Tedoforo

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Juan Romulo Rebay Tedoforo

Juan Romulo Rebay

Tedoforo

traduzione di Klaus Koriza

© 2023 El Perro Volador / L’Imbuto Edizioni Indipendenti

copertina di Anentodio Friulzi/Mynion

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Juan Romulo Rebay Tedoforo

(romanzo breve, o racconto lungo)

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Zanetti, in questi momenti schifosi, brutti, maledetti che la vita ci ha messo davanti… Dai, Tedoforo, non lamentarti che non siamo né feriti né malati, è già una bella cosa, no? Si, hai ragione, hai ragione. E’ che in questi momenti, dicevo, avere a fianco un amico, uno che ti conosce bene, fa la differenza… è come avere tutto o non avere niente.

Sì, ma porca miseria, Tedoforo, ma prima o poi usciremo fuori da questa trincea, vacca boia. Dicono che stanno andando avanti, su al nord, che quelli là stanno per arrendersi. Pensa che bello se si arrendessero domani. E noi usciamo di qua per tornare a casa. Speriamo, Zanetti, speriamo.

Sì, comunque è una gran bella cosa avere un amico. Oh, ma se ci fanno uscire e mi feriscono, tu mi recuperi, o mi lasci lì? Che ne so, Zanetti, dipende. Beh, per farti ammazzare anche tu, tanto varrebbe che almeno tu cercassi di metterti in salvo.

Dai, Zanetti, parliamo d’altro, che magari non ci sparano, né a me né a te. Sì, bravo Tedoforo. Non ci sparano, hai ragione, è bello avere un amico in momenti come questi, così non ti sparano. Ti voglio bene, Tedoforo. Hai ragione, avere un amico è come avere tutto, e senza un amico adesso sarei lì per tutta la notte a pensare che domani mi sparano. O forse dopodomani. Chi lo sa. E invece, niente, non mi sparano. E rideva, Zanetti, rideva a crepapelle, tanto che il caporale gli chiedeva: cosa c’è che ti fa tanto ridere, Zanetti? E’ Tedoforo, caporale. è lui che mi fa ridere. Roba da matti, diceva il caporale, siamo qua che ci caghiamo addosso e questo ride.

Sai, Tedoforo, mi diceva Zanetti. All’attacco ci sono già andato due volte. Non è poi così tremendo, quando esci fuori e ti sparano sei sempre sicuro che non ti becchino. Però, se ti devo dire la verità, ho quasi più paura a sparare che a essere sparato. Sai quante volte ci ho pensato, Tedoforo? Se mi trovassi faccia a faccia con un nemico, o spari tu o spara lui… ma lo sai che non lo so se sarei capace? Che forse è meglio morto che assassino? Lascia stare, Zanetti, che in guerra non è assassinio. Il nemico è il nemico. E’ quello che vuole le tue risorse, quello che stupra tua sorella e bombarda l’asilo dove ci sono i tuoi figli.

Ma cosa dici? Ma guarda che quelli di là, nell’altra trincea, sono come noi, dei poveracci come noi, con la testa piena di odio contro di noi perché gli hanno raccontato che gli abbiamo stuprato la sorella. Tedoforo, a te te l’hanno stuprata

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la sorella? No? Dunque vedi. A me la guerra mi faceva schifo prima, quando non volevo farla. Ma adesso che l’ho vista, che ho visto i morti, e le madri senza più i figli, adesso che ho visto i ragazzi come noi che invece di giocare a pallone sono venuti qui a morire, vacca miseria, la guerra mi fa dieci milioni di volte più schifo. E’ un nonsenso, nessun essere normale può desiderare la guerra.

Come hai ragione, Zanetti. Per tanti che all’inizio erano partiti decisi a combattere, entusiasti e volontari, ormai, qui, nell’ultimo collo di bottiglia, in questo solco scavato nel fango, nessuno la vuole più, la guerra. Che siamo come i vermi. Tu Zanetti li hai mai visti dei vermi partire a migliaia per andare ad ammazzare altri vermi?

Appena sono entrato nell’ospedale da campo della guarnigione (ci sono entrato con le mie gambe, non su una barella), mi hanno subito detto di andare nell’infermeria. C’era un medico, poi è arrivata anche una volontaria. Quando mi hanno tolto i mutandoni di lana, la volontaria ha detto : Gesù Cristo. E io mi vergognavo, mi capirete. Quei mutandoni li avevo addosso da un mese, forse qualche giorno in più. E non me li ero mai tolti, né di giorno né di notte. Il mio battaglione era partito per il fronte ai primi di gennaio. Per una decina di giorni eravamo rimasti nelle tende, era una vita brutta ma si mangiava tutti i giorni e si dormiva sotto due coperte e sollevati da terra, sulle brande. Poi avevamo dovuto partire, per sostituire quelli che tornavano indietro dalle trincee, quasi tutti avvolti nei lenzuoli, a circa sei, sette chilometri da dove si era accampato il battaglione. Un plotone, poi un altro. Poi altri due. Lì, eravamo rimasti a vivere nelle trincee, se vogliamo chiamarlo vivere. Venti giorni nel fango, anche dormirci dentro, venti giorni, un rancio al giorno più le gallette. Venti giorni nell’avamposto, a camminare bassi, ogni tanto tirare una fucilata quando vedi un elmo luccicare, un colpo di mortaio sperando di centrare una mitraglia. Ad aspettare sempre l’ordine di attacco, da un momento all’altro. Ma cosa aspettano? Aspettano che il battaglione sfondi su a nord, poi dobbiamo cominciare anche noi. Io e Zanetti eravamo fianco a fianco. Speriamo di non essere nella prima linea. Se sopravvivo quando torno a casa mi ubriaco e faccio l’amore tutti i giorni per tutto il resto della mia vita. Di solito quelli della prima linea vanno giù tutti. Sono il pavimento della seconda linea, come diciamo qua. Poi è arrivato l’ordine. Prepararsi. Ciao, Zanetti, ci vediamo. Non avevo mai

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preso parte a un’azione militare. Zanetti invece aveva già fatto due incursioni, ma qua era diverso. Eravamo bersagli. Quando siamo usciti abbiamo cominciato a correre e di là hanno cominciato a sparare. Sparavamo anche noi, ma nentre corri i tuoi colpi vanno di qua e di là, ma devi correre, perché se ti fermi ti beccano subito. Quelli dietro dovrebbero fare il fuoco di copertura ma certe volte ti sparano, perché devi correre a zigzag, poi devi saltare dentro qualche buco. Poi uscire, correre, sparare. Vedi che non ci beccano, Tedoforo? A un certo punto è arrivata una granata. Mentre volavo via ho visto Zanetti che volava via anche lui. Comunque sono stato fortunato. Una scheggia di granata mi ha portato via un’orecchia, e insieme all’orecchia se n’è andato anche il rumore delle bombe. Niente. Dalla parte sinistra non sento più niente. Zanetti è stato più sfortunato, la granata se l’è portato via tutto intero. Anzi, no. A pezzi, che non lo hanno neanche trovato tutto.

E alla fine il mio battaglione ce l’ha fatta. Quindi mi ha detto il maggiore che mi manderanno a casa e poi forse mi daranno una medaglia, anche se mi hanno atterrato a meno di trecento metri dalla mia trincea e io non ho fatto niente di straordinario.

Bruciate tutto, ha detto il medico alla volontaria. Tutta la biancheria. Mi hanno lavato e spruzzato con un disinfettante. La volontaria mi ha medicato la ferita, ha lavato via il sangue che si era seccato sulla barba. Mi ha dato un pennello e un rasoio e mi ha detto di radermi, poi mi ha fatto una fasciatura.

La volontaria si chiama Ines. Mi sono innamorato di lei e le ho chiesto di sposarmi. Lei mi ha risposto che glielo chiedono quasi tutti, che non è amore, che noi che torniamo massacrati e sopravvissuti abbiamo come un bisogno di una madre e ci attacchiamo a lei. Ma io le ho detto che no, che io l’avrei rapita se non fosse venuta con me. Sette giorni e poi mi mandavano a casa col congedo illimitato. Torno a dire che ero il più fortunato, c’era chi era senza gambe, chi era cieco, chi aveva perso la mano destra. E poi c’erano tutte quelle salme nei sacchi, come quella di Zanetti. Ines, quando smonti qui al fronte? Io vado via tra una settimana. Vieni via con me. Va bene, ha detto Ines. Ma guarda che la guerra sta per finire e io voglio fare la bella vita. Ma la bella vita come? Non ci pensare. Sai guidare? Prendi un furgone dell’esercito, mi ha detto lei. Ma non posso. Sì che puoi, che io ho la tessera da ausiliaria, all’uscita dico che è per il servizio

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farmaci. Ma non si può. Sì che si può, che la guerra sta per finire.

Così una settimana dopo siamo usciti, io e la Ines. Siamo scappati, dicevo io. No, siamo usciti, mi correggeva lei. Che tu sei guarito e mancava solo il foglio di congedo e io ho finito il servizio. Ma abbiamo rubato un furgone. No, l’abbiamo preso, diceva la Ines, che domani firmano l’armistizio e dopodomani tutta questa lamiera servirà per rifare altre macchine. Tenerla noi o lasciarla al distretto è uguale.

Così siamo arrivati in città. Cioè, non proprio in città, alla periferia. I campanili e le torri si vedevano da lontano.

Avevamo fame e anche sete. Ines, volevi fare la bella vita con le tasche vuote, le ho detto. Lì c’era un gruppo di gitani che avevano un circo. Un circo piccolo, di quelli che girano nei paesi. Venne fuori uno con la pancia e i baffi, era il capo e si chiamava Vasilj Torkos. Disse che la guerra era finita e che stavano per entrare in città. Gli chiesi se l’avevamo vinta o se l’avevamo persa, ma non lo sapeva. C’erano due fratelli acrobati, un mago con sua moglie, un lanciatore di coltelli e una donna con tre barboncini bianchi. Dopo un po’ la Ines si è messa a parlare con Vasilj, poi lui è venuto da me e mi ha detto: cosa sai fare? Che la Ines si era messa d’accordo: lei faceva la donna che si faceva lanciare addosso i coltelli, dal momento che quella prima di lei era morta. No, non per i coltelli, era morta sotto le bombe. E io dovevo montare il tendone, mettere la roba sui carri, aggiustare e verniciare quando serviva. La prima cosa che ho fatto è stata quella di verniciare il furgone dell’esercito di giallo e scriverci sul tendone “Circo Torkos”. Bravo, sei furbo, mi aveva detto Vasilj. Adesso vai a cercare la nafta da metterci dentro. E io ero andato al deposito degli autocentro di notte e avevo succhiato una tanica di nafta da una corriera.

Era bella, la Ines, vestita coi lustrini e le gambe scoperte, la parrucca azzurra e gli occhi bistrati. Io la vedevo come per la prima volta, sulla pista, mezza nuda e tutta intera, e solo allora la vedevo che era proprio bella, mentre prima mi era sembrata soltanto bella. Andavamo a letto, lei faceva tante cose, di quelle che piacciono agli uomini. Ma dove le hai imparate queste cose, Ines? Me le ha dette un’altra ausiliaria. Però non voleva mai fare l’amore giusto. Fai dietro, mi diceva, che non si rischia niente. Siamo rimasti in città una settimana, poi siamo arrivati nel capoluogo. Stavolta ci avevano dato uno spazio dove prima

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della guerra c’era il foro boario. Dobbiamo fare il meglio, dobbiamo fare bella figura, diceva Vasilj, che qua c’è la mucca da mungere. E mandava Erika coi tre barboncini ai giardini pubblici. Lei li faceva saltare in un cerchio e i bambini correvano a vedere. Allora lei tirava fuori i biglietti del circo e li vendeva. A volte tornava con le tasche piene di soldi e alla sera il circo era pieno.

La guerra era finita e la gente aveva voglia di divertirsi, di stare fuori la sera senza più gli allarmi che suonno. Ci stavano novanta persone. Tre tribune da trenta, le avevo anche rinforzate per paura che non reggessero il carico.

Il numero della Ines era verso la fine dello spettacolo e stavolta lo facevano anche con i coltelli infuocati. Làszlo, il lanciatore, era vestito da Saladino, a torso nudo e con il turbante. La Ines era vestita da odalisca, e il trucco era che lanciando l’ultimo coltello Làszlo bloccava il mantello della Ines e quando lei scendeva dalla pedana il vestito restava inchiodato alla tavola, e lei scendeva quasi nuda. Sembrava per sbaglio, ma era fatto apposta. Che il circo è per i bambini, ma anche i grandi possono trovarci un po’ di svago.

Una sera, dopo lo spettacolo, il Commendator Breviglieri aveva bussato alla carrozza della Ines, intanto che io ero lì fuori a piegare delle staffe. Lei aveva aperto. Ma cosa diavolo vorrà quello lì dalla Ines? Aveva un bel cappotto col collo di pelliccia, sulla quarantina. Un bel Borsalino grigio scuro, nuovo di zecca, e l’orologio d’oro con la catena.

Avevano parlottato per un po’ a bassa voce, poi, all’improvviso, la Ines gli ha allungato uno schiaffone. Ma forte, molto forte. E gli ha detto: Ma per chi mi ha preso? Forse gli abiti che indosso la autorizzano a pensare qualcosa di sbagliato! Le faccio presente che sono abiti di scena. Io sono un’artista e una persona per bene. Ho studiato danza a Parigi con Madame Dupré, e per di più sono ancora vergine, se lo vuol sapere! Dopodiché aveva sbattuto la porta della carrozza, chiudendo sonoramente con la chiave.

Il tipo, il Commendator Breviglieri, era rimasto lì basito, tenendosi una mano sulla guancia, dove era rimasto il calco delle cinque dita della Ines. Poi si era un po’ ripreso. Aveva guardato l’ora. Ricordo una bella catena con gli zaffiri che teneva l’orologio legato al panciotto, un bel panciotto di raso color perla.

La sera dopo, quando la Ines aveva finito lo spettacolo, appena uscita dal tendone si era trovata davanti il Commendator Breviglieri con un mazzo di rose

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rosse in mano, Un mazzo molto grande, che con la devastazione che c’era in giro chissà dove l’aveva trovato. Volevo scusarmi con lei, ha detto. Non volevo offenderla in nessun modo, ma mi rendo conto di averlo fatto, voglia accettare le mie scuse, ma la Ines ha tirato dritto senza neanche voltarsi a guardarlo. Che carattere, la Ines.

