Pro-Memoria una storia sentimentale


j.R. Rebay
Pro-Memoria, una storia sentimentale romanzo ©2012 L’Imbuto tutti i diritti riservati
In copertina: William-Adolphe Bouguereau, La nascita di Venere (particolare)
Juan Romulo Rebay
Pro-Memoria
una storia sentimentale

Una piccola premessa. La storia che vado a raccontare non ha niente di straordinario, è semplicemente il racconto di una storia vera.
Chi è abituato a leggere le cose che scrivo resterà magari un po’ deluso, perché qui non ci sono giochi linguistici (a parte quelli di mia moglie e di Nadine) e la vicenda ha uno sviluppo lineare, quasi noioso. Non è la trascrizione fedele di qualcosa che è realmente accaduto, ma è un estratto della verità, con tutte le sue miserie, le sue meschinità e con qualche sprazzo di grandezza.
Ho scritto questo libro come una sfida. Ci sono stati anni in cui avrei odiato l’idea di affermare: “sto scrivendo un romanzo”. Non parliamo poi addirittura di un romanzo d’amore, sulle orme di Liala e dei fratelli de la Rosière, quelli che chiamiamo Delly. Quei libri, per un giovane intellettuale che leggeva Roland Barthes e Robbe-Grillet potevano esser buoni solo come parodie alle quali irridere sprezzante. Roba per consolare giovinette del tempo fascista e del dopoguerra.
Poi sono invecchiato, e non me ne frega più niente di tutte queste catalogazioni né di mantenere un certo profilo intellettuale. Così ho scritto anch’io un romanzo d’amore.
Ultimamente, pezzi di storie vissute in gioventù dai miei amici e dal sottoscritto ritornavano nella mia memoria, e qualche volta mi capitava di chiedermi che fine avessero fatto quei grandi amori. Ci sono stati amici che mi svegliavano alle quattro di notte e che volevano che li accompagnassi a piangere nei luoghi dove erano stati felici. Ci sono stati amici o amiche che per amore hanno rubato automobili, falsificato chiavi e violato domicili, fatto centinaia di chilometri e minacciato di cambiare nazione o addirittura il suicidio.
Nei miei pensieri i ricordi si mescolavano con cose sentite dire, con collegamenti che comparivano lì per lì, mentre scrivevo. Credo che i romanzi talvolta vengano fuori così. Ma un buon romanzo deve anche contenere una specie di domanda, una tensione verso qualcosa. E la domanda era lì: dov’è che va a finire, poi, quell’energia scatenata dai grandi amori?
Per costruire questo racconto ho messo insieme almeno sei o sette storie di cui sono stato testimone, e molti dialoghi, molti pensieri, sono cose che ho registrato od ascoltato, pezzi di vite altrui, confidenze tradite. Tutto materiale che è servito a delineare la vita dei personaggi. Anche se sono personaggi di fantasia li ho conosciuti tutti, veramente.
JRR Piacenza, 2012Risorgeremo dal tempo lontano. Vieni! Sarà come se a te, per mano, io riportassi te, giovane ancora.
Guido Gozzano, Cocotte
La gioventù ha a volte uno smisurato amor proprio, e l’amor proprio giovanile è quasi sempre pusillanime.
Fëdor Dostoevskij, Il villaggio di Stepànčikovo,
I - fine maggio 2011
Il sole va giù per l’ennesima volta. Ormai ho una certa età, se faccio i conti ho visto all’incirca ventunmilacinquecento tramonti. Sono quasi sessanta primavere, come si usa dire. Dovrei ormai avere una certa esperienza della vita, guardare le cose con un certo distacco che fra qualche anno potrebbe perfino diventare rassegnata disperazione; e invece sono qui con una specie di sottile ansia giovanile, quell’ansia mista a trepidazione con cui si attendono eventi importanti come gli esami all’università, le gare sportive o i primi appuntamenti. E anche per quanto riguarda la comprensione dei fatti, l’età e l’esperienza non è che mi aiutino molto.
Per quanto ci si affanni a cercare di spiegare le cose, cercarne le ragioni, ipotizzarne gli epiloghi, tentare di interpretare e di comprendere gli atteggiamenti delle persone, ci sarà sempre qualcosa che prende una strada inaspettata, qualche evento che si sviluppa inspiegabilmente in
direzioni impreviste e forse imprevedibili. La spiaggia è quasi vuota e i colori sono belli, tutti pervasi dall’arancione della sera. Guardo verso Antibes, e le ombre sono azzurro-viola come nel quadro di Monet.
Laggiù c’è quella bella signora, che cammina senza scarpe nel bagnasciuga. Gioca con le onde, quando arrivano lei arretra, a volte fa due passi di corsa per non bagnarsi i piedi, altre volte si lascia lambire dalla risacca fino alle ginocchia. Poi raccoglie qualcosa, si gira a guardarmi e mi fa ciao con la mano. Non è molto allegra, ma neppure triste. Aspetta qualcuno.
Il mio sguardo va verso il sole, si perde poi lungo la Croisette, verso Cannes. Le colline più lontane sono di un bel viola trasparente, come carta velina atrraversata dalla luce. E’ ancora più bello il panorama in queste sere di primavera, già tiepide, quando la natura sta per tirar fuori il massimo della sua forza amorevole, fatta di germogli, boccioli e nidi. Ho sempre avuto con la primavera un rapporto ambivalente: da un lato l’ho aspettata e ne ho festeggiato l’arrivo come la fine di un periodo buio; dall’altro quel risveglio mi disturbava, era come una chiamata alle armi. Adesso, alla mia età, la primavera sembra quasi un paradosso, una presa in giro. Eppure continua a piacermi.
D’altra parte ormai ho maturato un’ambivalenza su quasi tutto. Invecchiando, le opinioni, anziché farsi più nette e precise, diventano sfumate, sconfinano dal loro territorio fino a lambire quello dove c’è scritto il contrario di ciò che pensiamo.
Anche per quanto riguarda questa vicenda non ho un’idea precisa. Non so bene se questa sia una storia allegra o una storia triste; se il suo colore prevalente sia quel blu-violaceo della sfortuna oppure quel bell’arancione con cui la buona sorte colora gli eventi migliori.
Forse perché certe volte è difficile valutare l’esito delle situazioni. Una serie di contrattempi può costringerci a rinunciare ad un viaggio tanto atteso, nel quale avremmo trovato la morte. E ci rammarichiamo, ignari della fortuna.
Ecco perché, pur essendomi dato l’imperativo di raccontare quello che è accaduto con la maggiore sincerità possibile, e senza commentare troppo, non posso far a meno di pensare anche a ciò che avrebbe
potuto essere, e c’è la possibilità che questo alteri un po’ la verità dei fatti. Può darsi anche che, malgrado gli sforzi, io non riesca ad essere quel cronista obiettivo che mi propongo di essere, nel senso che, per buona parte del racconto, io guardo le cose dal punto di vista dei protagonisti. Del mio amico Enrico, in particolare. D’altra parte non può essere che così. Siamo amici fin dall’infanzia e sono stato testimone di questa vicenda fin dagli inizi. Poi anche dalla parte di Nadine, la signora che mi sta facendo ciao con la mano. Anzi, da un certo punto della storia, direi che ho cominciato proprio a vedere le cose allo stesso modo in cui le vedeva lei; sono riuscito a comprenderla bene, quasi a schierarmi dalla sua parte, perché il comportamento di Enrico mi è parso incomprensibile, nonostante lo comprendessi benissimo.
Ma anche ora che sono passati tanti anni non riesco a tirare un resoconto, e credo che questo non riuscirci in fin dei conti corrisponda alla mia volontà.
II - fine luglio, 1973
La vicenda tormentosa che mi accingo a riferire comincia nel nostro passaggio dai diciannove ai vent’anni, nell’estate che segue l’esame di maturità, per essere precisi. Per quelli nati negli ultimi mesi dell’anno, come me, si veniva dichiarati maturi a diciannove anni, e la cosa era un paradosso evidente, perché per quanto cercassimo di assumere delle posizioni adulte non eravamo altro che apprendisti.
Non so se può interessare che io metta delle date, ma lo farò ugualmente perché questo mi aiuta a mettere insieme i ricordi e aiuterà chi legge a vedere tutta la situazione nella sua prospettiva, abbastanza lunga, anche se a descriverla non serviranno molte pagine.
Ecco dunque il primo ricordo: i grandi corridoi del liceo, la città
invasa dal profumo del tiglio, la mattina dell’esame orale in cui io e Enrico eravamo davanti all’aula magna, in attesa che ci chiamassero per l’interrogazione. Eravamo preoccupati, ma c’era anche la speranza. Se avessimo concluso l’esame con successo avremmo avuto a disposizione una grande estate.
Per le due o tre estati precedenti eravamo stati a un passo dall’essere veramente felici. Non fosse stato per famiglie un po’ severe, per l’assillo della scuola e per una certa tendenza al filosofare sulle situazioni, avremmo potuto godere di un’adolescenza quasi perfetta. Adesso, sperando nel buon esito, non avremmo più avuto l’ansia per i saggi e le interrogazioni, le famiglie sarebbero state più tolleranti e il nostro filosofare avrebbe potuto finalmente tradursi in azioni ed accadimenti, tra cui quello più atteso era naturalmente l’incontro con qualche creatura femminile. E quell’aroma straniante dei tigli cominciava ad assumere il profumo della libertà, anche se la libertà è uno strumento di non facile utilizzo, e la psiche degli adolescenti tende a fabbricare gabbie in cui rinchiudersi buttando la chiave lontano. Poi in genere si incolpa qualcun altro perché non ci riporta la nostra chiave; e spesso è qualcuno che sta cercando la sua chiave e quindi non ci può ascoltare.
Ma non voglio indulgere in considerazioni; meglio restare alla cronaca di quella estate, che nonostante il successo scolastico non si prospettava così buona come avremmo voluto. L’obiettivo che ci eravamo posti era quello di girare l’Italia con le moto e la tenda, con il proposito di vedere pezzi di Italia che non avevamo ancora visto e conoscere persone, possibilmente ragazze, magari straniere. Un’estate di vera o presunta libertà, in cui non ci saremmo più tagliati i capelli e in cui ci saremmo lasciati crescere quel tanto di barba che avevamo, già sufficiente a mostrare che avevamo la barba. Il progetto era quello, ma qualcosa arrivò subito a scompigliare le carte.
Ora descriverò il guastafeste, o almeno colui al quale in questa vicenda è toccato assumersi questo ruolo: si tratta di un nostro amico, uno di quelli con cui si andava d’accordo: Oreste, detto Esti (lui ci teneva che fosse scritto senza la ipsilon finale), anch’egli uscito
vittorioso dalla maturità nella classe prima della nostra, la quinta A, ovvero la sezione dei migliori.
Esti non era molto antipatico, anzi direi che non lo era affatto, ma era inviso a molti ragazzi per quello che rappresentava. Figlio di un imprenditore di successo, un po’ troppo ricco, un po’ troppo bravo a scuola e negli sport. Si capiva che era uno votato al successo, ma che lo aveva anche già un po’ nelle mani fin da allora, con la sua MiniCooper blu col tetto panna che lo aveva atteso puntuale allo scadere del diciottesimo anno.
Gli era stato difficile farsi degli amici nei primi anni del liceo, quando suo padre, il Commendator Braida, lo veniva a prendere con un macchinone scuro guidato da un autista. Ma nel tempo lui si era rivelato per quello che era, uno che non faceva caso alle differenze sociali e che andava d’accordo con tutti. Avevamo anche giocato nella stessa squadra di pallone, gioco nel quale Enrico era invece abbastanza scarso. Era stato un compagno di squadra leale e altruista, naturalmente con la fascia di capitano. Un bravo ragazzo, un tipo a posto, direbbero nelle traduzioni dai libri americani. Anche trasgressivo al punto giusto, omertoso coi compagni e nonostante tutto abbastanza di sinistra. Eppure, quella certa inclinazione politica che io e Enrico condividevamo con Esti era anche qualcosa che in un certo senso ce lo allontanava, perché ci spingeva a non simpatizzare tanto con la gente di successo ma a parteggiare di più per quelli che non ce l’avevano fatta. Penso che consistesse solo in questo la distanza da Esty. E penso anche che Esti ne soffrisse un po’. Quell’estate aveva chiesto al padre come premio per la maturità di poter ospitare alcuni amici nella loro villa di Cap d’Antibes. Sperava di avere le chiavi e usare la casa come avrebbe voluto, ma il padre disse che volentieri lui e la mamma avrebbero ospitato alla Sorcière tutti gli amici che volevano. La cosa era un po’ diversa da come se l’era immaginata Esti, con lo stereo a mandare Pink Floyd a tutto volume fino alle tre di notte, il profumo di marijuana che avrebbe aleggiato sulla spiaggia e l’intrecciarsi di storie e relazioni.
Con i genitori presenti sarebbe stata quasi la stessa storia degli
altri anni: tutti in barca a vedere se il papà prende un tonno, poi tutti a mangiare la bouillabaise da Michel almeno un paio di volte la settimana, i cocktail in giardino con gli amici dei genitori, le giornate interminabili in una spiaggia lussuosa e asettica dove si rincontravano rampolli di varie provenienze europee che pur conoscendosi da anni non erano mai riusciti a diventare amici.
Così chiedeva a noi, ci chiedeva per favore di salvarlo da un disastro: la lista degli invitati l’aveva fatta sua madre, ma lui stava negoziando con la famiglia le presenze nel “gruppo di Cap d’Antibes”, stava disperatamente cercando di abbassare la media dei bellimbusti e degli eredi e voleva mettere insieme un gruppo di gente simpatica per fare una vacanza normale. Ci spiegò che normale per lui significava mangiare la pizza nella carta seduti sulla spiaggia e ci giurò che per lui sarebbe stato già un sogno, se pensava a come aveva passato le sue precedenti diciannove estati. Ci disse che se non avessimo accettato lo avremmo costretto a passare due settimane con Olivier, un teenager ossessivo-compulsivo di Charleroi che ogni sera metteva la stagnola sullo spazzolino da denti e dormiva in pigiami di seta che al mattino ripegava accuratamente e riponeva in un sacchetto realizzato con una stoffa identica al pigiama. E in genere in una vacanza di due settimane cambiava quattro pigiami.
Comunque, anche senza Olivier - diceva Esti - la cosa non si prospettava molto allettante: c’erano due o tre ragazzi o ragazze che venivano dall’estero, figli di imprenditori o banchieri, amici dei genitori. All’idea di passare dei giorni con dei primi della classe, con dei giovani ed educati aristocratici, per di più sotto gli occhi dei genitori di Esti, eravamo esitanti. Ma lui insisteva: c’erano delle ragazze, anche. Amiche di quella psicopatica di sua sorella, diceva. Questa sorella era la famosa Nadine che studiava in un collegio a Ginevra e che nessuno aveva mai visto, ma si diceva che fosse bellissima, tutta sua madre, ma ancora meglio. Lo aveva detto il nostro compagno Venturini che l’aveva vista a una festa e lo sapeva benissimo Enrico, che era stato diverse volte a casa di Esti e aveva visto le foto. Insomma, Nadine sarebbe venuta anche lei a Cap d’Antibes a festeggiare il suo
diciottesimo compleanno insieme a due sue compagne del prestigioso collegio svizzero.
Nella nostra vacillante autostima e non essendo particolarmente estroversi o spigliati, ci immaginavamo la scena: le tre giovani pulzelle della migliore borghesia europea che ci guardavano con quell’aria di sufficienza un po’ interrogativa, come dire, ma cosa ci fanno qui quei due. Non erano certo le disinibite autostoppiste spagnole che avevamo fantasticato di incontrare on the road.
Considerammo tutte le garanzie di Esty, una vacanza in un bel posto senza grandi spese, l’esperienza nuova. Forse anche un po’ il timore di Enrico di lasciare Esti da solo, dal momento che già Venturini aveva declinato l’invito. E le nostre famiglie che sembravano entusiaste della proposta, sapendoci al sicuro anziché sfreccianti sulle moto per insondabili direzioni. Alla fine accettammo di andare, ma non rinunciammo alle moto, che in quel caso potevano anche diventare una salvezza e garantirci una partenza improvvisa se le cose si fossero messe in modo sgradevole.
III - luglio-agosto 1973
La Sorcière più che una villa pareva un albergo, sia per le dimensioni sia per il viale d’accesso con i lampioni che finiva in un piazzale di ghiaia gialla.
C’era un porticato con un ingresso abbastanza maestoso. Sembrava un po’ in stile coloniale, c’era tanto legno: grandi travi nei soffitti e parquet di doghe gigantesche, tirate a lucido. Alle spalle della casa, verso il mare, si intravvedeva una piscina e un gazebo bianco. Tutto intorno un praticello come il green di un campo da golf, dal quale
spuntavano qua e là delle palme washingtonia che sembravano finte da tanto che erano sane e pulite.
La madre di Esty ci venne incontro molto sorridente, salutò Enrico con un certo misurato affetto e poi, rivolgendosi a me, si disse felice di conoscermi. Aveva una pronuncia francese, e mi fece subito una grande impressione perché era strana e bella nesso stesso tempo. Aveva occhi e capelli castano chiaro. Niente di eclatante, nel suo insieme: gli occhi erano piccoli, un po’ all’ingiù, il naso era un po’ gobbo, eppure la bellezza era smagliante, il sorriso luminoso, il fisico energico e slanciato che comunicava armonia e benessere. Nonostante fosse magra, quasi senza seno e ben lontana dall’immagine materna (o forse proprio grazie a questa lontananza), la Signora Chantal ebbe su di me l’effetto di risvegliare un Edipo assonnato, e si capiva benissimo che anche Enrico subiva il fascino discreto della moglie francese del Commendatore.
Nel corso della giornata arrivarono anche gli altri tre amici di Esty. Dissi a Enrico che sembrava l’inizio di una barzelletta: ci sono un francese un tedesco e un italiano. Una italiana, anzi, che poi era una cugina dei Braida e che si chiamava Sabina. Il francese era un compagno di regate di Esty e si chiamava Guy-Jean, mentre il tedesco si chiamava Hugo Honegger (si presentò con nome e cognome) ed era un cosiddetto amico di infanzia di Esti, ma più che altro il figlio di amici dei genitori di Esti.
La signora Chantal si affrettò a tranquillizzare Sabina sul fatto che fosse l’unica femmina. L’indomani sarebbe arrivata Nadine con le sue amiche. Sabina era iscritta al primo anno di medicina. Tirò fuori dalla borsa cinque o sei libri, evidentemente doveva studiare o voleva leggere.
Mi restò abbastanza simpatica perché sfotteva Esty chiamandolo “Golden Boy” oppure “il principe” e c’era dentro una critica sociale, anche se si capiva chiaramente che tra i due c’era simpatia.
Enrico, in un inglese appena sopra il basic, cercava di spiegare a Hugo Honegger l’argomento della sua tesina di quarta liceo, tentando di esibire le cose più notevoli un una specie di tenzone con il coetaneo
teutonico, che interloquiva pacato e ordinato.
Era proprio come ci immaginavamo i tedeschi: la sfumatura alta da ufficialetto della Wehrmacht, i pantaloni giallo senape ben stirati, le scarpe da barca quasi nuove e una t-shirt blu dell’Università di Heidelbergh sui cui spiccava l’incarnato bianco roseo. Peccato che i capelli non fossero proprio biondi, altrimenti sarebbe stato l’archetipo perfetto, ben diverso dai tedeschi che avevamo conosciuti nei viaggi del gemellaggio da liceali, spettinati, barbuti e intellettuali, che suonavano nei gruppi rock e viaggiavano con lo zaino per l’Europa vagheggiando di rivoluzioni proletarie, di pratiche steineriane e ritorno alla natura.
