Parole per il settantesimo anno

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Juan Romulo Rebay

(Marco Vimercati)

DEL SETTANTESIMO ANNO

Edizioni Domestiche

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Parole
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indice

(un po’ analitico e un po’ no)

parole per la terza età........ pagina 7 apatia ............................. pagina 13 pathos............................. pagina 13 simpatia ........................ pagina 17 affezione...................... pagina 18 antipatia ..................... pagina 19 empatia ....................pagina 21 atarassia ................. pagina 26 adiaforia ................. pagina 29 indifferenza .......... pagina 29 euforia................. pagina 29 anestesia ............. pagina 32 estetica .......... pagina 33 estasi .......... pagina 37

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parole per la terza età

Uno dei sentimenti di cui mi stupisco di più è l’indifferenza. Parlo di me, naturalmente, ma penso che la questione possa riguardare una buona parte di quello che oggi chiamiamo “il mondo occidentale”, accorpando in un unico blocco anche continenti che sono separati tra loro da un oceano.

Più che indifferenza, a guardar bene, sembra una specie di narcosi, una catalessi con la quale assistiamo indifferenti a un sacco di cose che non ci piacciono. Ci indigniamo, certe volte usciamo e andiamo in piazza a manifestare, altre volte mettiamo energie o soldi in qualche iniziativa che vorrebbe migliorare le cose, ma abbiamo quasi la certezza che servirà a poco, a niente.

La scomparsa della verità ha contribuito enormemente ad alimentare questa indifferenza. Sospettiamo di tutto: da quello che c’è scritto sulle etichette dei prodotti alle parole dei politici, dalla versione dei fatti fornita dal Tg ai bilanci delle aziende. In un certo senso non c’è più modo di sapere la verità e qualcuno comincia a sospettare che “la verità” non esista per niente. Tuttavia, sul declino del Pianeta, sulle tragedie umanitarie, sul disastro ambientale siamo ormai

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quasi certi di essere di vedere una specie di verità, anche se non molto definita: siamo alle porte di un’epoca nota alle cronache con il vezzeggiativo di Apocalisse.

Ieri ho compiuto sessantanove anni e oggi ho incominciato a vivere il settantesimo. E’ strano guardarsi indietro, perché gli eventi passati sembrano tutti schiacciati l’uno sull’altro come vecchie fotografie o quinte teatrali. Eppure, se guardo meglio, c’è stato un punto in cui tutto è cambiato.

La mia generazione, pur avendo trascorso la vita nella pace e nel benessere, ha vissuto il più sconvolgente dei cambiamenti: siamo passati da un’epoca in cui quasi tutto era ancora da fare ad un’epoca in cui non c’è più niente da fare. Naturalmente non è vero che non ci sia niente da fare, ma molti sembrano volerci convincere che per quanto ci si dia da fare esiste qualcosa di molto più grande e più potente di noi che in qualche modo determina il nostro destino e i nostri gesti non sono altro che una goccia nel mare.

In ogni caso un sovvertimento c’è stato. Molti lo chiamano cambio di paradigma, ma insomma sembra che ci si debba preparare al Mondo Nuovo del quale però non si sa un accidente, se non che sarà molto diverso da tutte le ipotesi positive che la fantascienza ottimista è riuscita a formulare trovando poi nella tecnica, ovvero nella tecnologia il suo simulacro . (J. Baudrillard, Simulacres et simulation, Éditions Galilée, 1981)

.E’ stato un passaggio veramente cruciale, e c’era il rischio di diventare pazzi, e infatti non è escluso che lo siamo diventati veramente, portando quasi a compimento un processo iniziato forse duecentomila anni fa, quando uno

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sparuto gruppo di scimmie decise di farsi carico di un compito straordinario, quello di imboccare la strada dell’evoluzione o di ciò che noi chiamiamo così.

C’è da chiedersi se Colui al quale abbiamo chiesto questa deroga dalla natura abbia fatto bene a concedercela. Se abbia fatto bene a dotarci del cosiddetto libero arbitrio senza nel contempo dotarci degli strumenti necessari per farne un buon uso. Oppure ciò che noi chiamiamo “libero arbitrio” è più un sottostare a delle regole più grandi di noi, una specie di servitù di stampo luterano nella cui prospettiva la libertà è semplicemente un’illusione.

Perché in ogni caso non riusciamo a sfuggire ad una visione deterministica, in cui ciò che accade oggi è semplicemente il risultato delle scelte che abbiamo fatto ieri.

Ecco che quindi le cause del presente si troverebbero nel passato. Ma la filosofia ci offre per fortuna una via d’uscita, una specie di fuga da questa lunga catena di cause ed effetti. Una visione in cui le cause sono nel futuro. Un ribaltamento di visione in cui non sono gli eventi del passato a generare il presente, che uscirebbe fuori come il dentifricio dal tubetto quando esercitiamo una pressione sul fondo, ma c’è qualcosa che dal futuro ci trascina verso il nostro destino. Una forza ignota, forse molto lontana, che tira fuori il dentifricio dal tubetto, lo fa passare dallo spazzolino alla nostra bocca e poi finisce giù per lo scarico, verso il suo destino. Questo ci aiuterebbe a vedere il presente non tanto come un effetto del passato ma come una causa del futuro.

Tuttavia questa visione, esisteva già nell’antica Grecia in opposizione ai filosofi come Democrito, orientati al

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determinismo. Ma dal punto di vista diciamo pratico non è stata vista come funzionale, infatti nella contesa per costruire le coordinate concettuali del cosiddetto mondo occidentale ha vinto il determinismo, anche se riesce difficile comprendere come questa fiducia nel mondo causale possa coesistere con quel famoso libero arbitrio. Comunque, in qualche modo, siamo riusciti a celebrare questo matrimonio, e quindi questo ci colloca direttamente tra le prime cause, e comunque la principale, di tutto ciò che accade nel panorama ambientale, sociale, economico e geopolitico.

