad es.’, elementi che possono ricorrere sia all’interno che a fine frase. Lo script non considera inoltre i punti interrogativi e i punti esclamativi se seguiti da una lettera minuscola o da un sostantivo noto. Lo script per i testi giapponesi non considera il punto solo se compreso all’interno di punteggiatura indicante un discorso diretto (「…」) o seguito da uno o più punti. Dopo una verifica e correzione manuale del risultato della segmentazione automatica i testi sono stati allineati manualmente,13 procedura che si è rivelata particolarmente critica per i testi narrativi in cui, a differenza di quelli parlamentari e giornalistici, le traduzioni sono molto più libere e i traduttori hanno modificato e riorganizzato il testo originale a loro disposizione per creare un testo di arrivo coerente e scorrevole. Non sono pochi i casi in cui ad una frase giapponese, ad esempio, corrispondono più frasi italiane, o casi in cui porzioni di testo siano state omesse. Sebbene dunque nella maggior parte dei casi l’allineamento rispetti il rapporto di corrispondenza 1:1 (ad una frase nella lingua di partenza corrisponde una ed una sola frase nella lingua di arrivo), sono presenti anche casi di allineamento 1:2, 2:1, 1:3 e 3:1 (il che spiega la discordanza tra numero di frasi giapponesi e numero di frasi italiane riportate in tabella 1. Sarebbe quindi più corretto affermare che l’allineamento è stato effettuato per ‘gruppi di frasi’, con la presenza di spazi vuoti laddove la corrispondenza 1:1 non possa essere rispettata, o con l’aggregazione di più frasi. Annotazione e parsing sintattico Il valore aggiunto dei corpora è rappresentato dalle informazioni supplementari ed esplicite – di tipo linguistico ma non solo – con cui il testo è annotato, e grazie alle quali è possibile sia ottenere una conoscenza più approfondita del testo stesso che estrarne i dati di interesse. La cosiddetta ‘corpus annotation’ rappresenta un ambito di ricerca specifico della linguistica computazionale che ha gradualmente 13

La procedura di allineamento automatico rappresenta ancora un ambito di ricerca molto aperto e, date le limitate dimensioni del corpus, si è preferito procedere manualmente.


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acquisito un’importanza sempre maggiore negli ultimi tre decenni perché i corpora annotati possono essere utilizzati sia per analizzare fenomeni linguistici, sia per il training e la valutazione di algoritmi specifici in sistemi automatici. L’annotazione può riguardare qualunque aspetto del testo: indicazioni fonetiche, morfologiche, sintattiche, semantiche o altro. La forma di annotazione più comune è quella morfo-sintattica (POS Tagging – Part-Of-Speech Tagging) in cui ad ogni parola (token) è associata un’etichetta (tag) che indica la categoria grammaticale di appartenenza (sostantivo comune singolare, verbo, aggettivo, etc.), e rappresenta un passaggio obbligato per qualsiasi operazione di trattamento automatico del linguaggio (d’ora in avanti TAL – altrimenti noto come NLP – Natural Language Processing), nonché il punto di partenza per ulteriori analisi linguistiche quali, ad esempio, il parsing sintattico (indicazione della struttura della frase), la gerarchia delle dipendenze o l’annotazione semantica. È generalmente effettuata in modo automatico o semi-automatico con programmi che utilizzano una combinazione di modelli statistici probabilistici (approccio Ngram) e di tecniche TAL. L’analisi sintattica delle dipendenze (d’ora in avanti parsing sintattico) consiste nella definizione dell’analisi della struttura della frase, ovvero scompone la frase nei suoi principali sintagmi attribuendo alle parole funzioni grammaticali, ruoli tematici o logici, e nella maggior parte dei casi fornisce un diagramma ad albero che rappresenta le relazioni tra gli elementi della frase. Il processo intermedio per la produzione della struttura ad albero richiede la consultazione di un dizionariomacchina contenente le parole della lingua e la loro possibile categoria grammaticale, e il confronto con una grammatica che definisce le regole di buona formazione di una frase nella lingua in questione. Si tratta il più delle volte di una grammatica contestuale (context-free grammar) che descrive una porzione di lingua e serve ad associare a una frase un albero sintattico che ne metta in luce le dipendenze sintattiche. I corpora analizzati con un parser sintattico sono detti treebanks (banche di alberi) perché il prodotto dell’analisi corrisponde a diagrammi ad albero delle frasi del corpus.14 Il parsing sintattico compare pressoché in tutte le aree della linguistica computazionale. Una delle sue applicazioni più interessanti è il trattamento di grandi masse di dati per l’annotazione automatica di grandi corpora. Annotazione morfo-sintattica, parsing sintattico e annotazione temporale nel corpus PEI I dati del corpus grezzo sono stati sottoposti alle successive fasi di lemmatizzazione, annotazione morfo-sintattica, parsing e annotazione temporale. 14