La sera dopo, durante lo spettacolo, ho visto che c’era ancora il Breviglieri, in terza fila. Non guardava lo spettacolo, aspettava la Ines. E la Ines se n’è accorta, che c’era lui, e ogni tanto, dopo ogni coltello che arrivava, lei si girava un po’ a guardarlo e forse all’ultimo coltello, quello che le toglie il vestito, gli ha anche fatto un piccolo sorriso che sembrava quasi sfuggito per sbaglio.

Quando lei è uscita c’era di nuovo lui fuori dal tendone. Le rose stavolta erano bianche, e lui le aveva detto: in segno della mia devozione. E la Ines le aveva prese. Poi una sera è andata a cena con il Commendatore. Lei ormai lo chiamava l’Armando. Giovedì sera vado a cena con l’Armando, mi aveva detto. Poi un’altra volta al sabato. Poi c’era la domenica, e al lunedì mattina si doveva sbaraccare tutto per andare in un’altra città.

Al lunedì mattina al momento di partire la Ines ha detto che lei non veniva, che si fermava lì e che di lavorare nel circo non ne aveva più voglia. Vasilj era disperato, che il lanciatore di coltelli avrebbe dovuto tornare a lanciare i coltelli ai cerchi di metallo e senza rischio la gente si annoiava.

Poi l’aveva visto anche lui che tanti venivano per la Ines. Comunque, niente da fare. La Ines ha preso due borse, mi ha dato un bacio e mi ha detto ciao. Che per lei due mesi di dormire in carrozza erano abbastanza, che me l’aveva detto che lei voleva fare la bella vita. E che bella vita vai a fare, Ines? Vuoi fare la moglie del Commendatore? Chi lo sa, aveva risposto. Che la vita è una scala e l’Armando era un gradino. Va bene, pazienza. Ma ti volevo bene, Ines, lo sai questo? Sì, lo so, ma te l’ho detto. Tu non hai il mordente. Non ho i soldi, vorrai dire. Che se ne avessi…

No, tu non sai niente. Tu, se ne avessi andresti a spenderli, aiuteresti i tuoi amici e poi dopo un po’ torneresti a fare la vita del barbone. Che i soldi bisogna saperli fare, ma il più difficile è farli lavorare al posto tuo.

Ines, ma tu come le sai tutte queste cose? Me le ha dette uno che c’era all’ospedale, uno pieno di soldi, di una famiglia di banchieri, che era andato in guerra perché voleva difendere la sua banca, mica il suo paese. E poi? E poi ci ha lasciato una gamba. Era di una città della costa, non mi ricordo quale, ma di sicuro mi verrà in mente, ci puoi giurare che mi torna in mente.

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Sparita la Ines, io non volevo rimanere più con Vasilj. Non è che fossero cattiva gente, anzi. Fin dalla prima sera ci avevano dato un piatto di minestra sulla fiducia, prima ancora di cominciare a lavorare. E poi Vasilj divideva gli incassi ogni sera, senza neanche rubare troppo. Ma io non volevo rimanere a fare il manovale del circo, avevo un’aspirazione, anche se non sapevo verso cosa e non sapevo fare quasi niente, a parte arrangiarmi con gli attrezzi e aggiustare argani e carrucole.

A un certo punto Làszlo mi ha detto: andiamocene via, che qua non c’è trippa per gatti. Laszlo, tu cosa facevi prima di lanciare i coltelli? Facevo il ladro. E’ un mestiere brutto anche quello, ma è sempre diverso, e ti può sempre capitare un colpo buono.

Ma io non posso, gli dicevo. E’ contro i miei principi. Ma no, che non lo è. Adesso che è finita la guerra non è che possiamo inventarceli i soldi. Dopo le guerre si svotano le case, di strappano i libri contabili e i soldi vanno dove vanno. Dobbiamo prenderli dove ci sono. Così, per cominciare. Poi quando ne abbiamo un po’ apriamo una attività onesta. Tipo un ristorante o un bel negozio, magari un albergo.

Dopo meno di un mese eravamo seduti in una caffetteria del centro della Capitale. Tutti e due con dei bei vestiti, la cravatta e le scarpe lucide. Làszlo, tu mi ricordi il povero Zanetti, gli dicevo. Chi è Zanetti? Uno che conoscevo bene, un mio amico. Era una brava persona, anche se era un figlio di puttana. Comunque io e Làszlo avevamo svaligiato quattro appartamenti, un piccolo ufficio postale e un’oreficieria. Avevo imparato tutto, da Làszlo. Prima regola: rischiare zero virgola uno, visto che il rischio zero non esiste. Pensare tanto prima di agire. Studiare bene gli orari, considerare tutte le conseguenze. Cosa fare se ci sorprendono, dove scappare quando hai finito, dove mettere la roba. Guardare a lungo. Organizzare bene tutto. Il problema più grosso era rivendere l’oro. Per questo Làszlo mi diceva di rubare solo i soldi, ma io ogni tanto mi infilavo in tasca qualche anello o qualche bracciale.

Avevamo preso due camere una vicino all’altra alla Pensione Orfeo, in un quartiere né bello né brutto, vicino alla stazione ferroviaria. Ci credevano agenti di commercio e ci trattavano con rispetto. Le refurtive, sempre divise a metà, le tenevamo in due borse chiuse col lucchetto. Ognuno aveva la sua. Dopo un paio di mesi che ce la passavamo bene mi è venuta voglia di andare a cercare la Ines, e farle vedere che non ero più un pezzente. Ma Làszlo mi diceva: qua c’è pieno di

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passera, lascia perdere quella, che di donne così ne ho già viste, che sulla fica ci costruiscono una carriera, l’hai visto anche tu che se n’è andata col primo ricco che ha incontrato. A quest’ora l’avrà già mollato per uno più ricco.

Tutte le sere andavamo al Mocambo, c’erano le ragazze facili, che ti facevano spendere un sacco di soldi nello spumante e poi quando eri ubriaco e le volevi stendere su un letto ti sfilavano ancora dalla tasca un paio di banconote di quelle grosse.

La gente che c’era lì non era della migliore. C’era Tagliavena, l’Indio, l’infido Bonetti e quello con la cicatrice sull’occhio che chiamavano il Vipera. Làszlo familiarizzava, li salutava, ci teneva a far vedere che era loro amico. Lasciali perdere, gli dicevo. Salutiamo educatamente e facciamoci gli affari nostri. Ma Làszlo mi diceva: ormai siamo amici. Andava, beveva, si portava le ragazze in camera. Giocava a carte con l’Indio e Bonetti. E mi diceva: bevi anche tu, offre la ditta, offrono gli amici. Io all’inizio ero restìo, ma poi vedevo quell’abbondanza di whisky, di ragazze che salivano e scendevano dai piani superiori, compresa la Emy che mi piaceva tanto. Vuoi scopartela, la Emy? Lo vedo che ti piace. Vai, vai su. E portati questa bottiglia di champagne che alla Emy le piace bere bene. Ma io non ce li ho i soldi per pagare la Emy e lo champagne. Ma non ti preoccupare, che siamo amici. E’ andata avanti per un po’. Bevevo, mi divertivo. Poi una sera mi hanno detto: stasera offri tu, che è un bel po’ che qua dentro sei trattato come un principe e non hai mai messo mano alla tasca. Ma io non avevo quasi più niente. Allora Bonetti mi aveva detto: se sei senza soldi te li facciamo guadagnare noi. E mi hanno tirato dentro a una rapina in una banca, ma siccome mi dovevano fare la tara sul primo lavoro dovevo stare fuori a fare il palo. Poi è arrivata la madama e io sono riuscito a dare l’allarme e a far scappare tutti, ma mi hanno beccato.

Mi hanno detto: se collabori e ci dici chi erano gli altri fra quindici giorni sei fuori. Non è che volessi difendere il Vipera o Tagliavena, ma sapevo che se li avessi nominati, appena fuori dal carcere mi avrebbero tagliato le palle e me le avrebbero fatte ingoiare. Così almeno avevo sentito dire dall’Indio riguardo a uno di loro che aveva tradito.

Così mi sono fatto un anno di galera, poi hanno fatto un nuovo governo e

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c’è stata l’amnistia. Quando sono uscito c’era Laszlo ad aspettarmi. Tieni, mi ha detto. Questi sono per te. Abbiamo apprezzato che sei stato zitto, ti diamo una mano a ricominciare.

Io gliel’ho detto, a Làszlo. Grazie dell’invito, ma io voglio stare in regola, perché in carcere non ci voglio tornare mai più. Io non lo so se voi zingari avete un dio, ma se ce l’avete prega il tuo Dio di non finire mai in carcere, che era molto meglio stare in trincea, che almeno lì ti senti dalla parte giusta, e nessuno ti sputa in faccia.

Così vuoi passare dalla perte dei bravi, mi ha detto.

No, guarda, lo so che di bravi non ce n’è né di qua né di là. Che in questi anni ho visto delle guardie e dei poliziotti che erano più cattivi del Vipera, tanto per dire. Ma Làszlo mi ha risposto che lui un dio non ce l’ha, che non l’ha mai incontrato e che lo hanno inventato i preti per tenerci a bada. Vieni, che c’è tanto da fare e c’è la Emy che ti aspetta. No, al Mocambo non ci voglio più venire. Fai come vuoi. Comunque i soldi tienili, e ognuno per la sua strada.

Non erano tanti soldi: ne avevo da campare per un paio di mesi, tirando la cinghia anche quattro o cinque, ma non di più. Cosa potevo fare? C’erano quelli che si imbarcavano, quelli che tornavano nelle campagne e quelli cercavano un lavoro, e io non ero in nessuna di queste categorie. Ero un pregiudicato. Mentre camminavo per la strada pensavo di mettermi a chiedere l’elemosina. Avrei preparato un cartello con scritto “vittima di guerra” e avrei messo bene in mostra l’orecchio mancante. Non era un granché, ma potevo aggiungere una fasciatura in testa per fare scena. Svoltato un angolo, ho sentito uno che mi chiamava e mi diceva: senti giovanotto, vuoi guadagnarti la giornata? Così ho trovato lavoro come uomo di fatica in una ditta di traslochi. Il capo era un ex tenente dell’esercito che aveva rubato due furgoni militari, gli aveva limato la matricola e li aveva riverniciati. La stessa cosa che io avevo fatto col circo.

Mi spaccavo la schiena, perché a me che ero il più giovane davano da portare le cose più pesanti. Lo sapevo che non era un lavoro buono, ma non volevo consumare i soldi. Avevo anche conosciuto uno che aveva un negozio di alimentari. Si chiamava Signor Ostuni, era grasso come un tasso, la guerra non lo aveva scalfito. Dormivo gratis nel suo retrobottega. Facevo la guardia di notte e in cambio avevo un letto e potevo usare il cesso e lavarmi nel lavatoio del cortile.

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Certe volte mi regalava una mezza caciotta ammuffita, altre volte un fondo di salume, ma molto di rado. Una volta mi ha anche regalato una giacca quasi nuova che a lui era diventata stretta, e io in cambio avevo dovuto pulirgli la bottega e sgrassare tutto il bancone con la soda.

La guerra mi aveva cancellato tutta la memoria, sembrava che il prima non esistesse più. Ma alla sera, nel retrobottega, quando non riuscivo a prender sonno e non sapevo perché, mi veniva nostalgia di una mamma che non ricordavo, di qualche albero di Natale che non ricordavo di avere fatto. Più preciso, mi tornava in mente qualche pezzo della mia vita antecedente, fino al giorno in cui mi ero presentato al distretto militare con la cartolina di precetto. Qualcosa sapevo fare, ma di cose ce n’erano così tante, e io non ricordavo quale fosse quella che avevo imparato.

Con la ditta dei traslochi ci sono rimasto circa sei mesi. Era il dopoguerra, si capisce che tanta gente doveva portare la roba di qua e di là, e i mezzi erano pochi. Quelli che avevano i soldi chiamavano noi. Portavamo la roba dalle case di città alle ville sulle alture o verso il mare e viceversa. C’era gente che cambiava città. C’erano delle case bellissime, come non ne avevo mai viste, con i caminetti di marmo e i mobili intarsiati. Un giorno siamo andati con i due furgoni nella villa del conte Donati di Crocefiore, c’era la biblioteca da portare in città. Questi conti di Crocefiore avevano il più bel palazzo nella piazza principale del centro cittadino e siccome il conte era un alto funzionario, si era preso tutto il piano terra e il piano nobile per farne una dimora di grande fasto, con il cortile e il giardino. Dunque portavamo dalla campagna librerie e scaffali, scrittoi, cassettiere e cornici, ma soprattutto libri. Mentre li portavo mi rendevo conto che li conoscevo, di alcuni riconoscevo la copertina, ricordavo di averli letti, anche se non avrei saputo riferirne il contenuto.

Portato tutto quanto in città, ci siamo messi a sistemare la roba negli armadi. Prima è venuto il maggiordomo del conte, si chiamava Umberto ma noi lo dovevamo chiamare Signor Umberto. Ci diceva dove portare i bauli, in che stanza metterli. Poi è venuta la contessina, come l’ho vista ho sentito caldo nel petto da quanto era bella. Lei ci diceva in quali scaffali mettere i libri. C’erano delle librerie di noce alte come due uomini e in alto i soffitti erano tutti dipinti. Un giorno la contessina ha visto che nel soffitto un bel pezzo di affresco era

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danneggiato. Se riesco a procurarmi della pozzolana, della calce e dei pigmenti minerali posso sistemarglielo, le ho detto. Non so perché l’ho detto, le parole mi sono uscite così. Ma lei se ne intende? Mi ha chiesto la contessina. Guardi, credo di sì, ma non ne sono sicuro. Ma se ho i materiali so farlo. Ma lei non si fidava. Poi abbiamo cominciato a mettere a posto i libri e per due volte si è stupita quando lei stava sistemando Gérard Thibault d’Anvers tra i francesi e io le ho detto che era belga, e poi quando stava sistemando Whitman tra gli inglesi. Ma lei ne sa anche di letteratura? Non lo so, non me lo ricordo, però credo di sapere delle cose, solo che con la guerra mi sono dimenticato tutto. Sa, signora contessina, ho preso una granata a meno di due metri. Credevo che mi avesse portato via soltanto l’amico più caro e un’orecchia, e invece si è portata via anche la mia memoria. Oh, sì, la guerra. Che orrore. Ma lei ha una famiglia, qualcuno che la possa aiutare a ricordare? Sì, forse una famiglia ce l’avevo, ma non lo so più.