Certo, osservando quel panorama ci prende una specie di smarrimento, che poi portato a coscienza diventa colpa se siamo cattolici oppure responsabilità se siamo protestanti, ma che comunque non ci esime dall’essere pienamente coinvolti in ciò che accade. Ma tutto ciò è molto doloroso, e allora si cercano delle vie di fuga, delle strade per non essere più coinvolti in ciò che accade.

Non c’è nessun intento critico in questa affermazione, ma il sentimento prevalente che percepisco intorno a me (anche dentro di me) è appunto questa specie di oblio, questo sonno dato dall’indifferenza. Un brutto atteggiamento che però ci salva da una visione insostenibile. Parlo da anziano (come ho detto ho incominciato da poco il mio settantesimo anno) e credo che il desiderio massimo di ogni anziano che si rispetti sia in gran parte quello di stare in pace, senza patemi d’animo. Invece tutto intorno a noi, specialmente a noi anziani che stiamo più attenti alle notizie e nello stesso tempo abbiamo la pelle più sottile, sembra avvalorare questo senso di disastro imminente. I presupposti non mancano,

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ma a volte c’è da chiedersi se non ci sia anche un po’ di strumentalizzazione; se un certo clima di incertezza e di rischio non serva a far stare tutti in una situazione di apatica attesa. Ma siccome mi piace avventurarmi tra le parole, ho cominciato a cercare dei sinonimi e dei contrari a questa indifferenza, che più propriamente dovrebbe essere chiamata adiaforia. Allora ho pensato ad apatia, poi ho pensato ad altre parole, perfino ad anestesia. Quello che vi propongo è un piccolo approfondimento su alcune di esse. marco vimercati Genova, 16 dicembre 2022

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Apatia

apatìa s. f. [dal lat. apathīa «insensibilità».]

Anche il termine greco ἀπάϑεια viene tradotto in modo assai riduttivo con «insensibilità». Oggi si fa un gran parlare dell’apatia, specialmente quella dei dei teenager, ma se ci fate caso l’apatia nei confronti di ciò che succede nel mondo è totale. A questa parola si dà in genere una connotazione negativa, ma nelle sue origini etimologiche si svela qualche aspetto inatteso, come se l’apatia fosse più che altro l’atteggiamento di chi ormai ha capito che non può far altro che osservare il mondo senza coinvolgimento.

Quello che possiamo notare qui, nella parola greca ἀπάϑεια, è in primo luogo quell’α privativo messo davanti a πάϑος , termine comunemente tradotto con «sofferenza» ma con dentro tutta quella polisemia che hanno le parole fondative del greco. πάθος infatti, è legato a πάσχω (che suona più o meno “pashko”) e che indica “soffrire” nell’analogo lessema del greco antico di origine proto-indoeuropea.

A noi latini è piaciuto soprattutto quel “pas”, quel morfema all’origine del páthos che ci porta in un universo semantico multiplo, fatto di passione, di patimento, di patologia, in uno spazio ampio in cui si trovano anche il paziente, la pazienza, la pazzia e financo il patibolo.

páthos ]

Abbiamo detto che πάσχω è una derivazione del tema

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[

παϑ- del verbo πάσχω «soffrire», da παθ-σκο. Ebbene, nella strada delle lingue non latine, va registrata la “bassa intensità” di παθ- (come nell’infinito ἔπαθον) e, per contro, l’importanza quell’σκο, l’altro reperto di origine indoeuropea, così arcaica e così dura a morire, implicato anch’esso senza dubbio nella più feroce sofferenza. παθσκο, con la soppressione di theta [tʰs] in [s] e il trasferimento di dasyni [k] in [kʰ] crea una nuova parola in cui sk diventa poi sch e che, secondo i linguisti, produrrebbe un suono affine al gaelico irlandese céas (presente céasann, futuro céasfaidh, participio passato céasta), che significa torturare, crocifiggere o infliggere feroci tormenti. Nel moderno irlandese il sostantivo verbale céasadh significa tortura.

Per capire meglio le parole antiche però non basta cercare la loro origine; bisogna anche un po’ provare a pensare come gli uomini antichi, per quanto sia impossibile. Comunque l’esperimento va tentato, se non altro per provare a immaginare cosa potesse essere questo pathos o céas per i nostri antenati.

Ormai abbiamo solo un pallido ricordo della dimensione sacra della sofferenza, la sua ineludibile presenza come nota nefasta nella vita dell’uomo, tanto che molti termini che hanno a che fare col benessere e con la pace interiore sembrano avere davanti quell’α privativo, come se il benessere potesse esistere solo come negazione, elusione o superamento del dolore.

Poi forse bisognerebbe arrivare ancora più indietro, nella dimensione arcaica in cui forse quell’antica radice potrebbe indicare una doppia valenza di soffrire e sopportare, come

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appunto accade in πάσχω. E’ come se i due significati di sofferenza e sopportazione non fossero ancora completamente individuati e fossero due aspetti di un unico significato.

Qua si va ben oltre il soffrire e l’accettare, qua si va verso la dimensione sacra del martirio, dove la sofferenza si mescola con l’estasi. Nella retorica greca il termine indica l’insieme di passionalità, concitazione, l’epico eroismo della tragedia. Nell’uso moderno, invece, il pathos è relegato ad una dimensione molto più simbolica, e in genere definisce la capacità di suscitare una intensa emozione affettiva e una profonda commozione estetica. di un’opera d’arte o di altre forme espressive.

