dialoghi
di riflessione cristianaUna diocesi rinnovata per il vescovo che verrà
Alcune piste da percorrere tutti insieme
Siamo tutti in transizione, tra due tempi, sia in prospettiva ravvicinata e locale, che in quella della storia universale. Non a caso la rivista animata dal teologo svizzero Karl Barth tra il 1923 e il 1933 portava il titolo Zwischen den Zeiten , a significare sia la situazione tedesca negli anni di transizione tra la repubblica di Weimar e il regime nazista, come pure la costante situazione in cui si trova a vivere il cristiano, tra la memoria della venuta di Cristo nella storia umana e il suo ritorno alla fine dei tempi. Noi di «Dialoghi» intendiamo riflettere in questo frangente di transizione sullo stato della diocesi ticinese, dopo le dimissioni del vescovo Valerio Lazzeri, e durante la fase transitoria dell’Amministratore
apostolico Alain de Raemy. Volgendo lo sguardo a quanto abbiamo osservato il 23 novembre scorso, abbiamo visto una grande folla che ha voluto salutare il vescovo dimissiorario per ringraziarlo del suo servizio prestato alla diocesi ticinese. Anche la nostra redazione si unisce nell’esprimere al vescovo Valerio il vivo ringraziamento per quanto ha fatto per i cattolici del nostro cantone e gli augura di ritrovare presto serenità per continuare il servizio pastorale che maggiormente corrisponda alla sua vocazione più profonda. Due sue affermazioni recenti ci devono far riflettere, poiché non riguardano solo l’esercizio del suo ministero, bensì anche l’operare di ogni cattolico che vive e opera in questa realtà locale.
«Prima di tutto io sono un pastore, non un amministratore. Non ho scelto di dare la mia vita al Signore per comandare o per essere a capo di una struttura articolata e con esigenze formali così forti. Ero consapevole di questa dimensione e ho cercato di fare del mio meglio»;
«Questi aspetti (di governo e di rappresentanza, n.d.r.) sono sempre stati lontani da tutto ciò che il ministero mi aveva portato a coltivare in precedenza».
Queste affermazioni che riprendiamo dal CdT dell’11 ottobre scorso mettono in evidenza le difficoltà strutturali entro cui il vescovo Valerio doveva esercitare il suo ministero
e ci spronano a guardare con maggiore attenzione alla situazione della diocesi e ai suoi problemi che evidentemente non cambiano automaticamente con la venuta dell’amministratore apostolico Alain de Raemy, cui pure auguriamo di cuore un inizio di ministero, prezioso e necessario, anche se transitorio. Il prelato friburghese non fa parte evidentemente del clero ticinese, come recita il concordato attualmente vigente, e quindi non può diventare il nostro prossimo vescovo. La situazione transitoria entro cui è chiamato a operare non è certo allettante per lui, ma essa ha perlomeno un vantaggio: egli può guardare alla situazione delle parrocchie, delle istituzioni e delle regioni, come pure del personale che opera in diocesi, senza pregiudizi di parte e senza necessariamente far proprie le proposte che eventualmente gli saranno sottoposte da coloro che finora hanno gestito i cosiddetti affari correnti.
Non vogliamo qui, nello stretto ambito di un editoriale, metterci anche noi a far proposte al vescovo de Raemy. Ci limitiamo a comunicare a coloro che ci leggono alcune nostre impressioni, condivise in redazione, che caratterizzano il sentire e l’operare di molti cattolici ticinesi. Tra di essi convivono, infatti, tendenze alquanto diverse e tra loro conflittuali, sia per quanto attiene alla loro concezione di Chiesa sia per le scelte organizzative da intraprendere e coltivare. Gruppi di orientamento diverso operano sul territorio ignorandosi comunque a vicenda e rivendicando nel medesimo tempo la loro piena adesione al cattolicesimo. Ai margini, alcuni gruppi tradizionalisti vivono la loro fede rimanendo a lato delle parrocchie, altri aderiscono a «movimenti», che, pure molto attivi, non animano direttamente la vita delle parrocchie. Quest’ultime sono a loro volta molto diverse tra loro e, a differenza dei comuni, non accennano a federarsi anche giuridicamente, preferendo la via delle convenzioni con le «nuove città» sorte dal raggruppamento intercomunale. Siamo coscienti delle complessità dei problemi legati
alla trasformazione del territorio ticinese e ai suoi riflessi, anche per la strutturazione delle comunità cattoliche e non vogliamo evidentemente proporre all’Amministratore apostolico soluzioni che vanno ben al di là del periodo di transizione che egli ora si trova a gestire.
La diocesi ticinese ha vissuto nei decenni che hanno preceduto, accompagnato e seguito il Concilio vaticano secondo periodi di particolare vivacità e persino di pratica d’avanguardia. I membri della nostra redazione, per la gran parte donne e uomini ora alquanto attempati, ricordano, con affetto venato da un po’ di nostalgia, gli anni che hanno preceduto il Concilio, in cui in Diocesi il rinnovamento liturgico era intensamente seguito e praticato, precedendo persino quanto si praticava in Italia. La formazione del clero avveniva modestamente in un seminario in cui insegnavano preti e laici competenti che hanno formato quelle generazioni di preti che hanno dato il meglio di sé durante gli anni dei lavori conciliari. Durante gli anni ’70 del secolo scorso, i cattolici svizzeri hanno seguito attivamente i lavori dei sinodi diocesani e di quello nazionale, anche se poi i documenti usciti da quegli incontri non furono tradotti in pratica, anche perché gli organismi romani che li avevano ricevuti non diedero alcun seguito alle suggestioni proposte.
A cinquant’anni di distanza, la diocesi, come d’altra parte tutta la cattolicità, vive in pieno una crisi da cui molti di noi vorrebbero poter uscire, anche se i passi da fare non sono solo faticosi, bensì talvolta resi difficili dalla conflittualità interna a tutti i livelli.
«Dialoghi» esprime i suoi migliori auguri all’amministratore apostolico, auguri di poter portare a buon fine il grande impegno che si è assunto, e gli assicura la propria piena disponibilità all’incontro, al dialogo e all’impegno per un rinnovamento della convivenza in diocesi.
Anche se non sappiamo ancora chi sarà il futuro vescovo di Lugano, osiamo esprimere la speranza che egli possa trovare una diocesi rinnovata e volonterosa ad accoglierlo. Per rendere un po’ più concreta questa nostra speranza, vorremo accennare a due nodi che ci hanno preoccupati nel passato e che sono di permanente attualità.
Il primo riguarda il rinnovamento liturgico, che deve poter trovare nuove energie, per uscire dalla routine in cui esso si è troppo spesso installato. Con il rinnovamento liturgico, evochiamo pure la necessità di una riqualificazione biblica e teologica della predicazione, elemento centrale ed essenziale di ogni celebrazione liturgica. Chi dice predicazione evoca al contempo immancabilmente la situazione del clero e della sua qualificazione teologica in vista di una predicazione che sia vicina al Messaggio da trasmettere e alla situazione esistenziale di coloro che l’ascoltano.
Qui si manifesta una forte differenza tra la situazione concreta della diocesi ticinese e quella delle altre diocesi svizzere, con cui, dobbiamo ammetterlo, i contatti sono molto ridotti. Mentre in altre parti del nostro Paese le comunità locali sono animate e dirette da laici e laiche teologicamente formati pure in assenza di preti, in Ticino si è voluto affidare l’animazione delle comunità locali solo a preti, ora in gran parte provenienti da contesti culturali e sociali molto diversi da quelli presenti nel nostro cantone.
Molta carne al fuoco, come si può ben vedere. Non intendiamo qui proporre una mappa esaustiva dei problemi da trattare e possibilmente da risolvere. Solo vogliamo evocare alcune piste da percorrere tutti assieme, sia nella transizione animata dall’Amministratore apostolico de Raemy sia dal futuro vescovo di Lugano. Ad entrambi auguriamo di saper guidare la navicella cattolica ticinese su un lago quanto mai mosso, ma di cui non vogliamo avere paura.
Dialoghi
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Politica come carità: la testimonianza del b. Federico Ozanam (1813-1853)
delle rivoluzioni, fu a lungo ignorata dai cattolici e come tenuta nascosta dietro forme di beneficenza generose ma tenute lontano dalla politica, ossia dalle necessarie riforme a livello politico e sociale: detto in altri termini, una carità efficace sul piano del rapporto privato ma senza conseguenze sul piano pubblico, quello delle legislazioni e dei rapporti di potere, per esempio tra padronato e sindacati.
Dobbiamo essere grati a Maurizio Ceste, che ci offre in un denso volume il meglio della testimonianza politica e sociale di Ozanam attraverso la pubblicazione di una selezione di lettere e articoli1
«Il primo amore»
Sarebbe ingenuo pensare che il fondatore delle Conferenze di San Vincenzo sia nato democratico.
Nei venti secoli che ci separano dalla testimonianza degli apostoli, le Chiese cristiane hanno conosciuto crisi e cambiamenti epocali circa il giudizio da dare sull’organizzazione dell’umana convivenza. Il passaggio tra monarchia e democrazia come legittimo modo di governare gli Stati fu uno di questi e divise i cristiani, i cattolici in particolare, durante l’Ottocento. Questo conflitto lasciò sul terreno vinti e vincitori (come tali riconosciuti magari solo dopo la morte); esempi si possono trovare anche nella piccola storia del Canton Ticino. Un punto sul quale ci fu divisione anche tra i cristiani era il giudizio da dare circa il formarsi delle grandi masse che lasciavano l’agricoltura e si trasferivano senza mediazioni nella vita miserabile delle grandi agglomerazioni urbane.
La carità cristiana fu a lungo equivocata come alternativa alla giustizia da conseguire attraverso il confronto politico. Si fu lenti a capire che i problemi erano, sì, una conseguenza negativa del progresso economico, ma anche di una ineguale ripartizione dei diritti politici. A lungo il conflitto poté essere nascosto e persino negato con la pratica della beneficenza, tanto che la fondazione di sindacati, anche di sindacati cristiani, fu per molti decenni controversa e criticata.
Il superamento di questo errore di giudizio è divenuto un bene comune: il magistero dei papi, da Leone XIII, lo ha confermato per i cattolici con l’enciclica «Rerum novarum» del 1892 e il magistero dei suoi successori. Si è poi scoperto che la coscienza dei migliori si era destata almeno mezzo secolo prima. È ormai abbondante la bibliografia circa l’azione dei novatori e dei primi «sindacalisti» cristiani. Uno sguardo nuovo è stato posato così anche sul modo, non esente da incertezze e da errori, con cui il fondatore delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli: Federico Ozanam (1813-1853) tentò fra i primi di congiungere nel tempo in cui viveva – la prima metà dell’Ottocento – fede e giustizia.
La rivoluzione nelle menti e nelle cose
Chi ha letto Victor Hugo o Charles Dickens ha presente la condizione miserrima delle basse classi sociali di Parigi o di Londra nell’Ottocento, chi ha letto Proust si rende conto del velo di ignoranza che teneva separate le classi agiate dalle classi popolari. Con umiltà dobbiamo riconoscere che la testimonianza di Federico Ozanam, uno dei primi ad accorgersi che in quella condizione maturava il germe
«Sotto casa ho visto un proclama che annuncia che Carlo X non può più regnare, che il popolo insedia sul trono il Duca di Orléans e gli impone la Costituzione! E in base a quale articolo della Carta è permesso al popolo di disporre, di eleggere? E poi, quando si sarà riunita la Camera al completo, con quale diritto delibererà senza l’approvazione del re e dei pari?»2
Ozanam aveva appena quindici anni e rifletteva la dottrina cattolica del suo tempo. A dominare era la tesi dello scrittore e diplomatico Joseph de Maistre (1753-1821) riassunta nelle «Soirées de Saint-Petersbourg»: «La rivoluzione è un peccato sociale in quanto distruzione dell’ordine naturale – e, dunque, legittimo – voluto o permesso da Dio, essendo l’autorità divina a legittimare la sovranità politica e qualsiasi potere terreno. Essa è anche un castigo divino inflitto per le mancanze religiose della Francia e gli errori del suo popolo e della sua classe dirigente».
Nella «Storia della Compagnia di Gesù in Italia» (1814-1983) di Giacomo Martina (Morcelliana, 2003) si trova un’indicazione preziosa di come il verbo di De Maistre fosse assunto dogmaticamente da parte dei cattolici tornati al potere dopo la parentesi della Rivoluzione francese. La nuova dogmatica assunse il motto: «La vérité
seule doit être libre, l’erreur doit êre réprimé», come scriveva nel 1831 uno dei più stretti collaboratori del p. Rootham, maestro generale dei gesuiti fino al 1853. Il risultato fu un conflitto con i liberali pagato con il sequestro dei conventi; la chiusura delle scuole tenute dai religiosi, la dispersione degli studenti e degli insegnanti. I gesuiti furono esclusi esplicitamente: così per esempio nella prima costituzione svizzera, del 1848.
La scoperta della politica Per fortuna, ai cattolici non era negato di fare la carità e il nome di Federico Ozanam scomparve sotto il rimando a un Santo che del resto egli stesso aveva indicato: San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), il confessore di re e regine che indicava la visita e l’incontro personale dei poveri come alternativa al rinchiudersi nei conventi da parte delle ragazze di buona famiglia. Il modello vincenziano fece scuola, i meno giovani tra noi ricordano le religiose attive negli ospedali, distinte dalla famosa cornette , il copricapo delle contadine francesi. Dal germe vincenziano fiorì un’organizzazione che, oggi, nel mondo, impegna un milione e mezzo di volontari riuniti in 48mila «conferenze» diffuse in 152 Paesi. La figura di Ozanam fu recuperata a poco a poco, ma la sua testimonianza politica rimase negletta fino agli ultimi decenni.
Una prima serie di scritti riportati nel volume curato dal torinese Maurizio Ceste nasce nel periodo 1830-1845, cioè tra i venti e i trentacinque anni di vita di Ozanam. Nel trattato «Del progresso attraverso il cristianesimo»3 – uno dei primi riportati nel volume – Ozanam sostiene il concetto di «progresso», pur precisando che potrà restare umano solo se illuminato dal cristianesimo e guidato dalla fede in Dio. Pur nutrendo ancora rispetto per la monarchia, egli comincia a vagheggiare «una repubblica cristiana della Chiesa primitiva di Gerusalemme, con i principi di autorità e libertà che hanno come scopo finale la carità»4.
È carità, secondo Ozanam, aprire gli occhi sulla società, preoccuparsi che la situazione degli operai sia diventata simile a quella degli schiavi nel passato. Il conflitto tra povertà e ricchezza domina negli scritti che la raccolta di Ceste riporta. «Se è lo scontro violento tra l’opulenza e la povertà che fa tremare il suolo sotto i nostri passi, il nostro dovere di cristiani è di interporci tra questi nemici irriconciliabili»5
Ozanam scopre che «la questione che divide gli uomini dei nostri giorni non è più una questione di forme politiche ma una questione sociale: si tratta di sapere chi avrà la meglio, se lo spirito dell’egoismo o lo spirito del sacrificio; se la società non sarà altro che un grande sfruttamento a profitto dei più forti o la consacrazione di ciascuno al bene di tutti e specialmente alla protezione dei deboli» 6. L’impegno dei cristiani è ancora descritto in termini di equidistanza: «In nome della Carità, i cristiani si frappongano fra i due campi, che vadano come transfughi benefici dall’uno all’altro campo, che ottengano dai ricchi molte elemosine, dai poveri molta rassegnazione»7. È una posizione non ancora matura. Il prendere partito politicamente sarà per gli anni delle rivolte di piazza.
Nel ’36, a Parigi, Ozanam conclude gli studi con il dottorato in diritto. Il suo tempo è soprattutto occupato dallo studio e alla realizzazione delle reti di volontari per la visita ai poveri. Nel 1839 consegue un secondo dottorato alla Sorbona, in italiano, con una tesi su Dante, nel 1840 ottiene la cattedra di letteratura straniera. Da Amélie Soulacroix, sposata nel 1841, ha una figlia: Marie. Il biografo annota per la prima volta che la sua salute inizia a dar segni di fragilità.
L’illusione (l’equivoco?) di Papa Pio X Nel 1832 la missione a Roma del presbitero, filosofo e teologo Félicien de Lamennais dovette comunque sconvolgere l’animo sensibile di Federico, lettore de «L’Avenir», il giornale pubblicato dal religioso. L’appoggio esplicito del Papa, Gregorio XVI, alla repressione della rivoluzione polacca del 1831, aveva impressionato Lamennais al punto di suggerirgli un viaggio al centro della cristianità, per spiegare al sommo pontefice le sue tesi contrarie all’uso della forza: «Parole di un credente» era il titolo del libretto che Lamennais pubblicava a sostegno delle sue idee riformiste. Il Papa rispose con un’enciclica («Mirari vos»), che gli dava torto su tutta la linea e per qualche anno la voce dei novatori fu ridotta al silenzio.
Ma papa Gregorio non era eterno e alla sua morte, nel 1846, il Conclave elesse al pontificato il vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti. Dalla concessione di un’amnistia per i reati politici al varo di una costituzione per lo stato pontificio, per tre anni papa Pio IX assunse le fattezze di un papa
liberale e di difensore delle aspirazioni della nazione italiana. Anche Ozanam ne fu entusiasta, si recò due volte a Roma, venne ricevuto dal nuovo papa, manifestando entusiasmo per la sua politica8.