La contessina era gentile, alla notte mi rigiravo nel letto e me la immaginavo nuda che faceva il bagno in un laghetto, poi arrivavo io che ero un cavaliere e lei usciva dall’acqua e mi parlava senza coprirsi e senza vergogna. Domani sera vado a cercare la Emy, mi dicevo, che così non si può andare avanti. Dopo la Ines e la Emy, la contessina era la terza donna di cui mi innamoravo. Una profittatrice, una puttana e una nobildonna. Non c’era dubbio, non facevo differenze sociali, e non c’era neanche dubbio sul fatto che io fossi abbastanza incline a innamorarmi. Naturalmente lo sapevo benissimo che la contessina non era una donna per me, lei apparteneva al bel mondo.

Ma il giorno dopo la contessina chiese al mio principale se poteva mettermi a sistemare il soffitto della biblioteca. Così sono andato a comperare i materiali e già quando ero nel magazzino ero sicuro di me. Guardavo attentamente quel poco che c’era, che le forniture andavano ancora a rilento per i disagi del dopoguerra e sapevo cosa chiedere.

Si chiamava Ottavia, la contessina. Veniva a vedere il recupero del soffitto. Ma siamo sicuri che verrà bene? Vede Contessina, questi affreschi sono di metà ottocento. Se fosse roba storica non mi permetterei mai, ma questa tecnica della pittura sull’ intonaco ancora umido, tipo l’affresco, ha presente, signora contessina, io la conosco. Mi chiami contessina Ottavia, che ormai

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ci conosciamo, no? Ma Tedoforo è il suo nome di battesimo? No, contessina Ottavia, mi chiamavano così al battaglione perché portavo le torce, il mio nome di prima non me lo ricordo più. Intanto lavoravo, avevo rifatto il tonachino e avevo steso la finitura, adesso stavo rifacendo del fogliame e la mia mano andava sicura come il volo di un falco.

E per vedere come risultano le tinte bisogna aspettare che asciughi, le avevo detto. Allora ci vediamo domani. Dico la verità, non è che sperassi in qualcosa, ma a lavorare dalla contessina ci andavo ben pulito e sbarbato per farle buona impressione. Nella fantasia io mi immaginavo di essere quel cavaliere e di andare dal conte a domandargli la mano della figlia. Poi siamo entrati più in confidenza. Vuoi provare a farmi un ritratto? Mi ha chiesto. Ma devo venire dopo cena, che alla ditta certe volte finiamo alle dieci di sera. Va bene, ma intanto io ti cerco un lavoro più decente, mi ha detto. Così sono diventato magazziniere all’Accademia di Belle Arti. Non è un lavoro tanto difficile, bisogna segnare sui registri quello che esce e quello che entra, tenere d’occhio le scorte, capire le cose che si consumano, tipo i solventi, i pennelli. Fare gli ordini della carta, della tela, della creta, dei carboncini e dei colori. Tenere in ordine.. I colori li conosco tutti a menadito, non so perché. Terra di Siena naturale, Terra d’ombra, Ocra gialla, Verde vescica, Blu d’oltremare… Ma dove li ho sentiti, questi nomi?

Poi un giorno sono uscito al bar e dentro c’erano diverse persone sedute ai tavoli. Per caso, entrando, ho guardato quel tavolo dov’erano seduti in tre, due uomini e una donna. Uno degli uomini, quello che guardava verso l’ingresso, appena sono entrato, vedendomi, ha cambiato di colpo espressione, come se mi conoscesse. A me la sua faccia non diceva niente. Sono rimasto un attimo a guardarlo, ma lui si è rimesso a parlare con gli altri lasciandomi dentro l’illusione che esistesse qualcuno in grado di riconoscermi e dirmi chi ero.

Allora, Contessina, come vuole che glielo faccia, il ritratto? Oltre all’adorazione che avevo per lei, adesso c’era anche la gratitudine per avermi tolto dalla ditta dei traslochi e avermi trovato un posto dove facevo un decimo della fatica e venivo pagato il doppio. Ma guarda Tedoforo, ormai te lo posso dire, che l’ho capito che sei un uomo riservato, come si deve. Non si creda, contessina, che dopo la guerra ho fatto alcune cose di cui non posso proprio essere fiero. Ma tu sei un eroe di guerra, non hai colpe. Si faceva raccontare ancora la storia

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della granata, le ultime parole di Zanetti. Provava come una specie di voluttà nel sentirmi raccontare. Ma veniamo al ritratto, dicevo, che la luce non dura in eterno, e domani magari è brutto tempo. Ah, certo, il ritratto che… la contessina rideva e si copriva la bocca con la mano.

Cos’è che la diverte, contessina? Che da quando ho compiuto quattordici anni sogno di farmi fare un ritratto. Ah, e come mai ha aspettato così tanto per farselo fare? No, non è come pensi tu! Vieni, che ti mostro i ritratti che mi hanno fatto. E mi ha preso per mano per trascinarmi quasi di corsa in un salone della casa dove c’era un dipinto magistrale della contessina seduta su una poltroncina di velluto. Nel dipinto la contessina era un po’ più giovane, con un cappello di paglia tra le mani e un vestito bianco. E’ bellissimo, ho detto. Penso che non potrei mai farne uno più bello di questo, contessina Ottavia. Ma basta con questo contessina, chiamami Ottavia e basta, che facciamo prima, tanto ormai siamo amici, no? Il fatto che lo dica lei mi riempie di orgoglio, le ho risposto. Poi mi hanno fatto anche questo. Nel corridoio c’era un ritratto della contessina fatto a sanguigna. La tecnica era buona, ma nel disegno appariva più vecchia e più austera. La fisionomia era giusta, ma non ne rispecchiava il carattere. Questo non mi piace, ho detto. Bravo, hai ragione. Ma piace tanto a mio papà, dice che è come dovrei essere. L’ha fatto fare lui da un suo amico incisore. Quindi nessuno dei due ritratti la soddisfa? No, quello del salone è molto bello, è di Campestrini, un maestro, ma io ti volevo raccontare che a quattordici anni sono andata con i miei genitori a Madrid, e siamo andati a vedere il museo del Prado. E quando ho visto la Maja desnuda di Goya sono rimasta a guardarla con la bocca aperta e ho pensato: quando sarò grande mi farò fare un ritratto così.

Io lo sapevo che cos’era la Maja desnuda, ce l’avevo presente. Santo cielo, devo farle un ritratto così? Sì, ma non posso certo dirlo ai miei genitori che mi faccio fare un ritratto nuda! Sai, loro sono tanto tanto religiosi, almeno in apparenza. Lo devo fare in segreto, di nascosto. Ma io non lo so se me la sento, contessina, si metta nei miei panni! Ah, dovrei togliermi i miei per mettermi nei tuoi? E rideva.

All’inizio era stata timida, ma adesso sembrava prenderla alla leggera. Avrei dovuto capirlo subito, ma non ero ancora molto abile nel vedere le furbizie del mondo, specialmente quelle delle donne. Non possiamo farlo qua, che c’è

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l’Umberto, le fantesche e i parenti, vengo a casa tua. C’è una buona luce, a casa tua?

Verso metà pomeriggio avevo finito il lavoro sul soffitto, quindi ero uscito da palazzo Crocefiore, ero andato da un mercante di tessuti a buon prezzo in Vico della Posta e avevo comperato due federe e un lenzuolo con il bordo di tulle, e anche uno scampolo di velluto verde. Poi ero andato da uno speziale e avevo comperato del tè e prima di tornare a casa ero passato all’Accademia, e dal magazzino ero salito fino alla biblioteca, avevo cercato un volume. Andavo a colpo sicuro, come se sapessi già dove cercare Goya. Avevo guardato un bel po’ la Maja desnuda, ma era solo una riproduzione in bianco e nero. Arrivato a casa avevo sistemato la camera, fatto le pulizie e piazzato il velluto sul letto. Si era verso l’estate, quindi l’Accademia stava per chiudere e lavoravo solo al mattino.

Lei era venuta nel primo pomeriggio, per la luce. Ma la luce non serve, per ora, che ti devo parlare. L’ascolto, Ottavia, mi dica quello che vuole, mi piace tanto ascoltare la sua voce. Bene, allora senti, Tedoforo, tu devi farmi un ritratto come la Maja, hai capito? Ma io non so… non sono assolutamente capace di tanto. Ma l’hai guardata, la Maja? L’hai visto come arrossisce? E nello stesso tempo non si copre. C’è l’imbarazzo di chi sta vincendo il pudore… Ottavia, lei mi sta disorientando, io sento che questi suoi discorsi mi stanno facendo aumentare i battiti del cuore come se avessi fatto le scale di corsa. Forse deve essere così, mi diceva. Forse l’artista deve avere il cuore che batte mentre dipinge. Dove mi devo mettere? Qui sul letto? E intanto aveva cominciato a spogliarsi, e io non osavo guardarla anche se sapevo che da lì a poco avrei dovuto guardarla.

Più che altro temevo che l’istinto prendesse il sopravvento. Magari si stava prendendo gioco di me. Sapeva che ero in suo potere, che non potevo prendermi nessuna libertà, perché avrei perso i favori di una nobildonna così influente, avrei perso il lavoro, avrei perso la sua amicizia. Forse aveva perfino capito che la amavo, e voleva mettere alla prova i miei freni inibitori. Santo cielo, come era bella la contessina Ottavia. Dieci volte, cento volte più della Ines e della Emy. Credo non sia difficile da immaginare come mi sentivo, con l’angelo e il diavolo che mi tiravano in direzioni opposte, e tutti e due tiravano fortissimo, finché poi, di colpo, mi era tornata in mente la galera e subito il mio sangue aveva smesso di bollire. Rigare dritto è l’unico modo. Avevo provato ad abbozzare la

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figura ma le mani mi tremavano. Mi scusi tanto, Ottavia, non mi sento bene, mi dispiace veramente tanto, ma non riesco a disegnare. E lei era corsa subito a rivestirsi. Ma che succede, Tedoforo? Ma davvero non lo capisce, Ottavia? Che lei mi turba così tanto, così tanto, che io non sono sicuro, non sono più tanto sicuro di saper restare al mio posto. E quale sarebbe il tuo posto? Sentiamo.

Insomma, in breve eravamo finiti sul letto, e io ero stupefatto da come quell’angelo sapesse nuotare in un mare in tempesta, e dopo l’amore l’avevo guardata e avevo visto una donna completamente diversa da prima. E anche nel parlare era più esplicita. Ho fatto l’amore con due uomini, e tu sei il terzo, ma così come l’abbiamo fatto, da non sapere più chi sei, non lo avevo mai fatto. Ma scusi Ottavia, ma non era forse promessa sposa di quel tal nobiluomo? Sì, sono stata promessa in sposa al Torsi di Manfredonia, un idiota che mi ha voluta sverginare prima del matrimonio. E’ una cosa che non si fa, ma lui diceva che tanto ci saremmo sposati in ogni caso, che non aveva senso aspettare. Poi si è messo ad andare con le puttane.

Allora io le rispondevo: io non me lo sarei neanche immaginato di poter fare l’amore con una donna come lei, e lei mi diceva: adesso devi dire “come te”, di poter fare l’amore con una donna come te, che neanche osavo sognarmela, e lui che può averti sempre va con le puttane? Ma sì, io l’ho detto a mio padre, che non lo voglio più sposare, ma lui dice che me lo devo far piacere, che i Manfredonia hanno anche delle azioni minerarie, e col tempo scoprirò che è l’uomo giusto.

Io ancora stentavo a crederlo, che una nobildonna di quella magnificienza si trovasse nel mio letto, che mi sembrava proprio inadeguato per una come lei. Per di più con uno senza un’orecchia. Ma cosa ti credi? mi aveva risposto, guarda che i nobili non sono mica come te li immagini tu, che da che mondo e mondo le contesse fanno l’amore con i giardinieri e con i maggiordomi, per non parlare di cosa fanno i maschi, i marchesi e perfino i principi. Che se va bene la metà dei nati nelle famiglie nobili sono figli di qualche scappatella, e forse anch’io non sono figlia di mio padre.

Così mi ero trovato immerso, sommerso nel profumo della Ottavia, che era così diverso dal profumo della Ines e dal profumo della Emy, che erano anche tanto diversi tra loro, ma tutti e due non avevano niente di quel sublime

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profumo che aveva la carnagione della Ottavia. Sembrava che non avesse mai sudato e non avesse mai lavorato, e nonostante questo si era lavata ogni giorno della sua vita, anche durante la guerra. Nessuno di noi che eravamo stati in trincea, e poi nell’ospedale da campo della guarnigione avrebbe mai più potuto avere un profumo così, perché quegli odori nei quali eravamo stati immersi per giorni e giorni non c’è soda caustica o lisciva o ramazza che te li possa togliere, neanche dopo anni. Gli altri non li sentono più, ma tu continui a sentirli.

Anche per questo mi sembrava un angelo che si era degnato di venir giù a tirare fuori uno dal fango, per usare un eufemismo.

Un angelo che poteva anche volare bassissimo senza mai sporcarsi le ali era sceso a salvarmi. Come un’Euridice e un Orfeo, ma al contrario, le avevo detto. Ma lei rideva e cambiava discorso: ma come le sai tutte queste cose? Ma tu devi essere colto. Non lo so, non mi ricordo; quell’esplosione così vicina e la morte di Zanetti si sono portate via tutta la mia vita di prima, ma non me ne importa. Che bella o brutta che fosse non c’erano di certo gli angeli, altrimenti me lo ricorderei di sicuro. E lei mi carezzava, e mi diceva anche che riusciva a immaginarsela, la paura di noi che eravamo stati nella prima linea, e che quella era una delle cose che le piacevano di più di me: che avevo avuto paura ed ero andato avanti lo stesso. E lei mi baciava le labbra mentre parlavo. Dopo quell’incontro la dipingevo in modo diverso, non mi tremavamo più le mani. Mentre dipingevo ero pieno di desiderio, e il desiderio finiva nella pittura e diventava l’incarnato della Ottavia desnuda, che ogni volta si spogliava vergognosa e piena di rossore e le dovevo chiedere per favore di scoprirsi come era nel quadro, e ogni volta esitava, e sembrava la prima volta. E anche il desiderio era uguale alla prima volta, anzi, di più, perché ad alimentarlo c’era il ricordo della volta precedente. Forse la Ottavia lo sapeva fare come un gioco, o forse si vergognava davvero. Io non gliel’ho mai chiesto perché era bellissimo non saperlo e non sapere niente del perché l’Ottavia era scesa giù dal cielo a far l’amore nel mio ammezzato. Però avevo capito benissimo perché lei l’amore lo voleva fare sempre dopo le pose per il quadro. Prima il dovere e poi il piacere, diceva, perché sapeva come mi sentivo quando la dipingevo, e infatti il dipinto era diventato così, proprio come la vedevo io, tanto che se lo guardavo mentre ero solo mi risvegliava il desiderio della Ottavia, anzi, di più, risvegliava il desiderio dell’Ottavia, che dal quadro voleva me.