Dato uno sguardo al pathos, torniamo alla parola di cui ci stiamo occupando, che definisce uno stato in cui il pathos non è presente. Non si sa se sia stato superato, se è stato tacitato o se lo si è eluso con uno stratagemma. Fatto sta che l’apatia è l’assenza di pathos. Per come la vediamo noi, è quello stato d’indifferenza abituale che chiamiamo anche abulia, accidia, fiacca, freddezza, impassibilità, imperturbabilità, indifferenza, indolenza, inerzia, insensibilità, irresolutezza, passività, pigrizia. Una brutta cosa, insomma.

Ma per la filosofia l’apatia è uno stato di perfezione contemplativa dello spirito, in cui nulla si disprezza e nulla si desidera. L’apatia non solo non è una brutta cosa, ma è addirittura l’ideale del saggio, l’attributo per eccellenza del divino come viene concepito dagli epicurei.

Nella religione dei Padri Cappadoci e nel monachesimo è visto come uno stato di beatitudine raggiungibile mediante la pratica delle virtù, la preghiera e la mortificazione, da cui

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nascono l’amore e la carità, ossia le strade che ci conducono alla contemplazione mistica.

La nostra apatia di uomini moderni occidentali, quella dei nostri teenager sdraiati col telefono in mano potrebbe quindi derivare dal senso di impotenza con cui assistiamo come spettatori quasi disinteressati al declino della nostra civiltà, ma potrebbe anche essere un atteggiamento di estrema saggezza, che abbiamo ereditato dai nostri antenati e dove il “non fare” sembra veramente un’alternativa alla bulimia di fattività distruttiva che caratterizza i nostri giorni.

Ma i rapporti col pathos non sono solo privativi, come nell’apatia. Ci sono molti altri modi di mettersi in relazione col pathos, che come si vedrà tra poco non sono solo dolorosi e fatti di afflizione. Tuttavia, come sostenevo prima, sembra che gran parte della lingua antica ci porti negli stati di benessere e beatitudine prevalentemente facendoci fuggire via da qualcosa con cui siamo costretti a confrontarci.

Un po’ come il tao, che avendo scoperto che il nostro problema è il divenire, ci dice che il divenire è un’illusione e che esiste solo l’essere. Ma è solo un esempio; torniamo al pathos, al patema d’animo, e dopo averlo sfuggito con l’apatia, proviamo a dialogarci.

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Simpatia

simpatìa s. f. [dal lat. sympathia «affezione, sentimento»]

La prima parola interessante è simpatia, dal gr. συμπάϑεια, composto da σύν «con» e πάϑος «affezione». Contrariamente a quello che riteniamo abitualmente, è lo stato di chi subisce una data azione o situazione, indipendentemente dal fatto che sia essa piacevole o dolorosa. Seguendo anzi la strada che abbiamo percorso a proposito di apatia, dovremmo dire che vi è simpatia quando si soffre insieme a qualcuno, quando si entra in risonanza con il dolore degli altri, un po’ come accade nella compassione che nel latino è cum patior, e cioè soffro insieme; anche se nel latino classico la parola (quindi il concetto) di compassione ancora non era presente, e lo inventeranno i primi cristiani.In latino, la parola più prossima a compassione è misericordia, cioè l’aver cuore per i miseri, il che significa che possiamo dar loro una mano ma non implica necessariamente che soffriamo insieme a loro.

Inoltre non va trascurato il fatto che un’altra delle traduzioni possibili per il latino cumpatior è quella di simpatizzo, cioè faccio amicizia, mi intendo con qualcuno. In italiano infatti abbiamo compassione, compatire, e forse anche compagnia e compagno, se nella compassione includiamo anche il dividersi il pane (cum panis).

Nel significato originario, il termine greco συμπάϑεια designa la comunanza che si manifesta tra più esseri in quanto soggetti alle medesime affezioni Anche questa parola è vasta e comprende un campo semantico che va

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dall’attaccamento alla sorellina fino alla malattia che potrebbe portarsela via, e cioè l’affetto e le affezioni patologiche.

La voce è recuperata dal latino affectus, participio passato di afficere che vuol dire «impressionare, influenzare», derivato di fàcere «fare» col prefisso ad- .

Per quanto non siamo abituati a farlo, il termine affetto può designare anche un’affinità oggettiva delle cose, oltre alla ben nota partecipazione soggettiva di una persona allo stato d’animo di un’altra. Affetto e simpatia nel nostro interloquire quotidiano vanno spesso a braccetto. Di solito proviamo un certo affetto per chi ci è simpatico, e se una persona ci è simpatica non è difficile provare verso quella persona un certo affetto.

Tuttavia non riusciamo forse neanche più ad associare all’enunciato simpatia tutto il suo carico di solidarietà umana, forse perché se è vero che certe cose nascono grazie al linguaggio (e la simpatia potrebbe essere una di queste), è altrettanto vero che l’enunciato continua ad esistere anche nel caso in cui il suo referente significale sia sparito completamente dalla realtà davanti a noi.

Forse dare la propria vita per salvare quella di un amico o di un figlio è un atto di estrema simpatia. Parola sempre più simpatica, perché anche ritornando all’ipotesi del pathos più scuro e doloroso, ecco che la simpatia potrebbe venire in nostro aiuto come se fosse anche un trait d’union, un ponte di accettazione verso la sofferenza. (in effetti spesso da chi ci è simpatico accettiamo anche che ci faccia del male).

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[
affezione]

Antipatia

antipatìa s. f. [dal lat. antipathīa, « repulsione o avversione istintiva»]

Non liquidiamo l’antipatia semplicemente come il contrario della simpatia (anche perché altrimenti sarebbe necessario aprire una parentesi per definire esattamente cio che è opposto e ciò che è invece contrario).