«Rallegriamoci, il Cielo ha fatto più di quel che noi chiedessimo. Ha innalzato alla cattedra di Pietro un santo, quale forse il mondo non aveva visto dopo il pontificato di Pio V. Non sono il solo a dire questo, lo dico con Roma, la città più credente, ma forse anche più maldicente dell’universo, e tuttavia la maldicenza delle lingue romane, spietata verso i papi e i cardinali, non è riuscita a trovare presa sulla giovinezza del pontefice che ha visto, laico, confuso nella folla elegante dei saloni e destinato alla carriera militare. Questa purezza costituisce ancor oggi l’ammirazione non dei soli devoti, ma di tutti, di un popolo che ha passioni violente ma che ama vederle sconfitte. (…) Era proprio il pontefice necessario a un secolo che tra le virtù cristiane onora solo la carità e che si arrende solo all’ascendente delle buone opere»9
Il documento che meglio riassume il pensiero di Ozanam a questo punto, forse il punto culminante riassuntivo della sua valutazione e delle sue aspirazioni, è l’articolo: «I pericoli di Roma e le sue speranze» pubblicato da Le Correspondant il 10 febbraio 1848. È una strenua difesa del nuovo papa. Ozanam sottolinea le riforme da lui varate, lo elogia in confronto a quello che hanno o non hanno fatto gli altri regnanti in Italia, difende il popolo italiano che, al di là dei soliti luoghi comuni, anela alla libertà e vede in Pio IX un liberatore. «Per questo – osserva Ceste10 – Ozanam ritiene che solo il popolo, con l’aiuto del papato, potrà trovare la sintesi tra religione e libertà, per costruire un mondo nuovo. L’articolo si conclude esprimendo sfiducia, delusione e amarezza verso i regnanti, verso la cultura ufficiale e quella da salotto. Furono i barbari, dice, a contrastare i vizi di Bisanzio e a rivendicare le ingiustizie fatte alla Chiesa addolcendo i loro rozzi costumi, mentre il popolo civile, precipitato negli ozi e nella corruzione dei costumi, tornava alla barbarie»11.
L’articolo, lunghissimo, non rimane senza risposta. Amici e colleghi obiettano, Ozanam risponde. Ma gli avvenimenti precipitano. È il 1848, l’anno dei tumulti in tutta Europa, in autunno il papa sarà costretto a
fuggire da Roma per evitare di essere sequestrato dalle fazioni popolari radicali. «Ozanam – scrive Ceste –pare ignaro di quel che sta accadendo. A Parigi, il 22 febbraio, studenti e operai si sono riversati davanti alle Tuileries, sede del governo, per reclamare la riforma della legge elettorale, primo atto della cosiddetta “rivoluzione di febbraio” che porterà all’abdicazione di Luigi Filippo, l’istituzione di un governo provvisorio e alla proclamazione della “seconda repubblica”».
Il giudizio di Ozanam è connotato da una certa ingenuità:
«La rivoluzione che inizia mi sembra tutt’altra che quella del 1830, innanzitutto meno sanguinosa, considerato che il numero delle vittime non raggiunge i 1200 tra morti e feriti, molto meno contestata, poiché il regime che termina si è difeso appena e non lascia dietro di sé, come accadde per la Restaurazione, un grande partito che gli conserva un legame religioso. Tutti disperano nella monarchia, tre volte provata in meno di cinquant’anni e che tre volte si è rivelata essere incapace. Tutti quanti sono decisi a fare l’esperienza di una nuova forma di governo»12
A suo fratello, il quale si inquieta per le posizioni assunte da lui, manda a dire:
«Ecco in poche righe quel che facciamo e cosa diventiamo (…). Organizzeremo corsi pubblici per gli operai. Andremo nei “club” per opporci alle idee sovversive che vi si potrebbero proporre. Ci accorderemo per ottenere dei probi rappresentanti, devoti e religiosi. Ed è per questo che bisogna coinvolgere tutte le persone oneste che conosci. Niente pusillanimità, niente vigliaccheria, nessuno scoraggiamento. In fondo il loro motto “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” è il Vangelo stesso. Nulla è perduto se impediamo di scostarsene. Tutto è perduto se non ci facciamo vedere».13
«Fatale» 1848
Si raggiunge a questo punto la vetta delle argomentazioni politiche di Ozanam: una vetta, va aggiunto, purtroppo vicina al manifestarsi della malattia che lo porterà alla morte, a soli 40 anni. Il volume curato da Ceste dedica moltissime pagine a quell’anno fatale, anche perché Ozanam, fondato un nuovo giornale – L’Ère nouvelle – vi scrive quasi ogni settimana articoli che descrivono il suo sforzo di capire il proprio tempo e di giustificarsi davanti a chi lo ritiene, lui, Ozanam, «passato ai barbari». Ceste riporta moltissime lettere, per esempio a Joseph Théophile Foisset (1800-
Vincenziani e vincenziane in Ticino
Il movimento che prende il nome da San Vincenzo de Paoli (15811660), fondato a Parigi da un circolo di giovani universitari riunito attorno a Federico Ozanam (18131853), che la Chiesa ha proclamato «beato» nel 1997, esiste in Ticino dalla fine dell’Ottocento. La prima «conferenza» fu fondata nel 1885 a Locarno, la più recente è quella di Mezzovico, fondata nel 2007. Le attuali 11 conferenze sono inegualmente distribuite nel territorio: sei nel Luganese, due nel Mendrisiotto, due nel Locarnese, una nel Bellinzonese. I membri attivi nel Cantone sono 133: 79 uomini e 54 donne. Le «conferenze» sono rappresentate nel «Consiglio delle Conferenze di San Vincenzo de Paoli», che ha lo scopo di coordinare le attività caritatevoli promosse in sede locale e di prestare aiuto in caso di necessità locali urgenti o importanti. Lo statuto è conforme alle disposizioni emanate da un consiglio a livello svizzero, a sua volta parte dell’organizzazione mondiale che ha sede a Parigi. Il movimento vincenziano è attualmente presente in 154 Paesi, con un totale di volontari stimato in 2,3 milioni. In Ticino le «conferenze» sono vici-
1873), magistrato e letterato di Digione, e al fratello Federico, oppure al giornale «Le Correspondant», fondato nel 1829 e portavoce di altri cattolici aperti al cambiamento. Al fratello Alphonse ribadisce che, per quanto riguarda le alleanze politiche, l’unica possibilità è quella di unirsi con il popolo, vero alleato della Chiesa, piuttosto che con la borghesia ormai sconfitta14
Il 30 marzo, in una lettera a Louis Gros, lionese, giurista, il quale aveva studiato con lui a Parigi e aderito alla San Vincenzo, annuncia che gli amici di Lione hanno deciso di candidarlo alle elezioni per l’Assemblea costituente convocata per il 23 aprile. Chiede assicurazioni sugli appoggi su cui potrà contare e il numero di voti che potrà ottenere15. Lo annuncia pure, con qualche imbarazzo, al fratello Alphonse, pubblica finalmente il suo «Manifesto elettorale», destinato agli elettori del Dipartimento del Rodano16
ne alle necessità dei poveri attraverso soprattutto aiuti per pagare l’affitto e le fatture di cassa malati, nonché l’acquisto di beni di prima necessità. Nel 2021 il totale degli aiuti ha raggiunto il mezzo milione di franchi (esattamente: fr. 563.295,40). Per assicurare cibo fresco, da una quindicina d’anni si assegnano anche dei «buoni acquisto» presso le grandi catene alimentari oppure presso il «Tavolino magico». Importante è anche il sostegno offerto al livello delle pratiche amministrative, nella ricerca di alloggi e la consegna di mobili e abbigliamento. Le «San Vincenzo» non fanno distinzione tra svizzeri e stranieri. Soprattutto ai detentori di permessi di soggiorno «precari» viene offerta consulenza e aiuto finanziario e materiale. In Ticino esistono anche a1tre associazioni che si ispirano all’eredità di San Vincenzo de Paoli. Di religiose «Figlie della carità» (quelle che portavano la «cornette» negli ospedali) ne sono rimaste poche, più numerose invece le laicali (e in prevalenza femminili) Volontarie vincenziane, presenti in Ticino dal 1889, dette anche «Dame della carità», attive a Lugano, Locarno, Muralto, Blenio, Biasca, Bellinzona, Mesolcina e Calanca. Si ispirano al modello vincenziano anche i gruppi della «medaglia miracolosa» con sedi a Mendrisio e a Lugano. (www.sanvincenzoticino.ch)
Pur non essendo eletto, Ozanam ottiene un numero di voti (15.367) che lo pongono al trentatreesimo posto nella graduatoria17. Ma può annunciare il successo (15mila lettori) de L’Ère nouvelle18. Il giornale visse fino all’aprile 1849, testimone della seconda insurrezione popolare (giugno 1848), conclusasi con una repressione sanguinosa e questa volta risolutiva da parte del governo. Dai titoli degli articoli («I colpevoli e gli smarriti», «Dove erano gli operai di Parigi durante il combattimento del 30 giugno?», «Agli insorti disarmati» dell’8 luglio), emana «la volontà di mantenere la testa fredda, di mettersi in mezzo tra gli istigatori e gli operai trascinati nella rivolta dagli ideologi»19.
Degli articoli di Ozanam pubblicati tra il 17 aprile 1848 e l’11 gennaio 1849, il volume di Ceste ne riproduce più di venti. Ma intanto, a Roma, finisce male il regime tollerante di Papa Pio IX, il pontefice è costretto a fuggire
dalla città (24 novembre), ovunque le rivolte contro lo straniero oppressore (dalle Cinque giornate di Milano, del 18-22 marzo, all’insurrezione di Napoli del 15 marzo) sono represse. Il Quarantotto è finito.
Un crepuscolo amaro Ozanam conosce ora un ripiegamento della sua attività, il suo stato di salute è sempre più precario. Non è più così impegnato a livello politico, ispira con discorsi illuminati le assemblee della Società di San Vincenzo de Paoli, soprattutto esortazioni a cessare le tensioni e i malumori, rassegnazione a lasciare le dispute politiche per abbandonarsi completamente alla carità, perché mentre la politica colpisce e divide solo la carità riconcilia e riunisce. Il colpo di Stato con cui Carlo Luigi Bonaparte, figlio di un fratello del Grande Còrso, ristabilisce un modello di stato forte insediandosi a Versailles dove regnerà come imperatore con il nome di Napoleone III tra il 1852 e il 1870, non è commentato da Federico Ozanam se non in poche allusioni brevi e amare, tra cui una lettera scritta a Niccolò Tommaseo (185120).
Il suo pessimismo sullo stato della società è radicale. Il trionfo delle nuove espressioni della scienza e della tecni-
ca non lo incanta. In visita a Londra, per la prima Esposizione universale, lascia una descrizione amara di un simbolo della rivoluzione industriale:
Le démon de l’orgueil et de la convoitise
A déployé sa tente au bord de la Tamise. Il a forgé lui-même au fourneaux de l’enfer Ces voûtes de crystal et ces piliers de fer (…)
L’allusione è al Crystal Palace, costruzione tutta di ferro e di vetro, visibile oggi ancora a Londra.
Federico Ozanam muore a Marsiglia
l’8 settembre 1853, a poco più di 40 anni di età. Papa Woytila lo ha proclamato «beato» nel 1997. «Egli comprende che la carità deve condurre a operare per correggere l’ingiustizia. Carità e Giustizia vanno di pari passo», dirà Papa Giovanni Paolo II. Ma ci si ricorda anche di una frase che diversi pontefici dissero (la si attribuisce una volta all’uno, una volta all’altro): «La politica è la forma più alta della carità».
Note
1. Federico Ozanam, Volume II, Scritti sociali e politici, a cura di Maurizio Ceste, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019.
2. Lettera all’amico Auguste-Louis Materne, agosto 1830.
3. Da La revue européenne, 1835, Ceste p. 55-76.
4. Lettera a Ernest Falconnet, Parigi, 21 luglio 1834 (Ceste p. 51).
5. Lettera a Francois Lallier, Lione, 5 novembre 1836 (Ceste, p. 103).
6. Lettera a Louis Janmot, Lione, 13 novembre 1936 (Ceste p. 105).
7. Lettera a Léonce Curnier, Lione, 9 marzo 1837 (Ceste p. 105).
8. I. Vecca, Il mito di Pio IX. Storia di un papa liberale e nazionale, Viella, Roma, 1918.
9. «I pericoli di Roma e le sue speranze», «Le Correspondant», 10 febbraio 1848 (Ceste p. 114).
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Lettera a Alexandre Dufieux, 6 marzo 1848, in Ceste p. 150.
13. Ibid, p. 157.
14. Ibid, p. 166.
15. Ibid, p. 169.
16. «Aux électeurs du Département du Rhône», 15 aprile 1848, Immagine del frontespizio in Deste, cit, p. 181.
17. Lettera a Louis Gros, 11 maggio 1848 (Ceste p. 183).
18. Lettera a François Lallier, 29 maggio 1848 (Ceste p. 184).
19. Ibid.
20. Ceste, p. 363.
merito principale di questo libro sta nella capacità di offrire uno sguardo globale sul fenomeno
Binaghi
Un testimone del Vangelo per gli uomini di oggi – La crisi della figura del prete
La figura del prete è divenuta oggi anacronistica. Sono molti i fattori che hanno concorso (e concorrono) a provocare tale situazione. Quello principale è senz’altro costituito dall’avanzare del fenomeno della secolarizzazione (trasformatosi in molti casi in secolarismo) che rende evanescente ogni sentimento religioso.
Dio non è contestato come avveniva con l’ateismo ottocentesco è, più semplicemente, ignorato. Di Lui non rimangono che sterili vestigia di un passato in cui a prevalere, secondo molti, era una visione mitica della realtà del mondo e della vita, quella neoilluminista radicalmente sconfessata da una forma di razionalità onnicomprensiva e oggi soprattutto dai successi della scienza e della tecnologia, che assumono carattere di sacralità e di assolutezza, fino a configurarsi come la «nuova religione».
La percezione dell’inutilità del ruolo
Nel contesto di questa cultura il prete appare come il portatore di una visione arcaica dell’esistenza destituita di ogni credibilità. Le indagini sociologiche sulla «religiosità» degli italiani confermano la verità di questo assunto. Il mondo giovanile, che rappresenta il futuro della nostra società, non è soltanto del tutto assente dalla pratica religiosa, ma non è neppure più scalfito dalla domanda su Dio e sull’aldilà. I giovani vivono, in larga maggioranza, «come se Dio non esistesse», e non avvertono in questo alcun senso di malessere. La loro vita ha altri riferimenti e la domanda di senso, quando si pone, riceve risposte sufficienti nell’adesione a criteri valoriali (o almeno ritenuti tali) di ordine mondano.
Non vi è dunque spazio per la logica evangelica, che si presenta come alternativa e controcorrente, e il suo annuncio, che ha nel prete il proprio più diretto messaggero, rischia di cadere totalmente nella giusta rivendicazione dell’autonomia delle realtà terrestri, fatta peraltro propria anche dalla Chiesa con la celebrazione del Vaticano II, è sempre più interpretata, in termini di radicale autosufficienza, con il rifiuto di qualsiasi riferimento religioso (e spesso persino etico) in nome dell’emancipazione dell’uomo e
della sua liberazione da ogni forma di alienazione, compresa quella derivante dalla adesione alla religione.
Un uomo alla deriva della solitudine
Questa situazione descritta nelle tinte più fosche, non tenendo conto della presenza di fenomeni positivi, sia pure minoritari, che meritano in ogni caso attenzione, costituisce tuttavia, nell’insieme, lo scenario prevalente sul quale l’attività del prete deve esercitarsi.
C’è ancora spazio per la missione del prete?
Ad avere un peso decisivo in questi cambiamenti non è soltanto la perdita di ogni ruolo sociale di cui in passato il prete godeva, ma è la distanza che egli avverte essersi creata tra sé e la gente, la quale non ha soltanto abbandonato la tradizionale pratica di partecipazione alla messa domenicale, e – sia pure con minore intensità – anche il ricorso ai riti che in passato scandivano i momenti più significativi dell’esistenza dalla nascita alla morte. Si assiste infatti a una consistente (e continua) diminuzione dei battesimi, delle prime comunioni, delle cresime e dei matrimoni (per non dire della confessione che appare ormai una pratica fuori uso).
Un vero crollo della pratica religiosa rimasta retaggio della popolazione anziana che va progressivamente scomparendo. Tutto questo provoca nel prete un inevitabile senso di frustrazione accentuato da uno stato di solitudine, che trova sbocco in molti casi nella ricerca di compensazioni affettive vissute nella clandestinità, e dunque a loro volta frustranti, perché frutto di accomodamenti che avvengono nel segno della doppiezza; o, inversamente, in forme di arroccamento, con l’assunzione di un atteggiamento di rifiuto di tutto ciò che è stato prodotto dalla modernità; rifiuto che si traduce nel dedicarsi a pratiche sacro-rituali – si pensi all’enfasi data a forme esteriori nella celebrazione liturgica – o provoca il ritorno ad abitudini del passato – è sintomatico il ritorno all’uso della talare – che, oltre ad offrire una apparente sicurezza, esprimono l’esplicita volontà di non contaminarsi con il mondo considerato fonte di pericolo.
La domanda che allora affiora è: c’è ancora spazio per la missione del prete? E, se c’è, come è possibile ricrearlo? La risposta al primo interrogativo è, a mio avviso, positiva. Nonostante tutto quello che si è rilevato, è indubbio che è presente anche nella coscienza dell’uomo contemporaneo un bisogno religioso, spesso latente, che occorre far emergere con pazienza, rendendo soprattutto testimonianza, non solo individuale ma comunitaria, all’attualità della proposta evangelica. Da questo punto di vista il passaggio da una Chiesa di massa, propria del regime di cristianità, a una Chiesa che ha sempre più i connotati di pusillus grex, se toglie, da una parte, rassicurazioni istituzionali, favorisce, dall’altra, la possibilità di un ritorno alle origini, del ricupero cioè della più genuina tradizione cristiana.
Non meno importante poi, rimanendo alla visione di Chiesa, è la definizione di «popolo di Dio» offerta dal Vaticano II, con il passaggio da una concezione piramidale con al vertice la gerarchia, a una concezione che identifica la Chiesa con la comunità dei credenti che hanno pari dignità in ragione del battesimo che li rende partecipi del sacerdozio profetico e regale di Cristo. Da queste due significative svolte – l’una sociologica e l’altra ecclesiologica – scaturiscono preziose indicazioni per una profonda revisione della missione presbiterale.
