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Mettere fine alla classe sacerdotale Cambiare è possibile

Un ambito centrale della vita della Chiesa è quello del posto e del ruolo del prete ordinato all’interno della comunità. Attraverso la sua insistenza a denunciare il clericalismo, è a un ascolto rinnovato della Scrittura che papa Francesco invita la Chiesa affinché cambiamenti indispensabili possano compiersi nella sua governance. Ma, affinché questa presa di coscienza porti frutto, occorre sloggiare il nocciolo del clericalismo, in particolare il suo radicamento nella distinzione fra mondo sacro e profano.

«Abbi pietà di me, Signore, sono nella privazione» (Ps 30, 10). Questo grido del salmista esprime al meglio la situazione attuale della Chiesa. Questa, sicuramente, ha dovuto attraversare numerose prove lungo la sua storia –da perseguitati, i cristiani sono troppo spesso diventati persecutori. Ciononostante le crisi che si abbattono oggi sulla comunità cristiana sono inedite. Una via d’uscita risiede senza dubbio nella preghiera che chiama Dio in nostro soccorso, affinché ci invii il suo Spirito santo. Ebbene, Dio sembra, il più delle volte, rispondere con il silenzio. Nella parabola di Lazzaro e del ricco, quest’ultimo chiede ad Abramo che qualcuno dei morti vada a trovare i suoi fratelli perché si convertano. Ma «Abramo gli dice: “hanno Mosé e i profeti: che li ascoltino!”» (Lc, 16, 19). Una delle soluzioni alle nostre miserie è dunque il ritorno alla Parola di Dio, ascoltarla per meglio comprendere e meglio metterla in pratica. Un consiglio che noi dovremmo seguire per ciò che concerne il nostro approccio al sacro e al profano.

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Gesù, membro del popolo

In tutte le religioni, questa tensione fra questi due mondi è una costante. Ciò si verifica nel giudaismo al tempo di Gesù. Per avvicinarsi a Dio, ritenuto presente nel Tempio di Gerusalemme, in particolare attraverso i sacrifici sanguinosi, occorreva passare per la mediazione della tribù di Levi e soprattutto discendenti di Aronne, specialisti del sacro, i membri della «casta sacerdotale». La struttura fondamentale del popolo d’Israele poggiava, di fatto, sul «sacerdozio levitico», «base della legge data al popolo» (Eb 7, 11). Ebbene, quando Gesù viene al mondo, è in tutta evidenza un Ebreo: si situa nella cultura, nella mentalità e nella religione degli Ebrei del suo tempo. Ma non fa parte, in nessun modo, della tribù di Levi: appartiene alla tribù di Giuda «di cui nessun membro mai fu addetto all’altare» (Eb 7,13). Così, se Gesù avesse voluto avvicinarsi all’altare dei sacrifici, sarebbe stato immediatamente messo a morte. essendo della tribù di Beniamino, non si assimila in nessun modo ai «preti», ai «sacrificatori» ebrei.

Quid del sacerdozio dei battezzati?

La fede cristiana, invece, riconosce in Gesù il Figlio di Dio fatto carne «in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). È l’immediata presenza di Dio. Da allora, la distinzione tra «sacro» e «profano» è in lui abolita. Gesù è, sociologicamente e religiosamente, un membro del popolo, letteralmente un «laico»! Non è uno «specialista del sacro» secondo la Legge di Mosè, non è un membro della classe sacerdotale, ma è lui, e lui solo, che apre la via per essere in comunione con Dio. Lui è il nuovo, unico e definitivo Mediatore tra Dio e gli uomini. «Per mezzo di lui abbiamo gli uni e gli altri accesso al Padre» (Ef 2,18).

È sorprendente constatare che mai il Nuovo testamento applica il vocabolo «sacerdotale» a Cristo, salvo nella lettera agli Ebrei, che tuttavia si prende una premura estrema per dimostrare che Cristo esercita un nuovo sacerdozio, diverso da quello detto «secondo l’ordine di Aronne». Questo nuovo e unico sacerdote è situato «secondo l’ordine di Melchisedek». Da allora, in Gesù, è tutto il culto dell’Antico Testamento che è abolito.

