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Politica come carità: la testimonianza del b. Federico Ozanam (1813-1853)

delle rivoluzioni, fu a lungo ignorata dai cattolici e come tenuta nascosta dietro forme di beneficenza generose ma tenute lontano dalla politica, ossia dalle necessarie riforme a livello politico e sociale: detto in altri termini, una carità efficace sul piano del rapporto privato ma senza conseguenze sul piano pubblico, quello delle legislazioni e dei rapporti di potere, per esempio tra padronato e sindacati.

Dobbiamo essere grati a Maurizio Ceste, che ci offre in un denso volume il meglio della testimonianza politica e sociale di Ozanam attraverso la pubblicazione di una selezione di lettere e articoli1

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«Il primo amore»

Sarebbe ingenuo pensare che il fondatore delle Conferenze di San Vincenzo sia nato democratico.

Nei venti secoli che ci separano dalla testimonianza degli apostoli, le Chiese cristiane hanno conosciuto crisi e cambiamenti epocali circa il giudizio da dare sull’organizzazione dell’umana convivenza. Il passaggio tra monarchia e democrazia come legittimo modo di governare gli Stati fu uno di questi e divise i cristiani, i cattolici in particolare, durante l’Ottocento. Questo conflitto lasciò sul terreno vinti e vincitori (come tali riconosciuti magari solo dopo la morte); esempi si possono trovare anche nella piccola storia del Canton Ticino. Un punto sul quale ci fu divisione anche tra i cristiani era il giudizio da dare circa il formarsi delle grandi masse che lasciavano l’agricoltura e si trasferivano senza mediazioni nella vita miserabile delle grandi agglomerazioni urbane.

La carità cristiana fu a lungo equivocata come alternativa alla giustizia da conseguire attraverso il confronto politico. Si fu lenti a capire che i problemi erano, sì, una conseguenza negativa del progresso economico, ma anche di una ineguale ripartizione dei diritti politici. A lungo il conflitto poté essere nascosto e persino negato con la pratica della beneficenza, tanto che la fondazione di sindacati, anche di sindacati cristiani, fu per molti decenni controversa e criticata.

Il superamento di questo errore di giudizio è divenuto un bene comune: il magistero dei papi, da Leone XIII, lo ha confermato per i cattolici con l’enciclica «Rerum novarum» del 1892 e il magistero dei suoi successori. Si è poi scoperto che la coscienza dei migliori si era destata almeno mezzo secolo prima. È ormai abbondante la bibliografia circa l’azione dei novatori e dei primi «sindacalisti» cristiani. Uno sguardo nuovo è stato posato così anche sul modo, non esente da incertezze e da errori, con cui il fondatore delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli: Federico Ozanam (1813-1853) tentò fra i primi di congiungere nel tempo in cui viveva – la prima metà dell’Ottocento – fede e giustizia.

La rivoluzione nelle menti e nelle cose

Chi ha letto Victor Hugo o Charles Dickens ha presente la condizione miserrima delle basse classi sociali di Parigi o di Londra nell’Ottocento, chi ha letto Proust si rende conto del velo di ignoranza che teneva separate le classi agiate dalle classi popolari. Con umiltà dobbiamo riconoscere che la testimonianza di Federico Ozanam, uno dei primi ad accorgersi che in quella condizione maturava il germe

«Sotto casa ho visto un proclama che annuncia che Carlo X non può più regnare, che il popolo insedia sul trono il Duca di Orléans e gli impone la Costituzione! E in base a quale articolo della Carta è permesso al popolo di disporre, di eleggere? E poi, quando si sarà riunita la Camera al completo, con quale diritto delibererà senza l’approvazione del re e dei pari?»2

Ozanam aveva appena quindici anni e rifletteva la dottrina cattolica del suo tempo. A dominare era la tesi dello scrittore e diplomatico Joseph de Maistre (1753-1821) riassunta nelle «Soirées de Saint-Petersbourg»: «La rivoluzione è un peccato sociale in quanto distruzione dell’ordine naturale – e, dunque, legittimo – voluto o permesso da Dio, essendo l’autorità divina a legittimare la sovranità politica e qualsiasi potere terreno. Essa è anche un castigo divino inflitto per le mancanze religiose della Francia e gli errori del suo popolo e della sua classe dirigente».

Nella «Storia della Compagnia di Gesù in Italia» (1814-1983) di Giacomo Martina (Morcelliana, 2003) si trova un’indicazione preziosa di come il verbo di De Maistre fosse assunto dogmaticamente da parte dei cattolici tornati al potere dopo la parentesi della Rivoluzione francese. La nuova dogmatica assunse il motto: «La vérité seule doit être libre, l’erreur doit êre réprimé», come scriveva nel 1831 uno dei più stretti collaboratori del p. Rootham, maestro generale dei gesuiti fino al 1853. Il risultato fu un conflitto con i liberali pagato con il sequestro dei conventi; la chiusura delle scuole tenute dai religiosi, la dispersione degli studenti e degli insegnanti. I gesuiti furono esclusi esplicitamente: così per esempio nella prima costituzione svizzera, del 1848.