Uno spazio da ricreare Da una parte, ad essere messa in discussione è la preoccupazione di una azione sacramentale diffusa che raggiunga il più elevato numero di persone – Dio non sa che farsene, osservano i profeti, di un culto materiale che non si accompagna all’esercizio, della giustizia, che non ha cioè riscontro nelle opzioni della vita quotidiana – per fare spazio a un’opera di evangelizzazione finalizzata a raggiungere un numero magari ristretto di persone che si impegnano a fare concretamente propria la logica evangelica, abbandonando atti di supplenza divenuti spesso esorbitanti per lasciarne la gestione alla responsabilità dei laici e concentrare l’attenzione su ciò che è davvero specifico ed essenziale, cioè il servizio
(l’edificazione della comunità nella prospettiva di una comunione che ha il suo momento più alto nella celebrazione eucaristica).
Questo implica come condizione prioritaria il pieno inserimento del prete nella vita della comunità. Il che può verificarsi soltanto laddove la scelta della persona chiamata ad esercitare tale ministero avviene all’interno della comunità e da parte di essa. L’essere catapultati dall’esterno come ancor oggi normalmente avviene rende difficile l’inserimento e rischia di far percepire il prete come un «corpo estraneo» imposto dall’alto, dunque non pienamente inserito nel contesto ambientale in cui è destinato ad operare. Inoltre tale inserimento può soprattutto verificarsi soltanto laddove il criterio che presiede alla scelta è la presenza, come requisito fondamentale, la capacità di creare comunità, cioè di intessere, consolidare rapporti vicendevoli, superando le resistenze negative e sviluppando forme di solidarietà e di fraternità, che favoriscano la partecipazione e la cooperazione.
Una situazione ancora ambigua I preti sono oggi in linea con questa visione, peraltro suggerita, nelle sue linee essenziali, dall’ecclesiologia dei Vaticano II? L’iter formativo proposto corrisponde adeguatamente all’esercizio dei compiti cui si è fatto riferimento? E, infine, quale progetto pastorale viene loro prospettato dalle Chiese locali?
La risposta a questi quesiti non è facile. La prima difficoltà è legata all’identikit di coloro che accedono al presbiterato.
La riduzione sempre più consistente da noi (e più in generale in Occidente) del numero dei candidati a tale ministero si accompagna a un mutamento piuttosto radicale della figura di coloro
che entrano in Seminario. La scomparsa, quasi ovunque, del Seminario minore ha comportato (e comporta) una mutazione della tipologia dei seminaristi, che sono in larga misura giovani in adolescenza avanzata, diplomati o laureati, che provengono da precedenti esperienze ecclesiali fatte in movimenti e/o in associazioni e che hanno perciò già compiuto un itinerario formativo e spirituale.
A questo si deve aggiungere, e non è cosa di poco conto, che, negli ultimi decenni, al numero sempre più esiguo di seminaristi italiani fa riscontro una costante crescita di seminaristi stranieri, provenienti in particolare dal Terzo Mondo – Africa, America
Latina e Paesi dell’Est europeo – e dunque con visioni culturali diverse che si riflettono anche nell’idea della missione della Chiesa e dell’esercizio del ministero presbiterale. Nonostante un certo rinnovamento dei seminari avvenuto nel post-concilio, sia sul piano culturale che spirituale, le difficoltà segnalate persistono. Non è infatti infrequente che si assista come già si è ricordato a ritorni involutivi e a rigurgiti integralisti, all’assunzione cioè di atteggiamenti difensivi e di chiusura spesso motivati da una fragilità psicologica, che induce a ricercare appoggi esteriori per la tutela della propria identità.
Le priorità di papa Francesco La estrema fluidità della situazione attuale – la liquidità cui allude Bauman si verifica anche su questo piano – rende impossibile prefigurare quale sarà la fisionomia del prete negli anni che verranno.
Le osservazioni fatte non sembrano fare spazio ad un grande ottimismo. Più agevole è la delineazione di come tale fisionomia dovrebbe essere, dei tratti che la dovrebbero qualificare.
L’enucleazione di questi tratti è stata in questi anni di pontificato una delle maggiori preoccupazioni di papa Francesco. Egli è più volte intervenuto ad indicare l’identitik del presbitero, mettendone di volta in volta aspetti diversi e complementari.
Tre sono, al riguardo, le priorità messe in evidenza dal pontefice. La prima è la capacità di immedesimarsi nelle situazioni esistenziali della gente, condividendone le gioie e le fatiche quotidiane – papa Francesco sottolinea l’importanza di «sentire l’odore delle pecore e divenendo in tal modo partecipi del mistero dell’incarnazione. La seconda priorità è costituita dalla scelta della povertà come sobrietà di vita e come rinuncia ad ogni tentazione di potere, così da conquistare quella libertà interiore, che consente di diventare pienamente solidali con il mondo dei poveri e di impegnarsi per la loro liberazione. La terza priorità è infine il ricupero di una spiritualità autentica, non formale o devozionale, ma connotata da una forte tensione mistica, capace di interpretare il bisogno di trascendenza che alberga anche oggi nel cuore di molti e di diventare in tal modo testimoni credibili del mistero di Dio.
Sono queste le condizioni preliminari, che vanno poste alla base dell’esercizio del proprio ministero, e che adempiute danno efficacia all’azione pastorale, alla capacità cioè di rendere trasparente la novità e la bellezza del messaggio evangelico.
* Già docente di etica cristiana alla Libera Università di Urbino e di etica ed economia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Socio fondatore e membro del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti.
Dal sito www.viandanti.org editoriale online del 16 settembre 2021.
Mettere fine alla classe sacerdotale Cambiare è possibile
Un ambito centrale della vita della Chiesa è quello del posto e del ruolo del prete ordinato all’interno della comunità. Attraverso la sua insistenza a denunciare il clericalismo, è a un ascolto rinnovato della Scrittura che papa Francesco invita la Chiesa affinché cambiamenti indispensabili possano compiersi nella sua governance. Ma, affinché questa presa di coscienza porti frutto, occorre sloggiare il nocciolo del clericalismo, in particolare il suo radicamento nella distinzione fra mondo sacro e profano.
«Abbi pietà di me, Signore, sono nella privazione» (Ps 30, 10). Questo grido del salmista esprime al meglio la situazione attuale della Chiesa. Questa, sicuramente, ha dovuto attraversare numerose prove lungo la sua storia –da perseguitati, i cristiani sono troppo spesso diventati persecutori. Ciononostante le crisi che si abbattono oggi sulla comunità cristiana sono inedite. Una via d’uscita risiede senza dubbio nella preghiera che chiama Dio in nostro soccorso, affinché ci invii il suo Spirito santo. Ebbene, Dio sembra, il più delle volte, rispondere con il silenzio. Nella parabola di Lazzaro e del ricco, quest’ultimo chiede ad Abramo che qualcuno dei morti vada a trovare i suoi fratelli perché si convertano. Ma «Abramo gli dice: “hanno Mosé e i profeti: che li ascoltino!”» (Lc, 16, 19). Una delle soluzioni alle nostre miserie è dunque il ritorno alla Parola di Dio, ascoltarla per meglio comprendere e meglio metterla in pratica. Un consiglio che noi dovremmo seguire per ciò che concerne il nostro approccio al sacro e al profano.
Gesù, membro del popolo
In tutte le religioni, questa tensione fra questi due mondi è una costante. Ciò si verifica nel giudaismo al tempo di Gesù. Per avvicinarsi a Dio, ritenuto presente nel Tempio di Gerusalemme, in particolare attraverso i sacrifici sanguinosi, occorreva passare per la mediazione della tribù di Levi e soprattutto discendenti di Aronne, specialisti del sacro, i membri della «casta sacerdotale». La struttura fondamentale del popolo d’Israele poggiava, di fatto, sul «sacerdozio levitico», «base della legge data al popolo» (Eb 7, 11). Ebbene, quando Gesù viene al mondo, è in tutta evidenza un Ebreo: si situa
nella cultura, nella mentalità e nella religione degli Ebrei del suo tempo. Ma non fa parte, in nessun modo, della tribù di Levi: appartiene alla tribù di Giuda «di cui nessun membro mai fu addetto all’altare» (Eb 7,13). Così, se Gesù avesse voluto avvicinarsi all’altare dei sacrifici, sarebbe stato immediatamente messo a morte.
essendo della tribù di Beniamino, non si assimila in nessun modo ai «preti», ai «sacrificatori» ebrei.
Quid del sacerdozio dei battezzati?
La fede cristiana, invece, riconosce in Gesù il Figlio di Dio fatto carne «in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). È l’immediata presenza di Dio. Da allora, la distinzione tra «sacro» e «profano» è in lui abolita. Gesù è, sociologicamente e religiosamente, un membro del popolo, letteralmente un «laico»! Non è uno «specialista del sacro» secondo la Legge di Mosè, non è un membro della classe sacerdotale, ma è lui, e lui solo, che apre la via per essere in comunione con Dio. Lui è il nuovo, unico e definitivo Mediatore tra Dio e gli uomini. «Per mezzo di lui abbiamo gli uni e gli altri accesso al Padre» (Ef 2,18).
È sorprendente constatare che mai il Nuovo testamento applica il vocabolo «sacerdotale» a Cristo, salvo nella lettera agli Ebrei, che tuttavia si prende una premura estrema per dimostrare che Cristo esercita un nuovo sacerdozio, diverso da quello detto «secondo l’ordine di Aronne». Questo nuovo e unico sacerdote è situato «secondo l’ordine di Melchisedek». Da allora, in Gesù, è tutto il culto dell’Antico Testamento che è abolito.
La prima conseguenza di questo nuovo sacerdote è stabilire una nuova Alleanza fra Dio e gli uomini: Cristo annulla tutte le distanze fra Dio e gli uomini stessi. Un’altra conseguenza, è che mai il Nuovo Testamento usa il vocabolo «sacerdotale» per designare gli Apostoli e gli altri responsabili della comunità cristiana. San Paolo stesso,
Un’altra realtà sorge ancora. Gesù, attraverso il battesimo, fa di tutti i suoi discepoli dei membri del nuovo «popolo sacerdotale», di cui egli è la sorgente. Occorre quindi parlare non più di una casta sacerdotale intorno a Gesù, ma piuttosto di un «sacerdozio dei battezzati». Questi, dice san Paolo, possono offrirsi loro stessi «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). San Pietro e l’Apocalisse sono, anche loro, espliciti a questo proposito. E nella celebrazione del battesimo, il nuovo battezzato è detto «membro di Cristo, partecipante alla sua dignità di prete, di profeta e di re». Ridurre il «sacerdozio battesimale» a una pura formula non ha peraltro senso evidentemente. Non è sufficiente dire queste parole, bisogna metterle in pratica nella vita dei battezzati. Orbene, la storia della Chiesa ha visto una progressiva cancellazione di questa dignità battesimale. È così che il concilio di Trento (1547-1563) non ne parla praticamente più e che bisognerà attendere gli anni 1960 e il Vaticano secondo per ritrovarla. Per contro, la Chiesa ha sempre più privilegiato quello che si è chiamato il «sacerdozio ministeriale», riservando a una nuova «classe sacerdotale» il «potere sacro» al suo interno. Come spiegare un tale «oblio» delle affermazioni del Nuovo Testamento?
Se il «sacerdozio ministeriale» non compare nel Nuovo Testamento, la necessità di organizzare le comunità cristiane si è al contrario imposta già dalle origini. San Paolo ne è già testimone, quando parla «degli apostoli, e anche dei profeti, degli evangelizzatori, dei pastori e dei maestri. In questo modo, i fedeli sono organizzati affinché i compiti del ministero siano compiuti e che si edifichi il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità nella fede e nella piena conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, alla statura di Cristo nella sua pienezza» (Ef 4, 11-13). Paolo menziona anche «dei vescovi e dei diaconi» e chiede a Tito «di stabilire in ogni città,
a Creta, degli Anziani» (Tt 1,5). La parola Anziano – in greco presbuteros – darà origine alla vocabolo prete. San Pietro vi ricorre (1 P 5,1) ma, in questo vocabolario, non c’è nessuna traccia di «sacerdotalizzazione» o «sacralizzazione». Non c’è ancora nessuna distinzione fra «clero» e «laici».
Sarà intorno agli anni 180-260 che la si vedrà apparire, facendo così dei ministri cristiani un ordine a parte, con una «sacerdotalizzazione» del ruolo dell’episcopo e, di fatto, una sorta di re-giudaizzazione di questi ministeri sul modello levitico, in particolare della classe sacerdotale dei «preti» ebrei che officiavano nel Tempio di Gerusalemme. È soprattutto con san Cipriano (200-258 d.C.) che si farà riferimento al sistema levitico e sacerdotale dell’Antico Testamento.
Una storia di potere
Non soltanto questo non cambierà più, ma si indurirà poco a poco, con la costituzione di una nuova «classe sacerdotale» che confischerà il potere di assicurare il contatto con Dio, e il ritorno a una sacralizzazione dei ministeri ordinati. La separazione sarà sempre più netta tra i «chierici» e i «laici», questi ultimi ridotti allo stato di «consumatori obbedienti dei beni spirituali».
Così i «ministri» sono detti «sacri» e messi al di sopra del «popolo». Una tale organizzazione trova il suo apogeo nella dichiarazione di papa Leone XIII e soprattutto di Pio X nell’enciclica Vehementer nos (1906): «La Scrittura ci insegna, e la tradizione dei Padri ce lo conferma, che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo, corpo retto dai pastori e dai dottori, società di uomini, da allora, nel seno della quale si trovano dei capi che hanno pieni e perfetti poteri per governare, per insegnare e per giudicare. Ne consegue che questa Chiesa è per sua essenza una società ineguale, cioè una società comprendente due categorie di persone, i pastori e il gregge, quelli che occupano un rango nei diversi gradi della gerarchia e la moltitudine dei fedeli. E queste categorie sono talmente distinte fra loro, che nel corpo pastorale solo risiede il diritto e l’autorità necessaria per promuovere e dirigere tutti i membri verso la fine della società; quanto alla moltitudine, essa non ha altri doveri se non quello di lasciarsi guidare e, gregge obbediente, di seguire i suoi pastori».
La Chiesa, facendo così, si è allontanata, e di molto, dalla Parola del Nuovo Testamento! Né san Paolo né san Pietro avrebbero potuto firmare
un tale documento. Essa ha messo fra parentesi, nella sua vita concreta, un altro modo di comprendere il ruolo dei responsabili della comunità cristiana, quella della «stirpe pastorale», invece fondamentale in tutta la Scrittura. Certamente il vocabolario ha conservato lo stile «pastorale», ma senza tirarne le conseguenze.
Già nell’Antico testamento, Dio, in effetti, si dichiara essere pastore delle sue pecore, del suo popolo; Gesù si situa in questa linea, definendosi il Buon Pastore; poi Pietro, a sua volta, riceve da Gesù la responsabilità di essere pastore delle pecore di Cristo (Gv 21, 15-17); e dice in seguito agli Anziani: «Siate pastori del gregge che vi è affidato» (1 P 5,2). C’è qui una volontà esplicita di Dio d’istituire dei «pastori» – e non dei membri sacri di una casta sacerdotale – per guidare il suo popolo verso il Regno.
Un servizio di comunione Ebbene, un pastore non esiste senza un gregge. Ed è Cristo il modello insuperabile di questo ministero. È a partire da lui che i pastori devono comprendere e vivere il loro servizio. Come Gesù, il pastore conosce le sue pecore, di una conoscenza radicata nell’amore del Padre. È un servizio di comunione intorno a Cristo. Il pastore non è il proprietario delle pecore, ma il servitore delle pecore di Cristo. Non è istituito «maestro» delle pecore, con tutti i poteri su di esse. Deve resistere con tutte le sue forze alla tentazione del potere, in particolare nella sua forma più pericolosa e perniciosa, quella del potere sulle coscienze. Il pastore è al servizio della Parola di Dio, cibo delle pecore. Deve quindi conoscerla lui stesso e provare a nutrirsene e a viverla. Battezzato, partecipando pienamente alla vita dei battezzati, deve soprattutto essere inserito in una comunità, esserne membro a tutti gli effetti e non essere separato da essa, ancor meno «al di sopra» di essa. Papa Francesco ama dire che il pastore deve «sentire l’odore delle pecore».
Rivedere il reclutamento
Se vogliamo essere fedeli all’invito della lettera agli Ebrei – «Dobbiamo prendere sul serio il messaggio udito, se non vogliamo andare alla deriva» (Eb 2,1) – un cambiamento estremamente importante deve essere compiuto nella vita della Chiesa e nella sia «governance». Infatti, il concilio di Trento, per reazione al movimento di Lutero e del protestantesimo, ha privilegiato in un modo esclusivo il ruolo «sacerdotale», «sacralizzato»
dei preti. Per metterlo in pratica, ha ufficializzato i seminari – luoghi di formazione seria, senza dubbio, ma luoghi chiusi, di separazione – per preparare i «ministri ordinati» al loro compito «sacro». Questo ha dato molti frutti di generosità e di santità, ma anche contribuito all’isolamento della nuova «casta sacerdotale», con la terribile tentazione del potere spirituale e di essere al si sopra del «popolo». Si vedono delle derive che possono esserne le conseguenze.
Con il Vaticano secondo, questo sarebbe dovuto cambiare. Privilegiare il ruolo pastorale dei ministri della Chiesa va al di là delle questioni di vocabolario. È immaginare un nuovo modo di reclutare i ministri e di formarli. Si tratta di designare dei pastori di una comunità. Sarebbe dunque normale che, in un modo o nell’altro, la comunità sia partecipe di questa designazione. Ogni comunità dovrebbe avere la preoccupazione di trovare i pastori di cui ha bisogno, di reperire fra i membri coloro che manifestano delle qualità di vita e di impegno nella luce del Vangelo, di chiamarli, di seguirli affinché ricevano una formazione adeguata e di presentarli al vescovo (tramite l’imposizione delle mani, lo Spirito santo è loro dato affinché esercitino sacramentalmente questo servizio pastorale, nel nome del Buon Pastore).