I. Chiari, Introduzione alla linguistica computazionale, Laterza, Bari 2007, pp. 101-104.


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Per l’analisi morfo-sintattica dei dati italiani è stato utilizzato TreeTagger,15 un lemmatizzatore e POS tagger sviluppato da Helmut Schmid16 presso l’Istituto di Linguistica Computazionale dell’Università di Stuttgart. È un analizzatore morfosintattico language-independent basato su un approccio probabilistico ‘DecisionTree based’ (basato sul modello predittivo definito ‘albero di decisione’) usato con successo per annotare testi in lingua tedesca, inglese, francese, italiana, olandese, spagnola, bulgara, russa, greca, portoghese e cinese, e adattabile per la lemmatizzazione e l’annotazione di testi in altre lingue in presenza di una base lessicale e di un corpus annotato per l’addestramento del modello computazionale (training). Per l’analisi morfo-sintattica dei testi giapponesi è stato utilizzato MeCab,17 un POS Tagger sviluppato congiuntamente dal Dipartimento di Informatica dell’Università di Kyoto e dall’NTT (Nippon Telegraph and Telephone Corporation), che identifica la parte del discorso, la coniugazione e la forma verbale ed il lessema. I dati sono stati quindi sottoposti a parsing sintattico al fine di ottenere la struttura di dipendenza delle singole frasi necessaria per la successiva fase di annotazione automatica con informazioni temporali. I dati giapponesi sono stati analizzati con CaboCha,18 un analizzatore che effettua sia l’analisi morfologica che quella sintattica sviluppato dal Nara Institute of Science and Technology (NAIST). Per i dati italiani si è utilizzato dapprima l’analizzatore sintattico ‘TULE’,19 uno strumento pensato specificatamente per la lingua italiana i cui risultati hanno però fatto sorgere problemi nella gestione di frasi troppo lunghe e della punteggiatura (abbondanti nella sezione sedute parlamentari). Si è deciso dunque di utilizzare MaltParser20 per costruire un analizzatore sintattico ad hoc addestrato con il corpus italiano ISST CoNLL.21

15

Scaricabile gratuitamente da http://www.ims.uni-stuttgart.de/projekte/corplex/TreeTagger/ (24.01.2012). 16 H. Schmid, “Probabilistic Part-of-Speech Tagging Using Decision Trees”, Proceedings of International Conference on New Methods in Language Processing, Manchester 1994, pp. 44-49. 17 Scaricabile gratuitamente da http://mecab.sourceforge.net/ (24.01.2012). 18 Kudo T., Matsumoto Y., “Japanese Dependency Analysis using Cascaded Chunking”, Proceedings of the 6th Conference on Natural Language Learning 2002 (COLING 2002 Post-Conference Workshops), Taipei, 2002, pp. 63-69. 19 http://www.tule.di.unito.it (24.01.2012). 20 Un software per l’analisi delle dipendenze che può essere utilizzato per indurre un modello di parsing da un Treebank e per analizzare nuovi dati utilizzando il modello indotto. J. Nivre, M. Scholz, “Deterministic Dependency Parsing of English Text”, Proceedings of the International Conference on Computational Linguistics, Geneva 2004, pp. 64-70. 21 TreeBank italiano sviluppato congiuntamente dall’Istituto di Linguistica Computazionale di Pisa e dal Dipartimento di informatica dell’Università di Pisa, e derivato dallo ISST (Italian Syntactic-Semantic Treebank), un corpus annotato di lingua italiana. S. Montemagni, M. Simi, The Italian Dependency Annotated Corpus Developed for the CoNLL – 2007 Shared Task, Technical Report, 2007.