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Quando poi, quel pomeriggio hanno bussato alla porta proprio mentre l’Ottavia era stesa sul divano, io non mi sono preoccupato, ma ho visto che lei si rivestiva in fretta e cercava come di nascondersi da qualche parte. Io invece pensavo che fosse qualche questuante, o tuttalpiù il padrone di casa, anche se mi sembrava difficile, visto che ero in regola con la pigione.

Così ho detto semplicemente: Chi bussa? Sono il conte Donati di Crocefiore, in compagnia di mio cognato il Marchese Braschi dell’Olivedo! Apra immediatamente questa porta! Naturalmente io esitavo, e in quel momento sperimentavo un tipo di panico diverso da quello delle trincee, meno totale ma più subdolo, perché là c’è la paura della morte, mentre qua c’era la paura di qualche cosa di cui non sapevo niente, ma lo leggevo sulla faccia della Ottavia che era diventata azzurra, e ancora più azzurra su una tempia dove si vedeva pulsare una vena.

Così il Marchese Braschi dell’Olivedo, da vero gentiluomo, ha dato un calcio alla mia serratura e i due sono entrati nella stanza, uno dei due mi ha quasi spostato con una spallata e poi, senza degnarmi, si sono entrambi parati con le braccia conserte davanti all’Ottavia che adesso piangeva e nascondeva la faccia in una coperta, ed era così bella che io avrei voluto dipingerla così. L’Ottavia era ormai perfettamente vestita, e si era addirittura puntata il cappello con una spilla come se fosse in visita, ma lì a fianco c’era il quadro, c’era una tela larga quasi un metro e mezzo con l’Ottavia nuda.

E maledicevo quanto mi fosse riuscito bene, perché negli occhi del marchese Braschi, che era poi il fratello della madre di Ottavia, vedevo l’indignazione e lo sdegno, perché lui non guardava il quadro; lui guardava le sue idee, e non ci trovava un posto per il quadro. E così facendo non vedeva la gioia infantile e libera di Eros, lui vedeva la lascivia e la lubrica profferta di Messalina, e incredibilmente vedeva il ritratto una donna perversa e corrotta, e quella donna perversa e corrotta era sua nipote Ottavia. Guardava il cielo, ma una goccia di pioggia l’aveva accecato. Il conte invece ha guardato il dipinto solo per un breve attimo, senza cambiare espressione; lentamente si è girato verso l’Ottavia, e a bassa voce, quasi parlando tra sè e sè, ha detto: vediamo se il convento saprà convertirti. Dopo un istante, andando via, mi ha detto senza guardarmi: lei domani lascerà questa città per non farvi più ritorno. L’accompagnerà al treno il Colonnello Zelaschi. Farò tutto quello che vuole, ma non voglio che mi si ritenga macchiato per qualcosa che non ho commesso, gli avevo risposto, ma

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lui aveva detto: lei non è nella posizione di pretendere alcunché, visto che è già stato in galera.

Alla mattina hanno bussato due questurini che mi hanno messo in mano un foglio di confinamento e mi hanno anche pagato il biglietto del treno. Sulla motivazione dell’allontanamento però non si faceva menzione del fatto dell’Ottavia, né che io fossi stato in precedenza un ladro. C’era un numero con a fianco la scritta “motivi politici”. Non sapevo se era un bene o se era un male, pensavo fosse sempre meglio che avermi liquidato come maniaco sessuale, magnaccia o biscazziere, che nel mondo di Làszlo non ci volevo tornare.

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Quanto devi stare qua? mi ha chiesto il Busseti. Due anni, gli ho risposto. E’ dura, ma possiamo scrivere e ricevere lettere, anche se poi le leggono in questura, mi ha risposto lui. Ma guarda che io non ho nessuno a cui scrivere, gli ho detto.

O forse ce l’ho, ma l’ho dimenticato. E gli ho rifatto la solfa della granata, di Zanetti, dell’orecchio e della memoria, ma solo per fargli capire che non so più niente di prima della guerra. Ma da dove vieni, quali compagni hai incontrato, questo te lo ricorderai, no? No, Busseti, io non lo ricordo. Ma sul tuo foglio c’è scritto che sei un anarchico, un compagno, qualcosa del genere. Ma se lo sono inventati per buttarmi fuori, meno male che non ci hanno scritto che sono un depravato, avrebbero potuto, se avessero voluto. Guarda che essere anarchico è una gran sfortuna, caro Tedoforo, mi diceva il Busseti. Che ogni volta che c’è un incendio, che picchiano un giornalista, che ammazzano qualcuno che ha a che fare con la politica, per non parlare poi delle bombe, ti suonano subito alla porta, e se non hai niente da dire ti danno la colpa a te, e tutti dicono: Ecco!

Hai visto? A mettere quella bomba sono stati gli anarchici, e a tutti gli va bene così. Scusa Busseti, ma io non lo so neanche bene cosa sono, questi anarchici. Chiunque neghi l’autorità e combatta contro di essa è un anarchico, diceva.

Si poteva parlare poco, e da lontano, perché la guardia passava di frequente e ci voleva zitti. Nonostante questo dopo circa due mesi Busseti aveva quasi fatto di me un anarchico, anche se gliel’avevo detto che non mi era chiaro il concetto di “autorità”, e che comunque non combattevo contro niente, che l’ultima volta che avevo combattuto ci avevo lasciato il mio migliore amico, un’orecchia e due terzi della mia vita. E lui a sgolarsi, per dirmi che l’autorità non è solo il colonnello o

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la guardia, e neanche il conte Donati di Crocefiore, ma è un concetto sbagliato, di un uomo che sta sopra un altro uomo, e quindi quell’altro uomo non è più libero. Della proprietà di qualcuno, della terra, come se il mondo non fosse di tutti. E che combattere non vuol dire solo sparare, ma anche parlare, scrivere, indignarsi. Mi aveva quasi convinto. Per fortuna che dopo un anno convertirono il confinamento in un foglio di via con residenza obbligata. In quello di Busseti c’era scritto di tornare al luogo di residenza con obbligo di firma. Sul mio c’era un timbro con “residenza ignota” e c’era il divieto di risiedere nella città dove avevo amato l’Ottavia. Il Busseti mi ha proposto di andare a stare da lui, tanto per organizzarmi e cercarmi un lavoro.

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La città del Busseti era cupa, triste e fredda, piena di fabbriche e di fumo delle fabbriche. Ma la casa del Busseti era fuori dalla città, nella campagna. Era dentro una cascina. C’era l’aia, i polli e anche una stalla. Quando siamo entrati nella casa del Busseti è arrivata sua sorella, che si chiamava Elisa. Gli ha detto subito detto che suo padre era morto, che suo fratello si era imbarcato, che della famiglia c’era rimasta solo la zia Elma. Che adesso per arare e fare i lavori grossi restavano solo l’Atlantico e il Pietrino, che l’Atlantico era l’unico che sapeva usare il vomere, ma quando c’è da mietere vengono anche i Ferretti ad aiutare, ma ai Ferretti bisogna dargli il loro, e il loro lo dobbiamo togliere dal nostro, che è già poco. Ma perché non me l’avete scritto? Chiedeva il Busseti. Ma sì che te l’abbiamo scritto, ma di lettere ne sequestravano la metà. Il Busseti non si è disperato, non ha detto niente. Anzi, mi ha detto: vieni che ti faccio vedere dove dormi. E siamo andati nel sottotetto dove c’era il granaio e i telai con la frutta a seccare. C’era una cameretta con un pagliericcio e una stufa. Il Busseti ha passato più di due giorni a spiegarmi i lavori della cascina. Di suo padre, che da bracciante era diventato manzolaio e poi mezzadro, ma che i padroni si fidavano così tanto che alla fine faceva il fattore. Lui non ha mai rubato niente e i padroni non gli hanno mai regalato niente, neanche un chilo di sale durante la guerra. Lo vedi come sono i padroni? Tu fai tutto giusto, non rubi, ti spacchi la schiena ma loro pensano lo stesso che rubi, e così contano le casse di patate e quando si pesa la méliga vengono a controllare.

All’indomani ci siamo messi a lavorare nei campi. Cosa sai fare? Mi ha chiesto il Busseti. Te l’ho detto, non lo so. Ma qui in campagna non mi viene in mente

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niente. Così mi ha insegnato a vangare, mi ha fatto dissodare un pezzo di terra incolta. Levare l’erba, zappare, fare le zolle piccole e togliere i sassi se sono più grossi di un pugno. I sassi buttarli tutti nella cariola e poi scaricarli là in fondo. Alla sera da mangiare ce n’era sempre abbastanza, e anche buono, perché la zia Elma e l’Elisa sapevano cosa fare in cucina. Erano gente molto brava e onesta, questi Busseti, e lui addirittura, per come viveva, mi sembrava un sacerdote. Non gli veniva mai voglia di andare in città, di cercarsi una donna. C’era il cinematografo. Ma non abbiamo soldi, mi diceva lui. E alla sera leggeva sempre per un’ora o un’ora e mezza. Non aveva quasi niente, nella sua camera: un letto, una sedia, un tavolo con dei fogli, una matita copiativa e due grucce appese al muro, una vuota e l’altra con un vestito buono. E poi due o tre casse di libri e una lampada a gas. Era poco, ma quel poco lo teneva tutto pulito e ordinato come un altare.

Col tempo, poi il Busseti l’ho conosciuto meglio. Che da buon anarchico divideva tutto alla pari con me, e quando la zia Elma portava qualche cassetta di frutta o verdura al mercato, mi dava sempre una parte del ricavato, perché la frutta l’abbiamo tolta anche dalla tua bocca, mi diceva. Era come un santo, con una idea così alta della giustizia che non so neanche descriverla. E viveva come un monaco, a casa, nei campi, alla posta, dove andava a spedire e a ricevere lettere e anche libri. E rispettava gli animali, e addirittura da un certo punto in avanti non mangiava più carne, e quando verso Natale macellavano il maiale andava via. E delle volte l’ho visto che abbracciava un mulo, e gli parlava, e ho visto benissimo che il mulo capiva, e gli voleva bene.

E mi aveva detto che lui prima del confinamento era innamorato di una certa Vittoria, che era anarchica anche lei, e che i poliziotti l’avevano torturata e quasi certamente violentata per farle dire dove erano nascosti i compagni, ma lei non aveva parlato. Poi l’avevano mandata a casa e lei si era buttata nel fiume ed era morta. Ecco perché non vado a donne, mi aveva detto il Busseti. Ed ecco perché sono diventato anarchico.

Verso la fine dell’inverno, le giornate si erano già allungate di un bel po’, una mattina presto sono arrivati due poliziotti e hanno chiamato ad alta voce Busseti Antonio. Presente! ha detto il Busseti da dentro la casa. Poi ha aperto la porta, loro lo l’hanno fatto vestire e lo hanno portato via. Si è poi venuti a sapere che

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nella città era venuto in visita il ministro dell’agricoltura, e durante la visita qualcuno gli aveva sparato colpendolo in un braccio e con un altro colpo aveva preso anche un funzionario lì vicino alla gamba destra. Era poi andata come il Busseti mi aveva predetto quando eravamo confinati: lo avevano processato e lo avevano condannato a quindici anni per attentato contro lo stato. Io ero andato con i miei documenti a testimoniare che il Busseti era sempre stato in cascina o nei campi, e tuttalpiù alla Posta o al consorzio agrario a comperare le sementi, ma mai e poi mai era andato in città a sparare a chicchessia, che non sapeva neanche tirare il collo a un cappone. Ma la sua testimonianza non vale niente. E’ un anarchico anche lei, e per di più pregiudicato. Amnistiato, avevo risposto. L’amnistia estingue la pena ma non il reato, mi aveva detto il poliziotto. E niente, lo avevano condannato. La zia Elma mi diceva che se volevo rimanere un piatto di minestra c’era sempre. Mi trattavano come uno della famiglia, e non ci stavo male, ma senza il Busseti mi sentivo come su una corriera che va avanti senza il guidatore. E vista la carognata che gli avevano fatto, mi veniva voglia di essere anarchico e di andare a mettere una bomba.

E andando via dalla cascina del Busseti mi domandavo quanti anni avevo. La leva a vent’anni, poi un anno di guerra e fanno ventuno. Poi la Ines, tre… quattro mesi, non so. Poi quando rubavo, e poi un anno di galera. Poi i traslochi, e l’Ottavia. Povera Ottavia, chissà dove l’hanno messa. E poi due anni al confino, e poi qui in campagna è già passato un anno, o forse due. Adesso ne avrò venticinque, forse ventisei… meno di trenta, direi. Non è che posso vivere con un piatto di minestra. Sono arrivato in città e mi sembravano tutti ricchi, ricchissimi, con le scarpe lucide e il portafoglio pieno di soldi da spendere nei negozi. E la città in effetti era meravigliosa, piena di tutto e viva anche di notte fino a tardi, con tutte le luci accese e i fari delle macchine che erano tutte pulite, perché di fango ce n’era pochissimo. Era verso maggio, e la città mi sembrava bella, non grigia come l’avevo vista la prima volta. Nei quartieri ricchi c’erano dei viali di tigli che di notte profumavano come in campagna. Ho incontrato un altro morto di fame e mi ha portato a mangiare alla mensa dei poveri ma continuavo a dirmi che non può andare avanti così, che a quasi trent’anni faccio la vita del barbone.