Così il «prete» sarebbe come un buon pastore che conosce le sue pecore, che condivide la loro vita, che li riunisce attorno alla Tavola della Parola e alla tavola del Pane eucaristico. Non sarebbe preso nella culla (come era il caso nei «piccoli seminari»), né necessariamente scelto fra giovani uomini che si sentirebbero attirati, chiamati interiormente dallo Spirito, ma spesso senza un legame forte con una comunità battesimale. Questo prete potrebbe, beninteso, essere sposato, uomo o donna, e anche, in parte, mantenere il suo lavoro, proprio come lo faceva san Paolo.
In fedeltà alla Parola
Sarebbe questo un vero ritorno alla pratica paolina, nella fedeltà alla Parola di Dio, e non all’Antica Alleanza. Questo modificherebbe le condizioni dell’esercizio del ministero pastorale e permetterebbe, se non di evitare totalmente delle derive, almeno di evitare delle solitudini e soprattutto un ricorso a un «potere sacro». Le comunità cristiane ne sarebbero più fortificate nella fedeltà al loro battesimo.
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Ricordo del vescovo Ernesto
L’11 novembre ci ha lasciati a 96 anni il vescovo emerito Ernesto Togni. Nato a Brione Verzasca il 6 ottobre 1926, fu ordinato sacerdote nel 1950 ed eletto vescovo il 15 luglio 1978. Il suo episcopato durò fino al giugno 1985, quando dimissionò per motivi di salute, restando, come amministratore apostolico, alla guida della Diocesi fino alla nomina del suo successore monsignor Eugenio Corecco nel giugno 1986.
Dopo gli studi al seminario di Lugano e a Roma presso l’Università Gregoriana, nel 1951 don Ernesto diventa professore e vicerettore in Seminario a Lugano. Quando viene aperto il Seminario di Lucino ne diventa rettore. Nel 1969 viene nominato parroco di Tenero. Dal ’72 al ’75 è membro del Sinodo. Tra i suoi diversi incarichi riveste, dal 10 giugno 1977 fino alla nomina episcopale, il compito di responsabile della catechesi nel settore primario del vicariato del Locarnese e di delegato dell’Ufficio Catechetico diocesano. Di lui ricordiamo lo spirito di apertura e il sorriso con
Alla veneranda età di 96 ci ha lasciati Ernesto Togni, vescovo emerito di Lugano. Una presenza corale ai suoi funerali testimonia della forte popolarità che egli aveva nella popolazione ticinese, anche a molti anni dalla sua rinuncia, avvenuta quando aveva 58 anni.
Ho conosciuto don Ernesto all’età di 11 anni, quando sono entrato al ginnasio del Collegio Pio XII a Breganzona, di cui egli era il primo rettore. Con l’apertura di questa scuola, voluta dal vescovo Angelo Jelmini, tirava già una certa qual aria nuova in diocesi, poiché si rinunciava a qualificare questa istituzione come un «seminario minore», anche se si parlava in maniera discreta di «vocazione». Gli allievi non portavano più la veste talare e tra gli insegnanti erano presenti anche laici (così già molto giovane ho avuto Silvano Toppi come docente di economia). Lo stile di vita, ritmato da preghiera, studio e attività sportive, era relativamente libero e gaio, merito del suo rettore don Ernesto. Grazie alla sua conduzione cordiale e per nulla autoritaria, l’atmosfera del collegio era serena. Mi ricordo il suo interesse per le famiglie che ci avevano affidato a lui, interesse che metteva in evidenza la sua convinzione che i preti che avevano la conduzione del collegio non fossero gli unici educatori, bensì piuttosto collaboratori dei genitori. Don Ernesto era particolarmente schivo nel parlarci della sua vita personale, ma su alcuni punti traspariva il mondo dei suoi interessi e dei sentimenti più vivi. Mi sono rimasti impressi nella memoria soprattutto il suo legame con la valle Verzasca e l’amore delle mon-
il quale seppe accogliere le sfide che il vento conciliare suggeriva. Seppe andare incontro e accogliere il popolo di Dio che stava in Ticino non come un capo di governo o un amministratore, ma come un pastore che «sente l’odore del suo gregge» e lo protegge e accudisce, senza imposizioni, lasciando lo spazio alle pecore per pascolare. Visse lo spirito missionario dentro e fuori della diocesi: in America latina prima, con la missione di Barranquilla, e più tardi, da quella in l’Africa poi, con l’apertura della missione in Ciad. Proprio a Barranquilla nel 1993, dopo la fine del suo episcopato, andò missionario fino al 1996. «Dialoghi», di cui fu fedele lettore, gli è riconoscente per la speranza che ha saputo infondere al suo gregge e per la testimonianza al Vangelo, che libera e non opprime, che ha offerto anche nei momenti più difficili delle delusioni, suoi e nostri. Ha combattuto una buona battaglia e ci ha lasciato un grande esempio, che ci sprona a guardare avanti con fiducia. Dialoghi
tagne ticinesi. I periodi estivi passati a Prato Leventina permettevano una vita comune durante le varie escursioni, in cui la separazione tra gli allievi e i superiori tendeva a sparire, perché nelle capanne si condividevano i bivacchi e i dormitori. Una volta finito il ginnasio, don Ernesto teneva ancora contatto con gli ex-allievi, invitandoli talvolta in estate a intraprendere escursioni comuni. Così mi è rimasta impressa la scalata del Basodino, fatta da alcuni allievi in sua compagnia e in una atmosfera connotata dall’amicizia più che dall’esercizio dell’autorità.
Poi ci siamo un po’ persi di vista, anche perché egli assunse la responsabilità della parrocchia di Tenero. Fui sorpreso dalla sua nomina a vescovo di Lugano e seguii con attenzione il suo primo intervento alla TSI, tenuto con il suo abituale stile modesto, cioè in giacca e cravatta e non con i paramenti della sua nuova funzione. Il suo predecessore, monsignor Martinoli, gli fece rimarcare questa sua «caduta di stile», che non corrispondeva, a suo avviso, alle abitudini clericali necessarie in simili occasioni. Partecipai alla sua consacrazione in cattedrale e mi rimase impressa la sua omelia che metteva in evidenza lo spirito con cui egli comprendeva il suo nuovo compito. Commentando il passaggio degli Atti degli Apostoli in cui l’apostolo Pietro incontra uno storpio e gli dice: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!» (3,6), il vescovo Ernesto chiosò e applicò la parola di Pietro al proprio ministero: «Chiesa che sei a Lugano, il tuo vescovo non possiede
né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Cristo, àlzati e cammina».
Parole chiare e coraggiose e che ho custodito nella mia memoria. Durante quegli anni lavoravo presso Caritas svizzera a Lucerna e così, attraverso la mia attività professionale, ebbi l’occasione di riprendere un contatto intenso con il nuovo vescovo di Lugano. Egli mi accolse con la sua proverbiale ospitalità e durante gli incontri in curia riuscii a capire meglio cosa si nascondesse nel conflitto che allora affiorava tra la Caritas Ticino e la Centrale di Caritas svizzera a Lucerna. Don Ernesto era sottoposto a una sorta di mobbing da parte di vari ambienti in diocesi che gli rendevano la vita difficile. Modesto e discreto, non mi parlò della sofferenza che attraversava la sua vita e il suo servizio nel ministero. Pur non essendo particolarmente ferrato in psicologia, avvertii subito la presenza di questa sofferenza anche se non mi aspettavo che essa potesse portarlo fino alle dimissioni dal suo ruolo di vescovo.
Gli resi visita presso la casa di riposo nel Gambarogno alcuni anni fa e lo trovai sereno come sempre, senza alcun risentimento, interessato alla vita di coloro che lo incontravano, e persino orgoglioso delle loro vicende professionali, che interpretava come frutti maturi di un seme che egli aveva potuto deporre.
Riposa in pace, caro don Ernesto, e là dove sei, poni uno sguardo benigno su una terra che forse non ha saputo onorare fino in fondo il tuo carisma.
Alberto BondolfiIl vescovo Ernesto Togni, la gioia e la sofferenza
Ernesto Togni,educatore, sacerdote e poi vescovo, era un formidabile giocatore di ping-pong, per prontezza e velocità, per colpi imparabili, più per la gioia con cui si giocava che per la sconfitta che alla fine arrecava. Lo so, lo so, che mi si dirà subito che non ci poteva essere «incipit» più superficiale, più squinternato, per niente episcopale per ricordarlo e commemorarlo. Eppure, anche se può sembrare indecoroso o sminuitivo, è quanto mi è subito balzato in mente all’annuncio della sua scomparsa. Quelle partite con lui, mai vinte! Forse, ripensandoci, per due motivi.
Perché mi ha fatto subito emergere, con gratitudine, quelle che ho sempre ritenuto tre caratteristiche (o qualità) della sua persona: quell’essere sempre al servizio della gioia, per temperamento, ma anche per la gioia di «uomo salvato» (da Cristo); quell’umiltà come abito mentale nel rapporto con «ogni» altro, soprattutto perché cosciente di quel che si è e di quel che si può donare; quella cultura del rispetto e del dialogo che è la vera cultura, cultura cristiana, sempre al di sopra e al di là della «cultura» di chi ha sempre il codice canonico sottobraccio; il timore, quasi opprimente, di non essere compreso, di aver offeso, di aver recato danno, anche inconsapevolmente, a qualcuno e l’atteggiamento costante al chiedere perdono. Ed è quindi con meraviglia e non senza qualche turbamento personale, che avendo avuto la possibilità di leggere il suo testamento spirituale (redatto a La Pelouse, Bex, il 9 giugno 1987) ho trovato tra le righe, sotto altra forma e con altre parole, con estrema semplicità, com’era suo stile, la conferma di tutto questo. Dell’uomo biblicamente «giusto».
Perché, forse da giornalista incallito e che mi volle oltretutto alla direzione del GdP (chiedendomi poi spesso perdono per le difficoltà e le angustie in cui finii per trovarmi), sentivo dietro anche la metafora cui non potevo rinunciare. Nella vita, ma in particolare in quella episcopale-pastorale, il vescovo Ernesto non è mai stato capace a giocare a ping-pong. Ping-pong è onomatopeico: significa ribattere con la racchetta (ping) e battere sul tavolo
(pong). Significa ad esempio ribattere al chiacchiericcio, alla maldicenza, alle manovre losche di potere che muovono anche gli ambienti ecclesiastici o ecclesiali, significa battere il pugno sul tavolo e riuscire a togliere dall’altare l’ipocrisia.
Ernesto Togni, vescovo, ha sofferto e sopportato molto. Molto da cristiano (porgi l’altra guancia). Sempre a causa dei «suoi», ambienti e movimenti ecclesiali, presbiteri beneamati in Vaticano e in attesa di carriera; qualche pseudo uomo del partito cristiano che ridicolizzava su «Gazzetta» (mai condannato dal partito) anche il suo vicario generale per il suo cognome o il neodirettore del GdP da lui scelto (e, dopo il lungo regno di mons. Leber, scegliere un laico, oltretutto non dentro il mondo ecclesiale, con l’intenzione espressa di sclericalizzare il giornale, era un grande atto di coraggio), ch’era ormai diventato una lisca di pesce in gola a movimenti ecclesiali (tanto da promuovere una raccolta di firme per rimuoverlo, pacchetto di firme che Togni mi consegnò un giorno esterrefatto (ma con un «non temere», annientato purtroppo dalle sue dimissioni per salute e dall’arrivo di un altro vescovo) o di destra, soprattutto luganesi; qualche altro esponente «cattolico» che, certamente per far posto a chi desiderava lui, suggeriva a Libera Stampa anche le calunnie più infamanti. Ciò che per il vescovo Ernesto fu poi però cosa più spietata è stata la non accoglienza della richiesta al suo successore, che ne aveva il potere e che sapeva quali erano gli ambienti ecclesiali contigui da dove provenivano le calunnie, di prendere posizione. È stato un tormento pesante per tutto il resto della sua vita (dal momento delle dimissioni fino a quando l’infermità l’ha privato totalmente delle memoria, che fu quasi una grazia di Dio).
L’altra sofferenza (che potremmo definire «pastorale») è legata all’esperienza della Chiesa nella seconda metà del secolo scorso. Da presbitero Togni ha seguito e vissuto con grande trasporto
e intensa partecipazione il Vaticano II e poi da parroco il Sinodo svizzero (72-75). Si è impegnato molto nelle commissioni, nelle assemblee, ha vissuto con gioia l’esperienza dell’incontro preti/laici/religiosi/uomini/donne/ giovani, con forte esperienza di comunione e desiderio di realizzare positivi cambiamenti. Quell’evento, che ha chiesto tempo e impegno e fatica, ha anche prodotto documenti molto interessanti e basilari. In pratica, però, occorre riconoscerlo, non ha portato il rinnovamento che si voleva e ci si attendeva ed è stato per lui una grande sofferta delusione.
In uno dei primi incontri, da vescovo, dopo tanto tempo che non c’eravamo più rivisti, mi pose una domanda che mi lasciò imbambolato. Non mi chiese, come mi chiedevano invece altri monsignori, sospettosi nei confronti di un «televisivo» (razza dannata?), quasi per sincerarsi della mia fede o del mio «essere cattolico»: frequenti ancora la chiesa, vai a messa? No, mi chiese, quasi tra il molto serio e il gioiosamente curioso: «E allora, come vai con Dio?». Era quasi un saluto spagnolo (Vaya con dios!). Non era certo la domanda che potevano porci due nostri illustri docenti dell’Università Gregoriana, l’incartapecorito spagnolo professor Zapelena e il plumbeo canadese professor Tromp, che Dio lo infagottavano con un «ad primum», «ad secundum» ecc. Ho fatto la classica curva di chi è colto in difficoltà, ma vuol mostrarsi pronto e non sguarnito. Dissi che avevo appena ricevuto in dono, alla Televisione, da un agnostico-religioso (bell’ossimoro!) che mi sembra avesse avuto modo di conoscere, un libro, preziosamente rilegato, ben curato ed annotato: le «Confessioni» di Agostino da Ippona. Mi dissi colpito da un’altra domanda che Agostino si poneva a se stesso: Tu chi sei? (Tu quis es? 10,6,9). Quel santo vescovo, che il vescovo Togni tanto amava e citava, impossibilitato a scandagliare l’abisso di Dio, scandagliava l’abisso di se stesso e dava come risposta: «sono un uomo» (homo) legato alla terra (humus) che «si porta addosso il peso della propria natura mortale» (homo circumferens mortalitatem suam). Sorrise, come a dire: anch’io, è proprio così.
Dai Sinodi nazionali a quello continentale
Assemblea sinodale svizzera
In cammino verso una Chiesa più sinodale
L’«Assemblea sinodale svizzera» si è svolta il 30 maggio 2022, nell’Abbazia di Einsiedeln (SZ). I membri della Conferenza dei vescovi svizzeri (CVS) si sono incontrati con delegati diocesani, difensori delle cause di poveri ed emarginati, migranti, giovani, donne, comunità religiose, nonché con il presidio della Conferenza centrale cattolica romana (RKZ) e con esperti di pastorale, Chiesa e teologia. Hanno partecipato oltre 50 persone provenienti da tutta la Svizzera. La moderazione era affidata a Nadia Rudolf von Rohf e a Eugen Trost.
Relazione sinodale svizzera per Roma
L’Assemblea sinodale svizzera ha avuto il compito di riunire le relazioni sui risultati della fase diocesana del Sinodo in una relazione nazionale. Un progetto della Commissione pastorale della Conferenza dei vescovi è servito come base. Il segretario della commissione, Arnd Bünker (direttore dell’Istituto svizzero di sociologia pastorale –SPI), ha introdotto la relazione e spiegato il processo di lavoro finora svolto. Con la conclusione dell’Assemblea sinodale svizzera, il rapporto finale ufficiale è ora disponibile a livello nazionale (consultabile sul sito www. ivescovi.ch/rapporto-sinodo-svizzero-2022). Il compito di curare l’edizione finale sulla base delle richieste di adattamento dell’Assemblea sinodale è stato affidato alla prof.ssa Eva-Maria Faber (Facoltà di teologia di Coira) e al dott. Philippe Hugo (direttore del CCRFE di Friburgo). Il rapporto finale sarà pubblicato in estate, dopo la traduzione nelle tre lingue nazionali, e sarà inviato a Roma insieme ai rapporti diocesani per il lavoro continentale (dall’autunno 2022 alla primavera 2023) e per il lavoro successivo mondiale (autunno 2023).
Migliore inclusione di tutti i battezzati
Il rapporto tratta gli aspetti della sinodalità della Chiesa. Dove ha successo e dove fallisce questa sinodalità? Vanno menzionate due sfide in particolare. Una è quella di non permettere l’e-
sclusione di molte persone dalla piena partecipazione alla vita della Chiesa. Ad esempio dei divorziati risposati o le esperienze di donne, di persone dello spettro LGBTIAQ. Inoltre, ci sono esperienze di altri gruppi che non si sentono realmente ascoltati o presi sul serio nella Chiesa, come i giovani o le persone con un background migratorio. D’altra parte, il rapporto guarda con occhio critico al clericalismo ancora diffuso nella Chiesa. La sinodalità può avere successo solo se si supera il clericalismo e si sviluppa una comprensione del ministero sacerdotale che favorisca una Chiesa sinodale.
Continuazione in Svizzera
L’Assemblea sinodale svizzera non ha esaminato solo il rapporto per il processo mondiale, ha votato anche, con decisione, per continuare a «essere una Chiesa sinodale» in Svizzera. In termini di contenuti, le sfide centrali della Chiesa cattolica devono essere affrontate sinodalmente a livello nazionale e regionale. L’Assemblea sinodale svizzera ha individuato non solo temi, ma anche condizioni e atteggiamenti sia strutturali sia spirituali esigenti che sono di importanza centrale per il proseguimento del processo sinodale in Svizzera. Nel riflettere sulla qualità del lavoro sinodale, le preoccupazioni più attitudinali e spirituali della Svizzera latina si sono affiancate alle osservazioni e alle indicazioni più strutturali della Svizzera tedesca.