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Fig. 1 Analisi morfo-sintattica.

I dati così analizzati sono stati infine annotati con etichette temporali contenenti informazioni sul tempo e l’aspetto, nonché sulla classe del verbo definita in base alle caratteristiche degli eventi denotati (tab. 2). Con l’ausilio di TAGPEI22 sono state etichettate manualmente 102 coppie di frasi tratte dalla sezione sedute parlamentari, che hanno rappresentato il campione utilizzato per la successiva procedura di annotazione automatica con la quale sono state inserite le etichette <event> e <makeinstance> ed i relativi attributi (tab. 3).

22

Strumento creato per facilitare l’annotazione temporale del corpus PEI (P. Zotti, Tense, Aspect and the Semantics of Event Description. Towards a Contrastive Analysis of Italian and Japanese. LAP Publishing, Saarbrücken 2012, pp. 145-151 e 217-238.). Si desidera ringraziare a questo proposito l’ing. Riccardo Apolloni per aver progettato e implementato l’etichettatore.


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Corpus parallelo giapponese-italiano

Classe del verbo REPORTING

PERCEPTION

Tipologia dei verbi appartenenti alla classe Verbi che descrivono l’azione di dichiarare, comunicare o narrare (It.: dire, Jap.: iu, It:. scrivere, Jap.: kaku, It.: spiegare, Jap.: setsumei suru, It.: presentare, Jap.: happyō suru); Verbi che descrivono eventi che implicano la percezione fisica di un altro evento (It.: guardare, Jap.: miru; It.: ascoltare, Jap.: kiku; It.: notare, Jap.: kizuku; It.: fissare, Jap.: nagameru);

ASPECTUAL

Predicati che codificano informazioni su una particolare fase dell’intervallo di rappresentazione dell’evento. Possono indicare inizio, termine, culmine, continuazione (It.: iniziare a, Jap.: hajimeru; It.: finire di, Jap.: owaru; smettere di, Jap.: yameru; It.: continuare a, Jap.: tsuzukeru).

I_ACTION

Predicati che producono un contesto intenzionale che introduce un argomento esplicito nel testo (It.: provare, Jap.: yatte miru; It.: progettare, Jap.: keikaku o tateru, It.: desiderare (di), Jap.: nozomu).

I_STATE

Stati che fanno riferimento a mondi alternativi o possibili, introdotti da proposizioni subordinate o da sintagmi verbali (It.: credere (che), Jap.: shinjiru; It.: sperare (che), Jap.: negau; It.: sperare (che), Jap.: kitai suru; It.: preoccuparsi (di), Jap.: shinpai suru). Anche I_STATE introduce un evento che denota una situazione stativa come argomento.

STATE

Predicate stativi, circostanze omogenee che durano nel tempo (It.: amare, Jap.: ai suru).

OCCURRENCE

Tutti gli altri verbi che descrivono accadimenti che si verificano nel mondo reale (It.: costruire, Jap.: tsukuru; It.: correre, Jap.: hashiru; It.: mangiare, Jap.: taberu.

Tab. 2 – Classi di eventi.23 Tag

Attributi

<EVENT>

Class: I_ACTION, I_STATE, STATE, OCCURENCE, PERCEPTION, REPORTING, ASPECTUAL, NONE

<MAKEINSTANCE>

Tense: PAST, PRESENT, FUTURE, NONE, INFINITIVE, PRESPART, PASTPART Aspect: PROGRESSIVE, PERFECTIVE, NONE, PERFECTIVE_ PROGRESSIVE, IMPERFECTIVE

Tab. 3 – Attributi delle etichette (tag).