La scoperta della politica Per fortuna, ai cattolici non era negato di fare la carità e il nome di Federico Ozanam scomparve sotto il rimando a un Santo che del resto egli stesso aveva indicato: San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), il confessore di re e regine che indicava la visita e l’incontro personale dei poveri come alternativa al rinchiudersi nei conventi da parte delle ragazze di buona famiglia. Il modello vincenziano fece scuola, i meno giovani tra noi ricordano le religiose attive negli ospedali, distinte dalla famosa cornette , il copricapo delle contadine francesi. Dal germe vincenziano fiorì un’organizzazione che, oggi, nel mondo, impegna un milione e mezzo di volontari riuniti in 48mila «conferenze» diffuse in 152 Paesi. La figura di Ozanam fu recuperata a poco a poco, ma la sua testimonianza politica rimase negletta fino agli ultimi decenni.

Una prima serie di scritti riportati nel volume curato dal torinese Maurizio Ceste nasce nel periodo 1830-1845, cioè tra i venti e i trentacinque anni di vita di Ozanam. Nel trattato «Del progresso attraverso il cristianesimo»3 – uno dei primi riportati nel volume – Ozanam sostiene il concetto di «progresso», pur precisando che potrà restare umano solo se illuminato dal cristianesimo e guidato dalla fede in Dio. Pur nutrendo ancora rispetto per la monarchia, egli comincia a vagheggiare «una repubblica cristiana della Chiesa primitiva di Gerusalemme, con i principi di autorità e libertà che hanno come scopo finale la carità»4.

È carità, secondo Ozanam, aprire gli occhi sulla società, preoccuparsi che la situazione degli operai sia diventata simile a quella degli schiavi nel passato. Il conflitto tra povertà e ricchezza domina negli scritti che la raccolta di Ceste riporta. «Se è lo scontro violento tra l’opulenza e la povertà che fa tremare il suolo sotto i nostri passi, il nostro dovere di cristiani è di interporci tra questi nemici irriconciliabili»5

Ozanam scopre che «la questione che divide gli uomini dei nostri giorni non è più una questione di forme politiche ma una questione sociale: si tratta di sapere chi avrà la meglio, se lo spirito dell’egoismo o lo spirito del sacrificio; se la società non sarà altro che un grande sfruttamento a profitto dei più forti o la consacrazione di ciascuno al bene di tutti e specialmente alla protezione dei deboli» 6. L’impegno dei cristiani è ancora descritto in termini di equidistanza: «In nome della Carità, i cristiani si frappongano fra i due campi, che vadano come transfughi benefici dall’uno all’altro campo, che ottengano dai ricchi molte elemosine, dai poveri molta rassegnazione»7. È una posizione non ancora matura. Il prendere partito politicamente sarà per gli anni delle rivolte di piazza.

Nel ’36, a Parigi, Ozanam conclude gli studi con il dottorato in diritto. Il suo tempo è soprattutto occupato dallo studio e alla realizzazione delle reti di volontari per la visita ai poveri. Nel 1839 consegue un secondo dottorato alla Sorbona, in italiano, con una tesi su Dante, nel 1840 ottiene la cattedra di letteratura straniera. Da Amélie Soulacroix, sposata nel 1841, ha una figlia: Marie. Il biografo annota per la prima volta che la sua salute inizia a dar segni di fragilità.

L’illusione (l’equivoco?) di Papa Pio X Nel 1832 la missione a Roma del presbitero, filosofo e teologo Félicien de Lamennais dovette comunque sconvolgere l’animo sensibile di Federico, lettore de «L’Avenir», il giornale pubblicato dal religioso. L’appoggio esplicito del Papa, Gregorio XVI, alla repressione della rivoluzione polacca del 1831, aveva impressionato Lamennais al punto di suggerirgli un viaggio al centro della cristianità, per spiegare al sommo pontefice le sue tesi contrarie all’uso della forza: «Parole di un credente» era il titolo del libretto che Lamennais pubblicava a sostegno delle sue idee riformiste. Il Papa rispose con un’enciclica («Mirari vos»), che gli dava torto su tutta la linea e per qualche anno la voce dei novatori fu ridotta al silenzio.

Ma papa Gregorio non era eterno e alla sua morte, nel 1846, il Conclave elesse al pontificato il vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti. Dalla concessione di un’amnistia per i reati politici al varo di una costituzione per lo stato pontificio, per tre anni papa Pio IX assunse le fattezze di un papa liberale e di difensore delle aspirazioni della nazione italiana. Anche Ozanam ne fu entusiasta, si recò due volte a Roma, venne ricevuto dal nuovo papa, manifestando entusiasmo per la sua politica8.