Fiducia e pazienza
L’impegno dei delegati e delegate presenti è stato grande, la riflessione seria, differenziata e intensa. E emerso chiaramente che, sebbene vi sia un ampio consenso nell’identificazione dei
Dal Sinodo italiano
La presidenza della Conferenza episcopale (CEI) ha pubblicato, il 15 di agosto, la sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo. Nel documento sono stati riassunti 200 testi prodotti dagli incontri avvenuti nelle diocesi e
«cantieri» a livello nazionale e linguistico-regionale, allo stesso tempo le prospettive di soluzione di molte questioni non sono ancora molto tangibili. La vicepresidentessa e il vicepresidente della Commissione pastorale, Barbara Kückelmann (Diocesi di Basilea) e François-Xavier Amherdt (Università di Friburgo), hanno chiarito che lo sviluppo verso una Chiesa più sinodale è un percorso di apprendimento. La sinodalità non si realizza rapidamente. Ci vogliono fiducia e pazienza, anche se le aspettative di risolvere rapidamente i problemi sono altrettanto elevate.
Esperienza sinodale
La giornata di Einsiedeln ha mostrato una varietà di esperienze sinodali: testimoniare l’impegno, imparare gli uni dagli altri, sopportare le differenze e lavorare sulle tensioni in modo costruttivo. Che l’impegno sinodale andasse anche oltre l’Assemblea sinodale svizzera è stato dimostrato, tra l’altro, dalla presenza di «Allianz Gleichwürdig Katholisch» all’ingresso dell’Assemblea sinodale. Essa attesta sia l’incoraggiamento per il cammino sinodale sia le grandi aspettative per il processo in corso.
Il processo sinodale è solo all’inizio, ma deve continuare, è stato il chiaro messaggio del Presidente della CVS, Mons. Felix Gmür, e della Presidente della RKZ, Renata Asal-Steger. La CVS e la RKZ vogliono dare il loro contributo all’ulteriore sviluppo di una Chiesa sinodale in Svizzera, è stato il tenore dei loro discorsi conclusivi. La Commissione pastorale della CVS dovrà elaborare nel prossimo futuro proposte di basi e strutture trasparenti per il lavoro sinodale in Svizzera, in modo da poter discutere a livello sinodale l’ Instrumenturn Laboris , atteso per l’autunno 2022 per la fase continentale del processo sinodale mondiale.
19 relazioni elaborate da altri gruppi, per un totale di più di 1.500 pagine. In questa prima fase si sono formati circa 50.000 gruppi, ai quali ha partecipato mezzo milione di persone coordinate da più di 400 referenti diocesani.
Sono state coinvolte non solo le Chiese locali, ma anche i mondi della politica, delle professioni, della scuola e dell’università, fino ai luoghi della sofferenza e della cura, alle situazioni di solitudine e di emarginazione.
Spazio all’ascolto
Un percorso ampio ed eterogeneo che, pur avendo raggiunto diverse persone, soprattutto nelle parrocchie, ha però solo sfiorato alcune realtà anche ecclesiali e in altre ancora non è neppure arrivato. Là dove, durante il cammino sinodale, nonostante le difficoltà, prima tra tutte quella dovuta alla «paura di attivare un processo destinato semplicemente a lasciare le cose come stanno», si è dato spazio all’ascolto, al confronto e allo scambio di idee, sono emerse problematiche che, da tempo, «affaticano» il passo della Chiesa: il clericalismo, lo scollamento tra la pastorale e la vita reale delle persone, il senso di fatica e solitudine di parte di sacerdoti e di altre persone impegnate nella vita della comunità, la mancanza di organicità nella proposta formativa, l’afasia di alcune liturgie.
Si è fatta inoltre strada, durante gli incontri, la possibilità di una Chiesa «tutta ministeriale» nella quale, a diversi livelli, siano corresponsabili carismi e ministeri diversi, superando la visione di una Chiesa costruita intorno al ministero ordinato. Nel documento tuttavia non vengono citati i punti chiave emersi sia dal Sinodo amazzonico, sia da quello dei vescovi tedeschi, come quello dei viri probati e del maggior ruolo, in ambito ministeriale, per le donne, tematiche da ascoltare, ma considerate ancora come strade da non percorrere. Problematiche già affrontate (si era nel 1964) dalla Lumen gentium
I laici quindi, anche quando sono occupati in cure temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per l’evangelizzazione del mondo. Alcuni di loro, in mancanza di sacri ministri o essendo questi impediti in regime di persecuzione, suppliscono alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità.
Dieci nuclei
Le riflessioni sono state organizzate in dieci nuclei: ascoltare, accogliere, relazioni, celebrare, comunicazione, condividere, dialogo, casa, passaggi di vita e metodo. Alcuni sono espressi come verbi, altri come sostantivi per rispettare le modalità con cui sono stati affrontati e allo scopo di custodire il fondamentale pluralismo delle Chiese in Italia.
Insieme al discernimento, il primo frutto del processo sinodale è stato l’ascoltare e il sentirsi ascoltati. Si è detto che occorre mettersi in ascolto dei giovani, delle vittime degli abusi sessuali e di coscienza, «crimini per cui la Chiesa prova vergogna e pentimento», di chi ha subìto diverse forme di ingiustizia, ma anche dei luoghi, della gente che vi abita che ne conosce la storia e le tradizioni. Ascoltare, in particolare le donne e gli uomini in situazione di povertà, è riconoscere il valore di chi ci sta di fronte, è in relazione con l’ascolto della parola perché è nella vita ordinaria che ci è dato di incontrare il messaggio evangelico. Coloro che si sentono parte di una comunità ecclesiale devono saper accogliere, valorizzando le persone che abitano un territorio, «fare uno sforzo di apertura verso chi rimane sulla soglia». Si è ipotizzata la creazione di un ministero di prossimità per laici che siano capaci di tradurre nella pratica quotidiana l’inclusione. Per avviare un vero processo di rinnovamento, occorre dare voce a questioni che spesso si sono evitate quali le problematiche del mondo giovanile, la custodia e la vicinanza agli anziani, il farsi prossimo verso le persone ferite dalle vicende della vita, emarginate per la diversità di genere, di orientamento sessuale, culturale e sociale.
Una Chiesa che ascolta e che accoglie può veramente diventare punto di riferimento per i cambiamenti sociali del nostro tempo. Si pensi alla drammatica situazione delle persone costrette dalla fame e dalla guerra a lasciare il loro Paese, all’integrazione dei migranti che arrivano nel nostro mondo sperando in una vita migliore. Certo non sono mancate attenzioni ed esperienze come quelle della Caritas, ma è auspicabile un maggior coinvolgimento delle parrocchie.
Una Chiesa afona
La Chiesa vive la fede immersa nelle cose del mondo quali la cura della casa comune, i rapporti, spesso conflittuali, tra le generazioni, l’incontro tra culture diverse, la crisi della famiglia, il forte desiderio di giustizia, di pace e di disarmo. La sua voce, in riferimento a queste tematiche, è però «afona, chiusa, giudicante, frammentata» e poco competente. Manca quasi del tutto il rapporto con la società civile. Durante gli incontri si è affermato che occorre mettersi in discussione, essere aperti al confronto e al dialogo come è stato richiesto da molte realtà sociali e amministrative.
È necessario altresì ripensare alle comunità che non devono essere viste come centri di erogazione di servizi, ma assumere il compito che è proprio di una casa, di un luogo che sa accogliere, aperto, senza porte. Le comunità ecclesiali e i gruppi in cui si vivono cammini di fede e di vita intensi, se non costruiscono relazioni fraterne, rischiano di diventare spazi chiusi, bolle frammentate che non sanno valorizzare la pluralità delle sensibilità e le nuove proposte.
Non deve andare perduto il patrimonio formativo degli oratori, delle associazioni e dei movimenti, che, nel corso degli anni, ha animato le parrocchie. Tali esperienze, data la loro ricchezza, devono continuare ad accompagnare i passaggi di vita delle persone a tutte le età. Perché si riesca a camminare insieme, facendo diventare le famiglie soggetto e non destinatario dell’azione pastorale, diventa imprescindibile ripensare alla formazione dei preti, al ruolo dei seminari e al rafforzamento delle competenze delle laiche e dei laici impegnati nei diversi ministeri.
(da un testo de «Il Gallo», Genova, ottobre 2022)
Documento per la tappa continentale
Il segretario generale del Sinodo ha pubblicato il 27 ottobre il documento di lavoro per la tappa continentale facendo la sintesi dei 112 contributi delle conferenze episcopali (su 114).
Si tratta di un documento di 46 pagine che vuole rendere la Chiesa più missionaria, partecipativa e accogliente, e meno centralizzata e clericale.
L’Agenzia Media ne ha proposto un riassunto (vedi Cath n. 300 del 27 ottobre 2022) presentato con i seguenti sottotitoli:
«Uno spazio più accogliente per le persone ferite», «Ripensare la parte-
cipazione delle donne», «La difficile articolazione tra i ministeri laici e ordinati», «Appello per una liturgia più attiva e inclusiva», «I preti, una voce sofferente e discreta», «Un aggiornamento permanente e una tappa continentale».
La prossima tappa sarà la redazione da parte delle sette assemblee continentali di un documento di una ventina di pagine da inviare al segretariato del Sinodo entro il 31 marzo che serviranno per compilare l’Instrumentum laboris per le assemblee universali previste a Roma nell’ottobre 2023.
Concilio Vaticano II aperto da 60 anni
Nel giorno in cui cadeva il 60º anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II – l’11 ottobre scorso – Papa Francesco non ha mancato di esortare la Chiesa intera a riprendere in mano l’aratro del Concilio quale risposta di amore per il suo Signore, che «chiede ancora, chiede sempre alla Chiesa, sua sposa: “Mi ami?”. Il Concilio Vaticano II è stato una grande risposta a questa domanda: è per ravvivare il suo amore che la Chiesa, per la prima volta nella storia, ha dedicato un Concilio a interrogarsi su sé stessa, a riflettere sulla propria natura e sulla propria missione. E si è riscoperta mistero di grazia generato dall’amore: si è riscoperta Popolo di Dio, Corpo di Cristo, tempio vivo dello Spirito Santo!». Viene da chiedersi se e a quanti sia arrivata l’esortazione del Papa, e quanto sia stata presa in considerazione da una Chiesa sazia di parole ripetitive e di assemblee dimostrative, incurante di riscoprirsi e di volersi di Dio, «Corpo di Cristo, tempio vivo dello Spirito Santo!». Se la nostra attenzione si porta a questa scadenza storica non è per pura nostalgia di un tempo di grazia, né per l’illusione che possa esserci finalmente la risposta giusta. È semplicemente perché alla richiesta di Cristo di amarlo e di pascere il suo gregge va data comunque risposta; e se anche non ci fosse stato il Vaticano II che ha iniziato a darla in forma solenne e globale, è più che mai urgente darla noi ora, nello stesso spirito e con la stessa passione. Almeno come prospettiva e necessaria tensione, per non rimanere vittime di assuefazione e neo-conformismo.
Forse si ritiene che dal punto di vista storico, interpretativo, normativo e spirituale il Vaticano II abbia fatto il suo tempo, per lasciarlo cadere in oblio: ma se rimane quella «profezia» che ha voluto essere nella sua stessa origine, il suo significato è intatto e tutto da compiersi, se c’è chi se ne fa carico come della stessa necessità di annunciare il Vangelo. È finito il tempo di girarci intorno ed è necessario entrare nel vivo di questo evento di grazia. Quello che P. Chenu scriveva nel 1985 – «Un Concilio profetico» è più che mai una lezione di metodo e una direzione di marcia per chi ha messo mano all’aratro.
(da «Koinonia», novembre 2022)
Italia – Preoccupazioni cattoliche sul governo destrorso
La vittoria del destra e l’affermazione in particolare di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni pone, tra gli altri, il tema del rapporto che il nuovo esecutivo riuscirà a instaurare con la Chiesa cattolica.
L’agenzia di stampa dei vertici della Cei ha evidenziato con preoccupazione il dato dell’astensionismo, che aumenta di 9 punti rispetto al 2019, assieme all’affermazione eclatante di Fratelli d’Italia. Viene sottolineato quanto la coalizione che governa Italia sia lontanissima dal rappresentare la maggioranza del Paese. Se si calcolassero le percentuali sull’intero corpo elettorale, il partito di gran lunga più votato (Fdl) sarebbe intorno al 14% e il secondo (il Pd) al 10%. La coalizione vincente, ha ricevuto i consensi di meno di un quarto dei potenziali elettori.
Analoga la constatazione del presidente della Cei, il card. Matteo Zuppi: «Purtroppo, dobbiamo registrare con preoccupazione il crescente astensionismo, che ha caratterizzato questa tornata elettorale, raggiungendo livelli mai visti in passato. È il sintomo di un disagio che non può essere archiviato con superficialità e che deve invece essere ascoltato. Per questo, rinnoviamo con ancora maggiore convinzione l’invito a «essere protagonisti del futuro», nella consapevolezza che sia necessario ricostruire un tessuto di relazioni umane, di cui anche la politica non può fare a meno». Ha poi aggiunto la preoccupazione della Cei per le fasce più deboli della popolazione, stilando una sorta di «agenda sociale» molto ampia, che dovrebbe affrontare «le povertà in aumento costante e preoccupante, l’inverno demografico, la protezione degli anziani, i divari tra i territori, la transizione ecologica e la crisi energetica, la difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, l’accoglienza, la tutela, la promozione e l’integrazione dei migranti, il superamento delle lungaggini burocratiche», oltre che «riforme dell’espressione democratica dello Stato e della legge elettorale».
In un’intervista al quotidiano «Avvenire», concessa il giorno successivo (28 settembre), Zuppi ha poi aggiunto la sua preoccupazione per l’eventua-
le modifica in senso presidenzialista della Costituzione (mai piaciuta alla Chiesa): «Sappiamo che ci sono i meccanismi per cambiare la lettera della Costituzione. Ma ciò che non dobbiamo cambiare è lo spirito e la visione che animarono i padri costituenti, spirito alto di grande idealità e di grande convergenza comune, nato dall’esperienza della mancanza di libertà del fascismo e degli anni terribili della guerra».
Meno sfumato nei toni l’editoriale, comparso su «Avvenire» il 27 settembre, del direttore dell’organo della presidenza della Cei Marco Tarquinio: «Parlare di destracentro, a questo punto, non è una forzatura, ma più che mai una constatazione e un inchinarsi al dato di realtà rivendicato con forza da colei che ha reinventato dalle ceneri del partito quasi unico del centrodestra, il vecchio «partito blu» postmissino, nazionalsovranista e neoconservatore. Una destra moderna, ostinata e ostentata, diventata di colpo egemone nella coalizione creata e a lungo guidata da Silvio Berlusconi e, in seguito, capitanata da Matteo Salvini. Giorgia Meloni è una quarantenne che fa politica da trent’anni, non una rottamatrice, non un’antipolitica. È stata vicepresidente della Camera e ministra, e quando dice di sentirsi chiamata a «responsabilità» non parla a vanvera. Ma è anche portatrice di affilate visioni nazionaliste e presidenzialiste. E le ha proiettate, quasi sferrate, con decisione sia nel lento e faticoso cantiere federalista europeo sia, e persino di più, nel delicato «cambiamento d’epoca» in cui sta entrando la Repubblica nata dalla Resistenza. Difficile credere, per tanti impossibile, che la grande rassicurazione possa essere un atlantismo diventato sinonimo della partecipazione attiva alla disastrosa deriva bellica in corso in Europa dopo l’invasione russa dell’Ucraina».
La scossa elettorale, secondo Tarquinio, è stata indubbiamente forte. «Ma per governare con efficacia un’Italia ferita da povertà, pandemia, disuguaglianze territoriali, disillusioni e guerra bisognerà saper controllare e frenare le scosse, non moltiplicarle».
(da «Adista», ottobre 2022)
Dove sono giustizia e tutela delle vittime?
Indignazione di Noi Siamo Chiesa al primo report della CEI sugli abusi
Il primo Report sugli abusi presentato dalla Conferenza episcopale italiana nasce gravemente compromesso e dimostra ancora una volta che la volontà di prendere le distanze dalla cultura dell’omertà e dell’insabbiamento non fa parte dell’agenda CEI. Esso si concentra più che altro sulle iniziative di formazione messe in atto, pretendendo di realizzare misure preventive senza verità e senza giustizia per le vittime. Il dato di 89 vittime nel periodo 2020-2021 solo nei Centri d’ascolto diocesani, più che illuminare un angolo buio, oscura la piena portata della verità: quante sono le vittime reali, se è lo stesso Report ad ammettere la scarsa interazione dei Servizi diocesani con le istituzioni civili? Esso nasce compromesso perché l’approccio stesso della CEI rivela che nulla è cambiato sotto il profilo della ricerca di verità e giustizia. […]
I dati
Le cifre fornite nascondono una voragine prospettica; gravi le carenze nella base dati, ridicolo l’arco temporale di due anni e ancor più gravi le assenze, spesso ingiustificabili, come quella di quasi un quarto delle diocesi totali, ben sessanta, che non hanno dato risposte sulla propria attività. Completamente omesso è nel Report l’ambito degli abusi nei confronti donne adulte e religiose e delle vittime di derive settarie. Non sorprende che dei già pochi 90 Centri d’ascolto esistenti (che coprono solo il 70% delle diocesi) solo 30 abbiano ricevuto segnalazioni di abusi: una dimostrazione del fatto – già contestato da #ItalyChurchToo – che questo organismo non presenta le caratteristiche di terzietà atte a mettere la vittima nelle condizioni di denunciare in modo agevole e sereno. La base temporale presa in considerazione dal Report – 2020-2021 – è del tutto insufficiente: ci si aspettava già da ora almeno i dati relativi agli ultimi 20 anni in possesso del Dicastero per la Dottrina della Fede, promessi lo scorso maggio, ma si è appreso che solo ora la CEI starebbe mettendo a punto il relativo protocollo di collaborazione. Per contro si apprende – in modo del tutto fortuito e non previsto, solo grazie alla domanda di un giornalista – un dato rilevante non espresso nel Report, relativo al numero di 613 fascicoli depositati dalle diocesi in Vaticano in vent’anni.