23

Si vedano P. Zotti, Tense, Aspect and the Semantics…, cit., pp. 137-144; R. Saurí, J. Pustejovsky, “Factbank: a Corpus Annotated with Event Factuality”, Language Resources and Evaluation, 43/3, 2009, pp. 227-68.


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Nell’annotazione temporale automatica24 gli attributi delle etichette per i testi italiani sono stati stimati utilizzando due sistemi di apprendimento automatico (machine learning25): BACT,26 un classificatore binario che può gestire dati in ingresso codificati come strutture ad albero e Support Vector Machine, un classificatore binario (utilizzato con l’implementazione di Moschitti che può gestire strutture ad albero – Tree Kernel27). Per i dati giapponesi è stato utilizzato solo BACT. Il corpus etichettato è stato suddiviso in 2 parti, l’80% (256 frasi) per l’addestramento del sistema di apprendimento ed il 20% (65 frasi) per la valutazione dei risultati. Le percentuali di successo dell’annotazione automatica della sezione italiana ammontano all’87,1% per il tempo, all’88,5% per l’aspetto e al 63,2% per la classe degli eventi. Nella sezione giapponese ammontano rispettivamente al 73,3% per il tempo, all’80,78% per l’aspetto e al 36,7% per la classe.28 Non è questa la sede per discutere i risultati dell’‘esercizio computazionale’, ma si può affermare che, nonostante le percentuali ancora al di sotto della soglia del 90%, i risultati sono promettenti per quanto riguarda la stima automatica di tempo e aspetto. La situazione è invece più complessa per la stima della classe degli eventi, per la quale si rende necessaria una risorsa lessicale esterna che fornisca le informazioni necessarie per l’identificazione degli eventi, la loro classificazione e l’aspetto. Gli strumenti per l’interrogazione del Corpus e l’estrazione di dati Gli strumenti utilizzati per l’estrazione di dati dal corpus sono stati essenzialmente due, MLCT- Multilingual Corpus Toolikit – e Chaki, entrambi disponibili gratuitamente. Il primo, che fornisce una raccolta di strumenti per la gestione

24

Si desidera ringraziare Asahara Masayuki, assistant professor presso il Laboratorio di linguistica computazione del NAIST per la costante collaborazione e per l’ausilio nella definizione della procedura di annotazione automatica; si desidera altresì ringraziare il prof. Matsumoto Yuji, direttore del laboratorio, sia per la sua guida, sia per aver messo a disposizione risorse e strumenti indispensabili per la creazione del corpus e per il suo trattamento. 25 L’apprendimento automatico (noto come machine learning), è una branca dell’intelligenza artificiale che utilizza una serie di tecniche statistiche e probabilistiche per permettere ai computer di ‘apprendere’ da esempi passati e di individuare schemi difficili da interpretare da vasti o complessi campioni di dati. Un sistema di apprendimento automatico tipico si crea raccogliendo campioni di dati che rappresentino l’intera popolazione. Il campione è generalmente suddiviso in due parti: una parte utilizzata per lo sviluppo del sistema di apprendimento (training set) e la restante per la valutazione dei risultati (testing set). 26 http://chasen.org/~taku/software/bact/ 27 http://disi.unitn.it/~moschitt/Tree-Kernel.htm 28 Per maggiori informazioni sulla procedura di annotazione automatica si veda P. Zotti, Tense, Aspect and the Semantics…, cit., pp. 151-162.