Quelli ci erano sembrati più avanti di noi, mentre il povero Hugo sembrava uscito da un dépliant di una scuola per ricchi degli anni sessanta. Anche il suo inglese non era eccellente, ma mischiato con la pronuncia tedesca risultava ancora meno chiaro.
Poi Enrico mi aveva detto che parlavano di macchine volanti: il giovane wagneriano era in realtà un appassionato di aeromodelli che voleva fare l’ingegnere aeronautico. Beato lui che a vent’anni appena compiuti sapeva già a che facoltà iscriversi e che aveva già un’idea di quello che sarebbe diventato. Sembrava un essere noioso ma innocuo, con cui sarebbe forse stato difficile entrare in confidenza.
I letti della Sorcière erano molto comodi ma passammo lo stesso una notte agitata, a commentare sulle persone: Sabina simpatica, Hugo noiosissimo, il francese era sparito subito, non si era quasi visto in faccia. Magari era timido, o magari era infastidito, o forse era stronzo. La madre di Esti, accidenti, la madre di Esti. E ospitale, gentile, anche. Vedremo il Commendatore. Mi fa soggezione, disse Enrico. Non c’è ragione, gli dicevo. E lì a discutere sulla differenza tra rispetto e soggezione dove, tra un filosofare e l’altro, cercavo di mettergli davanti agli occhi anche quella specie di soggezione che lui provava nei confronti di Esti. Logicamente cercavo di dirglielo con delle perifrasi per non offenderlo, poi se voleva capire avrebbe capito. E secondo me lo capiva bene, soltanto che Enrico ha nella sua natura un po’ di paura congenita.
In genere viene definito “un timido”. È un termine generico, che dice
poco o niente, ma può andar bene giusto per far capire a grandi linee il suo comportamento. Intendiamoci, non voglio dire che io sono un leone, anzi, anch’io faccio parte di quelli che stanno al loro posto, che non sono tanto portati per l’avventura e la trasgressione, nonostante i nostri miti generazionali.
Ma siccome siamo amici da un bel pezzo, ho avuto modo di constatare molte volte, anche da ragazzini, che io vicino a Enrico mi sentivo più forte e più intraprendente. Un po’ più monello, da bambini. Forse è per questo che siamo rimasti amici per tutti questi anni: io lo trascino nelle avventure, per così dire, e lui mi trattiene dal fare passi troppo azzardati. Ci compensiamo.
Quando tra due amici funziona così, non è che i caratteri si scontrino. Anzi, è come se si riconoscessero e cominciassero a collaborare. Per questo dico che Enrico è una parte di me. Perché quando fa quelle sue proposte paurose e tira fuori le sue caute riserve, e quando esita nel prendere una decisione, e alla fine rinuncia con un senso di scampato pericolo io, anziché arrabbiarmi e vederlo come una palla al piede, lo capisco perfettamente e penso che forse in fondo le sue ragioni siano già presenti anche dentro di me. Penso che la cosa sia speculare, perché lui una volta mi ha ricordato un episodio dell’infanzia, quando c’era da saltare un certo fosso (proprio come quello proverbiale) pieno d’acqua e molti bambini lo saltavano mentre lui esitava, pensava di non farcela. Dice che lo saltò per merito mio. Dice che se non fosse per me non avrebbe mai saltato nessun fosso.
Comunque passammo una notte abbastanza inquieta, un po’ sballottati dalla situazione insolita e con l’ipotesi che il tutto si sarebbe risolto un paio di settimane un po’ noiose con compagni che non ci eravamo scelti.
La mattina verso le sette si sentirono i primi movimenti nella casa. Enrico dormiva e io scesi da basso; in cucina c’erano dei croissant caldi e delle uova sode. C’era una domestica gentile che stava preparando il caffè e delle spremute. Chiesi se la signora Chantal fosse già scesa perché pensavo di doverla aspettare per la colazione, ma la domestica mi disse in un italiano forestiero che la signora era già uscita da un bel
pezzo. Che erano libera tutti far colazione quando la voleva. Questa cosa del “liberi tutti” non mi dispiaceva, che nessuno fosse obbligato a fare niente.
Parlammo un po’, si chiamava Agnès ed era catalana. « Signori Braida Bravissimi, generòs. Lei amico di Esti, vero? Esti bravissimo. Tutti bravissimi. Nadine bravissima, una mica entremaliada... (scuote la testa mentre sorride) io vista appena nata, cinque giorni piccola nata, signora Chantal venuta qui ».
« Grazie, signora Agnes
« Non Signora, solo Agnès.
« Va, bene, come vuole » .
Mangiai un croissant, presi un caffè e poi uscii nel giardino a fumare una sigaretta continuando a pensare a quale potesse essere il significato di entremaliada. La parola mi sembrava che evocasse tante cose: qualcosa che riguardava l’interiorità, una malìa che viene da dentro, anche una malattia, anche un’entreneuse, anche qualcosa di simile a intrappolata, invischiata nelle maglie di una rete per un arcano sortilegio. A distogliermi arrivò il francese e mi chiese se lo potevo accompagnare a Juan-Les-Pins a comperare delle vernici per la barca.
Mentre filavamo su Boulevard Maréchal Juin ancora quasi vuoto, il francese guidava taciturno la sua Mehari color sabbia. Anche il cielo era color sabbia, ma luminoso. Il sole era già sorto illuminando tutto con una luce rosa spento, preludio alla giornata calda. Ricordo benissimo le luci sui muraglioni alla nostra destra. Molte volte in località esclusive ero passato sotto muraglioni di quel tipo: dietro c’erano sempre grandi alberghi o colossali ville, e io spesso mi ero trovato a fantasticare come vivessero quei ricconi che le abitavano. Bene, questa volta quel mio desiderio era stato esaudito, perché la Sorcière anche se non era circondata da muraglioni era senza dubbio una di quelle ville che io avevo visto solo nelle riviste di architettura o nei film.
Mentre pensavo guardavo il mare, il profilo della collina puntinata di case che si schiacciava come una polenta e finiva appuntita alla Croisette, poi mi girai a guardare il francese e gli offrii una sigaretta.
Non aveva voglia di parlare e io non sapevo cosa dire. Arrivammo che il negozio era ancora chiuso, così andammo a prendere un caffè. Gli chiesi se era preoccupato o arrabbiato oppure se fosse di carattere riservato. Venni a sapere che era di Perpignan ma che la sua famiglia si era trasferita ad Antibes. Mi disse che in genere di carattere era gioviale e che era triste perché era stato piantato in asso da quindici giorni dalla sua fidanzata che si chiamava Catherine e aveva due anni più di noi. Si rendeva conto di non essere di gran compagnia. Aveva degli occhi un po’ ironici, sembrava che ci fosse in lui una vena di disilluso sarcasmo, almeno per quel poco che riuscivo a capire, più dagli atteggiamenti che dalle parole. Mentre compravamo le vernici Enrico stava facendo colazione insieme a Sabina, Esti e il giovane scienziato.
Esti, con una moderatissima ironia, aveva cominciato a paventare l’arrivo di Nadine, la piantagrane psicopatica. Diceva che aveva il potere la rovinare la vacanza. Sabina difendeva Nadine, dicendo che bastava semplicemente ascoltarla e volerle bene. Ammetteva, sì, che non fosse una persona facile. Ma aveva qualcosa di straordinariamente geniale. Hugo ascoltava silenzioso le traduzioni che Sabina gli faceva. Enrico cominciava a chiedersi come fosse questa Nadine e tutto questo serpeggiare di attesa gli provocava una curiosità non disgiunta da una certa preoccupazione, che contribuiva già a creare intorno a questa fantomatica Nadine, di anni quasi diciotto, un avviso di allure, una preannunciata di aura di mistero, un’anticipazione carismatica. Quando poi sentì la signora Chantal dire ad Agnès “mi raccomando la stanza di Nadine, cerchiamo di non contrariarla” la preoccupazione si concretizzò in domanda: chi sarà mai, che tutti la temono?
IV - agosto 1973
La giornata era passata tranquillamente, avevamo fatto un bagno, letto qualcosa, Hugo scattava delle foto con una Hasselblad montata sul cavalletto. Poi io, Esti e Hugo eravamo andati con Guy-Jean a vedere come procedevano i lavori del gozzo che stava restaurando in una piccola rimessa appena fuori Juan Les Pins. Enrico invece era rimasto alla Sorcière con Sabina. Avevano cominciato a parlare di libri, di film e di dischi, e come spesso accade avevano scoperto di avere passioni in comune, come per esempio Marai, Conrad, Salisbury degli Uriah Heep, In the Wake of Poseidon dei King Crimson, De André, i supereroi della Marvel, la senape, la zuppa inglese e le fotografie di Cartier Bresson. Forse non l’ho ancora detto, e quando ho parlato di Enrico e della vecchia faccenda del saltare il fosso ho tralasciato di dire che lui mi ha restituito il favore, perché potrei dire che se non avessi conosciuto Enrico non avrei mai letto un libro. Quando in seconda liceo leggevamo i Malavoglia lui mi mise in mano la Metamorfosi di Kafka. Quando studiavamo a memoria il Coro dell’Adelchi lui mi fece leggere La terra desolata di Eliot; quando ci portavano a teatro a vedere La locandiera di Goldoni lui mi disse di leggere Beckett e Ionesco. Mi diceva: in letteratura c’è tutto, c’è talmente tanta roba che ognuno può trovare il suo libro. E non si tratta solo di leggere libri, ma proprio di un certo amore per la conoscenza che Enrico ha di natura, come una curiosità che lo spinge a leggere qualunque cosa e poi da quella lettura gli sorgono altre curiosità. Io non ero un bravo studente, e quando in prima liceo vedevo che lui viaggiava abbastanza veloce e io facevo fatica a stargli dietro mi veniva la tentazione di lasciarlo andare, ma lui, anziché passarmi i compiti, ha cominciato a trasmettermi una certa idea dello studiare come di una cosa che poteva anche non essere brutta e noiosa, e in seconda liceo mi è scattato qualcosa in testa, per cui sono diventato un allievo discreto. Anche Enrico non è mai stato tra i primi, ma a mio modo di vedere
la sua intelligenza brilla più di quella di tutti gli altri, compreso Esti che però riscuote sempre risultati altissimi qualunque cosa si metta a fare. Esti quando fa le cose pensa sempre al risultato da ottenere, mentre Enrico si butta nelle cose alla rinfusa, seguendo dei sentieri che lo portano di qua e di là, e in questo sta la sua forza simpatica, il fatto che sia simpatico a tutti e non faccia paura a nessuno.
Verso le cinque del pomeriggio eravamo tutti alla Sorcière quando squillò il telefono. Era Nadine. Lei e le sue amiche erano ferme a Grasse per un guasto alla macchina. Chiedeva, anzi, intimava che qualcuno le andasse a prendere. La signora Chantal disse a Esti di prendere la macchina grossa (la signora intendeva una Volvo Station Wagon) e andare a Grasse.
Esti cominciò a dire che stavolta Nadine aveva superato se stessa cominciando a creare problemi ancora prima di arrivare. Poi, imprecando, andò nel garage e Chiese a Enrico di fargli compagnia nel viaggio.
Vedemmo sparire nel vialetto la Volvo con i nostri due amici. La sera del Midi stava quasi per espandersi e i pini marittimi insieme alla macchia mediterranea cominciavano a prendere riflessi rossi del sole in discesa mandando in giro un profumo pervasivo e sontuoso che a Cap d’Antibes sembrava particolarmente buono.
Enrico sostiene che il profumo e i paesaggi tra la Costa e la Provenza visti dal finestrino della macchina mentre lo stereo mandava un greatest hits di Simon & Garfunkel contribuirono a creare quel sortilegio che sarebbe durato per tutta la vita.
E’ un vero peccato che io non sia stato presente al momento in cui quella malìa si realizzò, ma mi bastò vedere la faccia di Enrico scendere dalla macchina per capire che quell’individuo era stato trasfigurato.
E non si poteva dargli torto, perché quando anche Nadine scese ne restai affascinato anch’io, e per un attimo, da adolescente, ebbi la certezza di trovarmi davanti la ragazza perfetta, quella che ti sogni come la protagonista della tua storia d’amore. Lo so, sono cose che in genere sognano di più le ragazze, mentre gli individui di sesso maschile, almeno nei primi anni settanta erano più inclini a fantasie
di carattere erotico in cui le protagoniste erano delle maggiorate un po’ circensi.
Anche in questo devo ringraziare Enrico, che tra l’avermi obbligato a leggere l’Idiota di Dostoevskij e l’avermi costretto a delle serate con i film di Lelouch, alla fine mi ha convinto a passare dalla parte dei sentimenti. Non è che in prima e in seconda liceo, anche lui come tutti o quasi, non avesse nascoste in camera una decina di riviste pornografiche. Solo che lui ad un certo punto (mi sembra fosse l’estate tra la terza e la quarta liceo) le abbandonò di colpo, e aveva assunto verso di noi un’aria un po’ compassionevole, faceva paragoni tra Rosa Luxembourgh e Jane Mansfield, sproloquiando di ruoli femminili e maschili, di rispetto, di civiltà. E dicendoci che anche quello era politica, e che comunque ci stavamo fottendo da soli, diceva insomma che guardare quella roba era una grossa cazzata da tutti i punti di vista. Il risultato fu che dopo averlo preso in giro, alla fine, mese dopo mese, anche Esti, io e gli altri cominciammo a riconsiderare la faccenda. Ecco, credo che questo contribuisca a definire un po’ meglio la forza di Enrico e anche le sue intenzioni riguardo alla vita. Perché il fatto che non fosse un falco lo faceva sembrare subito un piccione, ma tutti si dimenticano che esistono migliaia di volatili meravigliosi, senza offesa per il piccione.
Per la verità, in quel momento, cioè mentre Nadine scendeva dalla macchina, Enrico sembrava proprio un piccione. Gli lanciai uno sguardo veloce, lì nel piazzale della Sorcière. Sembrava un piccione con lo sguardo fisso e inebetito in direzione di Nadine. Lei portava jeans e una maglietta bianca, aveva i capelli legati con un elastico ma la sua bellezza era smagliante, era una specie di creatura mitologica, una ninfa. Si capiva benissimo che non poteva passare inosservata a uno sguardo maschile. Credo che lei lo sapesse, anche se sembrava che non lo sapesse. Scese dalla macchina insieme alle sue amiche; si capiva che c’era una certa competizione, ma Nadine svettava in fascino. L’altra (si chiamava Lisa) aveva un corpo più atletico e delle forme più decise, da calendario, pensai. Ma Nadine… aveva un nonsoché. Quando scese dalla macchina stava sbraitando contro Esti, diceva che le aveva fatto
venire nausea per come guidava. Mentre io mi preparavo a stenderle la mano e studiavo un sorriso tenebroso per farle un’impressione discreta, lei mi passò vicino senza neanche vedermi e tirò dritta verso la casa portandosi dietro un enorme borsone indiano.
Perché ci sono quelle ragazze che per farti sentire in imbarazzo ti guardano dall’alto in basso. Forse tra i giovani di oggi non funziona più così, o forse la cosa è peggiorata di molto, ma insomma a quei tempi le ragazze carine ti guardavano con un po’ di sprezzante curiosità: cominciavano dalle scarpe e salivano, sfuggendo l’incontro degli occhi. A me è successo un sacco di volte di essermi sentito scartato, non so se per l’abbigliamento, per la magrezza, per la faccia non eccessivamente armonica, per qualche indicatore oscuro che le ragazze usano per capire chi sembri, insomma, chi potresti essere. Nadine invece non ti vedeva proprio. Se avevi la sensazione che ti stesse guardando era perchè il suo sguardo ti attraversava e lei guardava oltre. Naturalmente tutte queste cose le osservai col tempo perché quella sera ebbi solo una folgorazione. Naturalmente anch’io come Enrico ero rimasto abbagliato da Nadine, ma mentre per me sarebbe stata una semplice infatuazione momentanea, di quelle che nella vita capitano diverse volte ed hanno gli esiti più disparati, per Enrico sarebbe diventata una faccenda seria.
Lo capii da come poi in camera mi parlava del viaggio, dei particolari che aveva notato di Nadine: la forma delle unghie, il tono di voce, l’attaccatura dei capelli sulla nuca, il sottile profumo di ... un profumo buonissimo, e quel particolare modo di muovere le mani mentre litigava con Esti. Insomma, erano commenti ben diversi da quelli che ci facevamo di consueto riguardo alle ragazze, che in genere riguardavano le famose curve, le gambe, o in subordine gli occhi, ma spesso usati come eufemismo, nel senso che si diceva “eh, sì, ha dei begli occhi” volendo evidenziare che non disponeva di più esplicite qualità.
Sentii che c’era qualcosa di diverso in quella descrizione così partecipata. Cioè, Enrico si era preso quella che in gergo chiamavamo una sbandata. Io logicamente non potevo che condividere, ma le nostre
divagazioni su Nadine erano già pervase dal senso della sconfitta. Se suo fratello infatti era molto alla mano, e non avresti detto che era un altoborghese, in Nadine si vedeva tutto il sussiego e la prosopopea della figlia di un miliardario.
Verso l’ora di cena telefonò il Commendatore che era in arrivo dall’Italia. Ci aspettava ad Antibes dove aveva prenotato una tavolata per tutti. Il ristorante era naturalmente di quelli sopraffini e la devozione che tutti nel locale riservavano al Commendator Braida e ai suoi ospiti era addirittura imbarazzante per me e per Enrico, che frequentavamo in genere self service e pizzerie. La cena andò liscia, il Commendatore era alla mano, anche se si vedeva che era abituato a comandare. Non era imperioso, chiedeva sempre con grande educazione, ed era gentile con tutti, camerieri, parcheggiatori. Ma quando chiedeva si capiva che era abituato a veder scattare la gente. Anche Esti scattava, e verso suo padre aveva un vago timore, che lui chiamava rispetto della gerarchia. D’altra parte il Commendatore era abbastanza severo, con Esti. La cosa andava diversamente con Nadine. Lei gli teneva testa, c’era stato un battibecco a tavola, riguardo al comportamento di Nadine. Il Commendatore le aveva fatto una gentile osservazione e lei si era subito ribellata, con argomenti poco sostenibili. Dopo un breve dibattito il Commendatore aveva scosso la testa sorridendo e dicendo “sei proprio una vipera”. La cosa era finita lì, e ricordo che Esti aveva chiesto a suo padre cosa sarebbe successo se lui gli avesse risposto così. Era seguito un breve dibattito sull’imparzialità del Commendatore, che la signora Chantal riuscì a stemperare con due o tre aneddoti buffi della vita famigliare.
Mi accorsi che in tutti gli aneddoti raccontati qualche membro della famiglia, a turno, era protagonista di un evento buffo, di qualche smarrimento di chiavi, di qualche capitombolo al buio. Ma Nadine ne uscì indenne, come se perfino nella narrativa di famiglia lei fosse riuscita a mantenersi un’aura di rispetto. A parte la polemica, la serata era andata bene, ma al ritorno cominciarono i guai. Io salii a bordo con Esti, mentre Enrico era andato con il Commendatore e la moglie.
Le tre ragazze salirono sulla nostra macchina. Esti cominciò
subito ad attaccare Nadine per via del comportamento che aveva avuto col cameriere. In effetti, anch’io avevo notato che “la vipera” era stata maleducata e il Commendatore infatti l’aveva ripresa, con quel risultato che ho detto poc’anzi. Ma quella di Esti non era una ramanzina paterna, ma una mitragliata di accuse.