Se è vero, nel suo completo significato, che la simpatia è anche un ponte con il dolore, allora analogamente, l’antipatia dovrebbe proteggerci. Antipatia viene dal latino antipathīa, la cui origine greca è ἀντιπάϑεια, composto di ἀντί «contro» e πάϑος «passione». Qui si vede tutto il diametro del pathos che stavolta assume una connotazione prevalentemente positiva: non è più il dolore e la sofferenza ma diventa moto dell’animo. Altrimenti dovrebbe essere antipatica qualunque cosa o persona amica che si frapponga tra noi e il dolore. Chiunque ci aiuti a non soffrire, a ragion di semantica dovrebbe essere antipatico. Ma come abbiamo visto il pathos ha al suo interno molte vibrazioni che vanno ben oltre la sofferenza; è antipatica ogni cosa che si frappone tra noi e le espressioni della nostra interiorità. Magari ci piace tanto, ne vediamo l’utilità, la apprezziamo, ma è antipatica non solo ogni persona ma anche ogni regola, etichetta o protocollo che ci imponga di tenere a bada le nostre passioni. Quindi in un certo senso tutta la società è antipatica. E invece non è antipatico il vicino di casa che non saluta e lascia aperto l’ascensore, perché quello non si frappone tra

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noi e i nostri moti d’animo; anzi, è capace di evocare in noi più biechi istinti omicidi.

Forse è veramente antipatico ciò che ci lascia del tutto freddi, privi di emozioni. Quindi il vero antipatico non è quello che ti fa infuriare, ma quello che ti lascia proprio in balìa di te stesso, che a livello relazionale è come un pezzo di pesce congelato. Comunque, più che stare a cercare le polarità tra simpatico e antipatico, oltre a vederci la differenza tra Charlot e Pinochet, si potrebbe pensare alla differenza tra quell’ἀντί e quell’σύν mi fa pensare alla differenza tra i due enunciati greci συμ βάλλω «mettere insieme, unire» e δία βάλλω «separare, dividere» , dove due piccole preposizioni fanno variare il senso del verbo βάλλω «gettare», generando due parole dall’opposto significato: simbolo e diavolo.

Anche qui l’origine etimologica ci rende trasparente le potenzialità di quel σύν (c’è anche in simpatia), e la rocciosa stabilità di quell’ἀντί che non è solo contro, ma è anche “lì di fronte, è opposto ma è anche allo stesso tempo di, in cambio di, al posto di, per amore di, invece di, paragonato a, equivalente a, né migliore né peggiore di quell’altro”. Quell’anti, è tutte queste cose, e a cercare bene se ne trovano delle altre.

Quindi l’antipatia ci mette di fronte al pathos con un profondo senso di ambivalenza. Può farcelo odiare, e cercare di evitarlo, ma può anche rendersi simile ad esso, paragornarsi al pathos e sostituirlo, prendere il pathos e portarlo dentro di noi.

In genere l’antipatia viene fuori come fastidio, come scabroso contatto quando il destino ci dà il contropelo. Ecco

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che un leggero moto di antipatia ci pervade non appena le cose vanno in modo un po’ diverso da quello che vorremmo.

Non scambiamola con la rabbia che ci assale quando non troviamo le chiavi o perdiamo il treno; l’antipatia è quando il freddo ti toglie la voglia di reagire e per proteggerti dal pathos ti trasformi tu stesso in un pezzo di pesce congelato, a ulteriore riprova di quell’ ἀντί visto anche come un gioco di specchi, come due antitesi che si fronteggiano per scoprire di essere l’una l’immagine speculare dell’altra.

Succede quando ci guardiamo allo specchio e ci siamo antipatici. Non so a voi, ma certe volte a me succede.

Come dire che il pathos che temiamo tanto alla fine sia proiettato dentro di noi, e tutta quell’antipatia che proviamo verso il mondo là fuori altro non sia che una antipatia che abbiamo dentro di noi. Siamo noi, ad essere antipatici.

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Empatia

empatìa s. f. [comp. del gr. ἐν «in» e -patia, per calco del ted. Einfühlung « immedesimazione»]

Forse c’è un altro modo di porsi nei confronti del pathos, quella famosa “terza via” (un concetto invero molto “moderno”) che ci permette di capire e aiutare gli altri senza bisogno di disperarci insieme a loro, ma anche senza fuggire di fronte alla loro sofferenza. Parrebbe essere il caso dell’empatia, una parola assai più recente di simpatia e antipatia. Meno arcaica, di conio più recente e quindi abbastanza insidiosa.

Al tempo dei nostri bisnonni il termine non era ancora stato coniato e quindi l’empatia non esisteva. A questo punto ci sarà di certo qualche furbacchione che comincerà calorosamente a sostenere il contrario, e cioè che i nostri trisnonni erano perfettamente in grado di provare empatia per un vecchietto morente o per un cucciolo abbandonato, solo che la chiamavano con un altro nome. Su questo argomento io la penso come Heidegger, ma mi rendo conto che non c’è verso di convincere quelli che la pensano diversamente se non mostrandogli la forma-pensiero dell’empatia che negli ultimi anni si è allargata a dismisura, diffondendo tanti stereotipi di empatia che ne sono anche i simulacri, allo stesso modo in cui intende questo termine Baudrillard (Simulacres et simulation, citato nell’introduzione)

Il vocabolo nasce più o meno ai primi del Novecento,

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sul calco del tedesco Einfühlung, termine traducibile più o meno letteralmente con «immedesimazione» e reso appunto in italiano con empatia o simpatia simbolica.