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Quando siamo usciti dalla mensa c’era uno che dava dei bigliettini dove cercavano uomini prestanti per lavori di trasporto merci, così all’indomani sono andato a vedere e mi hanno preso in una ditta che distribuisce i giornali. Il lavoro è pesante ma non dura molto. Si comincia alle quattro e mezza del mattino, ma alle nove abbiamo già finito le edicole, che quasi tutte vogliono il giornale alle sette o sette e mezza al massimo, poi ci sono i bar, gli ospedali, i barbieri e poi ci sono i resi da ritirare, ma comunque non è un brutto lavoro e i giornali anche se cadono non si rompono, l’unica cosa brutta è quando piove. Comunque il capo dell’ufficio distribuzione è un furbacchione simpatico, di chiama Stramesi, è uno che sa guadagnare dalla spina e dal tappo e ogni tanto ci paga il caffè. Nel suo ufficio si fanno anche i contratti per la pubblicità sul giornale. Lui vende di pezzi di pagina e le ditte ci mettono la loro pubblicità. L’altro giorno parlando a casaccio gli ho detto che ho visto che nelle edicole vanno forte gli omaggi, che i giornali che hanno un omaggio vendono di più. Ci metta anche lei un omaggio, Stramesi. Glielo dica a quelli della redazione. E che omaggio ci metteresti? Ci ho già pensato, gli ho detto. Mettiamoci un libretto di ricette. Ma stamparlo costa dei soldi, mi ha detto lui. Sì, ma lei ci può mettere sopra la pubblicità dei negozi che vendono le merci, quella dei ristoranti e quella della salsa di pomodoro.

Stramesi mi ha portato su, negli uffici, e mi ha fatto parlare. Ma com’è che non hai un cognome? No, ce l’avevo, ma è andato via con l’orecchia eccetera. Ma tu non puoi mica continuare così. E’ quello che penso anch’io. Ma cosa sai fare? So dipingere, perché ho fatto un ritratto, dopo la guerra, ed ero capace… cioè, ero padrone dei pennelli. Ho fatto anche un ritocco a una decorazione. Lo sapevo fare. Poi so portare pesi, carteggiare, verniciare, lavare, montare tribune da circo. Sparare no, quello non ho mai imparato, anche se sparare ho sparato più di una volta. So mettere le mine, però… Lascia stare ste cazzate, ma tu ce l’hai un’idea di cosa facciamo qua dentro? Certo, mettete la pubblicità nel giornale, cercate i clienti, gli chiedete cosa vogliono. Gli preparare un bozzetto con quello che lui vi ha chiesto e lui vi dà i soldi. Tanti, direi, a giudicare dalla sua macchina, signor Stramesi. E poi? E poi fate in modo che il giornale venda tante copie, perché così i clienti sono contenti e la redazione anche, e arrivano altri clienti perché ormai

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il giornale lo leggono dieci, venti milioni di persone.

E bravo Tedoforo, che sai anche disegnare. E ce l’hai presente il tenore Geranzoni, quello che canta alla Scala, sì? Certo signor Stramesi, ho letto che l’hanno fischiato. Ma lo sai cosa ha detto stamattina ai giornalisti all’Hotel Gallia? No, cosa ha detto? Ha detto che il pubblico dei milanesi è una massa di incolti, di imbecilli, e che lui non tornerà mai più a Milano. Che sparata! Beh, se non altro ci guadagna in notorietà, pensi quanti articoli e quante interviste… e quante foto! Senti, Tedoforo, ma tu la sapresti fare una caricatura di Geranzoni? Una buffa, che lo sberleffi, capisci? Ma non lo so, ci posso provare. Deve far ridere? Deve far incazzare Geranzoni e deve far ridere i milanesi. Mi dia un po’ di carta e una matita, per favore. Vuoi vedere due foto di Geranzoni? Sì, grazie, mi aiuta di certo. Vuoi un caffè? Sì, grazie, mi aiuta di certo. Grazie, signor Stramesi. E basta, chiamami Guido e dammi del tu. L’indomani sulla terza pagina della Gazzetta c’era la mia caricatura di un Geranzoni con la faccia da cretino, sospeso in un balzo, che lancia un acuto e sta atterrare su una buccia di banana. Tedoforo, vieni qua, che adesso ti facciamo un contratto di lavoro qui all’ufficio pubblicità. 21

Ve la faccio breve, che in due anni non dico che sono diventato ricco, ma per come ero abituato, adesso ero un re. Ma più che altro ho visto tanti soldi, tanti come non ne avevo mai visti.

I miei disegni sul giornale andavano forte, e anche il giornalino che avevo suggerito di fare a Stramesi. Ogni settimana inventavo un argomento diverso e gli Album della Gazzetta c’era gente che li collezionava. Un disegno viola e giallo che mi ero fatto per scherzo dove uno mi parla dalla parte dove non ho l’orecchio l’hanno usato per fare un manifesto di un convegno e poi per tante cose. Che dopo un anno Stramesi mi ha detto: adesso apriamo un’agenzia. Tu ci metti lei idee e io ci metto i clienti. Un po’ ero costretto, perché lui mi ha messo a posto con la burocrazia, mi ha insegnato le furbizie del lavoro e mi ha fregato quel minimo che i soci commerciali fregano agli altri soci. Mi è andata bene che Stramesi è un brav’uomo, che nel mondo della pubblicità è pieno di figli di puttana, peggio del Vipera e del Bonetti.

Dopo quattro anni di quella vita mi sembrava che a Milano mi conoscessero

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tutti, facevo anche le mostre con i miei disegni e il mio disegno dell’uomo senza orecchia era diventato un emblema, era finito anche sulla copertina di un rotocalco a grandissima tiratura per dire che il governo era sordo alla richieste dei cittadini. Ma dopo quattro anni di quella vita, che mi ero comperato anche una villetta sul lago, non riuscivo a trovare una donna, perché ero sempre a lavorare. Dicevo: almeno incontrassi di nuovo la Ottavia. Adesso che frequento gente ricca, chissà. Chissà dove l’hanno messa, povera Ottavia, che alla fine era l’unica forse che avevo proprio amato, e che era finita nei guai per colpa mia.

E poi, cosa andavo a pensare alla Ottavia, che tanto uno come me, per quanto potevo essere diventato benestante, non lo avrebbe potuto proprio prendere in considerazione come marito. Invece, mi era poi successo di incontrare di nuovo un altra donna della vita di prima. Un giorno dovevamo fare la pubblicità di certi costumi da bagno e bisognava fare le fotografie. E qua ci vogliono delle modelle, aveva detto Stramesi. Andiamo all’agenzia Benoit, che hanno le ragazze più belle, ne hanno che vengono da tutto il mondo. Morale, quando siamo arrivati all’agenzia Benoit, che per la verità sembrava una piccola reggia Luigi XV, tutta tappeti e consolle con le gambe d’oro e il piano di marmo, ci è venuta in contro la titolare, una bella signora molto charmant, di gran classe, sulla trentina, con una gonna grigia, una camicia bianca, due smeraldi alle orecchie e i capelli raccolti con gran stile.

Una francese, certo, ma dell’alta società... ma dov’è che l’ho già vista, questa faccia… e lei che a un certo punto mi tira da parte e mi dice: non riconosciamoci adesso, ci riconosciamo dopo, da soli, nel mio ufficio.

Ma tu… sei la Emy! Bravo, però stai attento, perché quella Emy del Mocambo non la conosce più nessuno, è morta. Adesso mi chiamo Emanuelle Benoit, e in teoria sarei di Parigi, anche se sono nata a Gardanne, vicino a Marsiglia.

Ma come fai a ricordarti ancora di me, Emy? Con rispetto parlando, con tutti quelli che hai visto… Si però poi basta con queste battute. E mi ricordo di te, certo. Come si fa a dimenticarsi uno senza un’orecchia che si chiama Tedoforo? Ma cosa gli ha preso, ai tuoi genitori? No, ma Tedoforo era un soprannome, che il mio nome se l’è portato via una granata, insieme all’orecchia, ma lasciamo stare. Adesso mi chiamo davvero Tedoforo, registrato all’anagrafe. Ma come hai

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fatto, Emy, a venir via da quel girone dell’inferno? Uno si è innamorato di me, mi voleva e io sono scappata. Il Vipera mi cercava per tagliarmi la gola, che ogni sera gli sono venuti a mancare cinque o sei bigliettoni… che rimpiazzare la Emy non è mica tanto facile, eh. E poi? Come te la sei cavata? Ho dovuto sparire per un paio d’anni, ma ero disperata, che non è una vita, quella lì. Fortuna che c’era questo brav’uomo che abitava nel nord est, verso Rovigo, e sono stata segregata là per quasi due anni. Gli facevo da moglie. Ho cambiato il colore dei capelli, niente più trucco, andavo al supermercato con la tuta e gli occhiali da sole anche d’inverno. Come nei film delle spie.

Poi mi è andata bene, che il Vipera l’hanno beccato e gli hanno dato trent’anni. A lui e a Bonetti. All’Indio e a Tagliavena gli hanno dato sei o sette anni, ma Tagliavena poveretto non se li meritava, che lui non ha mai ammazzato nessuno, e neppure picchiava le donne. E quando menavano qualcuno era sempre Tagliavena a dire basta. Non come quel pezzo di merda del Vipera, che ci godeva proprio, a far del male. Poi col tipo è finita male, vabbè lui poveretto pensava di avermi comperata, ma se una smette di fare la vita è perché vuole essere libera, giusto? Che se stai con uno per interesse, è un po’ come essere una mignotta, sbaglio? Non ne so niente, Emy, di queste cose… direi di sì, che se stai con una persona ti deve piacere, credo di sì. E comunque sono contento per te, che se c’era una cosa che pensavo tutte le volte che ti vedevo salire con qualcuno era: ma come fa una ragazza così bella, che sembravi un bocciolo di rosa, sembravi. Ed eri anche così giovane, che avrei voluto essere io quello che ti faceva scappare. E saresti stato un povero bietolone anche tu, di quelli che si innamorano delle puttane, ma per tua fortuna non avevi un soldo. Però eri carino, anche senza l’orecchia. Ma adesso come ti va, Emy? Mi sembra che ti vada veramente bene. Sì, quando sono ripartita ho dovuto fare ancora un po’ di marchette, il minimo indispensabile, ma sempre in altre città. Poi ho messo su un’agenzia di modelle. Ma sapevo che bisognava partire col piede giusto, senza fare cazzate.

Ma il mondo dei pubblicitari e quella gente che faceva cene su cene nei ristoranti di lusso mi annoiava, si passavano le serate bevendo i liquori e parlando del vacuo. Non che abbia niente contro il vacuo, ma mi veniva voglia di avere una relazione con una donna, una bella relazione piena di candore

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come con la Ottavia, che l’avevano sporcata quegli idioti bacchettoni, perché loro quell’amore lì, dove tra il sacro e il profano non c’è un confine, loro non lo conoscevano, non osavano neanche conoscerlo. Chissà cosa le hanno fatto all’Ottavia, bisognerà che prima o poi chieda, pensavo. Così passava il tempo, gli anni, non so più quanti ne sono passati, sempre a fare bozzetti e marchi per le imprese. Andavo alle cene, uscivo con quelli dell’agenzia, coi clienti, ma dopo la gente che avevo conosciuto in passato questi mi sembravano finti. Le donne, specialmente. C’erano giornaliste, direttrici dell’ufficio acquisti, editori, affaristi, modelle e tipografi bonaccioni.

C’erano fotografi, agenti di commercio e i volpini delle concessionarie. Alcuni eran simpatici, e Stramesi era il migliore, un brav’uomo di certo, ma non è che tra i pubblicitari avessi trovato uno Zanetti o un Busseti, un qualche uomo con delle tensioni morali al di sopra dei soldi e della carriera. Spesso me la svignavo il prima possibile, e giravo per la città, finito l’orario di lavoro e l’aperitivo coi colleghi, e mi veniva voglia di telefonare alla Emy, che aveva le modelle per fare le foto, anche le hostess per i congressi, le accompagnatrici turistiche e tutto quel lussuoso entourage che avevo visto nella sua agenzia, ma le marchette sono un affare esentasse che rende tanto, a cui è difficile rinunciare. Quindi se sapevi chiedere ti procurava anche le accompagnatrici che naturalmente erano semplici dame di compagnia ma in base alle banconote poi diventavano quello che volevi. Un paio di volte c’ero cascato per necessità, diciamo, ma a me non andava perché era tutto finto, e io invece volevo una compagna che fosse come l’Ottavia, che facesse l’amore con sincerità e dandogli tutta l’importanza che merita.

Aveva cominciato a piovigginare, così avevo affrettato il passo per arrivare a casa, dal momento che ero senza ombrello. Mentre passavo in galleria un signore ben vestito stava distribuendo dei volantini. Non sembrava un garzone di quelli che fanno il volantinaggio, sembrava piuttosto un medico o un insegnante. Era curioso, perché scrutava tra la gente e sembrava quasi scegliere tra i passati quelli a cui offrire il volantino. Qualcuno lo prendeva, qualcuno lo rifiutava, e quando c’era il rifiuto il professore assumeva un’aria un po’ contrita, come se avesse offerto un’opportunità e non fosse stato capito. Allora sono passato dall’altra parte della galleria, vicino al professore, e quando l’ho guardato lui mi ha sorriso e ha allungato verso di me il braccio con il volantino. L’ho preso, e ho detto anche grazie. Sul volantino il titolo diceva “Se non sai da dove vieni non puoi capire dove vai” e si parlava della saggezza dei Maestri d’Oriente.

Il testo era poi uno sproloquio di un’intera pagina dove si parlava di energia

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cosmica, di psicanalisi e di yoga, di ipnosi, cartomanzia e religione, magia e danze sacre, ma sicuramente dimentico qualcosa.

Desideroso com’ero di qualcosa di diverso, sempre nell’agenzia a inventare etichette di liquori, manifesti di biscotti e dépliant di istituti di bellezza, ho guardato il volantino; la grafica più che brutta era ingenua, fatta in casa, quello che c’era scritto era strano, un po’ delirante ma con qualche frase piena di senso, tipo “noi non siamo liberi”.

E’ vero, lo diceva anche il Busseti, che sulla libertà dell’uomo la sapeva più lunga di tutti, e aveva letto il libri degli utopisti e anche Proudhon e Marx e Engels. Ma il titolo soprattutto sembrava fatto apposta per me. Chi più di me non sa da dove viene? Forse avrei potuto trovare qualche ipnotista o qualche indovino in grado di dirmi chi fossi e da quale città provenissi. In fondo c’era uno stemma, un cerchio con una croce sopra, e sotto c’era scritto Circolo dell’Antimonio. Ma che cosa saranno? Stregoni? Faranno messe nere, sedute spiritiche, filtri magici? Per la verità facevano corsi gratuiti. Al mercoledì sera, in un cinema di quasi-periferia che avevano affittato e ripulito per bene, anche se era inverno e non avevano abbastanza soldi per scaldarlo. Così il corso si sarebbe fatto dentro un piccolo ufficio, almeno finché c’era freddo. Sono arrivato lì un po’ in anticipo, come faccio sempre, e c’era il portone chiuso, ma fuori c’era un lampioncino acceso: si vedeva la cassetta della posta e lì a fianco un campanello con scritto solo “Antimonio”.