La discussione era poi proseguita nel salone della Sorcière, dove Esti aveva cercato di coinvolgere tutti noi nel suo litigio con la sorella. La questione si era spostata dal fatto contingente alla più generale visione del mondo: Esti accusava Nadine di non saper stare al mondo, di non rendersi conto della loro immensa e immeritata fortuna, che secondo Esti li “costringeva” ad essere gentili e a non darsi delle arie. Diceva che l’arroganza e il sussiego di Nadine non avevano nessuna ragione e che lei semplicemente aveva un carattere di merda, senza appello. Nadine naturalmente accusava il fratello di non capire niente, a cominciare dal fatto che anche lei era ben consapevole della loro fortuna, e ringraziava per questo iddio o chi per esso, ma non per questo si sentiva in colpa, e non sentiva affatto il bisogno di dover nascondere o giustificare a qualcuno il fatto che lei fosse ricca, come invece faceva Esti, che si vergognava addirittura. Che fino a prova contraria essere ricchi non era ancora un reato e che il papà e il nonno avevano fatto i soldi onestamente, e lei era ben fiera di appartenere a quella famiglia. Hugo non capiva l’italiano, così chiese di spiegargli l’oggetto del contendere e Nadine gli tradusse rapidamente in tedesco la situazione. Probabilmente gli fornì una sua particolare versione dei fatti, perché Hugo guardò Esti e gli disse “Sorry, dear friend, but Nadine is likely to be right” , al che seguì una discussione in cui Esti cercava di farsi spiegare da Hugo quale versione gli avesse fornito Nadine. Dagli occhi liquidi con cui il tedesco guardava Nadine si capiva chiaramente che anche lui ne era innamorato o invaghito. Nadine, parlava benissimo l’inglese e il tedesco, per non dire del francese, e questo aumentava il mio senso di inferiorità. Mi resi conto che Nadine amava la teatralità della scena, credo che non le importasse molto di aver ragione. Voleva che ognuno prendesse posizione e riuscì a coinvolgere Sabina e Guy-Jean, ottenendo il solito sostegno
di Sabina che vedeva la “bellezza primitiva” di Nadine, mentre GuyJean disse laconicamente che Nadine era una stronzetta ricca e viziata, cosa che ne provocò l’immediata uscita di scena. Nadine andò a letto affermando che all’indomani sarebbe ripartita e che il suo compleanno se lo sarebbe festeggiata da sola.
V - agosto 1973
Io e Enrico avevamo assistito alla scena senza prendere parte, come pure le due amiche di Nadine, che si erano addirittura ritirate in cucina a bere del succo di frutta. Quando entrai in cucina per bere dell’acqua, una delle due ragazze mi venne incontro pregandomi di convincere Nadine a non partire. Spiegando la mia estraneità alla faccenda, dissi che Nadine non l’avevo mai vista, prima di quella sera.
La sua amica, Lisa, mi disse che Nadine era una ragazza eccezionale, un’amica fantastica, ma che da lei c’era da aspettarsi di tutto. Erano mesi che organizzavano quella vacanza e il compleanno di Nadine, ma se lei fosse partita avrebbero dovuto tornare anche loro. Non avevano mai visto la Costa Azzura. Lisa era molto più alla mano di Nadine. Dal modo di fare si vedeva che anche lei apparteneva a qualche famiglia ben assestata economicamente, ma al contrario di Nadine si comportava in modo semplice, spontaneo. Sembrava non essere a caccia di nessun atteggiamento, che non volesse sembrare niente di diverso da ciò che era, a meno che non volesse apparire molto rilassata e sorridente. Almeno, questa fu la mia prima impressione, così rimasi a chiacchierare con lei fino a notte tarda. Tra i vari argomenti ci fu naturalmente anche Nadine, ma Lisa la difendeva a spada tratta, affermando che Nadine era una persona meravigliosa ma particolare, che andava presa così com’era. Disse che aveva la diabolica capacità di
dividere il mondo tra coloro che la odiavano e coloro che la adoravano. L’altra ragazza, Esther, che era una francese di Lione, aggiunse però che non si poteva negare che Nadine a volte fosse una gigantesca stronza. Che lei le voleva un gran bene, e provava tanta simpatia, ma questo non le proibiva di dire che Esti aveva perfettamente ragione, che Nadine a volte, cioè, abbastanza spesso, avesse degli atteggiamenti insopportabili, arroganti, una vera e propria enfant gâté. Era certa che dietro questi atteggiamenti si nascondesse la fragilità di Nadine, ma guai a dirglielo. Quest’altra ragazza ci tenne a dirmi che era appassionata di psicologia, e che quella sarebbe stata la sua carriera.
I giorni successivi trascorsero con un copione abbastanza fisso. Cercavamo di distrarci, ma che fossimo in spiaggia o in giardino, a Juan-les-Pins a prendere un gelato o nelle serate sotto la veranda ad ascoltare musica e a giocare a carte, lo sguardo di Enrico finiva inevitabilmente su Nadine, cercando di guardarla quando lei non se ne accorgeva; anche solo di sfuggita, l’occhio andava sempre a Nadine. Era chiaro che anche Hugo era innamorato di Nadine, lo avevo subodorato già la sera della litigata, quando il giovane teutonico aveva preso le sue parti senza neanche capire la discussione. Ora si vedeva benissimo: anche il suo sguardo dopo aver girovagato sulle palme, sul mare, sui gabbiani e sul suo immancabile libro, planava su Nadine. Ma lui almeno aveva l’ardimento di farle la corte. Si sedeva sempre vicino a lei, cercava di richiamare sempre la sua attenzione ed aveva verso di lei molte attenzioni che a noi sembravano romanzesche: le apriva la porta della macchina, le cedeva il passo, le porgeva il braccio, si adoperava solerte per esaudire ogni suo desiderio. Hugo saliva e scendeva le scale della Sorcière per fare favori a Nadine: vai a prendere quel libro, portami la borsa, vai ad Antibes a comperarmi lo smalto per le unghie. Salvo poi, tornando da Antibes, vedersi redarguito per aver preso il rosso corallo e non il rosso geranio. Hugo argomentò che forse, siccome il francese géranium in tedesco fa geranie, pronunciato ghéranie, forse la commessa aveva capito male. « Kannst Du lesen? » gli aveva chiesto Nadine sventolandogli davanti il flacone con la scritta N. 15 - Géranium.
In breve Hugo era diventato la vittima, a volte quasi lo zimbello di Nadine, ma lui sembrava non rendersene conto oppure accettare supinamente quel ruolo, accontentarsene, ottenendo in cambio una considerazione forse non ottenibile in nessun altro modo. Al pomeriggio io, per distogliermi dal magnetismo di Nadine andavo ad aiutare Guy-Jean alla sua rimessa, dove era alle prese con la barchetta da rimettere a posto. Enrico invece restava a infliggersi il supplizio. Stava sempre dov’era anche Nadine. Magari a distanza, leggendo un libro o chiacchierando con Sabina e Esti, ma sempre marcando Nadine a vista.
Mentre ero alla rimessa di Guy-Jean però era successo un fatto significativo, da segnare sul diario di vacanza. Anzi, due. Il primo è che Lisa aveva chiesto di me. Ma io non sono il protagonista di questa storia, quindi, anche se la cosa era per me di una certa rilevanza, darò maggiore risalto al secondo fatto: erano andati in spiaggia, Enrico, Sabina, Esti e le tre collegiali, come ormai le chiamavamo. Le collegiali un po’ distanti, nel bagnasciuga. Ad un certo punto, verso il tardo pomeriggio, Nadine era venuta verso Enrico, che stava con Esti e Sabina, a proporre di andare a fare un bagno alla Batterie, vicino a Cannes, lontano dagli ombrelloni, dai bambini e soprattutto dai genitori.
Arrivati alla spiaggia, le collegiali avevano tirato fuori l’hashish e le cartine e avevano cominciato a fumare. Anche Esti aveva fumato, mentre Sabine no. Enrico solo un tiro, che era sì e no la terza o la quarta canna che gli passava nelle mani, e temeva di fare una figura da idiota rimanendo spalmato sull’asciugamano o peggio ancora collassando come un totano spiaggiato. Poi le collegiali si erano tolte il costume, anche il pezzo di sotto, benedetta Francia, aveva detto Enrico. Pensa fare la stessa cosa a Sestri Levante. Qua invece era normale. Le persone passavano e non guardavano neppure. Anche Esti si era tolto il costume, ma Enrico aveva tentennato in silenzio e alla fine era entrato in acqua con il suo costume olimpionico Speedo, e anche Sabina si era tenuta il pezzo di sotto, che a noi italiani ci ha rovinati il Vaticano. Le collegiali giocavano, si spruzzavano l’acqua, ma Enrico non aveva
potuto guardare niente, i suoi occhi erano come magneti attratti dalla polarità delle collegiali, da Nadine soprattutto, ma erano trattenuti, rivolti all’orizzonte verso la vastità del mare, imbullonati dalla volontà ferrea di Enrico, che era quella di non sembrare un provinciale. Si era imposto di non guardare mai le ragazze, di non girare mai la testa dalla loro parte. Mentre mi raccontava queste cose, io mi rammaricavo per aver passato il pomeriggio nella rimessa a consolare Guy-Jean, e di essermi perso quel ben di dio. Non è che io sia un ardito, non so come mi sarei comportato, ma avrei voluto esserci. Certo la spregiudicatezza cosmopolita delle collegiali a noi, che effettivamente un po’ provinciali lo eravamo, faceva una specie di soggezione. Ci dava un senso di inferiorità. Le ragazze che fanno il bagno nude le avevamo viste solo nei film o immaginate nelle fantasie adolescenziali. E adesso che prendevamo atto che esistevano veramente nella realtà, cosa facevamo? Enrico rispose alla mia domanda allargando le braccia.
In ogni caso, pur non avendo mai guardato le ragazze, perse più di un quarto d’ora a descrivermi la bellezza di Nadine, che pareva una ninfa di quel certo accademico francese di cui non ricordava il nome. C’era un’illustrazione della Nascita di Venere nel libro di mitologia del liceo. E Enrico si era innamorato. Non di Venere, della ninfa alla sua destra. Era la più bella donna del mondo, l’ideale di Enrico. Bene, Nadine era come quella, ma mille, diecimila volte meglio.
Come spesso accade, l’innamoramento di Enrico stava assumendo le forme deliranti dell’idealizzazione. Ti dimentichi che è una grande stronza attaccabrighe, gli avevo detto. Ma Enrico sosteneva che era impossibile. Era certo che sotto quella scorza giovanile, chiaramente un atteggiamento, si nascondesse un’anima celestiale, uno spirito dolcissimo, un cuore pronto ad aprirsi a colui che ne avesse trovato la chiave. Povero Enrico, lo vedevo struggersi lungo una strada che pensavo sarebbe terminata contro un muro.
Alla sera facemmo una specie di cena all’aperto nel giardino della Sorcière. Siccome Nadine era vegetariana la signora Chantal e Agnès avevano preparato due tavoli zeppi di vegetali. Poi c’era un piccolo forno di pietra che aspettava alcuni pesci, nascosti sotto un
asciugamano. Basta che non li veda Nadine, aveva detto la signora. Ha ragione Nadine, povere bestie, aveva detto Agnès.
Poi Nadine era sembrata fregarsene dei pesci e aveva cominciato a fare un discorso un po’ campato in aria, ma che se avessimo saputo leggere tra le righe avrebbe potuto cambiare lo sviluppo della faccenda. Aveva cominciato lamentando il fatto che la compagnia non si amalgamava, che lei e le sue amiche venivano “isolate” da noialtri. Che se fossimo stati persone normali avremmo fatto delle scampagnate, dei picnic, avremmo preso le moto (c’erano solo la mia e quella di Enrico, ma lei evidentemente le aveva notate) e avremmo fatto dei bei giri, tipo andare a trovare Tonton Martin a St.Tropez e tante altre belle cose. Certo, che se c’era gente come Sabina & Company che se ne stava in disparte, snobbando la compagnia e le iniziative… Non so a chi si riferisse con quel “Company”, forse a me e Guy-Jean che eravamo stati fino a sera nella rimessa? Mentre Nadine sproloquiava sul mancato senso di collettività e di reciprocità, sull’asocialità che secondo lei caratterizzava il nostro gruppo, la potevo finalmente osservare liberamente. Stava tenendo banco, era logico che tutti la guardassero, come al solito.
Notai che nel fare la sua arringa aveva guardato due o tre volte in direzione di Enrico, come se la reprimenda fosse diretta in particolare a lui. Allora osservai Enrico per vedere la sua reazione e notai che stava tenendo lo sguardo basso, verso il pavimento. Poi ad un certo punto si era alzato ed era uscito.
In ogni caso l’esternazione di Nadine produsse un effetto deteriore. Dal giorno dopo, le distanze si ampliarono ulteriormente. Nel timore di dispiacerla, Enrico sembrava quasi evitare Nadine. Se la vedeva arrivare, cambiava stanza o si allontanava, se ne tornava in camera a leggere un libro. Conoscendo tutto quello che è successo dopo, posso affermare che il comportamento di Enrico offendeva Nadine. Forse le toglieva quel protagonismo che si aspettava di ottenere ovunque, e che avrebbe dovuto ottenere massimamente da Enrico, che era innamorato di lei, il quale invece si allontanava quatto quatto, evitando quello che lui pensava sarebbe stato uno scontro, o ancora peggio: uno
scambio di metalinguaggi ed allusioni con cui sostanzialmente Nadine gli diceva: che ci fai qui? Di gente come te non so cosa farmene. A me sembrava che i due si dovessero parlare, ma appena prospettavo l’ipotesi a Enrico, lui si diceva certo che Nadine avesse i suoi interessi ben altrove, che lo sapeva benissimo che Nadine si riferiva ad altri, che lui, che noi due, lì alla Sorcière contavamo come il due di picche, che manco esistevamo. Cercai di scrollarlo, che il suo atteggiamento mi sembrava un po’ troppo depressivo e rinunciatario, ma vedevo che ormai, dentro di lui, la faccenda di Nadine si stava ingarbugliando in una specie di amore-odio, come nelle migliori letterature d’appendice.
VI - agosto 1973
Come in tutti gli atteggiamenti patologici, i sintomi tendono a diventare cause di nuovi eventi patologici, in una specie di ricorsività dello stesso schema. Così succedeva che più Enrico evitava Nadine, più Nadine diventava la Nadine arrogante e odiosa che appariva di frequente. E “quella” Nadine era proprio quella che respingeva Enrico, facendolo a volte fuggire letteralmente in camera, per poi stare magari a guardarla dalla finestra per un’ora.
Enrico tra l’altro cominciava a maturare dei sospetti un po’ paranoici: Nadine era innamorata di qualcuno di noi. Uno che ovviamente non era lui. Poteva essere il crucco servile, oppure Guy-Jean che si faceva i cazzi suoi… o forse ero io? Gli chiesi se era ancora sotto effetto della canna fumata sulla spiaggia. Lo sapeva benissimo che Nadine piaceva anche a me. Ma se mi piacesse così tanto, ci avrei già provato. Gli avevo detto così, e forse era vero. Cioè, Nadine era una vera bellezza, ma quanto a simpatia, almeno a quell’epoca, ne sprizzava davvero poca, e quella poca la riservava alle amiche. Non immaginavo neanche
lontanamente che Nadine fosse diversa, tanto, tanto diversa da quello che si vedeva quell’estate a Cap d’Antibes.
Lo dico con cognizione di causa, perché parlai tanto di Nadine con Lisa. Con Lisa era facile fare ogni cosa. Mi ci trovavo così bene che spesso ce ne andavamo a chiacchierare in fondo al giardino, da soli. Sua madre era un’avvocato di Milano, socia in uno studio dove lavoravano una trentina di avvocati. La figura della madre l’aveva influenzata: emancipazione, competizione e il peso di essere il sesso forte, perché il padre era un gran brav’uomo, ma un topolino in confronto alla madre. Parlava di sè senza remore, diceva anche della sua difficoltà di lasciarsi andare, dal momento che la madre la voleva con la schiena dritta anche di notte. Che aveva avuto qualche esperienza sessuale ma mai fino in fondo, e non troppo soddisfacente, che forse lei era un po’ troppo maschile, chissà. Le dissi che se lei era maschile io probabilmente ero omosessuale. In quel momento lei mi piaceva molto. Aveva cominciato a prendere la pillola pensando di stare con un ragazzo, a Ginevra. Poi era andata male, lui era uno stronzo. Così sto ancora prendendo la pillola per niente. Per niente! Capisci? E non mi nascondeva che le piacevo, ma che se non mi andava non c’erano problemi. Ma dove ero vissuto fino a quel momento? Ma perché anche per Enrico non si prospettava una via facile come la mia? La signora Chantal era partita con il marito, Agnès non sarebbe ritornata che dopodomani mattina, e finalmente c’erano i Pink Floyd nello stereo e quel caratteristico profumo aleggiava tra il salone e il porticato. Quà e là si sentiva tossicchiare.
Ancora oggi, a distanza di tanti anni, maledico il destino che pure con me quella notte fu così tanto generoso. Cioè, non so se si possa parlare di destino, anche se… ma sì, forse è proprio il destino che decide di mettere lì quella certa persona fatta in quel certo modo, con le sue paure e le sue chiusure. Decide di metterla proprio lì, accanto all’altra, con le sue paure e le sue chiusure. E poi c’è il libero arbitrio dei due, almeno così dovrebbe essere.
Così stava accadendo tra me e Lisa, che grazie a lei stavamo passando sopra a delle paure. Ci sono le due persone, e le paure di
entrambi sono lo scoglio che c’è tra loro. Nel caso di Enrico e Nadine lo scoglio era troppo grosso.
Mentre ero in giardino con Lisa c’era stato un altro incidente: Nadine aveva proposto un bagno di notte. C’era caldo, il mare calmo, la luna e tutto il resto, c’era un buon profumo di maquis nell’aria e sopra una luminaria di stelle con qualche stratocumulo dai bordi brillanti. L’idea era perfetta, ma Esther preferiva rimanere a casa e Esti pure. Nadine si era arrabbiata. Esti mi disse che non ne aveva voglia, ma che se c’eravamo io ed Enrico, che Nadine andasse pure dove voleva. Ci pregava di tenerla d’occhio, che non facesse cazzate tipo ubriacarsi o farsi troppe canne. Che non annegasse e che non si mettesse a litigare con qualche estraneo eccetera. Mi resi conto per la prima volta che l’astio di Esti verso Nadine celava anche una sorta di apprensione genitoriale. Ora che i genitori non c’erano, toccava a lui occuparsi di Nadine. Che andassimo pure, che rimaneva Esther a fargli compagnia. Lo disse strizzandomi l’occhio, come a farmi capire che non gli sarebbe dispiaciuto rimanere in casa con Esther. Così ci preparammo. Guy-Jean tirò fuori una chitarra, Io e Lisa, Sabina, Hugo e Nadine. Stranamente vidi Enrico rimanere seduto. Mi avvicinai per chiedergli ragione di quello strano comportamento. Mi disse che non si sentiva bene, che aveva i piedi e le mani fredde. Sarà perché hai fumato, gli dissi. Tirati su, che Esti vuole campo libero con Esther, andiamo al mare, vieni, che la tua Nadine stasera mi sembra riconvertita al buon umore. Cazzo, guarda che luna che c’è. Ma quando ci ricapita una serata come questa? Ma lui rimaneva freddo, ostile, rassegnato. Parli bene tu, che hai rimorchiato la Lisa, e per te sarà una gran bella vacanza. Ma mettiti nei miei panni. Non mi va, non me la sento.