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di corpora multilingui,29 è stato utilizzato prevalentemente per la visualizzazione dell’intero corpus allineato e per l’estrazione di concordanze parallele. MLCT permette infatti, tra le altre cose, la visualizzazione di due testi a fronte, la possibilità di effettuare ricerche con regular expressions, l’estrazione di concordanze e la loro visualizzazione in formato KWIC - Key Words in Context. Il secondo, pensato per la lingua giapponese ma in grado di gestire anche altre lingue compreso l’Italiano, è un complesso software per la gestione e la ricerca di corpora annotati sviluppato dal laboratorio di linguistica computazionale del NAIST – Nara Institute for Science and Technology,30 che permette di interrogare corpora anche di grandi dimensioni, effettuando diverse tipologie di ricerche: per stringa, per parola, per sequenza di parole, per struttura grammaticale attraverso informazioni lessicali da specificare nei patterns di ricerca e/o di dipendenza. Con Chaki è possibile trattare qualsiasi testo purché preventivamente sottoposto ad un processo di analisi morfo-sintattica che permetta l’utilizzo delle informazioni lessicali etichettate per descrivere pattern di sequenze di parole. Grazie a queste funzioni è stato utilizzato per l’interrogazione del corpus etichettato con le informazioni temporali e per l’estrazione dei dati di interesse.

Fig. 2 Il corpus parallelo.

29 Scaricabile da https://sites.google.com/­site/scottpiaosite/software/mlct (24.01.2012). S. Piao et al., “A Multilingual Corpus Toolkit”, Paper presented at the American Association of Applied Corpus Linguistics – AAACL – Conference, Indianapolis, Indiana, USA, 2002. 30 Matsumoto Y. et al, “An Annotated Corpus Management Tool: ChaKi”, Proceedings of the 5th International Conference on Language Resources and Evaluation, Genoa, 2006, pp. 1418-1421; Matsumoto Y. et al., “Corpus Annotation/Management Tools for the Project: Balanced Corpus of Contemporary Written Japanese”, Proceedings of the 3rd International Conference on Large-scale Knowledge Resources: Construction and Application, Tokyo, 2008, pp. 106-15.


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Fig. 3 Chaki

Fig. 4 Chaki – ricerca per stringa.

Fig. 5 Chaki – visualizzazione struttura di dipendenza (sx) e contesto (dx).

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Corpus parallelo giapponese-italiano

Fig. 6 – Chaki – visualizzazione attributi.

Conclusioni Con il presente contributo sono stati illustrati i passaggi e le metodologie per la compilazione di un corpus parallelo, nonché gli strumenti per la sua interrogazione. Il corpus PEI è stato creato ai fini di un’analisi contrastiva sulla semantica degli eventi e sulle loro realizzazioni temporali e aspettuali. L’annotazione temporale lo rende particolarmente utile per coloro che lavorano in ambiti che richiedono un’analisi temporale dettagliata nelle due lingue, ma i dati possono essere utilizzati anche in altri settori, dal trattamento automatico del linguaggio che utilizza i corpora elettronici per la costruzione di parser, tagger e lemmatizzatori, agli strumenti di traduzione assistita che si giovano di dati allineati per la predisposizione di memorie di traduzione e banche dati terminologiche. Il modello proposto per trattare ed elaborare i testi può essere particolarmente utile in contesti accademici, in quanto i software utilizzati sono disponibili gratuitamente, le risorse possono essere impiegate a fini didattici 31 e i dati possono essere consultati anche direttamente da parte di studenti che vogliano accedere a testi paralleli. PEI è ancora un corpus imperfetto da molti punti di vista: dimensioni, natura delle traduzioni, coerenza dell’annotazione temporale. È necessario continuare ad acquisire e trattare una maggiore quantità di dati per aumentare il campione e migliorarne la rappresentatività, è auspicabile migliorare la coerenza dell’annotazione temporale attraverso una più rigorosa definizione delle informazioni, e continuare a lavorare sulla procedura automatica per affinarne le tecniche e aumentarne le percentuali di successo. Nonostante ciò, ci si augura che possa rappresentare un primo e importante punto di partenza per quanti si dedicano a studi che si avvalgono dell’utilizzo di dati facilmente comparabili nelle due lingue. 31

I. Chiari, Introduzione alla linguistica..., op. cit., pp. 152-163. Chujo, K. et al, “Reflection on Corpora and their Use in Cross-linguistic Research”, in F. Zanettin, S. Bernardini and D. Stewart (a cura di), Corpora in Translator Education. St. Jerome, Manchester 2003, pp. 101-112.