Alle ventuno in punto ho suonato e mi hanno subito aperto. L’ambiente era povero, ma pulito. Sembrava più un ambulatorio che un circolo magico. Erano in due, quelli del Circolo dell’Antimonio, Uno si chiamava Canegallo ed era il presidente; l’altro era un professore di filosofia del liceo, si chiamava Pintori, era lui che doveva fare la lezione. Aveva una faccia simpatica, forse un po’ ironica, e parlava in generale dei partecipanti, anche se ad assistere per il momento c’ero solo io. Loro mi sembravano un po’ imbarazzati, anche se data la delicatezza del tema, si aspettavano già un basso interesse. Ma non sembravano preoccupati per l’assenza di partecipanti. Così ho potuto fare domande, e anche subirne, se è per questo. Si sono definiti ricercatori, e non volevano fare proseliti, volevano risvegliare le coscienze, dicevano. Che non ci avrebbero chiesto di credere a

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nulla, ma di sperimentare delle cose, e poi eventualmente raccontare. Il circolo è composto da dodici persone. Ma sperimentare che cosa? No, non si preoccupi, nessuna droga, solo osservazione della vita quotidiana. Sono rimasti molto interessati sulla mia storia del passato che non ricordo, ma quando stavo per raccontare della granata e dell’orecchia hanno suonato e sono arrivati altri due, poi un’altra persona e poi un ultimo, con ritardo.

Non erano poi dei ciarlatani, sembravano più che altro gente che ha del tempo da perdere, e lo impiega interrogandosi sui cosiddetti grandi temi dell’esistenza. Io non mi ero mai chiesto cos’è la vita, per esempio. E dietro, tante altre domande che chiamano fondamentali tipo sull’aldilà, sul libero arbitrio, sul caso e sul destino. Tutte cose che magari ti passano per la testa alla sera prima di addormentarti, ma che comunque lasci lì, tanto di risposte si sa che non ce ne sono. Ma loro niente, dicevano che ha senso fare la domanda, e cercare, e che le risposte se devono arrivare arrivano, ma per prima cosa bisogna osservare, studiare, meditare, conoscere se stessi. Nel circolo dell’Antimonio c’erano ipnotisti, chiromanti, insegnanti di yoga e pensatori di varie discipline. C’era anche un poeta. Devo dire che non ero molto interessato alle loro elucubrazioni, ma avevo continuato a seguire il corso per via di Dafne.

Perchè, per proseguire il racconto della prima sera, devo aggiungere che dopo di me sono arrivati altri quattro partecipanti. una coppia, marito e moglie, una donna giovane che sarebbe appunto questa Dafne, e poi un giovane con la barba e il cappotto nero, che si chiamava Hans; l’unico, in verità, che sembrava un adepto di una setta esoterica. Ma come ho detto io sono rimasto subito attratto da questa Dafne. La cosa che mi ha colpito di più, a prima vista, è stato il senso di integrità che trasmetteva. Non saprei come definirlo. Aveva un’aria ordinata, sana, pulita e una faccia onesta. Poi era anche bella, ma come ho detto quello che saltava all’occhio era questa idea di onestà, di armonia con un timido sorriso di denti tutti bianchi, e i capelli rosso scuro. Abbiamo cominciato dicendo chi eravamo, raccontando un po’ la nostra vita. Lei non ha detto quasi niente: che viene dal nord, è qui da poco, non conosce quasi nessuno, ha quasi trent’anni, fa l’insegnante. Tutti sono rimasti molto colpiti dalla storia della granata con

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tutte le sue annesse mutilazioni: via l’orecchia, via i suoni, ma soprattutto, via la memoria. Cioè, io la mia vita la posso raccontare dalla fine della guerra in qua. Del prima non so niente. E così mi hanno guardato tutti con una certa benevolenza, e poi anche con una certa compassione, e questo fa meno piacere.

L’unica che non mi commiserava era Dafne, che per la verità parlava pochissimo. In quel genere di incontri abbondano le domande più pazzesche e le congetture più azzardate, ma lei non chiedeva mai niente, stava sempre zitta, nell’ultima sedia in fondo. Anche se non era mai scortese, sembrava non volesse familiarizzare con gli altri, ma forse era solo timida, o riservata.

Al mercoledì avevo preso il giro di arrivare in anticipo nel quartiere dov’era il circolo. C’era una trattoria senza pretese ma molto vecchia, e toscana, per di più, quindi si mangiava bene. Arrivavo lì per l’ora di cena, mangiavo con calma e poi attraversavo la strada ed ero già arrivato. Si può dire che mi ero invaghito di Dafne? Sì, lo si può dire per certo. Ma lei era così introversa e sempre con la testa bassa, che a parte salutarla non osavo rivolgerle la parola. Poi in quel gruppo c’era anche un’atmosfera un po’ clericale, fare delle avances a una che faceva il corso mi sembrava fuori luogo.

Insomma, ero lì al tavolo che mangiavo e intanto pensavo a come invitare la Dafne a cena, o al cinema, o a teatro, quando me la vedo entrare nel ristorante. Sì, sono in anticipo, ti ho visto le altre sere che mangi sempre qua. Stasera mangio anch’io qua. Posso sedermi al tavolo, vero? Ma certo, ma che sorpresa inaspettata, che stavo giusto pensando… Pensando a cosa? No, niente di particolare, pensavo ai partecipanti del corso, li scorrevo con la mente, e mentre ti ho vista stavo pensando a te. Ma davvero? E’ una coincidenza da registrare, no? Eh, sì, è una coincidenza. E cosa stavi pensando, in particolare? Pensavo che sei misteriosa, che desideravo conoscerti ma non sapevo come, che sei sempre così solitaria e riservata. Così ti sembro? Solitaria? Misteriosa? Eh, sì, scusa se te lo dico, ma stai sempre laggiù in fondo, un po’ separata, e poi non partecipi mai ai dibattiti… Ma a me piace tanto ascoltare, sai? Ma nella vita cosa fai? Faccio la maestra. Ah, ecco, la maestra. E allora come mai arrivi sempre trafelata all’ultimo momento? Perché dopo la scuola vado a tenere dei bambini che hanno dei problemi. Sai, quelli che non capiscono, quelli che picchiano gli

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altri, quelli che non sanno stare fermi e quelli che hanno paura di tutto. E tu, invece, cosa fai? Io ho un socio, faccio il pubblicitario. Uh, che brutto lavoro, ha detto lei. Ma io disegno, faccio la parte artistica, invento gli slogan e … Sì, ma fai un lavoro disonesto, che spinge la gente a comperare il doppio di quello che ha bisogno. Mah, sì, per certi versi hai ragione. Anche se non è sempre così. Comunque lo sai, io non so mica cosa ho studiato. Però sono quasi sicuro di avere fatto una scuola d’arte, perché so disegnare, e me la cavo abbastanza anche con i pennelli. Ma tu, come mai stasera sei arrivata prima? Non avevi i bambini problematici da guardare?

E’ stato lì che la Dafne è andata in crisi. Che fino a quel punto mi era parsa diversa dalla donna timida e riservata che vedevo al corso. Parlava, sembrava anche schietta, ed era incline al sorriso, un sorriso bellissimo, per la verità. Ma alla mia domanda “come mai sei arrivata prima” lei ha fatto fatica a inghiottire il boccone ed è arrossita. Io ho pensato di aver detto qualcosa di sbagliato, scusa, ho detto, sono invadente.

No, no, tu l’hai fatto il compito? Perché, ho dimenticato di dirlo, ogni settimana ci veniva assegnato un compito, e poi bisognava riferire. Una volta il compito era concentrare l’attenzione su tutto ciò che nasce e su tutto ciò che muore. Un’altra volta il compito era osservare la comunicazione tra le persone, un’altra volta era portare un oggetto caro e spiegare il perché... ce n’erano tanti. Ora, il compito quella volta me l’ero completamente dimenticato, ed era stata proprio Dafne a ricordarmelo. No, Dafne, non l’ho fatto, il compito. E mi sono perfino dimenticato di cosa si trattasse. Era che bisognava fare una cosa che non abbiamo mai fatto, cercare di superare qualche limite imposto dal nostro carattere, osare qualche piccola sfida. Ah, già, era quello, il compito. Poi c’era stato un po’ di silenzio, non volevo chiederle cosa avesse fatto, non volevo metterla nuovamente in imbarazzo. Beh? Non ti interessa sapere cosa ho fatto? Sì, mi interessa tanto, sono tante, le cose di te che mi interessano. Scusami, devo prendere fiato, diceva lei, che per me è veramente… difficile. Sai, questo corso dell’antimonio a me sta servendo tanto, non credevo. Per esempio smettere di giudicare. E’ stato utile, per me. Se non altro vedere che ero spesso

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intenta a giudicare gli altri, e anche me stessa. Anche se per natura sono portata a giustificare tutto. Che bello, sentirti dire queste cose, Dafne. Che se dovessimo conoscerci meglio forse ci sarebbero delle cose che ho fatto che andrebbero giudicate male. Non ti credere, Tedoforo, ne abbiamo tutti, chi più chi meno, su misura per i confini che mettiamo alla nostra morale. Sì, anche a me il corso sta piacendo, sembrano brave persone, specialmente il Pintori. Ma non mi hai detto del tuo compito. Ecco, il compito lo sto facendo in questo momento. E vedevo che di nuovo diventava rossa e vedevo pulsare un po’ il suo collo, allo stesso ritmo del battito del suo cuore, evidentemente. E mentre stavo azzardando una interpretazione, lei aveva detto: sono venuta qua in anticipo per incontrare te perché mi piaci, poi si era coperta la faccia con il tovagliolo.

Dopo un mese ero convinto di aver trovato l’amore eterno, dal momento che con Dafne le cose andavano a meraviglia. Era stato bello scoprire la sua vita, il suo appartamentino accogliente dove dormivamo avvinghiati perché c’era un solo letto, e neppure matrimoniale. Era stato bello anche andare oltre quell’integrità che era la sua caratteristica più incantevole. Vedere quell’integrità sgretolarsi nell’orgasmo, perché grazie al corso dell’antimonio, diceva lei, aveva imparato anche a lasciarsi andare, a non osservarsi continuamente, a sospendere il giudizio anche su se stessa. Quella che io chiamavo la sua integrità, la stessa di una guerriera o di una monaca, lei la chiamava la mia rigidità, la stessa di una zitella o di una in menopausa. E diceva che l’antimonio l’aveva guarita. Che per tanto tempo si era repressa e ora aveva saltato il fosso. Ma guarda, quando un seme arriva in un terreno buono fa miracoli, pensavo. Però non cambiare troppo, Dafne, perché a me sembri già perfetta così.

Il Circolo dell’Antimonio mi piaceva, ma non mi sembrava che stesse facendo di me un altro uomo. Però Dafne sì, che le sue grazie e la sua onestà di cuore erano veramente una medicina, e come era gentile con tutti e tutti le volevano bene, e quando la guardavo negli occhi mi sembrava che quello che avevo provato per la Ottavia era niente in confronto a quei riflessi d’oro di quelle due corniole che avevano dentro la luce del paleolitico, e tutta la storia del mondo la si vedeva riflessa nel suo sguardo quando alla finestra guardava la sera discendere.

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Andiamo via, scappiamo da questo mondo. Andiamo a vivere in campagna, troviamo un bel casale, facciamo due bambini e ci facciamo anche dei corsi, affittiamo le camere, facciamo l’orto biologico e vendiamo la marmellata che facciamo noi. E anche il miele. E dopo prendiamo anche le capre e facciamo il formaggio.

Guarda Dafne che la terra è bassa, come diceva il Busseti. Che la campagna è bello immaginarsela, è bello quando fai una scampagnata e vai a raccogliere le ciliegie, e penso che sia anche bello spiegarla ai bambini, ma quando la devi lavorare c’è da spaccarsi la schiena e da piangere, che mi ricordo quell’anno dal Busseti che avevamo messo giù le piante delle albicocche e dopo due anni finalmente queste erano piene di fiori che promettevano di ripagarci della farita, e poi poco prima dell’allegagione sono venute due grandinate da bestia e alla fine le albicocche, quelle poche rimaste, sembravano delle mandorle. Ma noi troveremo un posto con l’energia buona, lo sento, diceva Dafne, andiamo, facciamolo. Va bene, ma fammi lavorare ancora due anni, che metto via due soldi. Non ho molto. Mai io posso vendere casa mia, ho anche un garage. E poi ho due soldi da parte. Ma ce ne vogliono tanti, Dafne, dovremo pagare qualcuno che ci aiuti. Ma tu hai una villetta al mare, no? E anche la casa qua. Ma devo finire di pagare il mutuo. Ancora due anni.