Forse in quello c’è la più grande differenza tra Enrico e me. Forse tra Enrico e gli altri in generale. Che io, che noi, in generale, in qualche modo ci buttiamo a fare molte cose senza gran cognizione, sperando in un esito che dipende da tanti fattori sconosciuti, molti dei quali sono incontrollabili. Poi magari, una volta che le abbiamo fatte, scopriamo che sarebbe stato meglio non farle, ma pazienza. Enrico
no. Enrico, quando fa una cosa è perché ci ha pensato e ripensato. Poi quando la fa, non la molla più, e continua a farla sempre meglio. Vedi la sua collezione di moschettoni che era cominciata per scherzo e che adesso ha più di trecento moschettoni e ha fatto di Enrico un esperto di moschettoni. Che fa anche un po’ ridere, ma sta a sottolineare che fa le cose seriamente e con gusto, anche solo per se stesso, anche se, mi ha spiegato, il collezionismo può avere degli sviluppi psicologici non troppo belli. Che doveva fermarsi diciamo a mille moschettoni. Lo giurava, perché il collezionista va fiero della sua collezione e la vuol mostrare a tutti, ma qualcuno può esagerare, riempirsi di oggetti fino a vergognarsene, fino a non far entrare più nessuno a vedere. E diceva che lui era fortemente a rischio di diventare un accumulatore compulsivo, un acquisitore seriale, che sentiva un fascino, che si sentiva complice di quei vecchi che riempiono gli scaffali dello sgabuzzino di ogni sorta di oggetti, di attrezzi, di materiali che potrebbero servire e non servono da decenni. E lui, con tutto il rispetto, è lo sgabuzzino. Lo dico senza offesa. Che è buio e fai fatica a muoverti, ma dentro c’è tutto, basta armarsi di santa pazienza e cercare. E per cercare guardi là sotto, apri qua, sposti lì, e anche se non trovi vedi che c’è tanta altra roba che ti potrà servire. Non è uno che egocentrico, dice poco di sè, per apprezzarlo lo devi conoscere. A quell’epoca, in un certo senso, era come Nadine. Cioè, i famosi opposti che si toccano, si specchiano, si annullano o si integrano. Insomma, fanno tutte quelle cose che fanno gli opposti, e di cui a quei tempi avevamo solo una vaga idea, tratta dai primi libri sul buddhismo che cominciavano a circolare tra i delusi della rivoluzione studentesca. O che così mi sembravano in quell’estate confusa di quarant’anni fa. Opposti che alla fine erano simili nel loro trincerarsi, non so bene dietro cosa, anche se lo capisco. Per arrivare a starci insieme serenamente senza maschere e senza dialoghi artefatti bisognava trapassare quell’immagine esterna, quella barriera che li separava dal mondo. Per Nadine questa barriera era una specie di riccio spinoso, per Enrico era un guscio. Gli aculei del riccio si spezzavano sull’involucro di Enrico.
La situazione si faceva imbarazzante ogni giorno di più. Esti trovava in questo una conferma alla sua teoria su Nadine psicopatica guastafeste. Effettivamente anch’io, nonostante il suo fascino, ormai la sopportavo a stento. Perfino Lisa la trovava in quel periodo “particolarmente noiosa”, inquieta. Ormai, a difendere Nadine era rimasta solo Sabina, che la giustificava sempre, almeno finché un giorno Nadine non si rivoltò anche contro di lei, dicendole: piantala di darmi ragione, non ho mica bisogno di un avvocato difensore.
Così anche Sabina alla fine faceva come Enrico: la evitava in una specie di non belligerante rispetto che Nadine interpretava come un rifiuto. Questo me lo spiegò Lisa, perché sinceramente io non riuscivo neanche a immaginare come una come Nadine potesse sentirsi rifiutata. Una che le sarebbe bastato fare un cenno e un sacco di ragazzi... insomma lasciamo stare. Che questa era la valutazione che facevo allora, non sapendo niente di Nadine e quasi niente della vita.
Una sera Enrico mi prese da parte. Lo capivo benissimo che per lui quella vacanza era un martirio e che era talmente affascinato da Nadine da non riuscire a trattarla come una persona normale.
Da qui ad estendere quella mancata intesa al pessimismo cosmico il passo era lungo, ma Enrico lo fece d’un balzo, cominciando un lungo sproloquio:
« Andiamocene, questo non è il nostro mondo. Noi siamo nati in delle case dove le posate e le tazzine da caffè sono scompagnate. Dove c’è un’entrata, una soggiorno-pranzo, la camera dei genitori e la nostra cameretta. Nella mia ci dormiamo in due, io e mio fratello. Non abbiamo studi, disimpegni, tripli cessi, stirerie, lavanderie e quattro o cinque macchine in garage. Siamo quella fottuta piccola borghesia che a loro fa molto più schifo del proletariato, che trovano spontaneo e dignitoso, mentre noi ci vedono come dei patetici velleitari, siamo i loro emuli senza speranza ».
La tesi che ho appena enunciato trovava, nella narrazione di Enrico, decine e decine di piccoli fatti a conferma. Frasi colte al volo, alzate di sopracciglia, sorrisi, commenti detti a mezza voce da questo o da quell’altra. Lei, in particolare.
Mi era chiaro che Enrico stava parlando del suo rapporto, o meglio, dell’assenza di rapporto che c’era tra lui e Nadine; e faceva quella maledetta operazione di voler tirare fuori una teoria generale da un fatto particolare.
Intendiamoci, in linea generale condividevo anch’io quella visione. Talvolta l’alta borghesia , più spesso i molto ricchi, ha atteggiamenti sussiegosi, ma qua mi era parso il contrario. La famiglia di Esti si era mostrata molto gentile, ospitale.
Stetti un po’ a meditare sull’esortazione di Enrico, che mi sembrava vieppiù depresso e lievemente borderline. Intanto non teneva conto della mia storia con Lisa. Cosa avrei dovuto dirle? Vado via perché devo accompagnare a casa il mio amico depresso? Poi sinceramente mi sembrava che facesse un dramma di una situazione solo un po’ spiacevole, che amplificasse le differenze sociali: le nostre famiglie erano famiglie normali e, a parte Hugo, non mi sentivo circondato da sussiegosi altoborghesi. Gli dissi: dormiamoci su, domani riesaminiamo la questione con calma. Poi, al buio, provai di nuovo a perforare il guscio: ma perché non vuoi parlare con Nadine? Azzardai a qualche lieve sensazione che avevo avuto: guarda che non è escluso che tu le piaccia. Non so se ci credevo, in quel momento. Forse parlavo per convincerlo a non darsi per vinto, forse una specie di istinto femminile che Lisa mi trasmetteva, mi aveva suggerito qualcosa di vero, a cui Enrico non credeva assolutamente.
Ci fosse stata almeno una titubanza, avrei potuto lavorarlo ai fianchi tutta la notte, assolvere al mio ruolo di saltafossi. Ma Enrico si era chiuso nel guscio e non c’era niente da fare.
A risolvere le eventuali titubanze di Enrico (in realtà sembrava veramente risoluto) e soprattutto le mie, che speravo in ogni modo di rimanere, ci pensò Nadine, che alla mattina annuciò senza tanti preamboli: Oggi parto. Poi, rivolta a Esther e a Lisa: non fatevi scrupoli, vado da sola, visto che voi due avete altro da fare. Sembro essere l’unica che fa fatica a trovare un suo posto nel mondo. Comunque la mamma mi accompagna a Marsiglia a prendere il treno.
Peccato che Enrico non fosse ancora sceso, perché Nadine quella
mattina sembrava straordinariamente gentile e sorridente, anche se forse, a saper guardar bene in quella bonomia, si sarebbe scorta un po’ di teatralità, e più sotto ancora dell’amarezza. Ma a vent’anni queste cose non si vedono. Comunque salutò tutti, ad uno ad uno, tranne Enrico e Guy-Jean che non erano lì. Salutatemeli voi. Poi successe un’altra cosa piccola, ma assai particolare, un ulteriore indizio che confermava la mia ipotesi. Rammaricandosi per le due assenze, Nadine volle preparare dei biglietti con i numeri di telefono di tutti, che ce li scambiassimo.. chissà mai. Poi ne preparò due da dare a Enrico e a Guy-Jean. Mi diede il biglietto destinato a Enrico dicendo: Daglielo. Anzi, no. Lo metto in una busta. E vidi che scriveva qualcosa sul biglietto.
VII - poco prima di ferragosto 1973
Il rientro dalla Francia era stato per Enrico una liberazione. Anche senza Nadine, anzi, forse proprio per la sua mancanza, aveva passato i restanti giorni alla Sorcière a recriminare sulle sue omissioni. A fissare con sguardo opaco l’accappatoio di Nadine rimasto appeso nel gazebo o la tazza della colazione col suo nome. Perché forse, dopo le mie continue pressioni, che davano Nadine innamorata di lui, dopo che anche Sabina diceva che sì, che potrebbe essere che a Nadine piaccia Enrico, anche se sembra un po’ un pesce morto, senza offesa, c’era stato quel famoso biglietto.
Fammelo vedere, avevo detto a Enrico. Cosa ti ha scritto? C’era scritto: “stai muto, eh” e poi c’era disegnato col pennarello nero uno strano simbolo, un cuore tutto nero con dietro le ossa incrociate come nel teschio dei pirati. Era un messaggio? Certo, Enrico. Cosa vuoi che sia? ... eee... secondo te come va interpretato? Enrico, tra i due quello
intelligente sei tu, per favore non me lo chiedere. C’è un cuore, che cazzo vuoi di più? No, non poteva essere. Era una minaccia, c’era la Morte Cicca, pericolo di morte. Stai muto. Cosa vuol dire? No, non è “stai muto” e basta. E’: “stai muto, eh”. Embè? Cosa cambia? Cosa vuol dire?
Secondo me è una raccomandazione, come a dirti di non dire a nessuno qualcosa. Ma cosa? O magari vuol proprio dirti che stai troppo zitto, e ti sfotte. Come dire: continua pure a stare zitto, povero idiota! Boh, valle a capire, le donne. Poi lei, più delle altre...Comunque sia, Enrico, io ti consiglio di chiamare Nadine e chiederle cosa significa quel cuore pirata. No, cuore con la Morte Cicca, correggeva lui. E poi, dove la trovo, adesso, Nadine? Chiedi a Esti, prendiamo la moto, andiamo a trovarla.
Niente, non c’era verso di smuovere Enrico da una specie di congelamento. Eppure giuro che prima di incontrare quella maledetta Nadine non era così. L’ho già detto, è uno cauto, ma comunque le cose le faceva. Dopo aver saltato quel famoso fosso si era lanciato anche lui a fare i salti con la bici alla scarpata. Anche lui con la fionda aveva spaccato qualche vetro alla fabbrica abbandonata, aveva fatto a botte, giocato a pallone, preso un paio di sbronze e limonato con le ragazze alle prime feste del liceo, fatte in casa di qualcuno la domenica pomeriggio, con le tapparelle abbassate e il mangiadischi.
Non era dei più spavaldi, ma era allegro, socievole e intraprendente come tutti noi. Adesso vedevo emergere in lui qualcosa che mi sembrava quasi patologico. Il non volere, o non sapere, o non potere sciogliere o tagliare quel nodo gordiano che lo legava a Nadine e nello stesso tempo lo strangolava.
E adesso, con il vago sospetto che lui potesse piacere a Nadine, la cosa, anziché evolversi verso un nuovo sentiero di speranza, aumentava il suo malessere, perché alla malinconia dell’amante rifiutato, non corrisposto, snobbato dall’amata, si aggiungeva anche il rimpianto per non avere capito, per non avere rischiato, per non avere agito.
Ma mentre nel primo caso il ruolo era sostenibile, perché c’era dentro qualcosa di eroico, di romantico, e gli provocava “soltanto”
quella famosa struggente malinconia che scioglie gli amanti ma tutto sommato non fa molto male all’anima, anzi, direi che la ingrassa, la seconda presa di coscienza era avvilente, perché rimandava a Enrico un’immagine di se stesso imbruttita dalla codardia, dall’ignavia, dall’accidioso timore che l’aveva spinto a chiudersi in una stanza lasciando Nadine fuori dalla porta. C’era ancora tempo per rimediare? E, ammesso che ci fosse dell’interesse da parte di Nadine, era un grande amore assoluto e incommensurabile come il suo, o non piuttosto una cottarella da vacanza? Naturalmente, nella migliore delle ipotesi, amesso e non concesso, secondo Enrico si sarebbe trattato di una infatuazione passeggera, già dimenticata dopo una settimana o due. Certo, visti da lontano tutti questi ripensamenti, questi vai-evieni tra entusiasmo e delusione, queste ipotesi trepidanti, viste oggi, a distanza di decenni fanno sorridere. Ma se anche qualcuna delle lettrici o dei lettori avesse avuto per caso, in un certo momento della vita, diciannove o vent’anni, si renderebbe perfettamente conto che a quell’epoca per molti queste cose sono di un’importanza opprimente.
Io, da parte mia, stavo scalpitando per raggiungere Lisa, che era in vacanza coi genitori all’isola d’Elba. Avevo già pronta la moto con il portapacchi e la tenda. Non mi andava di infilarmi di nuovo in una casa dove c’erano madri e padri, che già alla Sorcière era andata così.
Per schiodare Enrico lo scongiurai, gli intimai di accompagnarmi, che ci saremmo fatti un’altra bella vacanza, e che comunque Lisa lì all’Elba aveva degli amici, che poteva schiodarsi un po’ dai suoi moschettoni, gli unici che gli volevano bene, secondo lui. No, non mi va di venire a reggere il moccolo. Non ho soldi, non mi piace l’Elba. Ma ci sei mai stato? No. E allora? Allora non vengo.
Al mio ritorno, dopo una settimana, la situazione non era migliorata. Esti era tornato alla Sorcière e forse ci rimaneva fino ai primi giorni di settembre. Era triste perché Esther l’aveva mollato, ma forse era anche un po’ contento perché in fondo Esther non gli piaceva poi così tanto, visto che gli aveva diagnosticato il complesso di Edipo ed anche il delirio di onnipotenza. Guy-Jean si era rimesso con la sua vecchia fiamma, Hugo era tornato a Heidelbergh prendendo
un sacco di informazioni su Nadine, dov’era il collegio, e il numero di telefono di casa. Povero Hugo, è senza speranza, aveva detto Esti. Nadine lo detestava, anche se le piaceva umiliarlo. Non osai chiedergli se invece per caso fosse al corrente del fatto che a Nadine piacesse Enrico. Venite a trovarmi, se volete. Lisa rientrava a Ginevra, per un campo estivo organizzato dal collegio. Facoltativo ma obbligatorio, ironizzava. Quindi le collegiali si riunivano per il campo estivo?
« Sì, ci saranno anche Esther e Nadine. Esther è diventata l’idolo di Nadine da quando ha mollato suo fratello. Nadine non sta molto bene. Mangia pochissimo e va sempre a correre. Ma che palle questo collegio, e che palle questa Svizzera. E’ una galera. Per fortuna è l’ultimo anno».
« Quando torni in Italia?»
Capivo benissimo che la mia storia con Lisa stava volgendo al termine. Lo capivo dalla sua voce al telefono, e anche dalla mia. Finiva senza drammi, senza addii, senza “ti lascio”. Terminava naturalmente, insieme all’estate, nello stesso modo in cui finiva l’estate. Ogni giorno un pochino più freddo, finché una mattina ti rendi conto che stai camminando per la città con il giaccone, sotto un cielo di nuvolaglia color zinco.
Adesso, di tutti i germogli di quell’estate, l’unico a fare radici era rimasto quello di Enrico. Aveva cominciato a tenere un diario, una specie di cronistoria della sua non-relazione con Nadine. L’aveva inventata davvero bella, perché il diario, procedendo a pagine affiancate, aveva sulla pagina di sinistra le cose com’erano andate (almeno secondo la visione di Enrico) e nella pagina di destra le cose come Enrico avrebbe voluto che fossero. Me ne aveva mostrata qualche pagina, ma non tutte, che era una cosa privata, più che altro un esercizio psicologico per vedere dove aveva sbagliato. Purché non diventi un catalogo di altre recriminazioni, mi raccomandavo. Non stare a farti del male, che non hai sbagliato niente. Sei solo un cacasotto, un coglione che ha sfiduciato se stesso senza motivo. Che mi fai incazzare, Enrico. Perché lo sai come la penso, non c’è neanche bisogno. È inutile che tu stia a flagellarti per non essere un leone, che sei un levriero nato per correre
e ti travesti da chihuahua. Che poi, li voglio vedere quelli che tu pensi che siano leoni, li voglio vedere nella vita di tutti giorni.
Insomma, stavo cercando di tirarlo su in ogni modo, con gli strumenti dei vent’anni. Ma non gli mentivo. Ero veramente convinto che Enrico fosse un levriero, e poi in effetti se si guarda dov’è adesso, non mi si può dare torto.
Ma lasciamo stare il presente, perché altrimenti le cose si ingarbugliano, e mi riprende la tentazione di mescolare quello che è stato con tutti i potenziali mondi paralleli , con tutti quegli “avrebbe potuto essere” che fanno tanto crepuscolare e decadente, che ti catapultano in quel rimpianto che a molti non dispiace, e come ho detto, Enrico era tra questi. La sua teoria era che quella che chiamavamo depressione nell’ottocento veniva chiamata malinconia, ed era un sentimento rispettabilissimo. Logicamente all’epoca non sapevamo niente di depressione, anche se io dicevo a Enrico: sei depresso, come se fosse non solo una diagnosi, ma anche un suggerimento di guarigione: invece di deprimerti, cerca di esprimerti, vedi che le due parole sembrano proprio gli opposti. Ma non è una questione di volontà, mi rispondeva lui. Non ce la faccio. Ma almeno cerca di staccare la mente da quel pensiero continuo, quella troietta che deve averti buttato un filtro magico nella birra. Cercavo di alleggerire, ma non c’era niente da fare. Anzi, ogni irrisione all’immagine ieratica della Santa Nadine d’Antibes lo irritava visibilmente. Cominciai a frequentarlo di meno, a un certo punto. Lo so, è sbagliato abbandonare gli amici nei periodi di depressione, pardon, di malinconia. Ma a vent’anni hai un cinismo un po’ superficiale, che poi pian piano in alcuni casi si indebolisce per poi sparire del tutto in vecchiaia, e in altri casi invece verso i trent’anni si rafforza, si struttura e diventa l’impalcatura di un’intera esistenza. Grazie a dio il mio cinismo negli anni si è sgretolato, costellando la mia vita giovanile di sensi di colpa, levandola da quella specie di empireo dove in genere l’avevo sempre collocata. Ma i sensi di colpa, che sono una cosa bruttissima, sono però il prezzo che noi comuni mortali paghiamo quando facciamo degli sbagli. Quando dico questa
parola c’è sempre qualcuno che alza la cresta, che eccepisce. E in genere poi c’è anche qualcuno che mi dice che i sensi di colpa sono solo uno scarto di lavorazione del cristianesimo.
Quando eravamo alla Sorcière, una sera venne proprio fuori questo discorso. Aveva cominciato Lisa, che non nascondeva la sua propensione per la libertà sessuale, a dire che la morale cristiana ci proibiva di fare l’amore libero come nelle comunità hippie. Che lei per prima non lo avrebbe mai fatto, ma solo perché anche lei era intrappolata nel perbenismo delle nostre famiglie bigotte e della nostra educazione post-fascista, cattolica e oscurantista.