Il concetto, e il termine che lo definisce, sono alla base della teoria estetica elaborata da R. Vischer (Über das optische Formgefühl, 1873) e T. Lipps (Ästhetik, 1903-06), secondo la quale l’arte consiste nell’immedesimarsi del sentimento nelle forme, una condizione di corrispondenza e riconoscimento reciproco, quando si verifica una profonda consonanza o simpatia tra soggetto e oggetto.

Per la traduzione italiana di Einfühlung si è attinto al greco ἐν, «in», e -πάθεια, dalla radice παθ- del verbo πάσχω, «soffro».

Qui ritorna il nostro πάϑος con il quale riusciamo a fare i conti grazie a quell’ἐν, che non è solo “in” ma è anche “con, insieme, in sintonia, in corrispondenza”.

Mancando di arcaicità, la parola mi mette un po’ in sospetto, come tutte le soluzioni “moderne”, nessuna delle quali sembra immortale come lo sono invece i pilastri su cui il Verbo scolpisce la storia del mondo con la sua luce inafferrabile, come scrive lo Sepher Yetzirè.

Per empatia si intende in genere, e più specificatamente in ambito psicologico, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale.

Il termine viene anche usato per indicare quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica.

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Secondo lo psicanalista Heinz Kohut, un rispecchiamento empatico nelle figure di accudimento, è fondamentale nei passaggi attraverso le fasi narcisistiche nelle quali il bambino si percepisce e si relaziona con il mondo in una forma onnipotente e “grandiosa”;

Lo dico da nonno, ma lo potrei dire anche da insegnante. Questa è una fase importantissima per trasformare le potenzialità in talenti. Spesso si creano polemiche con i nonni troppo permissivi. I genitori dei bambini sembrano proprio non comprendere questa dimensione, tutti compresi nel loro ruolo di educatori (ex ducere, ovvero portare fuori) e per far questo non si può certo stare ad avvalorare ogni minima fantasia dell’infante, specie se stai vestendolo per portarlo all’asilo e sei già in ritardo.

L’assenza di una dimensione di empatia nell’ascolto, secondo Kohut, promette un ripresentarsi delle forme narcisistiche del gioco infantile in forma patologica nell’individuo adulto.

Ora, sono ben consapevole che viviamo una triste epoca in cui si tende a patologizzare ogni minima anomalia per potervi immediatamente fornire rimedi farmacologici, fisioterapici e psicoterapeutici di ogni ordine e grado, ma a voler essere impeccabili, toccherebbe definire già patologica l’incapacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, l’incapacità di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro.

A voler essere rigorosi, dovremmo dire che oggi l’assenza di empatia è un lusso che non possiamo più permetterci. Ma, a voler guardare bene, cosa implica poi questa empatia?

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Il termine, come ho detto, è moderno, quindi è infido. Più che altro ti viene il sospetto che non sia definitivo, e cioè che l’empatia debba ancora trovare una sua specifica collocazione nella cosmogonia psicologica che c’è nella mente di ognuno di noi. Un po’ come atomo. All’inizio del XIX secolo John Dalton aveva sancito il fatto che la materia fosse formata da piccolissime particelle elementari chiamate atomi (dal greco ἄτομος «indivisibile, indistruttibile»); con la scoperta dell’elettrone, intorno al 1860, il fisico inglese Sir William Crookesfu ha poi dimostrato che l’atomo è composto da particelle subatomiche, palline che girano nel vuoto intorno a un nucleo, ma girano così veloce che più che palline sembrano onde. Ma il nome è rimasto quello sbagliato, perché non rispetta più la sua originaria etimologia.

Non vorrei che succedesse la stessa cosa anche all’empatia. Che si scoprisse che dentro c’è del vuoto e che diventasse un piccolo sistema solare di significati ancora più piccoli e ambigui, tanto da non capire più se sono significanti oppure significati. Come gli elementi costitutivi dell’atomo, che non si sa se siano particelle o vibrazioni.

Questa empatia di cui oggi ci fregiamo tanto, e forse con ragione, potrebbe però essere una rappresentazione teatrale della pietà, della misericordia, della compassione.

Enunciati che sembrano tutti un po’ come immagini di un vecchio album di fotografie, sostituite oggi da un pratico showreel informatico, pieno di empatia.

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Atarassia

atarassìa s. f. [dal gr. ἀταραξία «imperturbabilità»]

Dal gr. ἀταραξία «imperturbabilità», comp. di ἀ- priv. e tema di ταράσσω «turbare» (il tutto viene da τάραξις «confusione, sconvolgimento»). Il termine, già usato da Democrito. Nei nostri vocabolari, il termine viene definito più o meno equivalente a quello di apatia e a quello di adiaforia. Ma apatia dalle nostre parti viene usato spessissimo, atarassia invece viene usato raramente, e in genere con un significato sublime e celestiale. Non parliamo poi di adiaforia, che è roba per trattati filosofici o per linguisti, ma è difficilissimo da sentire in un bar o sull’autobus.

Eppure, al di là della sua connotazione di benessere assoluto che ce la fa sembrare qualcosa di appartenente alle religioni orientali, la sua etimologia ci conduce ad un’altra definizione del benessere: qua non si fugge più dal pathos, ma dalla taràsi, cioè dalla confusione, dal disorientamento. Non so se questo disorientamento venga superato dal naufrago perché all’orizzonte ha visto un lembo di terra oppure perché abbia accettato in pieno il fatto di essere in balia del destino, in mezzo al mare, e senza avere la minima idea di dove si trovi.

Il campo semantico del termine atarassia, nella sua accezione di stato d’animo di benessere (eudaimonía), si

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contrappone a quello di marasma, quale stato d’animo di consunzione, di confusione, che si trova già nella tragedia greca e che è una riproduzione interiore del dualismo cosmogonico: ordine: κόσμος (kósmos) contrapposto a χάος (disordine, vuoto).