Gli alibi
È apparsa vistosa, alla conferenza stampa, l’assenza del cardinale Zuppi: proprio lui, che si era impegnato personalmente, da neopresidente della CEI, all’attenzione alle vittime e a portare avanti un dialogo con esse: se tale dialogo è stato avviato ma poi è cessato perché venuta meno la sua dimensione puramente confidenziale, come puntualizzato da mons. Ghizzoni del servizio tutela minori della CEI, è lecito chiedersi quale fosse, nelle premesse, la sua valenza politica e il suo senso profondo.
Si persiste con il non rendere obbligatoria la denuncia alle autorità civili da parte della struttura ecclesiastica, rimandando tale compito solo alla vittima, dalla quale ci si premura di raccogliere una dichiarazione impegnativa nel caso di rinuncia: un atto di malcelata autoprotezione che, in definitiva, mette a repentaglio le vittime, fornendo al vescovo l’alibi di aver esortato la vittima a sporgere denuncia. Ma il documento potrebbe avere rilevanza probatoria ed essere utilizzata in sede processuale civile, penale e canonica a vantaggio del presunto abusante allo scopo di screditare la vittima che in seguito decida di rivolgersi alle autorità civili.
Viene poi vantata la partecipazione della Chiesa italiana all’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile afferente al Ministero della Famiglia – della cui attività in questi anni non si hanno notizie – in veste di osservatore permanente sul fenomeno degli abusi nella società, quando invece dovrebbe essere messa sotto osservazione da enti terzi. Il patto scellerato di connivenza c’è ed è funzionale a dissimulare le disuguaglianze, oggi più che in passato. La lotta deve convergere con il movimento per i diritti civili, l’affermazione della parità di genere e dei princìpi costituzionalmente garantiti almeno sulla carta.
Le vittime?
In tutto questo, dove sono le vittime?
Risibili sono le «numerose opzioni» di accompagnamento offerte loro: tra di esse spiccano, per frequenza (ma senza raggiungere nemmeno la metà dei casi), quelli che appaiono in realtà prerequisiti: informazioni e aggiornamenti sull’iter della pratica e incontri
con il vescovo. Per i presunti autori degli abusi, «percorsi di riparazione, responsabilizzazione e conversione, compresi l’inserimento in «comunità di accoglienza specializzata» e percorsi di «accompagnamento psicoterapeutico», ma senza il necessario iter giuridico. Nel Report, poi, non si trova nemmeno una volta il termine «risarcimento», passaggio doveroso nel percorso di riconoscimento delle responsabilità. Ma mons. Ghizzoni, al convegno «Dalla parte delle vittime» del 19 novembre, ha ribadito che risarcire non spetta alla Chiesa, semmai ai responsabili degli abusi nel momento in cui vengono condannati dalla magistratura civile. Un atteggiamento opaco e pilatesco, con cui si rimanda allo Stato la presa in carico dell’aspetto finanziario. Dal raffronto con quanto hanno posto in essere le Conferenze episcopali di altri Paesi (Francia, Germania e molti altri, come ben noto), la posizione, l’approccio e la dignità della Chiesa italiana escono demoliti e privi di credibilità. L’atteggiamento della gerarchia è disarmante e per nulla evangelico! Non basta che la Chiesa si spenda sui grandi temi che in fondo non la pongono in contrasto puntuale con la realtà nazionale e costano poco in termini di autocritica e di lavoro per recuperare credibilità. Quale il clericalismo da combattere? Quale la giustizia da praticare? Quali verità da conseguire? Con la schiena dritta #ItalyChurchToo rinnova le sue pressanti richieste. In particolare:
– creazione di commissioni indipendenti ed esterne da parte dello Stato e della Chiesa;
– totale messa a disposizione degli archivi diocesani e di ogni istituzione della Chiesa;
– individuazione e allontanamento immediato di chi ha omesso e coperto – denuncia all’autorità giudiziaria dei presunti colpevoli;
– ampliamento alla Chiesa della richiesta del certificato antipedofilia previsto dalla Convenzione di Lanzarote per tutti coloro (educatori, volontari, ecc.) che entrano in contatto con i minori anche, ovviamente, all’interno delle strutture ecclesiali. Così non si va da nessuna parte: non si può fare prevenzione senza prima fare verità e giustizia.
Dal testo di V. Bellavite del 25.11.2022 (www.noisiamochiesa.org)
BIBLIOTECA
Frutti autunnali in libreria
L’autunno è la stagione della raccolta dei frutti non solo sui campi in cui si è dapprima seminato, ma anche in quello dei frutti dell’intelletto, comunicato a molti di noi attraverso lo strumento del libro cartaceo o, sempre più, anche virtuale. Invito qui i lettori e le lettrici di «Dialoghi» a prendere nota di alcune pubblicazioni recenti, a partecipare alla vendemmia culturale di questo autunno, scegliendo tra libri che toccano i nodi della nostra esistenza in società e nelle comunità ecclesiali. La scelta dei temi è evidentemente dovuta al recensore che qui scrive, ma che non può assicurare che tale scelta aveva sempre presente, almeno nella sua mente, chi legge questa rivista e i suoi potenziali interessi.
La pandemia che ha toccato molti Paesi vicini e lontani continua a far discutere anche se i toni sembrano diventare meno tragici, almeno alle nostre latitudini. Tre libri al riguardo hanno attirato la mia attenzione, perché approfondiscono tematiche da noi non estremamente frequentate.
La prima di esse riguarda la dimensione etica del fenomeno pandemico stesso. Si potrebbe, a prima vista, pensare che le intuizioni morali che ci abitano nella vita di tutti i giorni valgano automaticamente anche per i quesiti posti dalla pandemia. Il contrario è più credibile. Infatti, le pandemie vengono oggi combattute non tanto con riti propiziatori come nel passato: pellegrinaggi, processioni, penitenze pubbliche e quant’altro, bensì mediante strategie complesse che in gran parte non sono note al grande pubblico. Ciò spiega, almeno parzialmente, la resistenza talvolta manifestatasi nei confronti di misure e strategie imposte dalle autorità sanitarie di un Paese. Il volume, edito presso Mimesis, raccoglie diversi saggi ruotanti attorno a diversi quesiti morali suscitati appunto dalle varie strategie sanitarie adottate nei confronti della pandemia.. La pubblicazione raccoglie saggi che ri-
salgono a manifestazioni e dibattiti organizzati da un Istituto di bioetica sito presso un’università di Napoli, ma con contributi di autori di tutta Italia. Non potendo qui informare su ogni singolo saggio, mi permetto solo di evocarne alcuni che mi sono sembrati particolarmente originali e significativi.
Luisella Battaglia, in apertura del volume, analizza il fenomeno del passaggio del virus alla specie umana, con tutte le conseguenze (soprattutto nefaste) del caso, per raccomandare a noi tutti maggiore rispetto dell’habitat di vari animali e dei loro comportamenti, in modo da poter evitare queste trasmigrazioni di specie, particolarmente pericolose per l’uomo, quando non fossero ben conosciute e gestite. L’Autrice del saggio prende lo spunto da questo complesso fenomeno per discutere, in prospettiva morale, le nostre abitudini alimentari e le loro ricadute sulla salute degli esseri umani. Dobbiamo saper rispondere di fronte ai fenomeni pandemici, cioè assumere (come dice la parola stessa) responsabilità nelle nostre interazioni con il mondo naturale e con le nostre abitudini alimentari. Di fronte alla paura che ha invaso la mente di molti di noi, è necessaria un’attitudine legata a una moderata speranza, come già è stata perorata ieri da Kant e oggi da Nussbaum. Queste attitudini debbono essere esercitate tenendo conto della condizione di strutturale vulnerabilità in cui versano molti esseri umani attorno a noi.
Un altro saggio che ha attirato la mia attenzione tocca il problema della possibile legittimazione di un obbligo vaccinale, sempre nel contesto della pandemia covid. L’Autore, Carlo Iannello dell’Università della Campania, cerca di dare una risposta equilibrata all’interrogativo: si ispira al testo della Costituzione italiana che cerca di legittimare un tale obbligo, in presenza di un vantaggio sia per la persona oggetto dell’obbligo sia per la collettività tutta. Alle nostre latitudini tale obbligo non è mai stato oggetto di vero dibattito pubblico, anche se una riflessione sul rapporto tra tutela della salute di ogni cittadino e tutela della collettività avrebbe avuto buone ragioni per essere discusso pubblicamente.
L’insieme del volume è chiaramente consigliabile anche se fortunatamente la pandemia, almeno da noi, sembra essere uscita dalla fase acuta. Speriamo che nei prossimi anni ci siano risparmiate pandemie, ma speriamo al
contempo che le riflessioni che sono state elaborate in occasione degli anni covid non vengano frettolosamente dimenticate.
Le sfide del Covid-19 alla bioetica. A cura di R. Prodomo e A. Maccaro. Milano: Mimesis ed. 2022.
Un secondo volume apparso in Italia ha attirato il mio interesse e la mia attenzione, perché mi è sembrato attuale anche per il contesto elvetico nell’ambito della lotta al coronavirus. Si tratta del fenomeno della cosiddetta «immunità di gregge», cioè della situazione che emerge quando una popolazione ha accettato in quantità cospicua la vaccinazione in modo da rallentare fortemente la diffusione del virus. La popolazione elvetica si è lasciata liberamente vaccinare raggiungendo un tasso non ottimale, ma comunque sufficientemente rappresentativo per ottenere un effetto di frenaggio che non mette più in pericolo il sistema sanitario del Paese. Il volume di Francesco Fusco esamina il fenomeno dell’immunità di gregge nella sua complessità, senza alcuna semplificazione consolatoria, pur rimanendo comprensibile anche per gli estranei alla ricerca nell’ambito della salute pubblica. Lo consigliamo a tutti coloro che continuano a preoccuparsi per il futuro della propria salute, temendo ritorni tragici di situazioni come quelle legate agli anni 2020 e 2021. Convivere con il virus è formula che viene meccanicamente spesso ripetuta, ma raramente compresa nella sua complessità. Il libro di Fusco non cerca di vendere una speranza a buon mercato, ma trasmette comunque un messaggio che tende perlomeno a tenere sotto controllo la paura che continua ad abitarci.
Fusco, F.: Aspettando l’immunità di gregge? Roma: Castelvecchi ed. 2022. * * *
La guerra sferrata dall’esercito della Federazione russa contro l’Ucraina non sembra purtroppo voler cessare, mentre noi abitanti dell’Europa occidentale ci stiamo abituando ad essa senza capirla fino in fondo. Tra la quantità esorbitante di pubblicazioni uscite nelle varie lingue europee, ne
ho scelto due che dovrebbero aiutarci a capire le radici storiche che stanno dietro questo conflitto bellico sanguinoso.
La prima di esse è in lingua francese e meriterebbe senz’altro una traduzione in italiano anche, e soprattutto, perché presta particolare attenzione alla dimensione religiosa che connota questo conflitto armato. L’Autore, non ancora conosciuto dal pubblico italofono, è uno studioso di origine greca e di religione ortodossa, che risiede da molti anni a Parigi e che attualmente dirige Les Éditions du Cerf, casa editrice cattolica legata all’ordine dei domenicani. Colosimo è profondo conoscitore delle tradizioni legate al Cristianesimo orientale, della civiltà bizantina nelle sue varie sfaccettature nazionali, da quella greca, attraverso quella armena, fino a quella russa e ucraina. Egli legge l’attuale guerra attraverso un’analisi differenziata di queste tradizioni che trovano sul terreno ucraino il loro luogo di incontro e al contempo di scontro. Con una prosa avvincente e mai superficiale, Colosimo tenta di iniziare il lettore euro-occidentale, e legato al Cristianesimo di matrice latina quale è il nostro, agli sviluppi della civiltà bizantina, caratterizzata dalle variazioni di elementi provenienti dalla comune origine dell’impero romano e dall’influsso delle culture slave presenti su un vastissimo territorio, che parte da Costantinopoli e va fino al mare baltico. Il nostro Autore non semplifica gli influssi sviluppatisi lungo i secoli, ma cerca il loro denominatore comune nella fede cristiana che si lega in maniera fusionale ai vari poteri politici che hanno dominato i secoli che ci precedono in queste nazioni sorte più o meno direttamente dall’impero romano d’oriente. Il territorio che corrisponde all’attuale Ucraina è luogo impregnato culturalmente e religiosamente da fattori diversi che vanno dall’influsso della Russia moscovita fino all’impero absburgico sul suo fianco occidentale. Evidentemente non tutto può essere spiegato ricorrendo solo al retroterra storico ucraino, ma le considerazioni di Colosimo mi sono sembrate particolarmente illuminanti anche per capire meglio il momento presente. Non posso, quindi, che raccomandare a chi legge «Dialoghi» la lettura preziosa di questo libro.
Sempre tra le pubblicazioni a carattere storico, ho trovato quella di Plokhy, docente di storia ucraina ad Harvard, pubblicazione meno centrata di quella precedente sul fattore religioso, ma comunque attenta alla molteplicità di
influssi su questo territorio vastissimo (più grande ad esempio della Francia) che si autocomprende come luogo di frontiera e di presenze-occupazioni di matrice molto diverse tra loro. A partire dall’ottocento, è sorto comunque un sentimento nazionale legato al territorio, che ha voluto coniugare armonicamente i vari fattori culturali e politici in gioco. La guerra attuale, al di là della tragedia per tutti coloro che la vivono sulla propria pelle, costituisce anche un’offesa all’identità culturale di questo Paese nella misura in cui essa vive dell’ideologia di una riduzione dell’Ucraina a semplice appendice della nazione russa. Plokhy sostiene con convinzione che un’analisi storica del conflitto in corso serve anche a una migliore autocomprensione dell’Europa da parte di coloro che assistono parzialmente impotenti a questa guerra rimanendo solo spettatori sul suo fianco occidentale.
Colosimo, J.-F.: La crucifixion de l’Ukraine. Paris: Albin Michel éd. 2022.
Plokhy, S.: Le porte d’Europa. Storia dell’Ucraina. Milano: Mondadori ed. 2022. * * *
Concludo questa carrellata di novità librarie, visto che essa appare in una rivista che si vuole di riflessione cristiana, con un libro che intende essere un’analisi del momento difficile, per non dire tragico, che vive la Chiesa cattolica nel continente europeo.
Due autori particolarmente noti in Francia, la prima sociologa della religione e il secondo redattore della rivista Esprit, si chinano sulla situazione attuale della Chiesa cattolica, ponendo uno sguardo non solo francocentrico, bensì ben più ampio (si potrebbe dire uno sguardo «cattolico», cioè universale). La sua lettura mi è sembrata particolarmente avvincente, perché rifugge da ogni tono sia scandalistico sia catastrofico, pur riconoscendo il lato «tragico» del momento presente. I due Autori analizzano due fenomeni che hanno reso visibile la crisi dell’istituzione ecclesiale cattolica, sia se vissuta al suo interno sia osservata dal di fuori: dapprima lo svelamento pubblico del fenomeno degli abusi sessuali su minori e su donne maggiorenni ma indifese da parte di vari membri del clero cattolico, e in seguito la forte diminuzione della frequentazione
liturgica durante e dopo la fase acuta della pandemia virale. Sia HervieuLéger sia Schlegel non affermano che questi fenomeni sono la causa diretta che spiega la tragicità del momento attuale, ma sono convinti che entrambi hanno contributo a rendere visibile a tutti la sua ineluttabilità. Ambedue gli Autori si chinano anche su vari tentativi di superamento della crisi in atto, come ad esempio il sorgere e il diffondersi di vari «movimenti» che intendono essere un’alternativa al cattolicesimo «parrocchiale» che l’istituzione continua a coltivare. La loro attenzione prende in considerazione anche i vari movimenti di «cattolicesimo tradizionale», caratterizzati da una pretesa fedeltà al dogma cattolico, ma che al contempo disattende e combatte le indicazioni e le decisioni di papa e vescovi in vari ambiti, da quello liturgico a quello dell’impegno socio-politico. La lettura del volume, anche se evidentemente riferito al contesto francese, è particolarmente arricchente per chi lo volesse leggere nel contesto svizzero-italiano. L’implosione del cattolicesimo e la fatica delle vie d’uscita sono infatti visibili a occhio nudo anche per chi vive nelle nostre vicinanze.
Hervieu-Léger, D. - Schlegel, J.L.: Vers l’implosion? Entretiens sur le présent et l’avenir du catholicisme Paris: Seuil éd. 2022.
(Continua da pagina 10)
Mettere fine
Tutto questo, beninteso, si radica in una più giusta comprensione del «sacro», radicalmente trasformato da Cristo. Ciò comporterebbe enormi conseguenze, in particolare nella comprensione del sacrificio di Cristo e dell’eucarestia. È tutta la vita della Chiesa che ne è coinvolta. Noi possiamo sperare che questo sarà un settore capitale di immenso lavoro che attende il prossimo Sinodo voluto da papa Francesco. Questo «cammino insieme» potrebbe contribuire a una nuova evangelizzazione, per dare un colore veramente evangelico alla Chiesa.
Questo articolo è apparso sul numero 704 di «Choisir», maggio 2022. Traduzione di M.N.
alla classe sacerdotale Cambiare è possibile
CRONACA SVIZZERA
Svizzera sotto esame. Per la quarta volta dal 2001, il gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha esaminato l’attuazione in Svizzera della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donne e ha redatto un documento con una settantina di raccomandazioni. L’Onu si aspetta miglioramenti su diversi punti. In ogni Cantone dovrebbe esserci un ufficio specializzato per l’uguaglianza, mentre è necessario intervenire contro le disparità salariali, estendendo l’obbligo di analisi sui salari a tutti (datori di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni della società). Occorre inoltre definire la fattispecie del reato di stupro sulla base della mancanza di consenso della vittima. Questa modifica del diritto penale è attualmente all’esame del Parlamento. La Svizzera ha ratificato nel 1997 la CEDAW, strumento principale per la difesa dei diritti delle donne a livello internazionale. Finora vi hanno aderito 189 dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite.