Io non potevo che essere d’accordo: lo ero mentre cercavo di interpretare il ruolo di uomo accettabile, e sia politicamente che ideologicamente mi professavo d’accordo con le mie amiche femministe. Ero convinto, nonostante fossi nato e cresciuto in una cultura dove da bambini si faceva la gara sulla lunghezza del pisello e da preadolescenti si viveva nel terrore di scoprirsi finocchi. Ma ero d’accordo anche secondo quel retrivo mondo che mi aveva formato, perché ero stato il primo a beneficiare di quella larghezza di vedute che dai volantini delle femministe davanti alle scuole era scivolata in un letto di Cap d’Antibes, facendo magari un po’ di confusione tra libertà sessuale e parità di ruoli.
Hugo si era buttato in una discussione teorica che divideva cattolici e protestanti. Ricordo che ascoltai la sua esposizione con un po’ di fatica, per via della lingua, ma alla fine apprezzai il giovane aviere per la sua schematizzazione, un po’ tagliata col coltello, che mi fece pensare. La questione stava nella differenza sostanziale, sottolineava sostanziale, tra cattolici e protestanti. Gli uni soggetti ad un’etica della colpa, gli altri ad un’etica di responsabilità. Pur riconoscendo una certa verità, mi sembrava di sentire nel discorso una specie di rivendicazione del primato dei protestanti. Enrico l’aveva fatto presente, forse in modo un po’ aggressivo, a Hugo.
Enrico argomentava di rado in mezzo a tanta gente, e se c’era anche Nadine era praticamente impossibile che prendesse la parola.
Ma quella sera, forse coinvolto dall’argomento, si lanciò in una specie
di correzione di compito al giovane pedante tedesco. Che il discorso poteva avere un senso se si fosse rivolto al cattolico e al protestante che sono presenti in ognuno di noi. Che cattolico e protestante potevano essere prese, in una prospettiva riduzionista, come categorie generali della morale. Diceva a Hugo di andare a rileggere qualcosa su es, super-io e io, visto che aveva la fortuna di poterseli leggere in lingua originale. E se era poco incline alla psicanalisi, che si andasse a leggere le teorie sui due emisferi cerebrali, da Lowen a Levy-Strauss ... su ciò che in noi è divergente e ciò che è convergente, altro che cattolici e protestanti. ... ma per favore, non ci rimettesse davanti la polemica tra latini e anglosassoni, tra noi e voi, come al solito, che ognuno è terrone a qualcun’altro, come si dice in Italia. Poi un’aneddoto, durante il gemellaggio, un ragazzo di Hannover gli aveva detto: per noi, un tedesco di Monaco è una via di mezzo tra un uomo e un austriaco. E che comunque a lui della differenza tra cattolici e protestanti non fregava niente perché lui si professava pagano e politeista, e in particolare adorava gli animali.
Aveva lasciato tutti a bocca aperta, con un eloquio non indifferente anche se in un inglese non proprio ortodosso. Ma era stato efficace, fluido. L’Enrico migliore, quando entrava in palla.
Avevo notato Nadine che lo ascoltava estasiata, ma eravamo ancora all’epoca in cui neppure io sapevo se lo stava studiando come un animale raro da mettere alla berlina o se invece ne fosse attratta, come me, che conoscevo quell’Enrico in privato, ma raramente assumeva quel carisma in pubblico.
VIII - metà dicembre 1973
Ai primi di dicembre avevo mandato un biglietto di auguri a Nadine, a Esther e a Lisa. Mentre li scrivevo ripensavo alla mia estate, la prima in cui avevo coronato con soddisfazione il sogno di una ragazza contenta di venire a letto con me. Adesso sapevo benissimo che con Lisa era una storia passata, e non avrei più pensato a lei, ma veniva continuamente associata a Nadine, onnipresente nei pensieri e nei discorsi di Enrico. Lui iscritto a Medicina, lei in collegio a Ginevra.
E io che in cuor mio facevo il tifo perchè quella storia andasse in porto, nonostante le contingenze la rendessero difficile. Se fossi stato come le nostre amiche, con la capacità di manovra femminile, avrei ordito, brigato, per provocare occasioni di incontro. Ma non avevo quel genere di iniziative. Mi limitavo ad osservare quell’amore che andava alla deriva e che secondo me avrebbe potuto essere perfetto per entrambi, al di là delle differenze sociali che Enrico usava come via di fuga. Conoscendo un po’ meglio la psicopatica Nadine ci avevo visto più che altro un permanere ostinato di qualcosa di infantile. Anch’io ero, come si diceva allora, più “immaturo” di tanti miei coetanei, ma spesso parlando con lei, mi veniva da chiedermi: chissà che donna uscirà fuori da questa adolescente inquieta? E quando poi, molto di rado, abbandonava il suo ruolo di primadonna, anzi, di primabambina, veniva fuori un’anima riflessiva e originale nelle considerazioni, consapevole delle sue paure e anche della sua potenza, ancora lontana dall’esplodere. Ma simpatica, a volte ironica e a volte entusiasta, illusa del fatto che il mondo stesse cambiando in meglio.
Oppure quando l’aveva vista Enrico, una sera, alla Sorcière. Pensava di essere sola, nel salone in penombra, e ballava sull’assolo di batteria di In a gadda da vida degli Iron Butterfly, aveva una faccia concentrata ed eccitata nello stesso tempo, e guardava verso il mare. In quei momenti la sua bellezza era splendente, esotica e naturale, casta e sensuale, capivo benissimo come Enrico la potesse idolatrare.
Ma se l’avesse guardata da molto vicino, come ogni tanto succedeva
a me, avrebbe visto quasi una sorella minore, una sorellina. Se qualche volta le fosse stato così vicino com’era capitato a me, se avesse osato annusarla, avrebbe sentito un odore di miele e di latte. Nessun profumo, nessun cosmetico. Sembrava proprio senza vanità, senza civetteria, avrebbe detto mia madre. Anche nel vestire. Aveva sempre i jeans, la canottiera e le superga, anche quando le altre liceali alla sera si truccavano e si mettevano la minigonna. E poi, certe volte, anche se sembrava impossibile, una donna già disillusa e sarcastica prendeva possesso di lei, qualcosa del pacato equilibrio sorridente e sicuro di sè della signora Chantal. Enigmatica, quindi, e spesso incongruente nei discorsi. Un po’ eccessiva nei comportamenti, tutto quello che si vuole. Ma capivo benissimo Enrico. Nadine forse non lo sapeva ancora, ma aveva quel qualcosa che non ha un nome ma attrae gli sguardi e la curiosità delle persone. Ben diverso da qualcosa di fisico, di carnale... una specie di bagliore ieratico, come la Beatrice di Dante. Ma poi, anche lasciando da parte la prospettiva idealistica dell’amore eterno, quella del “tutto o niente” vagheggiata da Enrico, io pensavo: gli fosse almeno successo come è successo a me. Se se la fosse scopata, con rispetto parlando, magari adesso starebbero insieme e lui la vedrebbe scesa dal trono, come una normale bella ragazza da amare e da prendere in giro. O si sarebbero già detti ciao. C’era quella canzone di Michel Fugain che andava forte nei juke box l’estate precedente. La storia di un ragazzo e una ragazza, proprio nel Midi mi sembra, che s’incontrano, fanno l’amore e si salutano. Ci ho pensato spesso, a quella canzone, nei momenti in cui temevo che Enrico stesse diventando pazzo. Dicevo: ci avesse almeno passato una notte insieme, avrebbe qualcosa da ricordare e forse anche la speranza di farlo ancora. Sapevo che Enrico aveva un’anima importante, più importante della mia, in un delirante senso di giustizia cosmica ritenevo che si meritasse quella luminosa ricompensa, che forse era un’anima grande anche lei. Ma le speranze di Enrico gravitavano intorno a una mancanza, a un vuoto. Lo stancavano, lo esasperavano e lui non osava neanche scrivere una lettera.
Una sera all’ora di cena ricevetti una telefonata di Lisa. Ero contento
di sentirla. Mi disse che sarebbe tornata a casa per Natale, insieme a Nadine. Sarebbe stata contenta di vederci tutti insieme, i reduci di Cap d’Antibes.
Parlammo di lei, poi le chiesi di Nadine. Nadine pareva tranquilla, o almeno non più agitata del solito. Mangiava poco, era giù di morale. Stava andando da uno psicologo.
« Fidanzati?
« No, e lei non parla di sè, se non per lamentarsi del fatto di non essere capita
« Eppure, ci saranno un sacco di ragazzi che ...
« Volendo, sì. Ma qua siamo al non volendo... lei ha un po’ di problemi... mi raccomando, ti dico queste cose perché ti conosco, perche so che...
« No, ma io non sono neanche molto interessato a sapere...
« Comunque niente di grave, è un po’ borderline... adesso si torceva le mani perche è l’unica che è ancora vergine, dice che prima o poi andrà a letto col primo che capita per risolvere il problema.
« Oh santiddio
« Che poi fino a quindici giorni fa diceva che voleva invece farlo con il grande amore della sua vita, in una notte di maggio, con la mezzaluna, le stelle e le finestre spalancate.
« tra l’altro, questa verginità... oggi...
« Lo dici a me? Che a quindici anni cercavo di sverginarmi da sola per paura di sembrare una pivella alle prime armi?
« Comunque non è che essere vergini a diciannove anni sia una colpa.
« No, ma la vita è breve. E mi spiace per Nadine che è veramente una ragazza meravigliosa, anche dentro, dico, mi spiace che si stia rovinando questi anni, che potrebbero essere... che sono, belli.
« Ma non è che sarà un po’ egocentrica? Te lo dico perché così, come comportamento in generale, non sembra tanto interessata agli altri. Quest’estate, per esempio...
« Ah, a proposito di quest’estate. Nadine ha chiamato Hugo e si è fatta stampare tutte le foto di Cap d’Antibes. Le ho viste, alcune sono
proprio belle...
« Bene, dille di portarle qua, che le vorrei vedere.
« Eh, ma non ti ho detto mica la cosa più importante.
« Cosa?
« Che una di quelle foto manca dal mazzo. Nadine l’ha presa e la usa come segnalibro.
« Una foto? Di chi? Non dirmi...
« Sì, del tuo amico Enrico. Complimenti, hai avuto un intuito femminile.
« L’avrò imparato da te.
« Ma guarda comunque che Nadine è veramente chiusa. Non dice, non ha mai detto né chiesto niente... secondo me ha paura che a Enrico non freghi niente di lei. Sai, lei non è tanto abituata a non piacere a qualcuno...
« Ma lo sai, Enrico è innamorato. Ma non glielo puoi esplicitare, per favore, così la facciamo finita con questa storia, che mi sembra una commedia di Goldoni?
« Uh, gliel’ho detto. Gliel’ha detto anche Esther. Ma lei dice che non è vero. Forse vorrebbe che il tuo amico si schiodasse un po’ in prima persona... cosa ne dici?
« Eh, a chi lo dici, che non faccio altro che spronarlo.
« Ah, dietro la foto c’è un disegno.
« Che disegno?
« Un cuore nero. Con le ossa a “x”, come sulla bottiglia della varichina.
« Come sulla bandiera dei pirati, vorrai dire.
« No, i pirati hanno le spade. Le ossa le ha il teschio del “pericolo di morte”, hai presente i cavi dell’alta tensione?”
« Sì, sì, hai ragione, ma... Nadine non dice niente di Enrico?”
« Niente. Guarda che questa storia del segnalibro è segreta. Che l’ho visto per caso. Poi, che vuol dire? Nadine è strana, lo sai.”
« Beh, qualcosa vorrà dire, no?
« Sarà, ma non saprei bene cosa... e poi, mettiamo che Enrico le piaccia, sono sicura che se si venisse a sapere... che si venisse a sapere per
causa mia, intendo... Beh, lo sai cosa farebbe Nadine. Mi strapperebbe gli occhi, li friggerebbe e li darebbe al gatto. Poi, per come è Nadine adesso, pensa di non piacere a nessuno, si vede orrenda ».
Mi faceva schifo prendermi il ruolo del mezzano, ho sempre pensato che nella vita sia meglio lasciare che gli eventi si evolvano secondo la loro naturale direzione senza la pretesa di volerli cambiare in quella che secondo noi sarebbe la loro giusta direzione. Una sera d’estate, al mare, da bambino, ho preso un geco che camminava al bordo dell’Aurelia. Volevo portarlo in salvo in una zona tranquilla, ma all’improvviso il geco mi è schizzato via dalle mani, è scappato verso la strada ed è stato immediatamente schiacciato da un’auto che passava. Da allora mi sono riproposto di non interferire mai nel destino degli altri, a meno che non stiano proprio annegando.
Tuttavia mi venne il dubbio che Nadine , sempre ammesso che davvero le piacesse Enrico, potesse ignorare il fatto che Enrico la sognava, la venerava, la idolatrava fino a farmela quasi odiare, e a causa sua era quasi ridotto come uno Jacopo Ortiz, che no, non è che potesse spararsi, ma si sarebbe lasciato morire d’inedia.
Quante volte gli avevo detto: telefoniamole. Chiamiamo il collegio e ce la facciamo passare.
Non voleva, ma qualche bagliore di luce si vedeva: la vaga speranza che gli avevamo inoculata stava prendendo corpo, non vedevo l’ora di correre da Enrico a dirgli che c’era una sua foto alla pagina 74 della Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, che era il libro che Nadine stava leggendo. Ma Lisa mi salutò con una raccomandazione.
« Quello che ti ho detto rimane tra noi, va bene?
« No, dai... Enrico lo deve sapere!
« Se parli non ti dirò mai più niente
« Non importa, glielo dico lo stesso
« Dirò a tutti che scopi malissimo
« No, dai... ma è vero?
« E che ne so? Ho scopato solo con te, finora. Guarda, non farmi... promettimi di non dire niente!
« Va bene
« Giura.
« Giuro ».
Ero contrario a questo tener nascoste le cose. Non fosse stato per quel giuramento fatto a Lisa, avrei saputo io come motivare Enrico. Comunque, il veto posto da Lisa sulla foto non mi proibiva certo di infondere fiducia. Lui continuava a restare scettico, nel timore di una delusione. Inutili gli argomenti dei ventenni: se andrà male tornerai a stare come adesso, magari un po’ peggio, ma ti sarai tolto il dente. Non è un dente, mi diceva. E’ il mio cuore tutto intero.
Non capivo che quella storia, alle persone come Enrico, poteva anche andar bene così, in quella dimensione di struggimento, di dubbio. In quella sospensione che dovrebbe preludere a qualcos’altro, ma forse è un momento virtuoso che le anime grandi amano coltivare. Mentre invece da giovani si tende ad accorciare quelle sospensioni, e quando accadono, si tende a sorvolarle come momenti irrilevanti, anticamere in cui si perde tempo in attesa di vivere la vita, che è qualcos’altro, da un’altra parte. Mentre invece la vita è lì, seduta vicino a te nella sala d’attesa, e scorre lì con la stessa intensità che altrove.
E poi, non so spiegare, ma anche se osservando il comportamento di Enrico mi veniva quasi spontaneo definirlo infantile, sentivo che sotto, o sopra il suo sentimento ci fosse qualcosa di smisurato che io non sapevo riconoscere.
Forse Enrico sapeva che quegli attimi sono importanti, ma io ci vedevo prevalentemente un aspetto negativo, malsano, di autoflagellazione. Riuscii a convincerlo ad andare qualche volta al cinema, a fare qualche partitella di pallone, ma lui preferiva il suo diario con le storie parallele.
Io gli dicevo: « prima o poi verrà il momento che le due storie diventeranno una, vero Enrico?
« No, l’ho quasi finito.
« Ah, me lo fai leggere?
« No.
L’occasione per rivedere le collegiali fu nelle vacanze di Natale. Era soprattutto l’occasione per Enrico, non so se attesa o temuta, di rivedere Nadine. Forse di recuperare.
Almeno questo speravo io, e lo sperava anche Esti, che bene o male era venuto a conoscenza dei tormenti di Enrico. Molto meglio lui che uno stronzetto svizzero, aveva detto. E poi, alla psicopatica farebbe bene stare con una persona normale. Non come Olivier.
« Chi è Olivier?
« E’ il fidanzato di Nadine».
VIII - Vacanze di Natale 1973-74
La famosa riunione del gruppo di Cap d’Antibes venne organizzata naturalmente da Esti, che abitava in una casa adatta ad eventi ben più importanti di una rimpatriata di liceali e neodiplomati.
Naturalmente la faccenda di Olivier aveva ricacciato Enrico in fondo all’abisso. Olivier in realtà non era il fidanzato di Nadine. Esti avrebbe dovuto mettere le virgolette alla parola “fidanzato”, nel senso che in casa di Esti, Olivier veniva chiamato così: il fidanzato di Nadine.
In realtà era un amico di infanzia, figlio di un magnate dell’industria o della finanza francese, amico di famiglia dei Braida, che fin da piccolo era innamorato di Nadine. Naturalmente la famiglia sarebbe stata ben lieta se l’amore infantile si fosse mantenuto fino al momento di sposarsi, perché Nadine avrebbe avuto una vita agiata e la collaborazione tra i due gruppi industriali si sarebbe rafforzata.
« Ma Nadine?
« Nadine lo odia, esattamente come odia Hugo.
« Ma verrà anche lui, a Natale?
« Sono obbligato a invitarlo.
« Ma non è la riunione del gruppo di Cap d’Antibes?
« E infatti. Olivier doveva venire, poi è andato negli Stati Uniti
« Ma... Olivier è quello della stagnola e dei pigiami di seta?
« Sì, è lui
« Ed è fidanzato con Nadine?
« No, ma vorrebbe. Anche i suoi vorrebbero. Lo danno già per scontato, che Nadine sposerà Olivier. Figurati... la psicopatica ciclotimica con l’ossessivo nevrotico. Si ammazzerebbero dopo due giorni di convivenza. L’altr’anno, quando eravamo alla Sorcière, Nadine l’ha minacciato di morte. Ma niente, lui non si da per vinto. La segue ovunque... poveraccio ».
Enrico inquadrava il tutto in una nuova prospettiva ancora più tetra della prima: forse, sottolineava forse, Nadine era interessata a lui, ma non poteva amarlo, perché promessa ad un altro.
Non c’era verso di rassicurarlo. Non eravamo mica nella Calabria del secolo scorso, che c’erano i matrimoni combinati dalla nascita. E poi, hai sentito? Questo Olivier le fa schifo, di cosa ti preoccupi?
E lui ritornava a parlare di “certi ambienti” in cui le cose funzionano così, che ci si sposa per interesse, per unire due regni, come facevano le dinastie dei sovrani. Nella sua visione delirante, Nadine avrebbe obtorto collo accettato quella presunta imposizione della famiglia. Io gli dicevo: ma se tu ti fossi preso la briga di parlare qualche volta con lei, invece di scappare come una lepre tutte le volte che era in arrivo, ti saresti reso conto che Nadine non lo sposerebbe mai, uno che non le piace. Ma poi, cosa andiamo a parlare di matrimonio, che a diciannove anni manco ci pensa.
« Appunto - diceva Enrico - quando metterà la testa a partito, comincerà a ragionare come la sua famiglia. Capirà che quel matrimonio è un passo obbligato ».
Enrico non sarebbe venuto alla riunione del gruppo di Cap d’Antibes.
Era intenzionato finalmente a scrivere la fine del suo tormento, si sentiva in un vicolo cieco e a niente valevano le nostre esortazioni, compre quelle Di Esti, che lo spingevano ad accettare la sfida con Olivier, nella assoluta certezza che Nadine avrebbe preferito lui.