In questo caso, più che una fuga dal dolore l’atarassia sembra portarci una certa idea di ordine, di pace, di completa emancipazione dal chaos, simile a quella raccomandata dal Siddhārtha Gautama Buddha, nel Dhammapada (Versi della Legge): “libero dal desiderio, libero dal dubbio, ha raggiunto la profondità dell’eterno. Al di là dell’attaccamento al merito e al demerito, al di là delle passioni, al di là della sofferenza, al di là di ogni impurità. In lui la sete dell’esistenza si è spenta. E puro, sereno, imperturbabile, splendente come la luna”.

Da ragazzo, ho sentito dei drogati alle prime armi paragonare l’effetto dell’eroina indifferentemente all’atarassia, al Nirvana, ai Campi Elisi, all’Empireo e al Paradiso Edenico. Spiace deludere, ma a parte i negativi effetti dell’eroina, occorre dire che l’atarassia è celestiale solo in quanto ci salva dalla confusione. Cosa evidentemente di tutto rispetto ed ampiamente auspicabile, specialmente nella terza età, dove diventano complicate anche le cose semplici.

Il termine atarassia oggi è in disuso. Era particolarmente in uso nelle scuole postaristoteliche degli stoici e degli scettici, per designare lo stato di serenità indifferente del saggio, che contempla il mondo senza più subirne la pressione affettiva.

Poi i romani cominciano il loro paziente e imperioso

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processo di “istituzionalizzazione” dei concetti, e quello di atarassia diventa addirittura una disciplina, una tecnica, si chiarisce come una vera e propria ricetta comportamentale (praxis) finalizzata al conseguimento dell’imperturbabilità (Tranquillitate) intesa come felicità.

Per questo l’atarassia risulta come la massima espressione dell’egemonia (il potere Hêgemonikon) [dal gr. ἡγεμονία; v. egemone, derivato da quel ἡγέομαι «guidare, condurre»], che i media ci fanno sembrare quello delle mafie o dei poteri forti, di coloro che tengono le mani su un territorio, ma che in realtà si esercita in primo luogo su sé stessi e sulle proprie pulsioni. Un mio amico islamico mi ha detto più o meno la stessa cosa della jihad. La vera guerra santa è quella che dichiari ai tuoi nemici interiori. Una volta debellati quelli, sarà difficile trovarne al di fuori. Come dice Mary Shelley, “un essere umano perfetto dovrebbe sempre mantenere la mente calma e serena e non permettere che la passione o che un desiderio passeggero disturbino mai la sua tranquillità”.

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Adiaforia

adiaforìa s. f. [dal gr. ἀδιαφορία «indifferenza»]

Il termine ἀδιαφορία è tradotto un po’ sommariamente con «indifferenza». Anche qui siamo in fuga, la parola è un composto di ἀ- privativo sul tema di διαϕέρω, il «differire» dei latini, che in sostanza significa “portare altrove”. C’è un po di differenza (scusate il gioco di parole) tra indifferenza e adiaforia, perché quel διαϕέρω, quel differire, nel caso dell’adiaforia viene portato in un qualche altrove, mentre nell’indifferenza rimane lì, inchiodato.

Nell’indifferenza, l’altrove è dentro la parola stessa, lì, nell’oggetto stesso che ci proietta nella dimensione della scelta, quella che provoca l’angoscia esistenziale secondo Kierkegaard.

Adiaforia ha la stessa desinenza di euforia, che arriva dal greco εὐφορία, derivato di εὔφορος «che si porta o si conduce facilmente», come un individuo sano o un campo fertile. Si vede bene che è un composto di εὖ «bene» e φέρω «portare». Ecco un’altra via di fuga (qui non si sa bene da cosa). Euforia è quella speciale sensazione, reale o illusoria, di benessere somatico, quello strano senso di soddisfazione che a volte ci assale inspiegabilmente oppure grazie a qualche bicchiere di vino, e che si esprime con allegria, vivacità esuberante e a volte

euforia ]

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[ indifferenza ] [

perfino gioia. Per certi versi l’euforia, cioè il portare qualcosa con gioia, sembra proprio il contrario dell’indifferenza che è proprio l’incapacità paralizzante, la rinuncia.

L’adiaforia invece ha in sè quel senso di distogliere, di separare l’uomo dai suoi crucci. L’adiaforia contiene in sè una prospettiva ottimistica, forse addirittura terapeutica, l’indifferenza invece è quasi certamente patologica.

L’indifferenza non è quella della ragazza che ignora il pretendente, è quella dell’asino di Buridano che rimane imbambolato, non sapendo scegliere tra i due cesti, uno di biada e l’altro di fieno, e muore di fame.

Ecco perché il termine indifferenza mi sembra sempre il più adatto a definire la nostra condizione; quella specie di rinuncia alla speranza di chi ormai pensa che, comunque, qualunque cosa si faccia niente possa veramente cambiare.

Penso che l’indifferenza sia il sentimento prevalente nel corpo sociale del nostro mondo occidentale; penso a volte che niente ci ci piaccia davvero e che niente ci possa davvero sconvolgere, che niente ci possa dare euforia; anche se è vero che con la chimica possiamo creare un simulacro dell’euforia; ed è anche vero che grazie allo stordimento dell’informatica, del mondo virtuale e fra poco del metaverso e dell’intelligenza artificiale, ci potremo avvalere di diverse opportunità di adiaforia, ma temo che il sentimento prevalente sarà sempre di più quello dell’indifferenza.

