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empatia ....................pagina

che un leggero moto di antipatia ci pervade non appena le cose vanno in modo un po’ diverso da quello che vorremmo. Non scambiamola con la rabbia che ci assale quando non troviamo le chiavi o perdiamo il treno; l’antipatia è quando il freddo ti toglie la voglia di reagire e per proteggerti dal pathos ti trasformi tu stesso in un pezzo di pesce congelato, a ulteriore riprova di quell’ ἀντί visto anche come un gioco di specchi, come due antitesi che si fronteggiano per scoprire di essere l’una l’immagine speculare dell’altra.

Succede quando ci guardiamo allo specchio e ci siamo antipatici. Non so a voi, ma certe volte a me succede.

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Come dire che il pathos che temiamo tanto alla fine sia proiettato dentro di noi, e tutta quell’antipatia che proviamo verso il mondo là fuori altro non sia che una antipatia che abbiamo dentro di noi. Siamo noi, ad essere antipatici.

Empatia

empatìa s. f. [comp. del gr. ἐν «in» e -patia, per calco del ted. Einfühlung « immedesimazione»]

Forse c’è un altro modo di porsi nei confronti del pathos, quella famosa “terza via” (un concetto invero molto “moderno”) che ci permette di capire e aiutare gli altri senza bisogno di disperarci insieme a loro, ma anche senza fuggire di fronte alla loro sofferenza. Parrebbe essere il caso dell’empatia, una parola assai più recente di simpatia e antipatia. Meno arcaica, di conio più recente e quindi abbastanza insidiosa.

Al tempo dei nostri bisnonni il termine non era ancora stato coniato e quindi l’empatia non esisteva. A questo punto ci sarà di certo qualche furbacchione che comincerà calorosamente a sostenere il contrario, e cioè che i nostri trisnonni erano perfettamente in grado di provare empatia per un vecchietto morente o per un cucciolo abbandonato, solo che la chiamavano con un altro nome. Su questo argomento io la penso come Heidegger, ma mi rendo conto che non c’è verso di convincere quelli che la pensano diversamente se non mostrandogli la forma-pensiero dell’empatia che negli ultimi anni si è allargata a dismisura, diffondendo tanti stereotipi di empatia che ne sono anche i simulacri, allo stesso modo in cui intende questo termine Baudrillard (Simulacres et simulation, citato nell’introduzione)

Il vocabolo nasce più o meno ai primi del Novecento,

sul calco del tedesco Einfühlung, termine traducibile più o meno letteralmente con «immedesimazione» e reso appunto in italiano con empatia o simpatia simbolica.

Il concetto, e il termine che lo definisce, sono alla base della teoria estetica elaborata da R. Vischer (Über das optische Formgefühl, 1873) e T. Lipps (Ästhetik, 1903-06), secondo la quale l’arte consiste nell’immedesimarsi del sentimento nelle forme, una condizione di corrispondenza e riconoscimento reciproco, quando si verifica una profonda consonanza o simpatia tra soggetto e oggetto.

Per la traduzione italiana di Einfühlung si è attinto al greco ἐν, «in», e -πάθεια, dalla radice παθ- del verbo πάσχω, «soffro».

Qui ritorna il nostro πάϑος con il quale riusciamo a fare i conti grazie a quell’ἐν, che non è solo “in” ma è anche “con, insieme, in sintonia, in corrispondenza”.

Mancando di arcaicità, la parola mi mette un po’ in sospetto, come tutte le soluzioni “moderne”, nessuna delle quali sembra immortale come lo sono invece i pilastri su cui il Verbo scolpisce la storia del mondo con la sua luce inafferrabile, come scrive lo Sepher Yetzirè.

Per empatia si intende in genere, e più specificatamente in ambito psicologico, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale.

Il termine viene anche usato per indicare quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica.

Secondo lo psicanalista Heinz Kohut, un rispecchiamento empatico nelle figure di accudimento, è fondamentale nei passaggi attraverso le fasi narcisistiche nelle quali il bambino si percepisce e si relaziona con il mondo in una forma onnipotente e “grandiosa”;

Lo dico da nonno, ma lo potrei dire anche da insegnante. Questa è una fase importantissima per trasformare le potenzialità in talenti. Spesso si creano polemiche con i nonni troppo permissivi. I genitori dei bambini sembrano proprio non comprendere questa dimensione, tutti compresi nel loro ruolo di educatori (ex ducere, ovvero portare fuori) e per far questo non si può certo stare ad avvalorare ogni minima fantasia dell’infante, specie se stai vestendolo per portarlo all’asilo e sei già in ritardo.

L’assenza di una dimensione di empatia nell’ascolto, secondo Kohut, promette un ripresentarsi delle forme narcisistiche del gioco infantile in forma patologica nell’individuo adulto.

Ora, sono ben consapevole che viviamo una triste epoca in cui si tende a patologizzare ogni minima anomalia per potervi immediatamente fornire rimedi farmacologici, fisioterapici e psicoterapeutici di ogni ordine e grado, ma a voler essere impeccabili, toccherebbe definire già patologica l’incapacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, l’incapacità di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro.

A voler essere rigorosi, dovremmo dire che oggi l’assenza di empatia è un lusso che non possiamo più permetterci. Ma, a voler guardare bene, cosa implica poi questa empatia?

Il termine, come ho detto, è moderno, quindi è infido. Più che altro ti viene il sospetto che non sia definitivo, e cioè che l’empatia debba ancora trovare una sua specifica collocazione nella cosmogonia psicologica che c’è nella mente di ognuno di noi. Un po’ come atomo. All’inizio del XIX secolo John Dalton aveva sancito il fatto che la materia fosse formata da piccolissime particelle elementari chiamate atomi (dal greco ἄτομος «indivisibile, indistruttibile»); con la scoperta dell’elettrone, intorno al 1860, il fisico inglese Sir William Crookesfu ha poi dimostrato che l’atomo è composto da particelle subatomiche, palline che girano nel vuoto intorno a un nucleo, ma girano così veloce che più che palline sembrano onde. Ma il nome è rimasto quello sbagliato, perché non rispetta più la sua originaria etimologia.

Non vorrei che succedesse la stessa cosa anche all’empatia. Che si scoprisse che dentro c’è del vuoto e che diventasse un piccolo sistema solare di significati ancora più piccoli e ambigui, tanto da non capire più se sono significanti oppure significati. Come gli elementi costitutivi dell’atomo, che non si sa se siano particelle o vibrazioni.

Questa empatia di cui oggi ci fregiamo tanto, e forse con ragione, potrebbe però essere una rappresentazione teatrale della pietà, della misericordia, della compassione.

Enunciati che sembrano tutti un po’ come immagini di un vecchio album di fotografie, sostituite oggi da un pratico showreel informatico, pieno di empatia.

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