Lui invece, nel suo delirio di sconfitto, stava già architettando di scrivere una lettera di addio a Nadine, in cui le avrebbe spiegato tutto e le avrebbe detto delle cazzate tipo “è megio così”. Fu allora che tradii il giuramento fatto a Lisa e gli dissi della foto. Gli dissi che valeva la pena, che c’era la concreta possibilità. Lo odiavo, perché insisteva nella sua rinuncia alla riunione di Cap d’Antibes. Più che la rinuncia alla cena, mi dava fastidio l’atteggiamento in generale. Non capivo che lui voleva tenere intatto quella specie di castello di cristallo che c’era nella sua testa, o chissà in quale altro recondito luogo della complessione umana, compresa quell’area simbolica che noi chiamiamo cuore, e quell’altra medusa inafferrabile che ci collega con il cosmo e che chiamiamo anima. Vedevo che non era soltanto terrorizzato dall’idea che si rompesse, ma addirittura non voleva neanche prenderlo in mano, per paura di sporcarlo con un’impronta.
Quando andai alla riunione, che per inciso fu una serata tranquilla e divertente, ebbi modo di constatare de visu l’intolleranza di Nadine per il povero Olivier, che effettivamente appariva un perfetto imbecille. Naturalmente parlo della percezione che ne ebbi a vent’anni, guardando quella specie di diafano belga dai capelli già un po’ radi, di un color biondo-beige. e dall’incarnato stanco. La pelle che pareva la pancia di una rana da tanto che era bianca e sottile. Gli occhi acquosi, il modo di fare affettato e impostato. Aveva fatto il baciamano alla signora Chantal. Insomma, mettetevi nei panni di un ragazzo di vent’anni, uno cresciuto in provincia, tra oratorio e giardini pubblici, dove impari pian piano a non prender botte e sali in gerarchia man mano che cresci, provate a trovarvi davanti un tipo simile.
Nadine era forse un po’ dimagrita, ma più che altro mi sembrava cambiata negli atteggiamenti.
Restava seduta al bordo della poltrona, senza appoggiare la schiena, leggermente piegata in avanti e con le braccia conserte. Sembrava
volersi chiudere in se stessa, e la vedevo molto diversa dalla spavalda e arrogante ragazzina dell’estate, che quando si sedeva assumeva inconsapevolmente delle pose che si sarebbero dette erotiche, come nelle foto di Hamilton. Comunque Nadine mi chiese un paio di volte il perché dell’assenza di Enrico. Io non sapevo come giustificarla, ma non volevo aggiungere uteriori problemi a quel dialogo mancante. Inventai che non stava bene, che aveva la febbre.
Così Nadine disse: « appena sta meglio venite, una sera, che vi faccio la mia bavarese. Giovedì i miei vanno fuori a cena, quindi avrò la cucina in mano. Fammi sapere quando si riprende. Speriamo entro giovedì, almeno entro i primi di gennaio, ché poi devo tornare a Ginevra.
Le insistenze di Nadine per me erano un’evidenza. Olivier, che comunque non era un effettivo contendente, era partito, c’era l’espresso invito di Nadine, c’era la foto nel suo libro (sempre che ci sia ancora, aveva detto Enrico)... se stavolta Enrico avesse rifiutato l’invito non avrebbe soltanto perso l’occasione della sua vita, avrebbe anche perso un amico. Glielo dissi proprio così: se non vieni perdi un amico. E perderai anche quel barlume di autostima che ti rimane, perché se tu non venissi sarebbe come sbagliare un gol a due metri dalla porta vuota.
Finalmente arrivò quel giovedì sera. E finalmente il venti dicembre sarebbe stato il giorno del calendario in cui mettere una x, il giorno in cui quel limbo in cui aveva vissuto Enrico per tutto l’autunno stava per aprire le sue porte che, nonostante i dubbi di Enrico, ero certo che si sarebbero aperte su unna sorta di paradiso, che poi eventualmente si sarebbe trasformato in purgatorio dopo qualche mese, visto che i due attori della commedia avevano entrambi caratteri non molto semplici. Al momento dell’incontro ci fu un certo imbarazzo da entrambe le parti, come se i due si studiassero, come se volessero accertarsi che lui fosse sempre lui e lei fosse sempre lei, che quell’incontro atteso a lungo potesse restituire a entrambi l’immagine immaginata, e non qualcosa di diverso, qualche scadente trasformazione che spesso, per non dire sempre, la realtà si incarica di operare sull’immaginazione.
Nadine era dimagrita, aveva gli occhi un po’ tristi, circondati da due leggere occhiaie scure. Pensai che avesse l’influenza o qualche indisposizione o che fosse reduce da un litigio.
Mentre io stavo portando in soggiorno una specie di centrotavola natalizio gigante che mia madre mi aveva incaricato di regalare alla signora Chantal, Enrico era davanti a Nadine con un pacchetto in mano. Cercava di parlarle guardandola negli occhi, ma lo sguardo spesso ricadeva verso il basso.
« Grazie dell’invito, sono contento… pensavo che tu mi odiassi
« Infatti ti ho odiato diverse volte
« Significa quello, il cuore con le ossa?
« E’ il mio simbolo
« Fa un po’… paura
« Ma dai, è solo un disegnino…
« Ti ho portato un regalo ».
E qui si può vedere il modo di comunicare di Enrico, che è ben diverso dal mio. Io le avrei regalato una camicia indiana, un disco o un libro. Insomma, cose banali, regali tipici da persone ordinarie come il sottoscritto. Il regalo di Enrico invece era una scatoletta di legno chiusa a chiave, e il bigliettino diceva: “Stai chiusa, eh”, e poi c’era sotto il solito cuore con le ossa.
Nadine lesse il biglietto, fece un sorriso, scosse la scatola, e sentì che dentro c’era qualcosa.
« E la chiave?
« L’ho buttata
« Ma…come? … ma perché?
« Forse… Mi vergogno del contenuto
« Cosa? Mi toccherà romperlo, muoio di curiosità
« Aspetta almeno una o due settimane
« Che…? Due settimane? Ma cos’è questo mistero? »
Sono passati quarant’anni da quel Natale del settantre. C’era la neve, e le città, anche la nostra che era un seplice capoluogo di provincia, si animavano di luminarie e addobbi. Anche adesso lo fanno, ma sembra
quasi una messinscena teatrale, invece all’epoca ci era tutto autentico, o così ci sembrava. Ci sembrava che la notte di Natale effettivamente succedesse qualcosa. Quello sarebbe stato l’ultimo anno in cui avrei avvertito ancora lo Spirito del Natale, quello che viene a scuotere lo Scrooge che è in ognuno di noi. Nei viali e lungo le statali, le villette, i capannoni, perfino i distributori di benzina erano tutti addobbati, segno evidente che il Natale era presente ovunque.
Mi è difficile rimettere insieme i ricordi, anche perchè da qui in avanti si tratta di riportare una serie di episodi poco rilevanti, di situazioni minime, che però a volte sono state il perno di un grande movimento, come la famosa farfalla dei terremoti.
Perché tutto è andato avanti a balzi, senza fluidità, come un treno che fa tante fermate, come una linea telefonica che cade continuamente, per cui, quando si riprende a parlare, bisogna fare una specie di riepilogo di quanto si è detto poco prima, e non si arriva mai al punto.
Comunque la serata era andata bene. La bavarese fatta da Nadine era davvero molto buona, il dialogo tra i due proseguiva, io e Esti facevamo nascostamente il tifo e cercavamo di lasciarli soli.
Esti disse addirittura che la psicopatica vicino a Enrico sembrava riacquistare comportamenti civili. Ad un certo punto vidi che stavano ridendo. Quella loro risata risuonava anche dentro di me, che vedevo finalmente la famosa luce, e anche abbastanza vicina, alla fine del famoso tunnel.
Lo sviluppo fu quello sperato. I due si sarebbero rivisti il giorno dopo, in centro. Poi Nadine aveva aggiunto: « e poi potremmo cenare qui a casa mia, che i miei stanno via fino alla vigilia di Natale.
Fate un attimo lo sforzo di immedesimarvi in Enrico, e provate a pensare a come avreste trascorso la notte. Non con i vostri panni, con i panni di Enrico. Ormai il personaggio credo di averlo più o meno delineato. Uno che, almeno fin verso i trent’anni non ha mai amato particolarmente le sfide, i cimenti, i confronti. Ma di questo handicap, se vogliamo vederlo così, ha fatto una specie di arte, una sublimazione che trasforma la rinuncia in qualcosa che si amplia interiormente.
Insomma, quel famoso fosso Enrico l’ha saltato più volte, ma
non sarà mai un vero saltafossi. E’ uno che ama di più guardare gli altri saltare, e su quello tira fuori delle teorie, vede gli altri ragazzi che saltano in modo diverso, con obiettivi diversi. Chi per essere il primo, chi per farsi vedere da qualcun altro, chi lo fa solo per puro divertimento, chi per prepararsi ad un salto ancora più lungo, e poi chi lo fa per vincere le sue paure e dire: ce l’ho fatta anch’io come tutti gli altri.
Lo dico perché lo conosco bene, capisco che a prima vista può sfuggire il suo occhio speculativo, che di lui a prima vista si veda quello che non salta il fosso; e sfugga il fatto che alla fine gli altri sanno solo saltare il fosso, mentre Enrico sa tutto sulle tecniche, gli stili di salto, i record. Forse Nadine aveva già visto cosa c’era sotto il bambino esitante. Forse, con quella specie di intuito femminile associato alla libertà di vedute che poteva avere una diciottenne ricca negli anni settanta, aveva già visto l’uomo che sarebbe saltato fuori successivamente. Forse, se volessimo essere più precisi dovremmo dire che ne aveva già vista una parte, e cioè la parte migliore, forse quella parte che lei avrebbe saputo evocare e alimentare.
Comunque quella mattina di dicembre c’era un bel sole, era una giornata straordinariamente tiepida. Enrico si era alzato di buon’ora, aveva fatto la doccia, aveva scelto una bella camicia di un celeste intenso, quasi viola; la stessa che indossava il giorno in cui lui e Nadine si erano incontrati. Chissà se lei se lo sarebbe ricordato? E la chiave della scatoletta, gliela porto? No, è un po’ presto. Dentro ci aveva messo il suo diario con le storie parallele.
Aveva pensato che, coprendosi bene, poteva prendere la moto. Tanto si trattava solo di due o tre chilometri. Poi avrebbe potuto portarci Nadine, anche solo per riaccompagnarla a casa, dove lei l’avrebbe fatto entrare. Esti, anche se un po’ riluttante, si era dichiarato disponibile a rientrare tardi, tardissimo, dal momento che gli avrei fatto compagnia io fino a tarda notte.
Io non so come la pensiate voi riguardo a qelle faccende che riguardano il caso, il destino, la fatalità eccetera. Però a volte sembra che il destino intervenga proprio a mettere un ostacolo quando tutto
sembra finalmente filare liscio. L’avrete fatto anche voi, da bambini. Mettere un sassolino sul tragitto delle formiche. Costringerle a cambiare strada. C’è un senso di potenza, forse, nei bambini che fanno quella cosa? Forse è solo divertimento. Forse è divertente vedere una povera bestiola che sta già stramazzando di fatica perché sta portando in magazzino un seme di graminacea che è grande il triplo di lei, e costringerla ad aggirare un macigno che le è piombato sulla carreggiata?
Poi da qualche parte devo aver letto che il destino non esiste. Che il nostro destino lo costruiamo noi con la nostra determinazione. La cosa mi risulta più difficile da capire quando vedo una tegola cadere sulla testa di un ignaro passante, ma non si può negare che se si vuol vincere alla lotteria bisogna dare al destino almeno la chance di comperare un biglietto.
Insomma, la cosa di cui avevo accusato Enrico per mesi adesso si era sbriciolata, quel benedetto biglietto Enrico l’aveva effettivamente comprato, e sfrecciava dritto con la sua Gilera 124 Florida per viale Mazzini lasciandosi dietro una leggera scia di dopobarba costoso.
Il destino era dalla sua parte, e lui collaborava col destino.
Ma forse il destino non esiste per davvero. Forse gli accadimenti sono davvero tutti indifferentemente predestinati oppure no, che in fondo la domanda è un po’ oziosa, in quel vorticoso pulviscolo di particelle o vibrazioni che siano, in quella danza di Shiva di cui pare che sia fatto tutto quanto. In quella specie di clinamen epicureo, in cui un minuscolo puntino, che pare abbia una volontà, decide di cambiare rotta rispetto alla sua strada normale. Ma questa è una fortuna, perché così facendo incontra altri puntini, e insieme fanno le cose.
Dopo quella mattina mi sono interrogato a lungo sul destino, su quanto possa essere veramente lo scherzo di una volontà grande e meschina, oppure non sia invece proprio ciò che è giusto che accada, cioè il miglior modo possibile in cui le cose possono verificarsi. Certo, quella mattina, mentre guardavo il corpo di Enrico su una barella di ospedale pensavo veramente al destino bastardo, infingardo, sadico e vigliacco, che andava a colpire la persona più debole nel punto più
sensibile, nel momento in cui era più indifeso, nel momento in cui aveva finalmente tolto quel maledetto guscio e aveva esposto la carne all’aria fredda di dicembre.
Un femore, una clavicola e un trauma cranico. Un ubriaco aveva fulminato il semaforo rosso di via Custoza a sessanta all’ora e l’aveva centrato, per fortuna era volato sull’erba.
A quei tempi le guarigioni erano un po’ più lunghe di oggi, e anche le degenze ospedaliere. Enrico ci rimase fino a metà febbraio e poi ci mise un bel po’ a rimettersi in sesto.
IX - Primi mesi del 1974
Quando Enrico uscì dall’ospedale Nadine era già partita per il collegio da un bel pezzo. La storia, però, nonostante l’incidente, era proseguita nel migliore dei modi. Nadine era andata a trovarlo tutti i giorni in ospedale, tranne il giorno di Natale. Aveva ottenuto un permesso per rimanere con Enrico la notte di San Silvestro, almeno fino a mezzanotte. Una persona sola, mi raccomando, e senza festeggiare, aveva detto il medico.
Ma Nadine aveva preso una bottiglia di Louis Roederer e l’aveva messa sul davanzale della stanza di ospedale insieme a due fette di torta al cioccolato.
Passò così quello che ancora oggi Enrico definisce il più bel capodanno della sua vita. Si era finalmente dichiarato, e mi aveva confessato che l’essere tutto fasciato e ingessato lo aveva aiutato molto.
Che il suo dichiararsi innamorato, protetto da una maschera come gli attori delle tragedie greche, aveva dato una maggiore enfasi alle sue dichiarazioni, e il parlare frammentario lo aveva aiutato a cercare le parole giuste.
Non è che io volessi sapere tutto. Ormai i giochi erano fatti e da lì in avanti sarebbero stati fatti loro. Ma Enrico ci teneva a raccontarmi i loro dialoghi in ospedale, come quando lei gli aveva detto “le nostre anime si sono riconosciute” oppure “tu saresti il primo, anzi, sarai il primo”. Frasi che oggi ci sembrano forse banali, ma che sul momento suonavano come sinfonie altissime. Poche parole, perché Nadine era una che o sproloquiava per mezz’ora, e in genere erano invettive, o procedeva per poche frasi laconiche.
Ma lui conservava quelle poche frasi come gioielli, e conservava anche un biglietto. Quando Nadine andava atrovarlo in ospedale, spesso Enrico era sotto effetto degli analgesici. Così Nadine si portava dietro il suo libro, la Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, ovvero quel famoso libro in cui Lisa aveva trovato la foto di Enrico.
Un giorno di visita era successo che Nadine era scesa a telefonare lasciando il libro sul comodino, e Enrico era andato subito a frugare.
Ma invece della foto aveva trovato un biglietto con scritto “Che te ne importa della tua foto? Ti amo. N.”
« Come facevi a sapere che avrei cercato la foto? Le aveva chiesto.
Sapeva che Lisa l’aveva vista, ce l’aveva messa apposta perché Lisa la vedesse, e poi lo dicesse a me, sperando che io lo dicessi a Enrico.
Un tipico tourbillon femminile. Quindi avevo fatto bene a tradire il giuramento di Lisa, che in quel caso si era rivelata troppo rispettosa della privacy di Nadine.
Quello era stato il giorno delle verità, dei chiarimenti sui grandi malintesi della Sorcière.
« Ma perché eri sempre arrabbiata?
« Non lo so, sto cercando di capirlo, sto facendo analisi, da quest’estate
« E ti serve?
« Per ora non molto, però almeno sono riuscita a capire che il mondo
non gira intorno a me, e ti assicuro che è già moltissimo ».
Enrico la adorava, quell’autocritica era una conferma delle qualità di Nadine che aumentava il suo battito cardiaco fin quasi a fargli mancare il fiato.
« E poi... ero arrabbiata perché non riuscivo ad attirare la tua attenzione. Di solito mi riesce così bene...
« Ma eri troppo, per me...
« Ma in che senso?
« Troppo bella, troppo cosmopolita, troppo spregiudicata... e poi, Esti ti descriveva come una Erinni...
« Esti è un cretino
« No, dai, è che tra fratelli, quasi sempre...
« Sì, gli voglio bene, ma è un cretino presuntuoso
« Comunque tu eri... ancora adesso... sei... troppo, per me
« Ma cosa stai dicendo?
« Si, la vita che fai...
« Ma che vita faccio, chiusa in collegio undici mesi all’anno?
« No, ma penso al resto... quando avete fatto...
« Chi, avete, chi?
« Sì, le canne... e tutto il resto...
« Dici quel giorno? Alla Batterie?
« Sì, per esempio
« Era la terza canna che fumavo in vita mia. Speravo che almeno facendoti fumare una canna ti saresti rilassato un po’.
« ... e il bagno...
« Che bagno?
« Tu, Esther e Lisa, quando avete fatto il bagno...
« Ah, senza costume, dici? Era un’idea di Lisa, ma io...
« ... avrei voluto essere... come voi
« Guarda, chiedilo a Lisa. Che quello era un tentativo estremo di riuscire a catturare la tua attenzione. Ma era un’idea sua, che io mi nascondevo e non avevo più il coraggio di uscire dal mare, per come ero grassa...
« Grassa?
« Al punto che mi vergognavo, che tremavo, che era una pazzia per vedere se ti schiodavi. E tu che non mi guardavi perché ero brutta, ero, sono... sformata. Ma Lisa ... è forte, è sana. Le è venuta l’idea: spogliamoci, che siamo in Francia, e rideva, e si è convinta subito a metterla in pratica. Dài, Nadine... fai finta di annegare, vediamo se Enrico si schioda... e ridevano. Anche Esther rideva, si divertiva e io mi nascondevo dietro a loro.
« Oh, santiddio, sei... perfetta, la creatura più...
« Dài, perfetta, contro ogni tentazione, con la faccia da porcellino d’India, come dice mio padre ».
In quel momento Enrico pensò di dare a Nadine la chiave della scatoletta. Nel suo diario di storie parallele lui, quel giorno del bagno alla spiaggia delle Batterie, rubava un gommone dove lui e Nadine tutti nudi salivano alla volta di un’isoletta disabitata dove vivevano come Adamo ed Eva. E come Adamo ed Eva ad un certo punto commettevano quel certo peccato. Forse era presto mettere davanti a Nadine una così esplicita palesazione delle sue aspirazioni. Sempre ammesso che fossero le sue aspirazioni prevalenti, perché non avevo mai sentito dire a Enrico “come la scoperei volentieri” riguardo a Nadine, frase che invece a vent’anni si adopera volentieri e con estrema prodigalità, indirizzandola ad un vasto campionario di creature umane tra le più disparate. Anzi, ricordo una sera in cui ci fu una discussione tra ragazzi e ragazze della nostro gruppo, si parlava di sesso e amore, e quasi tutte le ragazze dicevano che erano inscindibili, che nessuna di loro avrebbe fatto sesso per altri motivi. Tra i maschi invece era prevalente la posizione dei separatisti, di coloro che affermavano che le cose sono perfettamente separabili. Che ci può essere senz’altro sesso senza amore, e che tuttalpiù non ci può essere amore senza sesso. E motivavano calorosamente, nella speranza che qualche ragazza assumesse una visione meno bigotta, si diceva allora. Enrico e io avevamo una posizione più vicina a quella delle ragazze. Io lo facevo per captatio benevolentiae, lui perché ne era convinto
profondamente. Che il sesso privato del sentimento era una cosa che impoveriva la razza umana, che non siamo solo esseri biologici, ma abbiamo anche un’anima, e che l’amore a a che fare con quello.