Anche perché, va detto, l’adiaforia per i filosofi antichi era la disposizione di spirito di chi, bastando a sé stesso e non avendo nulla da chiedere o da rivendicare, non ha alcun motivo per giudicare gli eventi esterni del mondo, di distinguerli

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tra buoni o cattivi, tra desiderabili o indesiderabili. Non ha aspettative e non è identificato con alcunché.

Chi pratica l’adiaforia mantiene in ogni caso immutata la propria serenità e l’autosufficienza d’animo, realizzando così l’ideale etico del cinismo e dello stoicismo che per molti versi assomiglia all’apatia e all’atarassia come ne parla Epicuro.

Chiedo scusa se faccio una divagazione, ma per una strana assonanza adiaforia mi ha ricordato una certa parola sanscrita che non ricordavo bene. La parola in realtà è un po’ diversa, è Aparigraha, che in sostanza è uno dei cinque yama, le regole da seguire per creare l’armonia con il mondo esterno. Significa “non possesso” e indica l’attitudine al distacco da ogni attaccamento al possesso di beni o persone. Oriente e Occidente qui sembrano incontrarsi, e anche se l’assonanza è del tutto forzata e arbitraria, la convergenza dei contenuti ci porta nella dimensione del distacco. Più cerchiamo di controllare la nostra vita più ci allontaniamo dal suo centro vitale, che se vogliamo possiamo chiamare anche Grazia Divina dopo aver appurato se il nostro interlocutore sia uno yogi oppure un prete.

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Anestesia

anesteṡìa s. f. [dal gr. ἀναισϑησία «insensibilità»]

A volte viene il dubbio che la nostra indifferenza sia determinata (ecco che ricompare il determinismo) da una specie di narcosi. Una catalessi indotta da qualche droga o ipnosi subliminale.

Il linguaggio è stato certamente il più significativo, ma se ci pensate, dopo il linguaggio abbiamo aggiunto così tanti diaframmi tra noi e la realtà, che ormai il nostro racconto (oggi amano tanto dire la narrazione) è quasi una ipnosi che facciamo a noi stessi per ribadirci ed alimentare quel grande sogno che spacciamo a noi stessi per realtà.

E’ un’altra via di fuga, non c’è dubbio. La parola anestesia naturalmente viene dal greco ἀναισϑησία «insensibilità», dove c’è sempre il nostro ἀν- privativo che questa volta ci salva dal dolore. Anche se, in verità, αἴσϑησις è qualsiasi percezione, e può essere tradotto con «sensazione».

Come dire che l’anestesia ha come le altre parole sopraelencate, una polarità potenziale perché nel salvarci dal dolore ci toglie di conserva anche tutte le afferenze piacevoli; come dire che pur di non soffrire siamo disposti a rinunciare ai pasticcini, agli aperitivi e al caffè con gli amici.

Per la verità il termine è molto più contenuto, nel suo significato ordinario. Anestesia è infatti definita l’assenza della sensibilità dovuta a cause organiche o indotta

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artificialmente. Se organica, è provocata dalla distruzione, dal danneggiamento o dalla disabilitazione delle vie o dei centri della sensibilità nelle sue varie forme, provocata cioè da lesione o altri agenti; In medicina, come è noto, indica l’abolizione della sensibilità ottenuta attraverso farmaci, per l’esecuzione di procedure chirurgiche.

In ogni caso l’anestesia definisce la perdita completa di una o più modalità sensoriali. In pratica ci priva della dimensione estetica.

Ecco, un’altra parola interessantissima: estetica, dal latino moderno, aesthetica, femminile sostantivato del gr. αἰσϑητικός.

[ estetica ]

L’origine è nella parola greca αἴσθησις, che significa «sensazione», e dal verbo αἰσθάνομαι, che significa «percepire attraverso la mediazione del senso».

Oggi abbiamo trattati di estetica, docenti universitari di estetica, esperti di estetica nell’arte, nel design, nella pubblicità e nel corpo umano. Ma in origine l’estetica non era una disciplina né una specializzazione, e neppure una parte a sé stante della filosofia. Era l’aspetto della conoscenza che riguarda l’uso dei sensi. L’estetica, di cui oggi siamo in apparenza pieni, alle sue origini è “solo” la disciplina con cui si accede alla conoscenza tramite la vista, l’udito, il tatto e le altre percezioni sensoriali.

Nel corso del XVIII secolo il suo significato cambia, perché l’estetica è prevalentemente impegnata nella definizione e nella ricerca del bello, interessata alla produzione e ai prodotti dell’arte, sui quali si propone di esercitare un giudizio.

Baumgarten si impegnò e gettò le basi per la costituzione

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dell’estetica come disciplina filosofica, cdefinita in un primo tempo Scienza della conoscenza sensitiva.

Si tratta quindi di un termine con accezione molto ampia, ma usato dal XVIII secolo in poi con riferimento primario alla poesia e alle belle arti e poi via via esteso a molte altre cosei.

Per me l’estetica continua ad essere la chiave della conoscenza sensibile, ha un po’ lo stesso senso (credo) che le dà Kant quando parla di Estetica trascendentale. Conoscenza che però, a mio avviso, se vuole essere animata da una aspirazione integerrima, non deve discriminare. Può educare alla visione, all’ascolto, può mostrare l’armonia e la disarmonia ma deve esulare da un senso specifico e tecnico, non deve essere la dottrina del bello, deve essere la porta di un’esperienza.

Ma qui parliamo di qualcosa che dall’estetica ci dovrebbe proteggere. Forse tutto è diventato veramente urticante, tossico, abbacinante. Ci sercvono occhiali, guanti, mascherine... Forse i nostri sensi sono diventati più acuti? Improbabile. In ogni caso pare che si cerchi spesso qualche forma di anestesia, come per esempio la televisione, che nonostante sia piena di brutte notizie, litigi e preoccupazioni riesce ancora ad avere un certo potere ipnotico, come se il mezzo fosse più del messaggio che veicola, tanto per non tralasciare un riferimento a McLuhan.