La prima conseguenza di questo nuovo sacerdote è stabilire una nuova Alleanza fra Dio e gli uomini: Cristo annulla tutte le distanze fra Dio e gli uomini stessi. Un’altra conseguenza, è che mai il Nuovo Testamento usa il vocabolo «sacerdotale» per designare gli Apostoli e gli altri responsabili della comunità cristiana. San Paolo stesso,

Un’altra realtà sorge ancora. Gesù, attraverso il battesimo, fa di tutti i suoi discepoli dei membri del nuovo «popolo sacerdotale», di cui egli è la sorgente. Occorre quindi parlare non più di una casta sacerdotale intorno a Gesù, ma piuttosto di un «sacerdozio dei battezzati». Questi, dice san Paolo, possono offrirsi loro stessi «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). San Pietro e l’Apocalisse sono, anche loro, espliciti a questo proposito. E nella celebrazione del battesimo, il nuovo battezzato è detto «membro di Cristo, partecipante alla sua dignità di prete, di profeta e di re». Ridurre il «sacerdozio battesimale» a una pura formula non ha peraltro senso evidentemente. Non è sufficiente dire queste parole, bisogna metterle in pratica nella vita dei battezzati. Orbene, la storia della Chiesa ha visto una progressiva cancellazione di questa dignità battesimale. È così che il concilio di Trento (1547-1563) non ne parla praticamente più e che bisognerà attendere gli anni 1960 e il Vaticano secondo per ritrovarla. Per contro, la Chiesa ha sempre più privilegiato quello che si è chiamato il «sacerdozio ministeriale», riservando a una nuova «classe sacerdotale» il «potere sacro» al suo interno. Come spiegare un tale «oblio» delle affermazioni del Nuovo Testamento?

Se il «sacerdozio ministeriale» non compare nel Nuovo Testamento, la necessità di organizzare le comunità cristiane si è al contrario imposta già dalle origini. San Paolo ne è già testimone, quando parla «degli apostoli, e anche dei profeti, degli evangelizzatori, dei pastori e dei maestri. In questo modo, i fedeli sono organizzati affinché i compiti del ministero siano compiuti e che si edifichi il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità nella fede e nella piena conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, alla statura di Cristo nella sua pienezza» (Ef 4, 11-13). Paolo menziona anche «dei vescovi e dei diaconi» e chiede a Tito «di stabilire in ogni città, a Creta, degli Anziani» (Tt 1,5). La parola Anziano – in greco presbuteros – darà origine alla vocabolo prete. San Pietro vi ricorre (1 P 5,1) ma, in questo vocabolario, non c’è nessuna traccia di «sacerdotalizzazione» o «sacralizzazione». Non c’è ancora nessuna distinzione fra «clero» e «laici».

Sarà intorno agli anni 180-260 che la si vedrà apparire, facendo così dei ministri cristiani un ordine a parte, con una «sacerdotalizzazione» del ruolo dell’episcopo e, di fatto, una sorta di re-giudaizzazione di questi ministeri sul modello levitico, in particolare della classe sacerdotale dei «preti» ebrei che officiavano nel Tempio di Gerusalemme. È soprattutto con san Cipriano (200-258 d.C.) che si farà riferimento al sistema levitico e sacerdotale dell’Antico Testamento.

Una storia di potere

Non soltanto questo non cambierà più, ma si indurirà poco a poco, con la costituzione di una nuova «classe sacerdotale» che confischerà il potere di assicurare il contatto con Dio, e il ritorno a una sacralizzazione dei ministeri ordinati. La separazione sarà sempre più netta tra i «chierici» e i «laici», questi ultimi ridotti allo stato di «consumatori obbedienti dei beni spirituali».

Così i «ministri» sono detti «sacri» e messi al di sopra del «popolo». Una tale organizzazione trova il suo apogeo nella dichiarazione di papa Leone XIII e soprattutto di Pio X nell’enciclica Vehementer nos (1906): «La Scrittura ci insegna, e la tradizione dei Padri ce lo conferma, che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo, corpo retto dai pastori e dai dottori, società di uomini, da allora, nel seno della quale si trovano dei capi che hanno pieni e perfetti poteri per governare, per insegnare e per giudicare. Ne consegue che questa Chiesa è per sua essenza una società ineguale, cioè una società comprendente due categorie di persone, i pastori e il gregge, quelli che occupano un rango nei diversi gradi della gerarchia e la moltitudine dei fedeli. E queste categorie sono talmente distinte fra loro, che nel corpo pastorale solo risiede il diritto e l’autorità necessaria per promuovere e dirigere tutti i membri verso la fine della società; quanto alla moltitudine, essa non ha altri doveri se non quello di lasciarsi guidare e, gregge obbediente, di seguire i suoi pastori».

La Chiesa, facendo così, si è allontanata, e di molto, dalla Parola del Nuovo Testamento! Né san Paolo né san Pietro avrebbero potuto firmare un tale documento. Essa ha messo fra parentesi, nella sua vita concreta, un altro modo di comprendere il ruolo dei responsabili della comunità cristiana, quella della «stirpe pastorale», invece fondamentale in tutta la Scrittura. Certamente il vocabolario ha conservato lo stile «pastorale», ma senza tirarne le conseguenze.