Ragioni come un prete, gli aveva detto Esti.
Ma Enrico teneva duro, con la sua integrità che noi scambiavamo per paura o per ignavia.
Si, la chiave gliel’avrebbe data a cose fatte, con calma. Che fosse una cosa bella, da ricordare, con la mezzaluna fuori dalla finestra come voleva Nadine. Che ci arrivasse Nadine con le sue gambe, senza spingerla.
Passarono i mesi, e furono veloci, perché c’era l’università, si studiava. Enrico doveva rimettersi al passo per il fermo che aveva avuto. Si arrivò alla primavera in un batter d’occhio.
Dunque a fare i conti Nadine e Enrico non si erano visti per un bel po’, anche se si scrivevano lettere e Enrico viaggiava sempre con un sacchetto di gettoni che venivano divorati dalle cabine telefoniche.
Ma negli ultimi tempi Enrico sentiva che in Nadine qualcosa stava cambiando. Diceva che le telefonate erano più fredde.
In effetti, certe cose, da giovani si notano quando te le trovi davanti. Mentre magari gli adulti, forse i genitori di Nadine, certe cose le notano con anticipo, e fore anche Esti, quando diceva “quella psicopatica di mia sorella”, in un certo senso deteriore sapeva già quello che poi sarebbe successo.
Verso i primi di aprile infatti Nadine aveva cominciato a stare poco bene, ad avere un certo impulso ossessivo a controllare il suo peso e a rifiutare il cibo.
Sentivo Lisa, diceva che Nadine stava sempre in camera, e che continuava ad accusarsi di essere una stupida, una che non valeva niente. All’inizio io l’avevo giudicato un altro capriccio di una ragazzina ancora poco cresciuta e un po’ viziata, forse. Ma Lisa mi aveva fatto capire che la situazione era abbastanza seria, che era venuta su la famiglia per trovare una terapia adatta a Nadine, che anche a scuola andava malissimo.
Enrico naturalmente all’inizio aveva interpretato la faccenda come
un allontanamento di Nadine da lui, invece era un allontanamento dal mondo. A quell’epoca l’anoressia non era ancora cronaca quotidiana come oggi, i casi erano ancora poco conosciuti, spesso tenuti nascosti e non sempre diagnosticati nel modo giusto. I genitori di Nadine avevano sicuramente le migliori possibilità e i soldi necessari per assicurare a Nadine la migliore delle terapie. Alla fine decisero di ricoverarla in una clinica, una specie di carcere-grand-hotel d’altri tempi a Wädenswil, sul lago di Zurigo gestito dal professor Baumann, luminare della psichiatria.
Esti si era completamente trasformato: dal grande detrattore di sua sorella, ora era diventato il suo più accanito difensore e si vedeva che era preoccupato. Non si dava pace per averla chiamata psicopatica per anni. Pensava di aver contribuito con il suo comportamento al declino di Nadine.
Io, coi miei pochi strumenti interpretativi, continuavo a non capacitarmi di come una come Nadine fosse finita in quel buco. Una di una bellezza clamorosa, ricchissima, forse un po’ stronzetta, ma allegra, intelligente, con la vita davanti e la possibilità di viverla secondo le proprie inclinazioni... una che, quando si dimenticava di mettere in scena le sue isterie adolescenziali si mostrava intuitiva, sensibile, ironica...e in più, che era amata disperatamente... come poteva essere caduta giù, tanto da vedersi addirittura brutta, insignificante?
Enrico aveva continuato a scrivere, perché telefonare in clinica era difficile, c’erano certi orari. Nadine gli aveva detto che i rapporti con l’esterno in clinica erano limitati, che il percorso terapeutico prevedeva, almeno per un certo periodo, di tagliare i ponti con tutta la vita precedente. Il che, ovviamente, non significava non poter ricevere telefonate o visite, ma con tutte le limitazioni imposte da Baumann e dai suoi assistenti. Nadine aveva detto che anche i suoi genitori si erano lamentati con il professor Baumann per la difficoltà nei contatti, ma lui li aveva rassicurati sull’efficacia del provvedimento, severo ma indispensabile.
Verso aprile Enrico disse che sarebbe andato a Wädenswil per la pausa pasquale, mi chiese se volevo accompagnarlo. Facemmo un
viaggio in macchina e dormimmo in un campeggio con un freddo cane, tutto per riuscire a vedere Nadine per un’ora o poco più.
Era ben diversa dalla Nadine che avevo visto ad Antibes. La prima cosa che mi colpì fu il colore dei capelli, che da castano chiaro con bagliori di rame era diventato di un beige spento, opaco. Non era dimagrita molto, ma aveva uno sguardo disabitato, rivolto verso il basso, e le occhiaie viola. Non sorrideva mai. Parlava lentamente, evidentemente sotto l’effetto di qualche sedativo, e i suoi discorsi non erano allegri. Parlò dei suoi sbagli, degli sbagli della sua famiglia, parlò dell’errore che fecero i suoi nel metterla al mondo.
Io stetti con lei ed Enrico per una mezz’ora, poi li lasciai soli. Sulla via del ritorno Enrico era preoccupato. Non solo per la salute di Nadine, ma per la cura. Mi disse che Nadine gli aveva descritto la clinica come un luogo di assurda segregazione, dove la severità del personale sfiorava la violenza, e che comunque vilenza psicologica c’era, con le regole del professor Baumann che apparentemente ti lasciava fare quello che volevi, ma se facevi quello che volevi c’era sempre poi una specie di punizione. Tipo che potevi benissimo saltare un pasto e andare a correre nel parco, se volevi, ma poi ti avrebberio fatto una flebo di soluzione nutriente e ti avrebbero sedata. Decidi tu cose è meglio per te. Non solo. Poi, in gruppo, dovevi spiegare agli altri ricoverati il perché della tua scelta. E puntualmente arrivava il commento di Baumann che spiegava agli altri che le tue motivazioni erano spinte fuori da un istinto di morte che andava fiaccato, annientato. Nadine ne aveva parlato ai genitori, più volte aveva invocato la sua dimissione da quell’istituto, che aveva definito infernale.
I genitori pensavano che Nadine estremizzasse il racconto, lo tinteggiasse con i colori più foschi per indurli a riportarla a casa oppure a riprendere gli studi in collegio. Era evidente che in quella fase Nadine non avrebbe potuto farcela da sola, e secondo le interpretazioni di Baumann il distacco dalla famiglia era una parte fondamentale del percorso terapeutico. Quindi ascoltavano Nadine con quel pregiudizio, come se lei volesse descrivere Baumann come un nazista solo per commuoverli e convincerli.
Enrico invece era già completamente sicuro che Nadine avesse completamente ragione, che dicesse una completa verità. Mi disse anche che quel giorno aveva deciso che si sarebbe specializzato in psichiatria.
X - fine primavera e estate 1974
Io nel mio animo, con la mia completa ignoranza in ambito clinico e psicologico, ero convinto che se Enrico e Nadine avessero preso una tenda e fossero spariti dalla circolazione, loro due, da soli, Nadine sarebbe guarita. E anche Enrico sarebbe guarito, perché io continuavo a vedere Enrico come una pedina del “gioco” di Nadine. Non pensavo che fosse una simulazione, ma non riuscivo a non pensare che tutta quella tragedia fosse un po’ una delle tipiche manovre di Nadine per destabilizzare quelli intorno a lei, solo che stavolta era fatto in grande. Queste visioni così semplicistiche e inconsapevoli della maledizione che incombeva su Nadine erano anche dettate dal fatto che io non sapevo niente di disturbi legati all’alimentazione. Ero iscritto ad Architettura, e il mio corpo docente era impegnato a fare di noi studenti un manipolo di razionalisti, intrisi di ergonomia, prossemica, funzionalità e organicismo logico. Enrico invece si era iscritto a Medicina, sulle orme di suo padre che era un bravo medico. La scelta lì per lì mi aveva stupito, perché ho sempre pensato a Enrico come a un umanista, mentre medicina era anche la facoltà di quelli che non volevano scegliere tra discipline scientifiche e discipline umanistiche. Ma ora, con la decisione di Enrico di addentrarsi nella psiche umana,
i conti tornavano. La sua intelligenza andava al posto giusto, e infatti ero certo che sarebbe diventato un grande psico-qualcosa, cosa che poi si è avverata. Con l’aiuto del padre, che però era un chirurgo, Enrico aveva già da allora cominciato a studiare i fenomeni della mente. Devo dire che a quei tempi un certo interesse per l’interiorità umana serpeggiava tra noi studenti. La stessa Nadine stava leggendo Freud, cosa che avevo fatto anch’io, per passare successivamente a Jung e poi discutere con altri studenti dove, in una battaglia tra ignoranze assolute, si creavano le due fazioni a difesa di Freud o di Jung, come se fossero in polemica tra loro, come fossero i Beatles o i Rolling Stones, come un derby. Enrico invece, pur non disdegnando anche lui le letture psicanalitiche (lui ci aggiungeva anche Adler e Melanie Klein) era però attratto dall’interazione coi farmaci, da come un cambiamento nella fisiologia potesse produrre un cambiamento nella psiche. E mi parlava dell’universo che è nelle cellule nervose, nel passaggio di segnali lungo quelle sinapsi. Forse quella è stata la prima volta in cui ho sentito la parola “neurotrasmettitori”, quando Enrico mi guardò come se fossi un aborigeno australiano, dicendomi che la prima dimostrazione sperimentale della trasmissione chimica degli impulsi nervosi era stata fatta intorno al 1920. Io vedevo che questa sua inclinazione aveva trovato una strada in cui incanalarsi felicemente. Dico felicemente ma sbaglio, perché per Enrico il pensiero di Nadine era sempre presente, e alimentava i suoi studi come un fuoco sacro, nella specie di giuramento che Enrico aveva fatto a se stesso di tirarla fuori dalla merda.
Io non potevo fare a meno di notare come la vita di Nadine stesse modificando la vita di Enrico. Il suo potere magnetico, il potere che aveva avuto e che adesso sembrava non avere più, aveva su Enrico un’influenza intatta.
Pochi giorni dopo che eravano rientrati da Wädenswil Enrico era andato a parlare con la signora Chantal. Aveva voluto accertarsi che i genitori di Nadine fossero veramente consapevoli delle condizioni in cui viveva Nadine. La signora all’inizio aveva assunto un’aria un po’ incredula, come se già sapesse la storia, ovvero “la versione di
Nadine” di un percorso faticoso, senza dubbio, ma non certo quel lager descritto da Nadine, che mal sopportava le regole e le imposizioni. Poi Enrico aveva insistito, cominciando a introdurre nel discorso alcune valutazioni scientifiche.
Al telefono con Nadine, si era fatto raccontare per filo e per segno la sua giornata-tipo, le attività svolte, gli orari, le misure per gli inottemperanti, gli ungehorsam, come li chiamava Baumann. Aveva alla fine steso una specie di riassunto del protocollo di cura applicato da Baumann, compresi gli orari in cui venivano somministrati i farmaci. Però non sapeva di che farmaci si trattasse, anche se era certo che si trattava di psicofarmaci. Fece alla signora Chantal un breve excursus sugli effetti dell’uso prolungato di psicofarmaci. Parlò di terapie non farmacologiche, ma la signora Chantal obiettava che quella strada era già stata tentata, con risultati poco significativi, forse perché era “troppo poco” per Nadine. Ringraziò comunque Enrico per questa partecipazione così attiva, e promise che ne avrebbe parlato col marito.
Enrico non si dava per vinto. Mentre si rendeva conto che la signora Chantal ( e certo anche il Commendatore) non sapevano ascoltare Nadine, non le credevano, ascoltavano le sue parole con un’idea preconcetta, su un altro fronte voleva assolutamente avere un quadro completo del protocollo terapeutico che Baumann somministrava a Nadine. La convinse a spiare, a indagare per scoprire il nome dei farmaci che assumeva. D’altronde, essere al corrente dei farmaci che si assumono è un sacrosanto diritto del paziente, diceva.
Ci volle più di un mese di telefonate, di esortazioni a una Nadine assopita e triste, con lo sguardo fisso alla finestra, per riuscire a capire in che modo e quanto quella ragazza veniva tranquillizzata con la chimica. All’inizio Nadine non voleva, temeva di essere scoperta e diceva che ormai non le interessava più.
Ma le insistenze di Enrico l’avevano in un certo senso costretta a risvegliarsi un po’, e come avrebbe detto poi in seguito, quell’incarico di scoprire il nome delle medicine, quello studiare dove venivano messe le chiavi del laboratorio, quel doversi alzare di notte e cercare
perfino nei rifiuti, fu quello che in quel omento la salvò dal lasciarsi cadere del tutto nel baratro.
Quindi anche la vita di Enrico aveva un’influsso sulla vita di Nadine, e i due erano l’uno il baluardo dell’altra. Io ero sicuro di questo, e pensavo a quanto tempo mancava affinchè tutto quel disastro finisse, e i due potessero finalmente avere la possibilità di scambiarsi tutto l’amore che volevano, nel modo in cui accade a gran parte della gente.
La fretta è una caratteristica dei giovani, e a loro sembra che il tempo passi lentamente. Ma poi, quando si riguarda il tutto dalla vecchiaia, come sto facendo ora, gli eventi si incollano tutti uno sull’altro come se fossero pagine, come quando si guarda uno scenario col teleobiettivo e le cose lontane si avvicinano a quelle vicine come quinte teatrali.
A tratti, tutta la vita mi sembrava un grande spettacolo teatrale. Certo, non ero il primo a vederla così, ma quando in gioventù queste cose si trasformano da frasi sentite da altri in esperienze vissute, allora acquistano uno statuto diverso, una reale consistenza, una verità. A me sembrava che tutti recitassero una parte: Baumann, Nadine, i genitori, Enrico. A ognuno il suo preciso ruolo. Esti era stato il primo a passare dalla parte di Enrico, a dire che Nadine andava salvata.
Enrico nel frattempo aveva messo insieme una serie di documenti sulle attività della clinica di Baumann. Adesso era in grado di dire per filo e per segno cosa somministravano a Nadine, a quali altre terapie veniva sottoposta, quali erano le misure, vere e proprie sanzioni, adottate nei casi di insubordinazione e quali cose venivano definite Gehorsamsverweigerung, una parola la cui sola pronuncia ti fa già sentire in colpa.
Con il suo dossier, da studente di medicina, cominciò a interpellare colleghi, laureandi, specializzandi, riuscì anche a parlare con il docente di psichiatria, il quale lo indirizzò a un collega. Come un cane da caccia, era alla ricerca di prove che confermassero la sua ipotesi: Baumann era un criminale, non c’erano evidenze scientifiche che avvalorassero le sue tesi.
Tuttavia non trovò le conferme che desiderava. Che in ambito psichiatrico esistono teorie sperimentali, e che comunque la sedazione
fa parte del percorso terapeutico e che non si può dire se una terapia, anche se mal tollerata dal paziente, non sia efficace e tanti altri “che” che in genere i medici usano per non screditarsi a vicenda.
Enrico però pensava alle camicie di forza, a pazienti instabili rinchiusi in strutture di detenzione, all’elettroshock e a tutte quelle cose che continuavano ad essere usate a dispetto di qualsiasi evidenza scientifica, e che solo grazie Basaglia, (Enrico sostiene che dovrebbero farlo santo) di lì a pochi anni, avrebbero mostrato al mondo il loro volto infernale e sarebbero stati messi al bando.
All’inizio dell’estate Enrico telefonò al Commendatore e gli chiese di poter vedere lui e la signora Chantal. Prese tutte le sue carte e andò a casa dei Braida, armato di tutti gli argomenti possibili per convincerli a ritirare Nadine dalla clinica. In quei momenti veniva fuori l’Enrico migliore, l’individuo più determinato al mondo. Perché forse fin qui, quando ho parlato di lui, mi sono dimenticato di aggiungere questo aspetto del coraggio, che se era deficitario quando c’era da saltare una cunetta con la bici o da tuffarsi da uno scoglio, veniva fuori prepotente quando invece c’era da litigare con dei ragazzi che volevano tirare giù un nido, da salvare una bestiola o prendere le parti del più debole in qualche contesa.
E’ grazie a questi atteggiamenti che fin da bambino si è guadagnato la fama dell’alfiere senza macchia e non del cacasotto, che altrimenti gli sarebbe stata affibbiata.
L’alfiere senza macchia era andato dai Braida con argomentazioni che io avevo valutato ottime, ma il Cavaliere era un tipo tutto d’un pezzo, abituato a prendere decisioni e poco incline a rimetterle in discussione, considerato anche che Baumann godeva della sua stima incondizionata. Forse, come Enrico sosteneva, il diabolico Baumann era riuscito a influenzare anche i genitori di Nadine con qualche forma di pseudo-ipnotismo, di persuasione esoterica, di controllo della volontà? Questo era più difficile da dimostrare, ma il Commendatore alla fine decise che avrebbe fatto una visita a Nadine e avrebbe parlato con Baumann. Nonostante l’impegno assunto dal padre di Nadine, Enrico sentiva che non era riuscito a convincerli. Che uno studente del
primo anno di medicina pretendesse di insegnare a un mostro sacro come Baumann, poi... ai Braida era sembrato un gesto velleitario, presuntuoso, pur se animato da buone intenzioni.
Arrivarono i primi di agosto e non era ancora successo niente. I Braida erano stati un paio di volte a Wädenswil, avevano parlato con Baumann e avevano ricevuto ampie rassicurazione sul normale decorso della malattia di Nadine. Però Nadine stava sempre peggio. E’ vero, non dimagriva più, ma era completamente spenta. Enrico diceva che le avevano preso l’anima. Baumann invece diceva che la ripresa sarebbe cominciata da lì a poco, qualche mese al massimo.
XI - estate e inizio autunno 1975
Enrico, rimessosi a posto con gli esami nonostante l’incidente, inventò una riunione del Comitato del Gemellaggio, si fece prestare dal padre l’auto e partì per Wädenswil. Non voleva compagnia. L’alfiere senza macchia e senza paura stava agendo in lui più forte che mai. Arrivato alla clinica, dopo aver concertato la situazione con Nadine nei minimi dettagli, la caricò sulla bmw e la riportò in Italia.
La faccenda avvrebbe suscitato un putiferio, e in effetti per pochi giorni lo suscitò, ma un evento imprevisto diede poi ragione a Enrico. Erano andati nella casa di campagna dei genitori di Enrico. Alla clinica, come presumevano, sei erano ben guardati dall’avvisare la famiglia della fuga di Nadine, pensando ad un allontanamento temporaneo ma soprattutto per non intaccare l’immagine di impeccabilità dell’istituto.
Quindi i genitori di Nadine erano del tutto ignari della situazione, e
quando ricevettero la telefonata di Nadine non poterono che accettare la sua decisione. Disse che era in Italia, e che sarebbe tornata a casa a breve. Ma come? Ma perché E dove sei? E a breve quando? Nadine rispondeva a tutto, spiegava tutto, ma penso che in quel periodo non possedesse una vera e propria volontà. Agiva su consiglio di Enrico, che non voleva compiere un gesto audace e romantico ma semplicemente salvare Nadine da quello che lui presumeva essere un luogo sbagliato dove le propinavano terapie sbagliate, e si era quindi assunto la responsabilità del fatto, anche nella consapevolezza di mettersi contro la famiglia di Nadine.