Forse, nella moderna narcosi vogliamo allontanarci proprio da questo. Cerchiamo di escludere l’unico elemento che ci può dare una conoscenza diretta della realtà. Qualcuno obietterà che mai come oggi i nostri sensi sono stati blanditi

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e deliziati. Mai come oggi tante persone possono godere del bouquet di un vino costoso, della vista di opere d’arte, dell’ascolto in hi-fi delle migliori sinfonie, della riproduzione in hd dei migliori film. Altro che anestesia. Ma quelli sono altri simulacri, sempre per citare Baudrillard. Fateci caso: da quando tutti celebrano “i sapori autentici”, abbiamo un incremento enorme di cibi mediocri o scadenti, spesso travestiti da contadini. Da quando si è scoperto che il pubblico si fa guidare dalle emozioni, troviamo emozioni artificiali nei programmi politici, nei piatti di pastasciutta e nelle polizze assicurative. Da quando esiste l’estetica come disciplina, e da quando ogni consumatore è divenuto un “amante del bello”, la bellezza ha cominciato a scomparire dalle nostre città, dal panorama, dai rapporti tra le persone e dalle persone stesse. Nel momento in cui tutti o quasi sono bellissimi perché vanno nelle palestre, nei centri estetici e nelle beauty farm, sembra proprio che la bellezza vera, cioè quella luce interiore che emana verso l’esterno, sia scomparsa, sostituita dal suo simulacro che si chiama botox, silicone, liposuzione, fitness, smoky eyes, nail art, fashion design, body building e una galassia di altri sinonimi o simulacri.

Tutte tecniche che, anziché lasciare ai sensi la percezione di ciò che siamo, tenta di ingannarli fornendo loro una versione di noi falsa, presuntamente migliorativa e sostanzialmente ipnotica, che nasconde il vero, non ci permette di accedere con i sensi alla verità, che poi è l’unica forma di bellezza possibile.

Ecco perché secondo me tutto ciò che facciamo è anche

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un po’ anestetico. Ma perché privarci della conoscenza attraverso i sensi? Certo, lo sappiamo. Sia la scienza che le discipline e le saggezze orientali ci hanno ormai insegnato che i sensi sono fallaci, menzogneri. Eppure sono quelli che ci forniscono le esperienze più dirette del mondo, tanto che se ci becchiamo una mattonata in testa il fatto ci sembra incontrovertibile. Sono i sensi, la prima strada con cui entriamo in relazione con gli altri e col mondo, una bassa estesia è un primo segnale del nostro allontanamento dal mondo.

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Estasi

èstaṡi s. f. [dal lat. tardo ecstăsis, «turbamento, stupore»]

Per un po’ avevo vagheggiato che estetica ed estasi potessero avere la stessa radice, ma non lo potrei dire con certezza. Estasi, dal latino (credo più che altro un latino cristiano) ecstăsis, derivato dal greco ἔκστασις, composto di ἐκ o ἐξ e στάσις, «essere fuori» quindi certamente «turbamento o stato di stupore della mente» ma come dice il verbo ἐξίστημι è più che altro un «mettere fuori» comprendendo in questo soprattutto quell’«uscire di sé».

Se la presenza di quello σκο di cui avevamo detto a proposito dell’apatia è presente anche qui come στάσις, ossia, se anche qui c’è quell’ipotesi di “stare dolorosamente presenti a ciò che accade”, si potrebbe dire che quando l’estetica ci pervade, quando entriamo in risonanza col mondo in una specie di iperestesia che diviene quasi panestesia, allora abbiamo un’altra via di fuga che non è più legata all’indifferenza o all’annullamento delle percezioni. E’ al contrario il lasciarsi attirare al centro delle percezioni, dove la luce è più smagliante. Perché come dice Zolla “nell’abbandono è la gioia” (E. Zolla, Uscite dal mondo, , Adelphi 1992).

Arrendersi a quell’eccesso di estesia potrebbe significare che stiamo danzando la danza di Shiva, del grande costruttore e grande distruttore, che siamo oltre le nostre percezioni,

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in uno stato di trance, di ebbrezza, di appagamento, di beatitudine, di pace. Accolti in un paradiso pieno di serenità e di soddisfazione come il Nirvana o Serendipity. Forse anche qualcosa di amniotico, dove i confini tra noi e il mondo non ci sono ben chiari e l’uno sfuma nell’altro senza una vera separazione.

In questo modo si potrebbe sperimentare l’estasi, un indefinibile condizione che il vocabolario stigmatizza uno «stato psichico di sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita a volte come estraniata dal corpo». Spesso all’estasi si associa uno stato di isolamento e d’innalzamento mentale (mi viene in mente prima fra tutte Teresa d’Avila); durante l’estasi siamo assorbiti in un’idea unica o in un’emozione particolare che può avere prospettive mistiche. Con parole più romantiche si potrebbe definire come il rapimento dell’anima, che si mette in diretta comunicazione con il soprannaturale. Come esperienza mistico-religiosa, l’estasi si ritrova in tutti gli stadi culturali e in tutte le culture tranne la nostra, dove anch’essa è stata sostituita da numerosi suoi succedanei che in realtà sono altri simulacri.

L’importanza dell’estasi e la sua consistenza sono note a chi ne ha fatto l’esperienza, ma bisogna anche dire che la conoscenza-esperienza estatica ha diversi, infiniti gradi, e che ognuno di noi può spostarsi, un po’ per giorno, verso qualcosa che sia un po’ più estatico di un’imprecazione, di una recriminazione ma soprattutto dell’indifferenza.

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