Ma ci hai pensato bene? Mi diceva Stramesi. Che qua le cose stanno andando bene, lo vedi anche tu. Che mi devi dare il tempo di trovare un altro come te. Ma dove lo trovo un’altro come te? Due anni, Stramesi. Abbiamo due anni. Il sostituto lo troviamo, facciamo degli annunci, poi gli insegno, ma tu devi farmi guadagnare tanto, il più possibile, che andrò comunque a finire col culo per terra, ma almeno voglio foderarmi i pantaloni, gli ho detto. Va bene, Tedoforo, vediamo. Se non sono due anni saranno tre. No, due. Due al massimo, che devo andare con la Dafne in campagna, e il prossimo fine settimana andiamo già in Toscana a curiosare. Ma guarda che è un salto nel buio, una mosca cieca al bordo della scarpata, mi diceva Stramesi, pensaci bene, che qua ci possiamo allargare anche nel merchandising. Ma la domenica successiva siamo andati in Maremma e vicino a Manciano dovevamo vedere due case in vendita con annesso un podere. La Dafne aveva già telefonato e preso appuntamento con un immobiliare di Grosseto che stranamente pareva un brav’uomo, forse perché

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nonostante fosse un immobiliare era di Grosseto. L’uomo era un maremmano di notevole corporatura, gioviale. Prima di farci vedere le case volle portarci a mangiare, si va dalla mi moglie, che noi si ha anche un ristorante ai Poderi di Montemerano. E poi mangiando abbiamo conosciuto anche la moglie, erano simpatici, e probabilmente anche noi eravamo simpatici a loro, perché alla fine lui guardò fissa la Dafne, che aveva capito che era lei che decideva, e le disse signora Dafne, io ce l’ho la cosa che andrebbe bene per voi, che è in un posto veramente dei più belli che ci siano, ma non la vuole nessuno perché è un rudere. Che appena s’arriva là in cima la gente si mette le mani ne’ capelli, sicché non la si fa vedere più a nessuno, salvo sognatori, pazzi e via dicendo. Ma anche l’ultimo pazzo a cui l’ho fatta vedere, un artista fiorentino che vende i quadri a New York, quando ha visto le rovine ha detto che ci volevano troppi soldi. Anche se il rudere con la sua tenuta lo vendono per poco. E il podere è bello che volendo lo potete anche fare a vigna, che il morellino viene baciato. Andiamo a vedere, ha detto la Dafne. E’ un posto incantevole, a duecento metri dal lago di Mezzano. La casa, quello che resta, ha più di cent’anni.Lo sapete dov’è il lago di Mezzano? Quando siamo arrivati là, la Dafne ha detto: lo prendiamo. Ma come, signora, non vuol vedere gli altri due? No, questo posto l’ho sognato, è proprio così, ha detto lei. Ma Dafne, la casa è da costruire, manca il tetto, ci sono solo i muri perimetrali, è un disastro. Lo faremo un po’ alla volta.

Dopo neanche un’anno e mezzo siamo andati in Toscana, tirando su tutti i soldi che potevamo. Stramesi mi aveva detto: ma tieniti le quote della società, non si sa mai che un giorno volessi tornare, che qua un posto ce l’hai. Ma no, gli avevo detto, che mi servono i soldi per far partire la baracca in Maremma, e Stramesi mi ha liquidato le quote da uomo onesto quale era, cioè quasi con il loro valore. Ma d’altra parte era giusto così, che lo mollavo in braghe di tela, anche se adesso c’era Nicola, il mio sostituto, che non gli mancava niente. L’avevamo trovato andando a parlare con gli studenti all’uscita dell’Accademia, lui non voleva fare il pittore o l’artista, disegnava fumetti e voleva imparare il linguaggio della pubblicità. Era intelligente, e di lì a poco sarebbe diventato anche furbo. A me bastava per lasciare Stramesi senza sentirmi in colpa. Avevamo già pagato il tetto della casa e l’avevamo sistemata da viverci alla spartana, però lì a fianco c’erano altri due fabbricati che un tempo erano stati delle stalle e un fienile; adesso

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erano veramente un mucchio di macerie. Ma Dafne li guardava e ci vedeva già una specie di auditorium dove fare musica, danza, teatro, corsi e meditazioni, e lì di sopra escono sei camere per gli ospiti. E là una cucina comune, dove si fa da mangiare tutti insieme. La chiamiamo la Casa dell’Antimonio. Fin dai primi tempi, quelli del Circolo ci avevano detto di leggere Il Cocchio trionfale dell’antimonio di Basilio Valentino, un libro di alchimia dove non ho capito niente, ma questo antimonio veniva fuori come qualcosa di molto prezioso, da ottenersi con la preghiera e il lavoro, separando lo spesso dal sottile cioè vedere per esempio materia ed energia, sostanza e forma, corpo e anima, tanto per dare un’idea.

Non proprio la Pietra Filosofale, ma una specie di annuciazione della Pietra. Così siamo partiti, e dopo sei mesi, con l’aiuto dei Serafini ma anche massacrandoci di lavoro noi stessi, avevamo già fatto anche la copertura delle stalle; per risparmiare usavamo i coppi recuperati dalle discariche, dalle demolizioni e dalle case abbandonate con i tetti crollati. I Serafini avevano un furgone e facevano il grosso del lavoro. Questi due che chiamavamo i Serafini erano due fratelli, si chiamavano Angelo e Serafino, che per una questione ereditaria avevano perso la loro terra e si erano messi a fare diversi lavori come i muratori, i trasportatori e i braccianti all’occorrenza. Se la cavavano a fare tutto. All’inizio ci hanno guardati con un po’ di sospetto e tentavano di fregarci, ma poi quando mi hanno visto lavorare e soprattutto quando hanno conosciuto bene la Dafne hanno cambiato idea e sono diventati leali. Poi la Dafne gli ha detto che se finivamo il fienile in tempo loro potevano dormire in due delle camere e usare la cucina, ma loro hanno preferito aspettare di rimettere a posto la rimessa in fondo al podere, quello a loro spese, e stabilirsi là. Un altro rudere con una tettoia di lamiera arrugginita che sono riusciti a far diventare una specie di casetta. Quelli del Circolo dell’Antimonio organizzavano corsi e seminari da noi, e ci venivano tanti cittadini con la fissazione mistica o alla ricerca dell’energia cosmica.

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Venivano di tanti tipi. I più frequenti facevano yoga, meditazione oppure respiravano e basta. Ma c’erano anche alchimisti, esoteristi, teosofi, suonatori di didjeridoo, gente che praticava la terapia dell’orgasmo e gente che voleva stabilire un contatto con gli Extraterresti. La Dafne andava d’accordo con tutti e dava ragione a tutti. Io le dicevo: Dafne, c’è un limite a tutto. Finché mi fai stare un pomeriggio a fare finta che i miei pensieri siano nuvole, che li mando via ad uno ad un man mano che si presentano, va bene, e quella cosa di andare oltre il pensiero mi piace. Ma domani a cercare gli gnomi nel bosco non ci vengo, perché gli gnomi non ci sono, e forse sarebbe meglio aprire gli occhi a questi signori di Roma. Ma perché vuoi infrangere un sogno? La vita è fatta tutta di sogni, è lei stessa un sogno. Sì, ma poi ci si sveglia, dicevo, che io mi sono già svegliato diverse volte. E quando ti svegli hai perso un’orecchia senza neanche accorgertene. E la Dafne a un certo punto, non eravamo più tanto giovani, ha detto facciamo un figlio. Io avevo un po’ paura, comunque ci abbiamo provato per quasi un anno e il figlio non è arrivato. La Dafne non voleva sapere se ero io o era lei o era la sfortuna delle lune, ma faceva delle meditazioni e beveva degli infusi che dovevano farla rimanere incinta, ma niente. Dopo un anno in cui abbiamo fatto l’amore anche più del dovuto, anzi, nonostante questo, vedevo che la Dafne era un po’ più taciturna e il suo carattere si era fatto più scuro. Poi una bella mattina di febbraio, faceva un freddo micidiale, lei mi ha lasciato un biglietto ed è sparita. Per la verità se n’è andata con un albergatore di Rimini di quattro anni più giovane di lei. Io ho provato a rimanere per un po’ lì con i Serafini a mandare avanti la Casa dell’Antimonio, ma senza la Dafne non ne avevo più nessuna voglia. Ero di nuovo un cane senza padrone. Perché a ben vedere io non avevo mai deciso niente. Così una decisione l’ho presa: ho lasciato la Casa dell’Antimonio e il podere ai Serafini, che erano felicissimi e non avrebbero mai sperato in una cosa così, ma che comunque mi hanno detto lo sapevamo che prima o poi ce ne saremmo andati, che chi non ci è nato, in campagna non ci può morire. Io gli ho detto che la Maremma era come casa mia, che ci sarei anche morto volentieri, ma con la Dafne. Gli ho detto che bastava che mi pagassero un piccolo affitto, che comunque lo avrei dovuto dividere con la Dafne, che la casa e la terra le avevamo intestate a metà. Comunque loro erano bravi a mandare avanti la terra e dopo meno di un anno hanno fatto un mutuo, e siccome la Dafne era d’accordo la casa dell’antimonio gliela abbiamo quasi regalata.

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Quando mi sono ritrovato di nuovo per strada mi è venuto un momento di sconforto, mi sembrava di non aver combinato niente di buono nella vita, di essere esattamente al punto di partenza, ma d’altra parte anche se non ero mai stato molto attento alle questioni di cui si parlava nella Casa dell’Antimonio la mia idea sulla vita era un po’ cambiata. Anzi, se devo essere sincero avevo cominciato a farmela, un’idea della vita, che prima manco mi ero posto il problema, se non in termini di salvarmela, la vita, di tenerci, in qualche modo, alla vita, ma senza sapere bene cosa fosse. Non che adesso lo sappia, però come diceva Pintori, l’importante è lasciar aleggiare la domanda per lungo tempo, che la domanda è più importante della risposta. Ma insomma, fino a che non ho incontrato quelli dell’antimonio avevo, come dire, vissuto e basta. Poi ho cominciato anche a guardarmi da fuori, a osservare me stesso che vivevo. Il Pintori ce l’aveva fatta capire raccontandoci una frase che diceva Hume ai suoi allievi durante le sue lezioni: Signori, prego, osservino quel muro. E tutti gli allievi giravano la testa verso il muro. Benissimo, diceva Hume, adesso osservino se stessi mentre stanno osservando quel muro. Lì c’è stata la prima faccenda un po’ strana, perché io riuscivo a farlo. Non era facile, e ci avevo messo un po’, ma poi riuscivo a vedermi vivere, a osservarmi. Guardavo i miei comportamenti come se fossero quelli degli altri. E vedevo che anch’io avevo dei lati antipatici, esattamente come gli altri. Anzi, anche più antipatici. Ma il bello è stata poi la domanda che viene fuori quasi spontaneamente. Ma se io posso guardami da fuori, chi è quello lì che sto guardando? Oppure, chi sono io che guardo? Sono scherzetti che venivano fuori con gli esperimenti suggeriti da quelli dell’Antimonio. Un altro era quello di far tacere la coscienza. Ah, già, la coscienza… quanto mi ci hanno fatto studiare, quelli dell’antimonio, sulla coscienza. Che io credevo fosse quella cosa che mi rimordeva dopo che avevo svuotato un appartamento ai tempi in cui praticavo la professione di ladro. Oppure quando non avevo saputo difendere la Ottavia dalla volgarità di suo padre e di suo zio. Anche quella che mi rimordeva quando pensavo a Zanetti, che io ero rimasto vivo e lui era morto e la granata era caduta tra me e lui, quasi a uguale distanza, e dei due uno solo doveva restare vivo, e io mi ero preso la chance di Zanetti. Ma poi mi ci hanno fatto pensare tanto, così tanto da vedere la coscienza come un fastidioso io soliloquiante che fa continuamente la telecronaca in diretta della mia vita.

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Così, gravato ma anche alleggerito da questi pensieri, che erano molto più pesanti di tutti i pensieri che avevo avuto prima ma nello stesso tempo avevano anche prospettive molto più vaste di quelle che avevo prima, camminavo per le strade di una cittadina di provincia, al momento non mi viene il nome, e non sapevo bene cosa fare, perché non ero abbastanza vecchio e abbastanza ricco da ritirarmi da qualche parte, ma non ero più così giovane da voler incominciare da zero. Non volevo tornare nella città grande, con Stramesi che mi avrebbe forse ripreso in agenzia, ma quella frenesia adesso mi faceva paura. Nello stesso tempo ogni tanto mi si parava davanti la prospettiva della morte, che anche quella al circolo dell’antimonio me l’avevano fatta vedere in modo diverso. Che si poteva usarla come consigliera, dal momento che ci cammina continuamente a fianco. E per come la vedevo io, da un momento all’altro può prenderle lo sghiribizzo di darti una falciata, come è successo a Zanetti. Quindi ci parlavo tutte le sere, a quell’epoca, sperando di imbonirla. Se poi lei mi rispondesse o meno questo non lo so, ma ormai ero abituato alle domande senza risposta. Domani mi prenderai? Ma c’è un motivo preciso per cui tu decidi di prenderti qualcuno? E il giorno? è già scritto, o vai a casaccio, chi capita capita? E con Zanetti, com’è andata? E poi, quando sarò di là anch’io, lo rivedrò Zanetti, in qualche modo? E la rivedrò la mia mamma? Che una mamma ce l’ho avuta anch’io, di certo, e se fosse viva vorrei chiederle scusa per averla dimenticata, spiegarle della granata e dell’orecchia. E se fosse morta, se fosse già morta, se tu l’avessi già presa, vorrei chiederle scusa per non essere stato lì vicino nel momento del trapasso. Ma insomma, la morte non rispondeva, alitava e basta. Se è morta, di’ a mia madre di stare tranquilla, perché di qui a qualche anno la raggiungo. Insomma, me la sentivo alitare sul collo, specialmente la sera, solitario su qualche strada in salita, con la mia ombra allungata oltre il marciapiede dalla luce dei lampioni, la sentivo lì dietro a meno di un passo e allora le dicevo ad alta voce per favore abbi almeno la decenza di non fulminarmi qui, per strada. Fammi arrivare in una camera d’albergo, in un’infermeria, che non sembri un ubriaco. E lei mi diceva: cosa vuoi ancora? Che ti ho già risparmiato una volta. E’ che io, riguardo alla morte, me l’ero vista tra le braccia della Dafne, che le volevo bene e avevo sperato che ci fosse lei, una volta diventato abbastanza vecchio, a salutarmi quando fossi stato in partenza per l’ultima dimora. Ma povera Dafne, lei aveva deciso di seguire ogni sentiero che avesse un cuore. Così aveva detto e così

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aveva fatto, e forse avrei dovuto anche aspettarmelo, o prevederlo, quando lei era diventata più taciturna avrei dovuto insistere, ma pensavo che fosse per il bambino, e non volevo tornare sull’argomento. Magari l’albergatore l’ha messa incinta, speriamo. E speriamo almeno che sia un brav’uomo, che non spenga la luce della Dafne.

