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Il vescovo Ernesto Togni, la gioia e la sofferenza
from Dialoghi nr. 272
Ernesto Togni,educatore, sacerdote e poi vescovo, era un formidabile giocatore di ping-pong, per prontezza e velocità, per colpi imparabili, più per la gioia con cui si giocava che per la sconfitta che alla fine arrecava. Lo so, lo so, che mi si dirà subito che non ci poteva essere «incipit» più superficiale, più squinternato, per niente episcopale per ricordarlo e commemorarlo. Eppure, anche se può sembrare indecoroso o sminuitivo, è quanto mi è subito balzato in mente all’annuncio della sua scomparsa. Quelle partite con lui, mai vinte! Forse, ripensandoci, per due motivi.
Perché mi ha fatto subito emergere, con gratitudine, quelle che ho sempre ritenuto tre caratteristiche (o qualità) della sua persona: quell’essere sempre al servizio della gioia, per temperamento, ma anche per la gioia di «uomo salvato» (da Cristo); quell’umiltà come abito mentale nel rapporto con «ogni» altro, soprattutto perché cosciente di quel che si è e di quel che si può donare; quella cultura del rispetto e del dialogo che è la vera cultura, cultura cristiana, sempre al di sopra e al di là della «cultura» di chi ha sempre il codice canonico sottobraccio; il timore, quasi opprimente, di non essere compreso, di aver offeso, di aver recato danno, anche inconsapevolmente, a qualcuno e l’atteggiamento costante al chiedere perdono. Ed è quindi con meraviglia e non senza qualche turbamento personale, che avendo avuto la possibilità di leggere il suo testamento spirituale (redatto a La Pelouse, Bex, il 9 giugno 1987) ho trovato tra le righe, sotto altra forma e con altre parole, con estrema semplicità, com’era suo stile, la conferma di tutto questo. Dell’uomo biblicamente «giusto».
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Perché, forse da giornalista incallito e che mi volle oltretutto alla direzione del GdP (chiedendomi poi spesso perdono per le difficoltà e le angustie in cui finii per trovarmi), sentivo dietro anche la metafora cui non potevo rinunciare. Nella vita, ma in particolare in quella episcopale-pastorale, il vescovo Ernesto non è mai stato capace a giocare a ping-pong. Ping-pong è onomatopeico: significa ribattere con la racchetta (ping) e battere sul tavolo
(pong). Significa ad esempio ribattere al chiacchiericcio, alla maldicenza, alle manovre losche di potere che muovono anche gli ambienti ecclesiastici o ecclesiali, significa battere il pugno sul tavolo e riuscire a togliere dall’altare l’ipocrisia.
Ernesto Togni, vescovo, ha sofferto e sopportato molto. Molto da cristiano (porgi l’altra guancia). Sempre a causa dei «suoi», ambienti e movimenti ecclesiali, presbiteri beneamati in Vaticano e in attesa di carriera; qualche pseudo uomo del partito cristiano che ridicolizzava su «Gazzetta» (mai condannato dal partito) anche il suo vicario generale per il suo cognome o il neodirettore del GdP da lui scelto (e, dopo il lungo regno di mons. Leber, scegliere un laico, oltretutto non dentro il mondo ecclesiale, con l’intenzione espressa di sclericalizzare il giornale, era un grande atto di coraggio), ch’era ormai diventato una lisca di pesce in gola a movimenti ecclesiali (tanto da promuovere una raccolta di firme per rimuoverlo, pacchetto di firme che Togni mi consegnò un giorno esterrefatto (ma con un «non temere», annientato purtroppo dalle sue dimissioni per salute e dall’arrivo di un altro vescovo) o di destra, soprattutto luganesi; qualche altro esponente «cattolico» che, certamente per far posto a chi desiderava lui, suggeriva a Libera Stampa anche le calunnie più infamanti. Ciò che per il vescovo Ernesto fu poi però cosa più spietata è stata la non accoglienza della richiesta al suo successore, che ne aveva il potere e che sapeva quali erano gli ambienti ecclesiali contigui da dove provenivano le calunnie, di prendere posizione. È stato un tormento pesante per tutto il resto della sua vita (dal momento delle dimissioni fino a quando l’infermità l’ha privato totalmente delle memoria, che fu quasi una grazia di Dio).
L’altra sofferenza (che potremmo definire «pastorale») è legata all’esperienza della Chiesa nella seconda metà del secolo scorso. Da presbitero Togni ha seguito e vissuto con grande trasporto e intensa partecipazione il Vaticano II e poi da parroco il Sinodo svizzero (72-75). Si è impegnato molto nelle commissioni, nelle assemblee, ha vissuto con gioia l’esperienza dell’incontro preti/laici/religiosi/uomini/donne/ giovani, con forte esperienza di comunione e desiderio di realizzare positivi cambiamenti. Quell’evento, che ha chiesto tempo e impegno e fatica, ha anche prodotto documenti molto interessanti e basilari. In pratica, però, occorre riconoscerlo, non ha portato il rinnovamento che si voleva e ci si attendeva ed è stato per lui una grande sofferta delusione.
In uno dei primi incontri, da vescovo, dopo tanto tempo che non c’eravamo più rivisti, mi pose una domanda che mi lasciò imbambolato. Non mi chiese, come mi chiedevano invece altri monsignori, sospettosi nei confronti di un «televisivo» (razza dannata?), quasi per sincerarsi della mia fede o del mio «essere cattolico»: frequenti ancora la chiesa, vai a messa? No, mi chiese, quasi tra il molto serio e il gioiosamente curioso: «E allora, come vai con Dio?». Era quasi un saluto spagnolo (Vaya con dios!). Non era certo la domanda che potevano porci due nostri illustri docenti dell’Università Gregoriana, l’incartapecorito spagnolo professor Zapelena e il plumbeo canadese professor Tromp, che Dio lo infagottavano con un «ad primum», «ad secundum» ecc. Ho fatto la classica curva di chi è colto in difficoltà, ma vuol mostrarsi pronto e non sguarnito. Dissi che avevo appena ricevuto in dono, alla Televisione, da un agnostico-religioso (bell’ossimoro!) che mi sembra avesse avuto modo di conoscere, un libro, preziosamente rilegato, ben curato ed annotato: le «Confessioni» di Agostino da Ippona. Mi dissi colpito da un’altra domanda che Agostino si poneva a se stesso: Tu chi sei? (Tu quis es? 10,6,9). Quel santo vescovo, che il vescovo Togni tanto amava e citava, impossibilitato a scandagliare l’abisso di Dio, scandagliava l’abisso di se stesso e dava come risposta: «sono un uomo» (homo) legato alla terra (humus) che «si porta addosso il peso della propria natura mortale» (homo circumferens mortalitatem suam). Sorrise, come a dire: anch’io, è proprio così.