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Building a Japanese-Italian Parallel Corpus Methodologies and Applications In this paper we present a Japanese-Italian parallel corpus consisting of newspaper articles, parliamentary proceedings and novels, built in the framework of a Ph.D. research aiming at a contrastive analysis on the event’s semantics. We illustrate the processing steps necessary to compile such texts into a parallel corpus and the annotation chain involving normalisation, segmentation, alignment, pos tagging and parsing. Given the lack of parallel resources in Japanese and Italian we believe that the parallel corpus, though still limited in size, may represent a relevant base of data for comparable linguistic analysis as well as second language teaching.

日本語・イタリア語並列コーパスの構築 方法論と応用分野

パトリツィア・ゾッティ 本論文では、新聞記事、国会議事、小説等を原資料とする日本語・イ タリア語並列コーパスを提示する。 また、上記の各種テキストから並列コーパスを構成するための正規 化、セグメンテーション、整列、品詞タグ付けと構文解析などの加工 段階、さらに収集した対訳文の特徴、ならびに、同コーパスの利用の 可能性を解説する。 日本語・イタリア語並列データは現時点では存在しないため、同コー パスは、未だ小規模であるとはいえ、言語比較分析や第二言語教育の ための重要なデータベースになりうると考える。



Profilo autori

Fabiana ANDREANI (andreanifab@gmail.com) è dottore di ricerca in Teoria delle lingue e linguaggio presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. Ha studiato presso la Kansai Gaikokugo Daigaku di Osaka e ha trascorso un periodo come ricercatrice presso la Scuola Italiana per gli Studi sull’Asia Orientale di Kyoto e l’Institute for Research in Humanities dell’Università di Kyoto. Attualmente collabora con l’Università di Kobe per un progetto di ricerca multilingue sui verbi di movimento. I suoi interessi scientifici si orientano verso la linguistica cognitiva, la pragmatica, la semantica e la sociolinguistica. Paolo CALVETTI è Professore Ordinario di Lingua e Linguistica Giapponese presso l’Università di Venezia Ca’ Foscari. È Direttore della Scuola di Studi Asiatici e Gestione aziendale presso lo stesso ateneo. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla linguistica giapponese e la glottodidattica. In particolare ha studiato l’evoluzione dei lessici specialistici durante la modernizzazione del Giappone, le politiche di pianificazione dell’istruzione linguistica nel Giappone fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’evoluzione della lingua parlata nel Giappone moderno. Ha diretto il progetto del Grande Dizionario Giapponese-Italiano (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente - Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”). Giorgio FABIO COLOMBO (gfc@giorgiofabiocolombo.com) è Assistant Professor of Law all’Università di Nagoya. In precedenza, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in Diritto privato comparato (Università di Macerata), è stato docente di Diritto giapponese presso l’Università Ca’ Foscari Venezia, assegnista di ricerca presso l’Università di Pavia, e visiting researcher (JSPS Postdoctoral Fellow, 2011-2012) presso l’Università Ritsumeikan di Kyoto. Le sue ricerche si focalizzano sul diritto giapponese contemporaneo (con particolare riferimento alla risoluzione delle controversie) e sull’arbitrato. Marco DE BAGGIS (ennogyoza@hotmail.com) è laureato in Lingua e letteratura giapponese presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si interessa di letteratura giapponese classica e di storia e civiltà bizantina. Ronald P. DORE (rdore@alinet.it) è uno dei massimi esperti mondiali di economia, società e cultura giapponesi. Già docente al MIT, ad Harvard, alla British Columbia University e all’Institute for Economic Growth di Delhi, è stato associate