La Chiesa svizzera perde pezzi. Continuano a crescere le persone che decidono di uscire dalla Chiesa cattolica. Nel 2021 hanno lasciato la comunità 34.182 fedeli, un record. Nel 2019 lo avevano fatto in 31.772, 31.410 nel 2020. Alla fine dello scorso anno, la Chiesa cattolica contava circa 2,96 milioni di membri. Le statistiche pubblicate dall’Istituto svizzero di sociologia pastorale (SPI) non tengono però conto delle persone che lasciano la Chiesa nei cantoni Ticino e Basilea Campagna, per i quali non esistono dati.
Svizzeri poveri. Secondo l’Ufficio federale di statistica, in Svizzera sono 720.000 le persone colpite da povertà, con un tasso in costante aumento dal 2014. I dati riflettono la situazione del 2019 e rappresentano quindi un livello precrisi. Più a rischio sono le madri single con figli minori a carico e le persone straniere. L’iniziativa parlamentare «La povertà non è un crimine» a favore di una più efficace assistenza sociale agli stranieri è stata
adottata dal Consiglio nazionale con 96 voti favorevoli contro 86. Soddisfazione è stata espressa da HEKS e Caritas, che l’avevano sostenuta. In Ticino, secondo Pro Senectute, la percentuale di anziani sopra i 65 anni che vive in condizione di precarietà economica sfiora il 30%: un dato più alto rispetto al resto della Svizzera. Sono invece 46.000 gli anziani colpiti da povertà estrema, che hanno cioè a disposizione meno di 2.279 franchi al mese.
Insegnare le religioni. Le Chiese svizzere ritengono che i maturandi svizzeri devono possedere anche conoscenze sulle religioni. Nella consultazione per la revisione dell’Ordinanza federale sulla maturità che lascerebbe l’insegnamento della religione e della filosofia a discrezione dei singoli cantoni, le Chiese svizzere si sono dette a favore dell’introduzione di una materia obbligatoria denominata «religioni», al plurale, che potrebbe essere affiancata anche alla materia «filosofia». Nella loro risposta si è osservato come «tale materia crea le condizioni per dare alle questioni religiose, etiche e filosofiche l’importanza che meritano» per stimolare i titolari di un diploma di maturità su questioni esistenziali. Nella loro presa di posizione, le Chiese sottolineano l’importanza culturale e sociale della materia «religioni» che consente ai giovani di affrontare con competenza l’etica e la morale.
Madri al lavoro. Nel 2021 il tasso di attività delle madri (in questa sede si considerano come madri le donne dai 25 ai 54 anni con almeno un/a figlia/a di età inferiore ai 15 anni che vive nella stessa economia domestica) era dell’82%, in aumento di oltre 20 punti percentuali nell’arco di 30 anni (nel 1991 erano il 59,6%). Il tasso di attività dei padri si è mantenuto più alto (1991: 98,9%; 2021: 96,9%) sebbene sia calato del 2%. Nel 2021, il 78,1% delle madri occupate lavorava a tempo parziale (donne dai 25 ai 54 anni senza figli: 35,2%). Sempre più madri lavorano con un elevato grado di occupazione: la quota delle madri con un grado dal 50 all’89% è passata dal 25,7% nel 1991 al 44,7% nel 2021, mentre quella delle madri con grado di occupazione inferiore al 50% è calata dal 51 al 33,4%. Con un tasso di disoccupazione pari al 5,6% nel 2021, le madri erano confrontate a questo problema più spesso delle loro coetanee senza figli (4,6%); inoltre il tasso di disoccupazione era
particolarmente elevato tra le madri di nazionalità straniera. È invece rimasta bassa per i padri di nazionalità straniera. Confrontando la Svizzera con i Paesi dell’UE, il tasso di occupazione delle madri con figlio/a era in ottava posizione (74,9%), a nove punti da quello più elevato registrato in Portogallo (83,6%).
Giovani e politica. È in aumento il numero dei giovani adulti che non si interessano all’attualità. Lo afferma uno studio dell’università di Zurigo, sull’uso dei media sui cellulari da parte di oltre 300 persone di età compresa tra i 19 e i 24 anni. Il fenomeno è più marcato fra le donne con cinque minuti, contro undici per gli uomini. I giovani che non si informano costituiscono il 38% della popolazione svizzera. Una caratteristica di questo gruppo è anche un minore interesse nei confronti della politica e una minore fiducia nel Governo. I «deprivati di notizie» non si astengono però completamente dalla politica, ma si lasciano mobilitare per singole votazioni. Si tratta comunque di una tendenza di fondo che non riguarda solo i giovani. In Svizzera, l’interesse per le notizie è diminuito, seppure in maniera più moderata rispetto ad altri Paesi. Nel 2022, solo il 50% degli intervistati si dichiara interessato o fortemente interessato alle notizie; nel 2021 erano il 57%.
Successi scolastici. Gli allievi ticinesi sono addirittura più preparati dei colleghi Oltre Gottardo. È questa la conclusione a cui giunge l’edizione del 2022 di «Scuola ticinese in cifre» Infatti, nove giovani su dieci ottengono una certificazione di grado secondario, sei su dieci un attestato di maturità liceale, professionale o specializzata, e otto su dieci il bachelor. Purtroppo, una volta terminati gli studi, è difficile trovare impiego nel mercato del lavoro ticinese e, sempre più spesso, si trovano migliori opportunità lavorative e meglio retribuite fuori dal cantone. Anche il tasso di maturità entro i 25 anni in Ticino è il più alto della Svizzera: attorno al 57%; mentre nei cantoni germanofoni si tende a privilegiare socialmente le scuole professionali, vincenti nel confronto con i licei. A livello universitario, dopo otto anni dall’immatricolazione, l’80% dei ticinesi ha conseguito almeno un bachelor. Con la quota di diplomati nelle università del 20%, il Ticino è solo, dopo Ginevra, mentre per le SUP è a metà classifica.
CRONACA INTERNAZIONALE
a cura di Alberto Lepori
Parole chiare. Di fronte alla violenza sulle donne, papa Francesco, in occasione dell’udienza generale del 7 dicembre, ha pronunciato parole chiare: «La possessività è nemica del bene e uccide l’affetto: i tanti casi di violenza in ambito domestico, di cui abbiamo purtroppo notizie frequenti, nascono quasi sempre dalla pretesa di possedere l’affetto dell’altro, dalla ricerca di una sicurezza assoluta che uccide la libertà e soffoca la vita, rendendola un inferno. Possiamo amare solo nella libertà, per questo il Signore ci ha creato liberi, liberi anche di dirgli di no». A buon inteditor…
Richieste femminili al Sinodo. Le donne cattoliche vogliono pari dignità e pari diritti nella Chiesa e lo hanno dimostrato simbolicamente con un pellegrinaggio a Roma (14 ottobre), durante il quale una delegazione di membri del Consiglio direttivo del Catholic Women’s Council (CWC), rete globale che riunisce più di 60 organizzazioni di donne cattoliche nei cinque continenti, ha consegnato in Vaticano per l’Ufficio del Sinodo, le conclusioni del processo sinodale da loro svolto. Fondamentali le questioni sul tappeto: condizione delle donne nella Chiesa, potere e partecipazione, strutture e trasparenza, vita sacramentale, resistenza e speranza, declinate con spirito inclusivo a partire dalla ricchezza di culture e di background che non compongono una unica voce femminile, bensì una pluralità di approcci, dispiegata anche nel cammino sinodale. Il rapporto si basa anche su un sondaggio pubblicato in otto lingue ed eseguito tra marzo e aprile scorsi, che ha ottenuto 17mila risposte da 104 Paesi, fornendo un quadro sul sentire femminile nella Chiesa di ampiezza senza precedenti, e costituirà la base di una pubblicazione che ne analizzerà i dati dal punto di vista sociologico e che vedrà la luce all’inizio del 2023. Il rapporto evidenzia la frustrazione e la sofferenza vissute dalle donne cattoliche di tutto il mondo rispetto all’abuso di potere, al clericalismo, alla discriminazione, al sessismo sperimentati dalle donne all’interno della Chiesa (un più ampio riassunto in «Adista» ottobre 2022).
Premiata Angela Merkel. L’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ha ricevuto il più alto riconoscimento dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati per il suo impegno nell’accogliere più di un milione di persone in Germania nel 2015 e 2016. Il premio viene assegnato ogni anno a una persona o a un’organizzazione che abbia dato un contributo eccezionale alla protezione dei rifugiati, Nel 2019 erano stati premiati i «corridoi umanitari» promossi dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Chiesa valdese e Comunità di Sant’Egidio. Sotto la guida di Angela Merkel, la Germania ha accolto più di 1,2 milioni di rifugiati e richiedenti asilo nel 2015 e nel 2016, contribuendo a evidenziare la condizione dei rifugiati a livello globale. Filippo Grandi, Alto Commissario per i Rifugiati, ha elogiato la determinazione dell’ex cancelliera nel lottare per la protezione dei rifugiati, i diritti umani, i principi umanitari e il diritto internazionale: facendo appello alla comune umanità e rimanendo ferma contro coloro che invocavano paura e discriminazione.
Donna, vita, libertà. Proteste delle donne in Iran e aggressione turca ai danni dei popoli curdi in Siria e Iraq: anche il Forum Italiano del Movimenti per l’Acqua (nato nel 2006, riunisce comitati territoriali, organizzazioni sociali, sindacati, associazioni e singoli cittadini che si battono per l’acqua bene comune) esprime solidarietà e chiede misure urgenti per l’immediata sospensione della violazione dei diritti di uomini, donne e minoranze. In una nota odierna il Forum così scrive: «In questi mesi donne e uomini stanno resistendo all’aggressione del regime turco in Siria e in Iraq e alla repressione da parte del regime iraniano nei confronti delle comunità curde e di altre minoranze. Donne e uomini stanno inoltre da mesi manifestando contro questi regimi dittatoriali, anche a rischio della vita, contro la discriminazione e la violenza nei confronti delle donne e delle tante minoranze oppresse. Al grido di “Donna Vita Libertà” stanno lottando per un nuovo modello di società alternativo ai regimi autocratici e patriarcali in Turchia, Iran e in tutto il Medio Oriente. A queste persone e comunità il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua esprime la propria solidarietà e chiede che l’opinione pubblica si mobiliti e le istituzioni si adoperino con misure efficaci per l’immediata cessazione delle aggressioni militari e delle repressioni, per la liberazione
delle persone detenute e per il riconoscimento delle istanze di libertà, giustizia e inclusività sostenute dal confederalismo democratico e da chi manifesta in Iran, in Turchia e in tutto il Medio Oriente. Chiede infine la tutela per esuli e rifugiati all’estero e la garanzia di esclusione da qualsiasi rischio di estradizione. Al riguardo denuncia il vergognoso accordo che ha portato all’estradizione dalla Svezia alla Turchia del militante curdo Mahmut Tat».
Donne coraggiose. Il numero di dicembre de «Il gallo» pubblica un articolo di Rosa Elisa Giangoia dedicato alle donne che nel corso della storia del cristianesimo, a partire dai primi secoli, hanno fatto una scelta che le ha portate a sostenere un’idea o a seguire una dottrina diversa da quella ufficiale della Chiesa, e che per questo sono state emarginate, allontanate, punite. Dagli uomini, evidentemente, che si sono autoproclamati detentori dell’ortodossia, pur sostenendo talvolta tesi molto lontane dal Vangelo. Dell’importanza delle donne nella vita della Chiesa cattolica parla spesso papa Francesco, ma le resistenze a riconoscere loro, de facto, un ruolo paritario agli uomini si scontrano sempre – almeno finora, domani magari chissà? – con la dottrina (scritta dagli uomini, intesi come maschi).
Stop a «Il Tetto». Dopo 60 anni il mensile «Il Tetto» interrompe le pubblicazioni. Ne dà notizia un comunicato del Comitato direttivo, che recita: «Cari amici, all’alba del 60° anno di attività abbiamo deciso di sospendere la pubblicazione de “Il tetto” per riorganizzarci e adeguarci nella sostanza e nella forma ai tempi nuovi, pertanto con l’ultimo numero del 2022 in uscita concluderemo questa prima serie con l’auspicio di riprendere in breve tempo». Solo pochi mesi fa la rivista aveva festeggiato il suo 60º compleanno con un numero speciale. La rivista, fondata nel 1963 da un gruppo di giovani, universitari e laureati, credenti e non credenti, cattolici e non, uniti tutti dall’intento di dar vita ad una strumento di confronto e di dialogo nella temperie conciliare. L’ha diretta per molti anni, e tuttora ne è il direttore editoriale, Pasquale Colella, in gioventù dirigente della Gioventù di Azione cattolica e dell’Unuri, che aderì poi al movimento dei cattolici del dissenso, ai Cristiani per il socialismo. La rivista è stata per molti anni un punto di riferimento nel dibattito ecclesiale, politico e civile del Paese, legando il suo impegno so-
prattutto al contesto della città e della Chiesa di Napoli. «Dialoghi» ringrazia gli amici del «Tetto» e augura loro di trovare presto la via per continuare la loro testimonianza alla forza liberatrice del messaggio del Vangelo. Ne abbiamo tutti bisogno!
Invito alla preghiera. Dopo una lunga attesa, nella moschea centrale di Colonia, in Germania, ha di nuovo suonato il richiamo alla preghiera attraverso gli altoparlanti venerdì 14 ottobre 2022. Il richiamo alla preghiera, noto in arabo come Azan o Adhan, sarà effettuato nell’ambito di un progetto pilota della durata di due anni. In base all’accordo, circa 35 moschee di Colonia saranno autorizzate a chiamare alla preghiera per un massimo di cinque minuti il venerdì tra mezzogiorno e le 15.00. A Colonia vivono circa 100.000 musulmani di diverse origini. L’appello alla preghiera, intonato dal muezzin cinque volte al giorno, richiama i musulmani alla preghiera e comunica una sintesi delle credenze islamiche.
Migranti e schiavi. I dati raccolti da diverse agenzie delle Nazioni Unite riferiscono che, negli ultimi 9 anni, quasi 25.000 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo, quasi 20.000 dei quali lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Solo nel 2022, sono già 1.400 le persone morte o disperse nel Mare nostrum. Di queste, l’84% sulla rotta del Mediterraneo centrale che si conferma come una delle più attive e pericolose a livello globale. Numeri ai quali si aggiungono i dati di un importante rapporto pubblicato a metà settembre su lavoro e matrimoni forzati, ovvero le forme di «schiavitù moderna», una piaga sociale che colpisce, inevitabilmente, in modo specifico i migranti, in quanto persone più vulnerabili, meno protette dalle istituzioni, spesso prive di documenti e quindi maggiormente ricattabili. L’Italia è tornata a essere terra d’approdo per migliaia di persone in fuga. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, da aprile a settembre 2022 gli sbarchi sulle coste italiane hanno avuto una ripresa: fino al 28 settembre erano 70.409 le persone migranti sbarcate da inizio anno. Nello stesso periodo, nel 2021, furono 45.761, mentre nel 2020 gli arrivi via mare sono stati 23.582. Degli oltre 70.400 migranti sbarcati in Italia nel 2022, 14.549 sono di nazionalità tunisina (21%); gli altri provengono da Egitto (14.134, 20%), Bangladesh (10.660, 15%), ecc.
Comunità energetiche. In seguito alla 49ª Settimana Sociale dei cattolici italiani – che si è tenuta a Taranto il 21-24 ottobre 2021 e che si è conclusa con un appello urgente a costituire Comunità energetiche nelle oltre 25mila parrocchie del Paese – il Comitato Scientifico e Organizzatore ha diffuso un importante documento dal titolo «La sfida delle Comunità energetiche. Suggerimenti sul percorso per l’avvio» sottolineando che «le “Comunità energetiche” non si riducono a una scelta tecnica, ma sono il frutto di un cammino spirituale e antropologico fatto insieme in questi anni come Chiesa in ascolto del territorio. Sono il sogno comune di una comunità che coopera e cammina insieme. Sono un modo concreto di riaffermare “l’ecologia integrale” proposta dalla Chiesa come nuovo modello di sviluppo umano e sostenibile che ha anticipato le agende dei Governi del mondo sull’urgenza di guarire il pianeta dalle minacce del riscaldamento globale, dall’inquinamento e delle tante dimensioni dell’insostenibilità ambientale». Le Comunità energetiche rappresentano dunque una risposta concreta della Chiesa italiana di fronte alla crisi climatica, all’innalzamento dei costi per l’energia e all’esigenza di edificare un modello di sviluppo «dal volto umano», fondato su cooperazione, sostenibilità e solidarietà. Un opuscolo spiega che la Comunità energetica è un «soggetto giuridico», che raccoglie la partecipazione volontaria dei protagonisti del territorio (cittadini, aziende, esercizi commerciali, associazioni, comitati, enti religiosi, ecc.) che intendono consociarsi per condividere i benefici ambientali, economici e sociali derivanti dalla «produzione e l’autoconsumo di energia da fonti rinnovabili», contribuendo in tal modo «sia alla decarbonizzazione sia alla sicurezza energetica del Paese» (maggiori informazioni in «Adista» del 30 luglio 2022, n. 28).
Maggioranza cattolica. Il numero dei cattolici ha superato quello dei protestanti tra i cittadini dell’Irlanda del Nord. È quanto risulta dal censimento realizzato nel marzo 2021 e i cui risultati sono stati resi noti solo nello scorso settembre. Le persone di fede cattolica sarebbero il 45,7%, sul totale della popolazione, contro il 43,5% dei protestanti. Si tratta di un passaggio storico per la provincia britannica, creata nel 1921 per garantire che rimanesse parte del Regno Unito a fronte dell’indipendenza dell’Irlanda. Il numero dei cattolici è destinato
ad aumentare e potrebbe riaccendere le mai sopite istanze indipendentiste. L’Irlanda del Nord fu infatti creata a tavolino da Londra nel 1921 nel tentativo di risolvere una volta per tutte la «questione irlandese». A un quarto di secolo di distanza, quella che fino a poco tempo fa sembrava una roccaforte dell’identità protestante, adesso ha cambiato volto. La svolta demografica potrebbe rappresentare un ulteriore passo verso quel referendum sulla riunificazione con Dublino chiesto a gran voce dagli indipendentisti dello Sinn Féin, divenuto partito di maggioranza relativa alle elezioni del maggio scorso.