«Rallegriamoci, il Cielo ha fatto più di quel che noi chiedessimo. Ha innalzato alla cattedra di Pietro un santo, quale forse il mondo non aveva visto dopo il pontificato di Pio V. Non sono il solo a dire questo, lo dico con Roma, la città più credente, ma forse anche più maldicente dell’universo, e tuttavia la maldicenza delle lingue romane, spietata verso i papi e i cardinali, non è riuscita a trovare presa sulla giovinezza del pontefice che ha visto, laico, confuso nella folla elegante dei saloni e destinato alla carriera militare. Questa purezza costituisce ancor oggi l’ammirazione non dei soli devoti, ma di tutti, di un popolo che ha passioni violente ma che ama vederle sconfitte. (…) Era proprio il pontefice necessario a un secolo che tra le virtù cristiane onora solo la carità e che si arrende solo all’ascendente delle buone opere»9

Il documento che meglio riassume il pensiero di Ozanam a questo punto, forse il punto culminante riassuntivo della sua valutazione e delle sue aspirazioni, è l’articolo: «I pericoli di Roma e le sue speranze» pubblicato da Le Correspondant il 10 febbraio 1848. È una strenua difesa del nuovo papa. Ozanam sottolinea le riforme da lui varate, lo elogia in confronto a quello che hanno o non hanno fatto gli altri regnanti in Italia, difende il popolo italiano che, al di là dei soliti luoghi comuni, anela alla libertà e vede in Pio IX un liberatore. «Per questo – osserva Ceste10 – Ozanam ritiene che solo il popolo, con l’aiuto del papato, potrà trovare la sintesi tra religione e libertà, per costruire un mondo nuovo. L’articolo si conclude esprimendo sfiducia, delusione e amarezza verso i regnanti, verso la cultura ufficiale e quella da salotto. Furono i barbari, dice, a contrastare i vizi di Bisanzio e a rivendicare le ingiustizie fatte alla Chiesa addolcendo i loro rozzi costumi, mentre il popolo civile, precipitato negli ozi e nella corruzione dei costumi, tornava alla barbarie»11.

L’articolo, lunghissimo, non rimane senza risposta. Amici e colleghi obiettano, Ozanam risponde. Ma gli avvenimenti precipitano. È il 1848, l’anno dei tumulti in tutta Europa, in autunno il papa sarà costretto a fuggire da Roma per evitare di essere sequestrato dalle fazioni popolari radicali. «Ozanam – scrive Ceste –pare ignaro di quel che sta accadendo. A Parigi, il 22 febbraio, studenti e operai si sono riversati davanti alle Tuileries, sede del governo, per reclamare la riforma della legge elettorale, primo atto della cosiddetta “rivoluzione di febbraio” che porterà all’abdicazione di Luigi Filippo, l’istituzione di un governo provvisorio e alla proclamazione della “seconda repubblica”».

Il giudizio di Ozanam è connotato da una certa ingenuità:

«La rivoluzione che inizia mi sembra tutt’altra che quella del 1830, innanzitutto meno sanguinosa, considerato che il numero delle vittime non raggiunge i 1200 tra morti e feriti, molto meno contestata, poiché il regime che termina si è difeso appena e non lascia dietro di sé, come accadde per la Restaurazione, un grande partito che gli conserva un legame religioso. Tutti disperano nella monarchia, tre volte provata in meno di cinquant’anni e che tre volte si è rivelata essere incapace. Tutti quanti sono decisi a fare l’esperienza di una nuova forma di governo»12

A suo fratello, il quale si inquieta per le posizioni assunte da lui, manda a dire:

«Ecco in poche righe quel che facciamo e cosa diventiamo (…). Organizzeremo corsi pubblici per gli operai. Andremo nei “club” per opporci alle idee sovversive che vi si potrebbero proporre. Ci accorderemo per ottenere dei probi rappresentanti, devoti e religiosi. Ed è per questo che bisogna coinvolgere tutte le persone oneste che conosci. Niente pusillanimità, niente vigliaccheria, nessuno scoraggiamento. In fondo il loro motto “Libertà, Uguaglianza, Fraternità” è il Vangelo stesso. Nulla è perduto se impediamo di scostarsene. Tutto è perduto se non ci facciamo vedere».13

«Fatale» 1848

Si raggiunge a questo punto la vetta delle argomentazioni politiche di Ozanam: una vetta, va aggiunto, purtroppo vicina al manifestarsi della malattia che lo porterà alla morte, a soli 40 anni. Il volume curato da Ceste dedica moltissime pagine a quell’anno fatale, anche perché Ozanam, fondato un nuovo giornale – L’Ère nouvelle – vi scrive quasi ogni settimana articoli che descrivono il suo sforzo di capire il proprio tempo e di giustificarsi davanti a chi lo ritiene, lui, Ozanam, «passato ai barbari». Ceste riporta moltissime lettere, per esempio a Joseph Théophile Foisset (1800-

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