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Giappone, storie plurali

researcher della London School of Economics. Tra le sue recenti pubblicazioni in italiano: Bisogna prendere il Giappone sul serio (Il Mulino, 1990), Capitalismo di borsa o capitalismo di welfare? (Il Mulino, 2001), Il lavoro nel mondo che cambia (Il Mulino, 2005), Finanza pigliatutto (Il Mulino, 2009). Sonia FAVI (soniafavi@gmail.com) è dottoranda presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Si interessa di storia del Giappone premoderno e moderno, con particolare attenzione alla storia dei rapporti fra Giappone ed Europa, e di bibliografia storica. Edoardo GERLINI (edoardo.g@gmail.com) si è dottorato nell’aprile 2011 alla Scuola di Dottorato in Lingue culture e società dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Attualmente sta conducendo un post-dottorato sostenuto dalla Japan Society for the Promotion of Science presso l’Università di Tokyo con una ricerca comparata sulla letteratura cortese giapponese e italiana. Giuseppe GIORDANO (g.giordano@gmail.com) è dottorando presso l’università Dōshisha di Kyōto e insegna lingua e letteratura giapponese all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si interessa di poesia giapponese classica. HAYASHI Naomi (naomi884@gmail.com) è lettore di scambio culturale di lingua giapponese presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. È laureata e ha conseguito il master e il dottorato in Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Tokyo. Si interessa di letteratura moderna e contemporanea sia italiana sia giapponese, e anche di storia e letteratura giapponese Nara e Heian. Claudia IAZZETTA (claudiaiazzetta@gmail.com) è dottoranda presso l’università Ritsumeikan di Kyōto e insegna lingua e letteratura giapponese all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si interessa di teatro nō e di letteratura classica giapponese, con particolare attenzione alle epoche di Kamakura e Muromachi. Yacine MANCASTROPPA (stellarossa_y@libero.it) si è laureata nel 2010 in Lingue e civiltà dell’Asia orientale, presso l’università Ca’ Foscari Venezia, con una tesi dal titolo Okinawa 1945/2010. Una colonia in Giappone: basi militari americane e violenza sulle donne. Si occupa principalmente di storia contemporanea del Giappone. Fabiana MARINARO (fabiana.marinaro@postgrad.manchester.ac.uk) si è laureata in Lingue e istituzioni economiche e giuridiche dell’Asia Orientale nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. I suoi principali interessi di ricerca sono il diritto giapponese e le politiche per l’impiego in Giappone. È attualmente dottoranda in Japanese Studies presso l’Università di Manchester.


Profilo autori

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Caterina MAZZA (caterinamazza@unive.it) è Professore a contratto di lingua e letteratura giapponese presso l’Università degli Studi di Bergamo e l’Università Ca’ Foscari Venezia. Si occupa di letteratura giapponese contemporanea, in particolare della riscrittura parodica del canone moderno negli anni ’90 e dei rapporti tra parodia e traduzione. Rossella MENEGAZZO (rossella.menegazzo@unimi.it) è professore associato di Storia dell’arte dell’Asia Orientale presso l’Università degli Studi di Milano. Principali interessi di ricerca sono i linguaggi dell’arte contemporanea in Giappone e in Asia Orientale: fotografia, grafica, design. Ha curato diversi convegni ed eventi espositivi, tra gli ultimi: Mario De Biasi. Changing Japan 1950-1980 (JCII Japan Camera Museum, Tokyo 2011); Graphic Design dal Giappone. 100 poster 20012010 (Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia 2010); Corpo e anima della scrittura tra Oriente e Occidente (Fondazione Cini, Venezia 2010). Toshio MIYAKE (miyake@unive.it) è Ricercatore Marie Curie all’Università Ca’ Foscari Venezia. Si occupa di Occidentalismo, Orientalismo e auto-Orientalismo nei rapporti Italia-Giappone in relazione ai temi dell’egemonia, nazione, razza/etnia, genere. Ha pubblicato una monografia sulle rappresentazioni dell’“Occidente” e dell’“Italia” in Giappone (Occidentalismi, 2010), e saggi sulle culture popolari nipponiche (letteratura, manga, anime, subculture giovanili). Daniela MORO (strolegada@yahoo.it) è dottoranda presso il Dipartimento di Studi sull’Asia Orientale dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Si interessa del rapporto tra letteratura giapponese contemporanea e teatro tradizionale giapponese, in particolare sotto l’aspetto dei gender studies. Giuseppe PAPPALARDO (gius.pappalardo@gmail.com) è dottorando di ricerca presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e svolge una ricerca sulla relazione storica tra il jōdai tokushu kanazukai e i vocalismi dei dialetti delle Ryūkyū. Ha trascorso diversi anni presso la Tokyo University of Foreign Studies dove si è specializzato in linguistica giapponese. Si interessa di storia della lingua giapponese, dialettologia ryukyuana e fonologia storica. Daniele RESTA (daniele.resta@gmail.com), borsista del Monbukagakushō dal 2009, è dottorando di ricerca presso il Dipartimento di Lingua e Cultura giapponese dell’Università Daitō Bunka di Tōkyō. Si interessa di letteratura e cultura visiva, con particolare riferimento alle rielaborazioni del classico nel moderno. Stefano ROMAGNOLI (stefano.romagnoli@studiorientali.it) è dottorando in letteratura giapponese presso il dipartimento di Studi Orientali del “La Sapienza”, Università di Roma. Si occupa di letteratura di guerra e letteratura di viaggio, con particolare attenzione alle rappresentazioni sociali e alle problematiche dell’alterità.