Già nell’Antico testamento, Dio, in effetti, si dichiara essere pastore delle sue pecore, del suo popolo; Gesù si situa in questa linea, definendosi il Buon Pastore; poi Pietro, a sua volta, riceve da Gesù la responsabilità di essere pastore delle pecore di Cristo (Gv 21, 15-17); e dice in seguito agli Anziani: «Siate pastori del gregge che vi è affidato» (1 P 5,2). C’è qui una volontà esplicita di Dio d’istituire dei «pastori» – e non dei membri sacri di una casta sacerdotale – per guidare il suo popolo verso il Regno.

Un servizio di comunione Ebbene, un pastore non esiste senza un gregge. Ed è Cristo il modello insuperabile di questo ministero. È a partire da lui che i pastori devono comprendere e vivere il loro servizio. Come Gesù, il pastore conosce le sue pecore, di una conoscenza radicata nell’amore del Padre. È un servizio di comunione intorno a Cristo. Il pastore non è il proprietario delle pecore, ma il servitore delle pecore di Cristo. Non è istituito «maestro» delle pecore, con tutti i poteri su di esse. Deve resistere con tutte le sue forze alla tentazione del potere, in particolare nella sua forma più pericolosa e perniciosa, quella del potere sulle coscienze. Il pastore è al servizio della Parola di Dio, cibo delle pecore. Deve quindi conoscerla lui stesso e provare a nutrirsene e a viverla. Battezzato, partecipando pienamente alla vita dei battezzati, deve soprattutto essere inserito in una comunità, esserne membro a tutti gli effetti e non essere separato da essa, ancor meno «al di sopra» di essa. Papa Francesco ama dire che il pastore deve «sentire l’odore delle pecore».

Rivedere il reclutamento

Se vogliamo essere fedeli all’invito della lettera agli Ebrei – «Dobbiamo prendere sul serio il messaggio udito, se non vogliamo andare alla deriva» (Eb 2,1) – un cambiamento estremamente importante deve essere compiuto nella vita della Chiesa e nella sia «governance». Infatti, il concilio di Trento, per reazione al movimento di Lutero e del protestantesimo, ha privilegiato in un modo esclusivo il ruolo «sacerdotale», «sacralizzato» dei preti. Per metterlo in pratica, ha ufficializzato i seminari – luoghi di formazione seria, senza dubbio, ma luoghi chiusi, di separazione – per preparare i «ministri ordinati» al loro compito «sacro». Questo ha dato molti frutti di generosità e di santità, ma anche contribuito all’isolamento della nuova «casta sacerdotale», con la terribile tentazione del potere spirituale e di essere al si sopra del «popolo». Si vedono delle derive che possono esserne le conseguenze.

Con il Vaticano secondo, questo sarebbe dovuto cambiare. Privilegiare il ruolo pastorale dei ministri della Chiesa va al di là delle questioni di vocabolario. È immaginare un nuovo modo di reclutare i ministri e di formarli. Si tratta di designare dei pastori di una comunità. Sarebbe dunque normale che, in un modo o nell’altro, la comunità sia partecipe di questa designazione. Ogni comunità dovrebbe avere la preoccupazione di trovare i pastori di cui ha bisogno, di reperire fra i membri coloro che manifestano delle qualità di vita e di impegno nella luce del Vangelo, di chiamarli, di seguirli affinché ricevano una formazione adeguata e di presentarli al vescovo (tramite l’imposizione delle mani, lo Spirito santo è loro dato affinché esercitino sacramentalmente questo servizio pastorale, nel nome del Buon Pastore).

Così il «prete» sarebbe come un buon pastore che conosce le sue pecore, che condivide la loro vita, che li riunisce attorno alla Tavola della Parola e alla tavola del Pane eucaristico. Non sarebbe preso nella culla (come era il caso nei «piccoli seminari»), né necessariamente scelto fra giovani uomini che si sentirebbero attirati, chiamati interiormente dallo Spirito, ma spesso senza un legame forte con una comunità battesimale. Questo prete potrebbe, beninteso, essere sposato, uomo o donna, e anche, in parte, mantenere il suo lavoro, proprio come lo faceva san Paolo.

In fedeltà alla Parola

Sarebbe questo un vero ritorno alla pratica paolina, nella fedeltà alla Parola di Dio, e non all’Antica Alleanza. Questo modificherebbe le condizioni dell’esercizio del ministero pastorale e permetterebbe, se non di evitare totalmente delle derive, almeno di evitare delle solitudini e soprattutto un ricorso a un «potere sacro». Le comunità cristiane ne sarebbero più fortificate nella fedeltà al loro battesimo.

(Continua a pagina 18)

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