Ma a parte le speranze, quelle che mi giravano per la testa erano per lo più domande. Domande a cui naturalmente si risponde con qualche ipotesi, e che quando si sono formulate dentro di te una volta, se si formulano proprio davvero come domande, poi non ti abbandonano più. Era un turbine, un turbine continuo di domande, ma non avevo nessuna pace interiore, nessuna di quelle cose che si mettevano tra le aspirazioni al circolo dell’antimonio. Allora provavo quell’altro esercizio, quello di fermare la coscienza. Camminavo, e provavo a far tacere quel monologo interiore che continua a parlare nella tua testa, quello che faceva domande ricordando eventi passati, paventando eventi futuri e recriminando su ipotetici eventi che avrebbero dovuto accadere e non sono accaduti o che dovevano andare diversamente. Si fanno dialoghi immaginari con persone assenti, in cui si dice loro ciò che non avremmo mai avuto il coraggio di dire, ci si proietta nel passato e lo si modifica un po’ a nostro favore, come me che in certi momenti mi veniva voglia di dire alla gente ma guarda che io ho perso un’orecchia, la memoria, l’udito e il mio amico Zanetti, tutto in un colpo solo e nel giro di un secondo, e tutto questo è successo perché mi hanno mandato a fare la guerra. E nonostante provassi a far tacere quella voce, nonostante continuassi a dire: questa voce che sta parlando non sono io, è la mia coscienza, che pretende di darmi una sua definizione della realtà, ecco che mi mettevo a parlare proprio con lei, con la mia coscienza, e le dicevo lo sai che potrei anche essere considerato un eroe? Che la paura che avevo io mentre uscivo dalla trincea tu non la proverai mai, neanche se ti suonasse alla porta belzebù in persona? Che quando corri fuori dalla trincea e mentre scoppia la granata, tu non ci sei, cara coscienza. Tu sei arrivata dopo, a dirmi che Zanetti era morto, che io ero sordo e non ricordavo più niente. Ho preso coscienza di essere incosciente, perché dietro di me il passato non c’era più, e io per questa mutilazione dovrei essere decorato, credo. Che perdere la memoria forse è

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peggio che perdere una gamba. Se non fosse che poi ho fatto il ladro, e poi sono stato in galera, e poi anche al confino per reati politici, lo sai che adesso sarei uno che prende la pensione come mutilato di guerra? Che poi, di preciso, non lo so neanche se ero anarchico, anche se poi lo hanno arrestato per una bomba che non l’aveva messa lui e tante volte ho pensato che forse l’avevo messa io. Cioè, io non ho messo la bomba, ma i poliziotti hanno dato la colpa a Busseti. La stessa cosa di Zanetti. Dovevo morire io, e invece è morto lui, ma pazienza. E’ che non sono stato capace di assecondare la Ines, non sono stato capace di salvare l’Ottavia, di salvare la Emy dal bordello, non sono stato capace di trattenere la Dafne. Potrei direi che le donne sono tutte puttane come la Emy, ma lo so benissimo che sono io che non vado bene, perché quando una donna è contenta non se ne va con un albergatore romagnolo. E poi mi accorgevo che di nuovo non ero io a parlare.

Adesso abito giù di là, la sotto. C’è caldo d’estate e freddo d’inverno. Ma poi vengo qui. Lui viene qui, io lo guardo e gli dico bravo, ti sei seduto. Adesso puoi ricordare. Quando sono arrivato qui la prima volta ho detto ma che bel posto, che bei giardini pubblici con la fontana, e il traffico là in fondo, che il rumore arriva ovattato dalle piante. Grazie signora, ho detto. Che mi aveva messo in mano una moneta. Mi siedo qui e aspetto. Questa città assomiglia tanto alla città dove ho fatto il liceo. Ma come faccio a ricordarmelo? C’era un mondo prima, sai? lo so benissimo. Vent’anni, Avevo vent’anni, all’incirca quando è scoppiata la granata. Ma io adesso ne ho quattordici, quindici. Sono seduto ai giardini perché sto aspettando Zanetti, il mio compagno di banco, che è un gran birbone menefreghista, arriva sempre in ritardo. Non gli importa se ci bocciano. La mia coscienza mi guarda da fuori, io non sono lei, lei non è me, eppure è lei che mi guarda, non sono io che guardo lei. Montavo il circo, avevo la canottiera, e la Ines mi diceva ma che bei muscoli che hai, sembri un trapezista. Poi siamo andati nella carrozza, Poi il tenente ha dato l’ordine e siamo usciti, e la Ines è rimasta sfracellata, mentre io ho perso solo un’orecchia. E poi a volte mi sembra di ricordare la mia mamma, soprattutto quando si arriva sotto Natale. Mi sembra di ricordare la mia mamma, i vetri appannati di una cucina, l’odore dei cibi buoni e i parenti che devono arrivare. Ma la mia mamma ha la faccia della Ottavia, e quando me ne rendo conto il ricordo sparisce, viene fuori quello della

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Dafne, anche lei se l’è portata via la granata, che la guerra è una cosa bruttissima, e la casa della Ottavia dopo la guerra e dopo la galera mi era sembrata il paradiso, con i mobili che sapevano di cera d’api e gli asciugamani che sapevano di spigo, e poi l’Ottavia se l’è sposata Stramesi. No, non era l’Ottavia, era la mia arte, la mia capacità di disegnare che si è sposata Stramesi. Ma dal regno dei morti Stramesi e il Busseti mi chiamano entrambi, e dicono le stesse cose: lascia perdere. Chissà se sono morti davvero. E mi dicono che dove sono loro non c’è più niente delle cazzate su cui hanno perso la vita. Stramesi mi dice che non c’è la carriera, non c’è il successo e non ci sono i soldi né il potere che ne deriva. Busseti mi dice che non ci sono ideologie, che le differenze sociali sono solo un pallido teatrino di marionette, che non c’è neanche l’anarchia e non c’è neanche dio. Ma come, Busseti, gli chiedo. Come non c’è dio?

Non ho mai avuto un cuore, forse la Dafne non l’amavo davvero, per questo se n’è andata. D’altra parte io non ho mai deciso niente, non ho mai preso nessuna decisione, lo si vede chiaramente dal racconto della mia vita. Che mi hanno mandato in guerra perché non ho saputo difendere la Ottavia, e per questo ho preso la granata. Forse il sentimento non so cosa sia, l’unico che ho amato veramente è stato Zanetti, ma l’ho amato dopo che è morto. Prima era solo un gran birbone menefreghista. Almeno fino alla sera pirma, quando gli ho detto è bello avere un amico. Domani lo aspetterò sulla panchina. E intanto il tempo passerà, e mentre starò lì seduto ai giardini ad aspettare Zanetti verranno tutti, chi a portare il cane a pisciare, chi a portare i nipotini a tirare molliche nella fontana, chi a leggersi il giornale, magari prendendo quel po’ di sole nei tavolini di quel bar, sorseggiando un caffè. Vengono, vengono.

Buongiorno Tedoforo, mi dicono. Arriva tanta gente, per primi arrivano il Busseti e l’Ottavia, sono vestiti di bianco, si siedono laggiù in fondo e fanno finta di non conoscermi. Poi arriva la Ines, con quelli del circo, con Vasilj che porta le salsicce per tutti e dietro Laszlo con la sua faccia da faina, che vorrebbe ancora convincermi a svuotare qualche appartamento. Verrà il professore, il Pintori, e gli chiederò ma è vero che dio non esiste? Che me l’ha detto il Busseti, e lui è un uomo di scienza come lei, professore. E il professore mi metterà in mano una monetina e dirà che non si sa, ma che comunque il dialogo con dio è una buona cosa, e che se la nostra mente riesce a concepire qualcosa di supremo, qualcosa

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che comprende tutto, se riusciamo a scorgere un ordine nell’universo, allora non c’è bisogno d’altro, anche se Stramesi dice ogni cosa ha bisogno di un messaggio adeguato e che io sono il re dei messaggi. Quindi dovrei fare il profeta, dire a tutti che c’è un ordine universale, che tutto sta andando esattamente dove deve andare, anche se questo dove è diverso da quello che vorrebbero le persone. Ma davvero non hai capito niente? Ma davvero non la senti l’armonia delle sfere nel cosmo? mi chiederebbe il Pintori. E io gli direi no, maestro. Non la sento. Non sono un profeta, anche se ogni tanto qualcuno si ferma e mi sta a sentire.

L’altro giorno un ragazzo mi ha detto sei forte, Tedoforo. Che gli avevo detto quella cosa della causa iniziale e della causa finale, ma poi mi sono ingarbugliato dicendo che la causa iniziale era la granata, e così sono ripartito con tutta la storia dell’orecchio e della memoria, ma Zanetti era rimasto miracolosamente illeso e lo stavo aspettando lì sulla panchina.

Ah, sì Zanetti è la causa iniziale, Dafne la causa finale… no, che anche dopo Dafne la vita è continuata, anche se diversamente. La causa finale non la conosco ancora, è magica. E’ come una calamita che mi attira laggiù in fondo, come se alla fine si scoprisse il motivo. Che come avrebbe detto il Pintori è meglio smettere di pensare a ciò che è stato e pensare a quello che sarà, a che cosa ci stiamo preparando. Bene, la risposta non è difficile, oramai, con l’Ottavia, la Ines, La Emy e la Dafne che tutti i giorni passano di qua, e sono giovani come allora, giovani donne, giovani signore. Hanno il cagnolino, hanno i bambini, magari quello lì è proprio il bambino che avrei dovuto fare con la Dafne, e per il potere delle forze cosmiche è nato invece lì, in quella famiglia lì. Come ti chiami? Elio. Ma davvero? E la tua mamma è la Dafne, oppure la Ottavia? La mia mamma si chiama Giulia, è seduta laggiù in fondo, la signora Giulia. Che il bambino lo lascia venire perché qui ormai mi conoscono tutti. Buongiorno Tedoforo, buongiorno signora Giulia. Se il bambino le da fastidio me lo dica che lo porto via. Ma quando mai! Anzi, mi piace così tanto sentirli cinguettare tutti insieme qui ai giardini. Ma da lontano non capisco niente di quello che dicono. Gridano, più che altro, e corrono. Fanno come i rondoni, sfrecciano impavidi nell’esistenza. Chissà, avrò sfrecciato anch’io, da bambino, con mia mamma che mi diceva se ti sporchi le buschi, non lo ricordo, eppure ne ho nostalgia. Quelli

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del posto ormai mi conoscono tutti, dicono quel vecchio un po strampalato, è un mutilato di guerra, ma no, cosa dici? E’ stato dentro, è un anarchico di quelli che mettevano le bombe. Ma è bravo e chiacchiera volentieri, anche se spesso non si capisce quello che vuole dire.

Ma io non voglio dire più niente, sono loro che mi interpellano, e allora io riparto con il mio discorso, Zanetti, l’orecchia e tutto quanto. Un colpo micidiale, per questo sono diventato anarchico. Che i poliziotti hanno violentato la Ottavia per farle dire che ero anarchico. E lei è finita in convento. E mi vergogno a dirlo, ma ho anche svaligiato degli appartamenti. Era nel dopoguerra, poi mi hanno messo in prigione, ma tutto questo era prima della Dafne e prima ancora che i miei disegni fossero sulle copertine dei giornali, si figuri lei signora Giulia, se lo immagina il ritratto della Ottavia nuda sulla copertina di un rotocalco, che la vedevano tutti, e suo padre che era il ministro dell’agricoltura e mi ha fatto mandare al confino, lo sa?

Stanotte Zanetti è venuto a svegliarmi. Mi ha detto Tedoforo, svegliati, che fra un po’ danno l’ordine di attacco. E io gli ho detto: non usciamo. Loro danno l’ordine, ma noi non usciamo. Andiamo davanti al plotone d’esecuzione, lo sai, sì? Che la diserzione sul campo di battaglia è la peggiore delle infamie per un soldato? Ma è andata veramente così, Zanetti? Ce le siamo dette veramente, queste cose? Ma lascia stare, mi rispondeva lui, non lo vedi chi c’è che ti aspetta? E lì in fondo c’era la Dafne che mi diceva lo sapevi, no? Che cosa, Dafne? Che prima o poi sarei tornata, che torniamo alla casa dell’antimonio, anzi no, torniamo ai primi tempi, appena ci siamo conosciuti, quando facevamo l’amore tutti i giorni.

Ma poi è arrivato fuori prepotente il padrone della ditta dei traslochi, e ha spinto via Zanetti e la Dafne, e urlava Tedoforo, c’è da scaricare il furgone, e c’era Làszlo che mi diceva prendiamo qualcosa che non se ne accorge nessuno, e mi strizzava l’occhio con la sua faccia da mustelide balcanico.

E certe volte negli ultimi tempi mi è capitato anche di far l’amore, e vedevo il viso di lei, ma non so più bene chi, che i lineamenti della Dafne diventavano quelli della Ottavia, ma forse era la Emy, ma era poi la Emy? che aveva le gambe scoperte perché forse indossava il costume del circo, quando Làszlo le tirava i coltelli e il commendastor Breviglieri se l’è presa.

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La Dafne mi chiamava dalla finestra, mentre scaricavo il furgone. Vieni su, Tedoforo, che il furgone lo scarichi dopo.

Dev’essere confusione. No, non è confusione, è solo che adesso gli eventi si incollano tutti uno sopra l’altro, e visti così da lontano si sovrappongono quasi. E mentre scaricavo il furgone vedevo che erano tutti scatoloni pieni dei miei disegni , ce n’erano centinaia, molti di più di quelli che ho fatto, e mentre li scaricavo vedevo Stramesi che se la rideva, e mi diceva bentornato, vecchio testone, portali su in ufficio, gli scatoloni. E mentre salivo per le scale incontravo il Busseti che scendeva, e quasi non mi ha salutato, ha tirato dritto e ha detto ecco qua un altro bel servo all’opera. Ma l’ha detto con la bocca quasi chiusa, come se parlasse tra sé e sé, così non sono certo d’aver capito bene. Ma poi lo scatolone me l’ha tolto dalle mani il professor Pintori, che mi ha detto finiscila di rimproverarti, Tedoforo, che la tua vita è stata un capolavoro. Ma professore, lo sa che sono stato in galera, e poi anche al confino? Te lo ripeto, Tedoforo, un capolavoro. E’ andato tutto come doveva andare. E finalmente mi sembra di riuscire a riaddormentarmi definitivamente, ma la voce di Zanetti dice c’è troppo buio qua dentro, bisogna che domani ci ricordiamo di lasciare uno spiraglio per vedere quando arriva il giorno. Mi sa che i giorni sono finiti, Zanetti.

Ma dal buio, senza il suo solito fracasso, esce Vasilj, il padrone del circo Torkos, con i suoi baffoni, la livrea amaranto e gli alamari dorati, che fa una risata da imbonitore come quando stava davanti al tendone a invitare la gente, poi ci guarda tutti con l’aria compiaciuta e mi dice: ma dov’eri finito, mattacchione?

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