Religioni in Italia. Un’indagine sugli stranieri ha rilevato che la componente cristiana è maggioritaria e rappresenta la metà dei circa 5 milioni di stranieri alla fine del 2020. Tra questi una maggioranza è rappresentata dagli ortodossi, che sono circa un quarto, seguiti dai cattolici. I protestanti, delle varie denominazioni, rappresentano quasi un residente straniero su 20; mentre le altre confessioni minoritarie coprono quote più esigue. I musulmani, nella grande varietà delle loro provenienze e relative tradizioni, raccolgono nell’insieme un terzo dei cittadini stranieri (34,2%, sono circa 1,8 milioni di persone). La quota degli stranieri residenti riconducibili al complesso mosaico delle tradizioni religiose «orientali» è invece del 7,4% (oltre 500mila persone), tra cui prevalgono i buddisti (3,2%) e gli induisti (2,4%). È rilevante notare anche la presenza di atei e agnostici, pari a circa un ventesimo di tutti gli stranieri in Italia (quasi 270mila, il 5,2%), mentre risulta molto ridotta la quota dei seguaci delle cosiddette «religioni tradizionali» (1,4%) soprattutto africane, e di altri gruppi (1,7%), quantificabili in meno di 100mila presenze ciascuno, e residuale quella degli ebrei (0,1%).
Cambia l’Italia. In Italia si registra una crescita della popolazione straniera residente: al 1º gennaio 2022 risultavano 5.193.669 cittadini stranieri regolarmente residenti. La maggior parte sono rumeni (il 20,8% del totale), seguiti da albanesi (8,4%), marocchini (8,3%), cinesi (6,4%) e ucraini (4,6%), La popolazione straniera è più giovane di quella italiana: fra nati in Italia, nati all’estero e naturalizzati, gli stranieri con meno di 18 anni residenti superano quota 1.300.000, rappresentando il 13% del totale della popolazione.
NOTIZIARIO (IN)SOSTENIBILE
Basta plastica. Gli effetti del naufragio della nave container X-Press Pearl al largo di Colombo nel maggio 2021 continuano a creare problemi. Le spiagge dorate della costa sono diventate nere a causa del carburante bruciato e dei detriti portati dalle onde. La nave si era inabissata dopo aver preso fuoco con il suo carico di pellet di plastica, miliardi di minuscoli granuli usati nella produzione industriale. Non ancora classificati come materiale pericoloso ma in grado di causare danni paragonabili a quelli del petrolio, i pellet sono scambiati per cibo da uccelli, pesci e altre specie marine. Il piano delle autorità per ripulire la costa insieme alla popolazione prosegue, ma l’impresa è titanica: i pellet non solo ricoprono la superficie della costa ma si trovano fino a due metri di profondità.
Veleni. Le persone entrano in contatto con pesticidi in diverse situazioni: lavorando nei campi o nelle foreste, assumendo generi alimentari o acqua potabile. Se subito dopo il contatto si manifestano dei sintomi, in termine medico si parla di avvelenamento acuto. Le vittime possono provare senso di fatica e, come per un’influenza, avere febbre, dolori muscolari e mal di testa. Inoltre, spesso subentrano disturbi al sistema gastrointestinale con nausea, vomito e diarrea. Possono verificarsi conseguenze anche nel sistema nervoso. Nei decorsi gravi sono attaccati gli organi vitali cuore, reni e polmoni fino al collasso. Ogni anno nel mondo 385 milioni di persone si ammalano a seguito di avvelenamento da pesticidi e circa 11.000 ne muoiono. Dal momento che i pesticidi sono difficilmente controllati e contaminano con facilità, sia oggetti, sia generi alimentari ne sono danneggiate anche persone al di fuori dal settore agricolo. Incidenti accadono perché le norme di sicurezza non sono rispettate o lo sono in maniera lacunosa. Come per esempio a Binhar (India), dove 13 alunni morirono per l’olio con il quale era stato preparato il pranzo consumato alla mensa: era stato contaminato da un pesticida usato in agricoltura. Uno studio del 2015 ha dimostrato che in Europa le conseguenze sulla salute di
ormoni contenuti nei pesticidi generano costi a nove cifre. Per diminuire l’alto numero di avvelenamenti da pesticidi, l’OMS e la FAO hanno elaborato un codice di condotta. Tra l’altro indica che si deve rinunciare al loro impiego quando per manipolarli è necessario usare indumenti di protezione cari o scomodi. Queste raccomandazioni però non sono state sin qui implementate o rafforzate da leggi.
Riciclabili. Dal 2001 nel prezzo di vendita delle batterie è inclusa una tassa di smaltimento anticipata che è prelevata per mandato del Dipartimento federale dell’Ambiente da Inobat Batterierecycling Schweiz. Con essa ne è finanziata la raccolta, il trasporto e il riciclaggio. Ogni batteria messa sul mercato nel nostro Paese deve essere dichiarata e può essere riconsegnata a fine vita in qualsiasi punto vendita e di raccolta, senza ulteriore spesa. Dalle batterie tradizionali alcaline si recupera a Wimmis nel canton Berna il ferro, il manganese e lo zinco. Da quelle per le bici elettriche, dopo un procedimento più lungo e complesso che prevede anche il completo scaricamento della carica durante una macerazione in acqua salata, si recuperano in Francia cobalto, grafite, nickel e litio. Le batterie delle bici elettriche possono però anche up-ciclate, cioè riutilizzate, e rivendute sul mercato di seconda mano, dopo che le loro celle non più funzionanti sono state sostituite.
Nero come il... Il carbone è una fonte energetica obsoleta. È il vettore energetico esistente sulla terra più dannoso per il clima e il suo prezzo di mercato non tiene conto delle conseguenze disastrose per il benessere dell’umanità. È quindi necessario prendere ogni misura per azzerare o almeno ridurre drasticamente l’importazione e l’utilizzo di questo vettore energetico.
A iniziare dall’industria carbonifera che deve cessare immediatamente di estrarre lignite, la peggiore qualità di carbone dal punto di vista climatico. Le imprese attive nell’estrazione o nel commercio di carbone devono presentare piani plausibili e misurabili per un’uscita totale dal carbone entro il 2030. Governo e parlamento svizzeri devono intraprendere i passi affinché quanto si chiede alle imprese avvenga. Nel frattempo la Svizzera deve integrare le sue emissioni indirette di CO2, causate dalla presenza di tali imprese, nei suoi obiettivi climatici. Un obbligo stringente di trasparenza deve permettere di ricostruire la provenienza del carbone e va istituita un’autorità
di controllo per il settore delle materie prime in grado di far applicare le nuove norme e le sanzioni in caso di un loro non rispetto. La piazza finanziaria elvetica deve cessare di aiutare con crediti le imprese dell’industria del carbone che non hanno formulato un piano per la loro uscita da questo commercio entro il 2030. Neppure nuove centrali a carbone devono più essere finanziate. La BNS non deve più investire in imprese che estraggono o commerciano carbone. Anche le banche cantonali devono impegnarsi a non prestare più soldi a imprese attive in questo settore. Basta autostrade. Il settore dei trasporti su gomma, traffico privato e commerciale, non sta contribuendo alla riduzione di gas serra. La statistica 2021 fa stato di 14,8 milioni di tonnellate di CO2 emesse con una riduzione di solo 4% rispetto al 1990. I progressi tecnici che ci hanno dato veicoli più efficienti sono vanificati dall’aumento della loro potenza e del loro peso. Inoltre, la concentrazione dell’offerta di merci in centri commerciali e il turismo degli acquisti hanno cambiato il modo di fare acquisti della popolazione svizzera, tanto che in media ogni persona percorre annualmente 1.739 km in auto, a fronte di soli 95 a piedi, 77 usando i mezzi pubblici e 33 in bicicletta. Un modo efficace per ridurre le emissioni di CO2 sarebbe la riduzione della velocità, perché a 80 km/h si emettono 129,4 g/km, 141,9 a 100 e 167,5 a 120. Intanto, il Parlamento si appresta a votare un credito quadro di 12 miliardi di franchi per ampliare la rete di autostrade. Il 4 ottobre scorso la sezione giovani dell’Associazione Traffico e Ambiente (ATA) ha inscenato sulla piazza federale un’azione di sensibilizzazione. Da una postazione sopraelevata allestita come una finestra aperta hanno buttato volantini facsimile di banconote che recavano la seguente informazione: «Entro il 2030 la Svizzera vuole investire 12 miliardi di franchi in nuove corsie autostradali. Eppure, studi scientifici dimostrano chiaramente che l’aumento dell’offerta non risolve i problemi, perché più strade significa più traffico. Con conseguenze disastrose per il nostro futuro. Il trasporto stradale è uno delle cause principali della crisi climatica che minaccia la vita delle generazioni future. Questi soldi devono essere invece investiti nelle lotta al riscaldamento globale». Anche il Ticino è interessato dai piani di potenziamento autostradale e più precisamente con il PoLuMe (potenziamento Lugano Mendrisio) con tra l’altro 1,8 miliar-
di per tre nuove canne di galleria e il passaggio da 4/6 corsie a 10 corsie tra Lugano Nord e Mendrisio. Uno spreco di territorio in una regione già martoriata: dieci anni di cantieri, l’aumento a medio termine delle emissioni di gas serra e inquinanti dannosi per la salute della popolazione. Una coraggiosa coerenza nelle politiche del traffico dovrebbe prevedere lo stop di ogni potenziamento stradale a beneficio di un trasporto pubblico veramente alla portata di tutti.
Amiche piante. Le piante urbane giocano un ruolo cruciale, grazie innanzitutto alla loro capacità di assorbire il CO2. Attraverso la fotosintesi, il carbonio è immagazzinato nella biomassa vegetale e nel suolo: una pianta con caratteristiche medie in città assorbe tra i 10 e i 20 kg di CO2 l’anno. Esse intervengono nella depurazione chimica e batteriologica dell’aria, nella fissazione dei gas tossici e nel filtraggio delle polveri sottili e di altri agenti inquinanti. Per esempio si calcola che ogni ettaro di «verde» sia in grado di assorbire fino a 30 kg di PM10 l’anno. Inoltre, durante una stagione vegetativa, un albero adulto produce la quantità di ossigeno necessaria a 10 persone. Alberi e alberature hanno capacità fonoassorbente, contribuendo alla riduzione dell’inquinamento acustico, cui una persona su sette durante il giorno e una su otto la notte è esposta al proprio domicilio. Un ulteriore fenomeno che deteriora la qualità della vita delle persone è quello delle isole di calore: gli alberi quando si surriscaldano emettono vapore acqueo dalla chioma per abbassare la temperatura delle foglie e di conseguenza quella dell’ambiente circostante con una riduzione della temperatura fino a 8°C. Né è trascurabile che l’abbassamento delle temperature esterne riduce fino al 30% l’utilizzo dei condizionatori (risparmio energetico ed economico). Il verde migliora, già solo visivamente, la qualità degli spazi urbani e ciò genera effetti benefici anche sotto il profilo psicologico. Trascorrere del tempo tra gli alberi fa bene perché aumenta i livelli di energia e le capacità di concentrazione, diminuisce la pressione sanguigna e lo stress. Parchi, giardinetti, viali alberati con panchine costituiscono ambienti semi-naturali in cui le persone possono incontrarsi, giocare e interagire. Coesione sociale e alberi sono strettamente legati; l’accesso a spazi verdi contribuisce ad aumentare il senso di comunità, riduce l’isolamento, l’emarginazione sociale e migliora notevolmente la qualità di vita. Vi sono anche aspetti idrologici, paesaggistici e urbanistici per la presenza
del verde in ambito urbano. Gli alberi e le loro radici possiedono qualità straordinarie nella regolazione dell’acqua del suolo e nella diminuzione dei rischi idrogeologici. Nelle città, dove prevalgono superfici poco o nulla permeabili come l’asfalto, le tegole e il cemento, le chiome degli alberi hanno la capacità di intercettare fino al 15% delle precipitazioni. Ciò rallenta il deflusso dell’acqua piovana, soprattutto durante fenomeni meteorologici estremi come le bombe d’acqua, riducendo l’erosione del suolo e le esondazioni. Grandi superfici di alberi e alberature diminuiscono la pressione sul sistema di evacuazione e del trattamento delle acque meteoriche e i relativi costi per l’ente pubblico. La presenza in città di una pianta con un fusto di 40 cm di diametro riesce a intercettare fino a 3.000 litri di acque meteoriche all’anno. In ambiti residenziali il valore economico degli alberi è diretto e tangibile, perché genera un miglioramento urbano. Aumentando l’attrattività del luogo cresce il valore degli immobili, dove la maggiorazione da attribuire al verde può arrivare addirittura al 20%. Infine gli alberi aiutano a pensare le città come spazi per ogni forma del vivente: la piantumazione urbana crea corridoi verdi e permette la circolazione e la sopravvivenza di insetti e animali che accrescono il valore ecologico e la biodiversità. La visione della città come habitat, oltre a non creare fratture tra ecosistemi, aiuta a uscire da egocentrismi antropocentrici e aprire la mente a diversità e varietà.
Svizzera sprecona. La Svizzera perde sette posizioni nella classifica che valuta l’impegno dei singoli Paesi nella tutela del clima. In base alla valutazione annuale stilata dalle ONG Climate Action Networks (CAN) e Germanwatch si trova al 22º rango. Secondo il «Climate Change Performance Index» (CCPI) 2023, la Confederazione è fra gli Stati ad aver perso più posizioni nell’arco di un anno, dietro alla Cina (-13, 51º posto). Si colloca alle spalle della media dell’intera UE (19ª), ma davanti a Spagna (23ª) e Italia (29ª). I Paesi meglio classificati sono la Danimarca (4ª), la Svezia (5ª) e il Cile (6º). I primi tre posti non sono stati assegnati, in quanto gli sforzi sono stati ritenuti insufficienti per raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento a 1,5°C.
Fine dei ghiacciai? II Dipartimento del territorio (DT) comunica che sono state effettuate le misurazioni annuali dei ghiacciai ticinesi (Basòdino, Valleggia, Bresciana, Corno, Tencia
e Cavagnoli) tra la fine di agosto e l’inizio del mese di settembre 2022, e sono state confermate le previsioni e le preoccupazioni emerse già durante la primavera: la combinazione di un inverno con precipitazioni nevose molto scarse e un prolungato periodo estivo con temperature elevate e isoterma di zero gradi ad alte quote ha favorito un’importante accelerazione della fusione dei ghiacciai ticinesi. L’arretramento medio dei ghiacciai è di 2-3 volte superiore a quanto rilevato negli ultimi anni e rispetto a quanto misurato nel 2021. Si sono registrati i seguenti arretramenti: Basòdino 29 metri, Valleggia 29 metri, Bresciana (Adula) 18,5 metri, Corno 16 metri, Tencia (Croslina) 15 metri. Il ghiacciaio del Cavagnoli sembra essere il prossimo destinato a scomparire completamente. Nel solo periodo tra il 2021 e il 2022 è arretrato di quasi 300 metri, lasciando dietro di sé rocce, detriti e qualche isolata placca di ghiaccio staccatasi dal resto del ghiacciaio. Quanto ai ghiacciai in cui è stata misurata la perdita di spessore, si registrano valori mediamente raddoppiati rispetto alle medie pluriennali degli scorsi anni. In particolare, al ghiacciaio Valleggia si è rilevata una perdita di spessore tra i 4,5 e i 5 metri (contro i 2-2,5 metri del periodo precedente). Sulla scorta dei dati raccolti nel 2022, e qualora si dovessero prefigurare nuovamente stagioni particolarmente sfavorevoli come quella estiva del 2022, si stima che, inevitabilmente, nei prossimi 5-10 anni i ghiacciai su territorio ticinese saranno in buona parte scomparsi.
Donne in agricoltura. Il ruolo delle donne nell’agricoltura sta cambiando. È quanto emerge da uno studio dell’Ufficio federale dell’agricoltura (UFAG), relativo alla situazione nel 2022. Metà delle 778 giovani donne intervistate in tutte le regioni del Paese afferma che contribuisce nella misura di oltre il 50% al reddito globale dell’azienda. Il 55% delle interpellate è per altro stipendiata o genera un reddito dal lavoro nell’azienda, di cui un buon terzo è proprietaria o comproprietaria. La percentuale di quelle che gestiscono una fattoria da sole è aumentata dal 5 al 9% rispetto alla precedente indagine svolta 2012. Più di due terzi condivide la gestione con il partner. Secondo la ricerca, il 60% delle donne prende una settimana di vacanza all’anno o meno, in parte a causa delle difficoltà ad organizzarla. Tuttavia, la stragrande maggioranza (72%) si dice soddisfatta della propria vita ed è ottimista sul proprio futuro.
Dio della pace
Dio della pace di pace cingi le nostre case della tua pace ricolma queste nostre vite disperate.
Di pace fortifica le nostre città sempre più agitate e violente: che almeno i cristiani siano uomini di pace.
O invece i nostri paesi sono fra tutti i più infetti di guerre e oppressioni e torture?
Signore intervieni con la violenza della tua pace.
E angoscia più non ci opprima ma torniamo a comporre canti a quanto rende ancora amabile questo dovere esistere.
In questo numero
dialoghi di riflessione cristiana www.dialoghi.ch
Comitato: Alberto Bondolfi, Ernesto Borghi, Gaia De Vecchi, Alberto Lepori, Daria Lepori, Margherita Noseda Snider, Marina Sartorio, Carlo Silini, Paolo Tognina
Redattori responsabili: Alberto Bondolfi e Margherita Noseda Snider
Redazione: Margherita Noseda Snider, margherita.noseda@gmail.com, Alberto Bondolfi, alberto.bondolfi@unige.ch
Amministratrice: Rita Ballabio, via Girora 26, 6982 Serocca d’Agno, rita.ballabio@bluewin.ch
Stampa: Tipografia Stazione SA, Locarno
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