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Giappone, storie plurali

Satō Dōshin è professore ordinario di Storia dell’Arte presso la Tōkyō Geijutsu Daigaku, e dal 1981 è curatore dell’Itabashi Museum of Art di Tokyo. Noto per i suoi studi sull’arte giapponese moderna e sui rapporti artistici e culturali fra il Giappone dell’epoca Meiji (1868-1912) e l’Occidente, fra le sue numerose pubblicazioni si annoverano Birth of Japanese Art (Kodansha Ltd, 1996) e Meiji Nation and Modern Japanese Art (Yoshikawa-Kobunkan, 1999). Marco SIMEONE (marco.simeone77@gmail.com) dopo un periodo di studio in Giappone come borsista del Governo Giapponese, ha completato il dottorato in Studi Asiatici presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Si occupa di letteratura popolare, in particolare dei jidai shōsetsu prodotti tra gli anni Venti e il periodo a ridosso della Seconda Guerra Mondiale. Mario TALAMO (dilandou1@hotmail.com) è dottore di ricerca in Asia Orientale e Meridionale presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si interessa di letteratura del tardo periodo Edo, in particolare di gesaku. Marco TINELLO (marcotinello@hotmail.com) è Dottorando di ricerca in Lingue e civiltà dell’Asia e dell’Africa mediterranea presso l’Università Ca’Foscari Venezia. Si interessa della diplomazia del bakufu Tokugawa, in particolare dei rapporti tra il Giappone (Satsuma/bakufu) e le Ryūkyū durante il periodo Edo. Patrizia ZOTTI (zottip@gmail.com)si è addottorata nel 2011 presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” nell’ambito del dottorato in Asia Orientale e Meridionale. Dal 2008 al 2010 è stata visiting researcher presso il laboratorio di Natural Language Processing del NAIST - Nara Institute of Science and Technology e presso l’ISEAS di Kyoto. Si occupa di semantica degli eventi e linguistica dei corpora.

i libri di

EMIL

w w w. i l i b r i d i e m i l . i t

Finito di stampare nel mese di Luglio 2013 presso lo stabilimento di l.e.g.o. Spa - Lavis (Tn)



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Costruire un corpus parallelo giapponese-italiano. Metodologie di compilazione e applicazioni

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Analisi contrastiva dell'inventario fonetico giapponese/italiano. Per una trascrizione fonetica del giapponese standard

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Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?

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Il danno da karōshi: nuove frontiere della responsabilità civile in Giappone

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