Anche grazie alle conoscenze del padre, aveva preso diversi contatti e aveva già in testa un nuovo percorso terapeutico per Nadine.
Ci furono due o tre giorni in cui il commendator Braida pensò addirittura di denunciare Enrico. Nadine era stata “plagiata” e “rapita” da questo amico di Esti, che d’ora in poi avrebbe avuto l’astio dei Braida, anche per aver esposto Nadine ad una improvvisa interruzione di terapia, con tutte le conseguenze che avrebbero potuto esserci.
In verità Enrico aveva rimediato un paio di scatole di benzodiazepine e pensava che avrebbe potuto usarle nel caso in cui fosse stato necessario. Ma, come imaginava, i farmaci non furono necessari. Anzi, Nadine era parsa meno addormentata e pur essendo taciturna e di pessimo umore, diceva che i suoi risvegli erano migliori e che di notte aveva ricominciato a sognare. Enrico sapeva bene che non c’era in questo nessun segnale di guarigione. Nadine era anzi più ossessionata dal movimento e rifiutava il cibo. Le assunzioni forzate di cibo fatte in clinica tramite ogni forma di coercizione e di ricatto psicologico avevano contenuto il dimagramento di Nadine, che comunque in soli quattro mesi aveva diversi chili, e ne avevano deformato il carattere, al punto che non si poteva ottenere da lei niente senza metterle davanti degli aut aut.
Invano Enrico l’aveva esortata, l’aveva pregata di ricordare il suo carattere di pochi mesi prima. Nadine diceva che quella di prima non era lei, che la maschera era caduta e adesso tutti potevano vedere la vera Nadine. Io continuo a vedere una creatura bellissima che sta
facendo di tutto per nascondersi, le aveva detto lui. Ma i complimenti e i riconoscimenti per Nadine erano coltellate. Enrico non sapeva spiegarselo, ma era così, quasi come se l’avesse offesa.
« Scusami, Enrico. Non ho più sentimenti. Perdonami, dentro di me non sento più niente.
« Non stai volendoti bene. Se uno non si vuole bene non può nemmeno volere bene agli altri, almeno così sembra.
« No, ma io ti voglio bene. Ho come una gratitudine, per te. Per avermi portata via da quell’inferno. Ma non riesco ad abbracciarti, non ne ho voglia, non ho voglia di allargare le braccia. Ho voglia di tenerle conserte, perdonami.
« Mi abbraccerai fra un mese, o magari tra tre mesi, ma vedrai che prima o poi ti si allargheranno le braccia. Spero soltanto di esserci ancora io ».
Enrico ricordava quei due giorni nella casa di campagna come i primi in cui era stato a tu per tu con Nadine, da soli.
Avevano potuto parlare, spiegarsi delle cose, raccontarsi delle vicende, ma Nadine non era Nadine, mi aveva poi detto lui.
Ma cosa ne sai di com’è Nadine? gli chiedevo. L’hai vista per qualche giorno l’estate scorsa, poi a Natale. Non sai niente. Esti ha sempre detto che fin da piccola ha avuto un carattere bizzarro, a dir poco. Lo dovresti sapere meglio di me, dalle vostre parti li chiamano ciclotimici, o maniaco-depressivi, non so, dico dei termini a caso per dire di quelli che in un periodo si credono Marlon Brando e magari dopo un mese sono in piedi sul cornicione. Ma non è che la ragazza sarà per caso un po’ fuori di testa?
Ma Enrico sapeva chi era Nadine. Lo sapeva in un modo in cui non lo sapeva nessun altro. Non lo sapevano i suoi genitori, non lo sapeva neanche Nadine.
Dopo che Nadine venne riconsegnata alla famiglia le venne fatto l’assoluto divieto di vedere Enrico. Il Professor Baumann aveva mandato un minaccioso telegramma con l’esortazione al rientro immediato nella clinica.
Enrico fece una lunga relazione sulle condizioni di Nadine, allegò
tutto quello che sapeva sulla clinica di Baumann e alla fine mise anche una serie di dati per dei terapeuti italiani di accertata qualità, tra cui lui sosteneva particolarmente una certa dottoressa che aveva una specifica competenza sui disturbi psicologici che riguardavano il cibo. Ci allegò due righe di suo pugno e la infilò nella cassetta della posta dei Braida.
Ma la famiglia di Nadine non vedeva in Enrico una soluzione, forse piuttosto una possibile causa del problema. Nonostante ciò, quando la signora Chantal lesse la lettera di Enrico rimase colpita dalla competenza, ma soprattutto dalle osservazioni su Nadine. Chi era questo Enrico che conosceva così bene Nadine? Così tanto dall’aver notato o saputo da lei delle cose che solo una madre può sapere? La signora Chantal cominciò in cuor suo a capire che quel ragazzo verso Nadine provava un sentimento ben diverso dall’innamoramento tra studenti. E forse in cuor suo cominciava ad avvertire anche una certa simpatia per Enrico. Quando ne parlò al commendatore, quindi, la lettera di Enrico diventò qualcosa da prendere in considerazione e non il delirio di uno scriteriato presuntuoso che si era preso forse una cotta per Nadine.
Ma non ci fu bisogno di ulteriori verifiche o controprove, perché da lì a quindici giorni la Clinica Baumann venne all’onore delle cronache, che naturalmente ci andavano a nozze descrivendola come “la clinica degli orrori”. In pratica venne fuori che le fughe dalla clinica di Baumann erano già state parecchie, e che una famiglia di svizzeri aveva denunciato Baumann. La clinica era oggetto di inchieste e, dopo l’abbandono di molti degenti venne chiusa. Baumann, che continuava a proferire l’efficacia delle sue terapie, si diceva vittima di un complotto ma rischiava di essere radiato.
La notizia non ebbe un grande risalto, anche se comparse su qualche quotidiano, nelle pagine di cronaca. Ma nella famiglia Braida, che riceveva informazioni dirette, la notizia era all’ordine del giorno, e finalmente Nadine aveva raccontato in casa per filo e per segno una serie di episodi che Enrico conosceva benissimo ed aveva incluso nel suo dossier, ma che erano stati interpretati come estremizzazioni
di Nadine. Si venne poi a scoprire che mentre Nadine telefonava a casa era sempre presente qualche addetto della clinica, e che anche le lettere venivano aperte, lette e richiuse. E un paio di volte Nadine era stata “fortemente consigliata” di correggere quelle lettere e riscriverle spiegando più correttamente la vita della clinica. Quindi aveva cercato di spiegare la situazione durante le visite dei genitori, che però erano anche quelle “assistite” e il tempo che rimaneva per restare faccia a faccia era sempre meno del necessario.
Disse che le ragazze che non volevano mangiare venivano fatte dormire al freddo. E che quando imploravano una coperta tremanti, il personale fintamente soccorrevole arrivava sorridente, portando le ragazze in una bella stanza calda, con un letto soffice e delle belle coperte. Sul tavolo c’era un piatto di zuppa e un bicchiere di bevanda opaca e lattiginosa. E le veniva detto: se vuoi, puoi restare qua, riposare al calduccio, leggere, ascolare musica. Ma prima devi mangiare tutta la zuppa e bere tutto quanto, da brava. Decidi tu.
Le descrizioni di Nadine, che effettivamente aveva letteralmente provato timore per Baumann ed in particolare per il dottor Weiss che si occupava di lei quotidianamente. C’erano poi le agghiaccianti terapie di gruppo gestite dalla dottoressa Scwartz, in cui le ragazze, dopo una confessione pubblica delle loro manchevolezze si autoflagellavano ritualmente per “espiare” la colpa diaver disatteso le aspettative che il mondo aveva su di loro.
Per quanto ne poteva sapere allora di quel genere di disturbi, Enrico mi spiegò che tutte quelle tecniche erano esattamente il contrario di quanto gli studi più sensati e accreditati indicavano. Il commendator Braida era furioso, più che altro con se stesso, per aver assecondato il delirio di Baumann da cui, ammetteva, era stato persuaso con un’ostentazione ossessiva del rigore e della disciplina.
Negli anni settanta vigeva ancora la regola che i figli andavano educati; nella famigia Braida questo comportava anche il rispetto di un certo protocollo, il saper stare a tavola e in società, il parlare più lingue, il sapere come ci si rivolge a un ambasciatore o a un cardinale.
Esti aveva sofferto molto quel tipo di educazione, ma alla fine,
almeno esteriormente l’aveva appresa, salvo poi non vedere l’ora di potersene liberare. Nadine invece si era sempre opposta, lottava contro le convenzioni borghesi, diceva, lottava contro l’ipocrisia dei rapporti tra le persone, lottava perché ognuno potesse essere chi era senza dover sembrare niente.
Enrico si era lasciato crescere la barba e i capelli.
La questione della clinica aveva comunque riabilitato notevolmente Enrico agli occhi dei Braida e, anche se non lo ammisero mai in modo esplicito, ai loro occhi non era più il rapitore della figlia, ma un suo eventuale salvatore, che le aveva creduto e che era arrivato un po’ prima di tutti alla certezza che Baumann fosse fuori dal seminato. Tant’è che Enrico venne chiamato dalla signora Chantal, che ebbe un lungo colloquio con lui e lui ribadì il nome di quella certa dottoressa, la mitica Annamaria Farneschi, la psicoterapeuta che in due anni avrebbe riportato Nadine alla vita normale.
La dottoressa Farneschi non esercitava nella nostra città, bisognava andare a Milano.
Nadine nel frattempo era peggiorata un po’ e non mostrava nessuna voglia di sottoporsi a nuove terapie. L’idea, poi, di prendere il treno un giorno sì e un giorno no, da sola, non andava né a lei né ai suoi.
Fu necessario che, almeno per i primi tempi, Nadine e la madre si trasferissero a Milano. La signora Chantal stava cercando di colmare quella specie di assenza d’affetto che avevano imposto a Nadine mandandola in collegio in Svizzera. Quindi era più che mai vicina alla figlia, e nello stesso tempo era ben consapevole che la famiglia fosse per Nadine in quel momento una parte del problema più che un luogo in cui trovare conforto.
Nadine fu ben esplicita, quando disse che sarebbe andata a Milano da sola. Ma nelle sue condizioni non era possibile, almeno per uno o due mesi starò con te, poi vedremo, aveva detto la signora Chantal.
Così Nadine fu sottratta a Enrico un’altra volta, e questa volta addirittura con lui consenziente e secondo delle indicazioni che lui stesso aveva fornito.
XII - dall’autunno 1975 alla primavera 1978
Prima che Nadine desse i primi segni di miglioramento dovette passare circa un anno. Ma il problema non era risolto, anche se aveva ripreso a studiare con regolarità.
Una volta o due accompagnai Enrico che nei fine settimana andava a trovarla. Restai veramente impressionato da quelle piccole spalle quadrate, le braccia come grissini, gli zigomi sporgenti che lasciavano intravvedere il teschio. I denti sembravano più grandi. Gli occhi luminosi erano sprofondati in due buchi viola, i capelli erano opachi. Ma stava migliorando, anche se ancora non si era liberata del tutto del terrore di ingrassare.
Quello che era migliorato era più che altro il suo stato mentale, una specie di limbo dove della sofferenza precedente c’era ancora la risacca, ma la si poteva guardare dalla riva. La signora Chantal era ufficialmente rientrata a casa, ma in realtà faceva la spola avanti e indietro. Quella situazione aveva cambiato anche lei, che ora non aveva più quella sorridente efficienza che Enrico aveva conosciuto a Cap d’Antibes.
Era sempre bella, una figura slanciata di signora altoborghese e mitteleuropea, ma il suo incedere non era più quell’elastica camminata da indossatrice che avevamo notato tante volte. Era un po’ incurvata, lo sguardo non svettava più sopra le teste delle persone, era rivolto a terra. Appariva meno sicura di sè e forse un po’ invecchiata.
Nei soggiorni a Milano aveva finalmente parlato a lungo con Nadine, non mostrandosi più la madre perfetta, decisionista e inappuntabile in ogni occasione. Aveva cominciato a raccontare a Nadine le sue paure, la sua giovinezza, la sua famiglia e l’incontro con suo padre. E procedendo di pari passo con la psicanalisi della Farneschi queste nuove verità aiutavano piano piano Nadine a riappropriarsi della sua bellezza e della sua armonia.
Dopo un paio d’anni di terapia Nadine era migliorata e mentre noi ci iscrivevamo al terzo anno di università ricordo che Enrico mi mostrò
una fotografia che le aveva scattato un paio di settimane prima. La foto mi colpì perché in quel momento rividi qualche tratto della Nadine che avevo visto a Cap d’Antibes. In realtà non era proprio così, ma diciamo che era tornata ad essere una normale ragazza poco più che ventenne dalla quale trasparivano ancora le velature delle inquietudini che l’avevano messa in ginocchio.
Se a quell’epoca fossero esistiti i mezzi di comunicazione di oggi, non oso immaginare quale sarebbe stata la quantità di mail, di messaggi, di foto si sarebbero scambiati Enrico e Nadine in quei tre, quasi quattro anni in cui lei visse a Milano.
Allora erano prevalentemente telefonate serali, e poi diverse lettere. Enrico aveva conservato tutte le risposte di Nadine, una cinquantina di buste: alcune contenevano un solo foglio, altre erano gonfie e contenevano risposte lunghe otto o dieci fogli. Non gli chiesi mai di leggerle e quando lui una volta me ne porse una perché la leggessi, lo feci controvoglia. Ero contento di dare una mano alla costruzione di una casa per Enrico e Nadine, ma non avevo nessuna voglia di entrarci dentro insieme a loro.
Tuttavia Enrico insisteva, soprattutto perché voleva una interpretazione della lettera. Non era una lettera di quelle dove due persone che si amano argomentano sul loro rapporto, era l’ultima lettera di Nadine, l’ultima in ordine di tempo.
Caro Enrico sto sempre meglio, anche se mi prende lo sconforto pensare a quanto sono rimasta indietro con lo studio. Comunque anche lì sto recuperando e fra un paio di mesi penso che mi sarò rimessa in pari con gli esami. Adesso ti devo dare una notizia che non ti farà piacere, anche se so che la capirai... andrò a passare l’estate negli Stati Uniti, dalla sorella della mamma che vive a Long Beach, nella mitica California che ho visto da bambina e di cui ricordo solo un enorme parco giochi. Io non so se sono proprio favorevole a questa decisione, ma qui sembra che tutti la ritengano la cosa migliore. Riprendere una vita quasi normale ricominciando in un posto diverso, con presupposti diversi. Poi
la zia Margot è un’insegnante di yoga, mi aiuterà a mettermi in sesto.
Ho anche due cugini, laggiù. Non sarò sola. Comunque sarà per due o tre mesi al massimo, perché poi voglio tornare qua con te, e iscrivermi all’Accademia di Brera. Anzi, ai primi di settembre dovrò venire per i documenti. Quindi staremo separati ancora per un po’ anche se so che tu sei vicinissimo e lo sai anche tu che anch’io ti sono vicinissima.
Forse avrei preferito fare due mesi di vacanza insieme a te, magari nella tua casa sull’appennino dove mia hai portata quando stavo quasi per morire. Ok, esagero, però ero veramente sommersa da quella famosa brutta cosa che comincia per m.
Mi piacerebbe rivedere quei posti con gli occhi di adesso, saper guardare quelle albe e quei tramonti che tu mi facevi guardare ma che io non vedevo. Ma forse è davvero meglio mettere un po’ di distanza tra me e la vita degli ultimi anni. Meglio decantare un po’, senza avere davanti agli occhi gli stessi scenari che ho visto durante la malattia, come la chiamano loro.
L’ambiente famigliare, prima di tutto. Non vedo l’ora di poter stare un po’ senza mia madre. Poverina, lei è la prima ad averlo capito ed è la prima a soffrirne.
E mi dispiace tanto per lei e anche per papà, sento che a tutti e due voglio bene, ma veramente penso che prendermi una vacanza da loro sarà una boccata di aria fresca. A volte non li sopporto, non li reggo proprio, non riescono a smettere di recitare, è incredibile.
Per Esti invece è il contrario. Negli ultimi anni l’ho rivalutato molto. E comunque non è un ipocrita e mi vuole bene, anche se fa fatica a dirlo. Lui mi mancherà. E anche la Farneschi mi mancherà un po’.
Ma tu mi mancherai tantissimo, e mi sono detta che questi due mesi senza di te saranno l’ultima rinuncia, l’ultimo sacrificio che faccio per tornare a stare bene, perché, come hai detto tu, per voler bene a qualcuno bisogna voler bene a se stessi e io non voglio che i miei problemi rovinino la nostra relazione.
Vorrei ritrovare quella gioia incerta, forse un po’ iperbolica, che avevo addosso a Cap d’Antibes, quella famosa estate, e che io trasformavo in arroganza. Ma adesso ho capito che erano tutte manovre eversive, come
dice la Farneschi, per sottrarre agli occhi della gente la vera Nadine, che faceva un po’ schifo. Almeno così credevo.
Me l’hai detto tante volte, lo so che per te è difficile da capire. Oltre a te, anche altre persone mi hanno detto della mia bellezza, di come ero prima di cadere in depressione. Tu addirittura dici che ero come una creatura angelica che toglieva il respiro.
Ogni volta che mi dicono questa cosa mi sale una specie di vergogna. Mi sento come una prostituta sul marciapiede a cui degli ubriachi nella strada stanno facendo dei complimenti volgari. Lo so che per te non è così, lo sento che c’è della dolcezza nelle cose che tu mi dici, ma fino all’anno scorso, se riguardavo le foto che Hugo aveva fatto a Cap d’Antibes, se guardavo com’ero, io vedevo uno sgorbio grasso con una faccia da bambola idiota.
Una creatura “repoussante”, alla Farneschi mi era venuto da dirglielo in francese. E allora era venuta fuori la traduzione giusta in italiano, che non sarebbe “ripugnante”, ma piuttosto “repulsiva” (che però in francese si dice répulsive). Cioè, mi guardavo, lo capivo che non facevo schifo. Più che un mostro mi sentivo un cadavere. E ancora adesso bisogna che non mi guardi troppo allo specchio.
Comunque le foto di Cap d’Antibes dove c’ero io le ho strappate tutte, per fortuna. Anche se adesso certe volte mi pento, e le vorrei rivedere, perché l’ho capito anch’io che c’era qualcosa di strano, di sbagliato in me.
Perché quando eravamo a Cap d’Antibes mi vergognavo soprattutto perché ero grassa, cioè “mi immaginavo” grassa. La Farneschi dice che forse sarebbe meglio dire così.
Ma io, per due o tre mesi, ho pensato che tu non avevi neanche alzato gli occhi perché non c’era niente di bello da guardare.
Mi odiavo perché non riuscivo a farmi guardare da te, e anche se non lo sapevo, stavo rivivendo dei momenti dell’infanzia in cui penso di aver avuto bisogno di qualche attenzione che non mi hanno dato.
Non so di preciso quando è successo, ma quel senso di essere disperata e chiedere aiuto, e vedere che tutti si girano dall’altra parte, l’ho rivissuto nell’analisi con una chiarezza veramente esasperante, tanto da pensare che sia una specie di forma indissolubile che c’è dentro di me.
PRO-MEMORIA:
Dovrei non perdonarti per tutta la vita, per non avermi guardata. Ma poi hai fatto così tanto per me che ti ho perdonato dieci volte (scherzo, non ti perdonerò mai). Spero di abbracciarti presto. Un bacio. Nadine
A caldo dissi: « Sembra che in quella famiglia non vedano l’ora di buttarla fuori di casa.
« No, ma cosa dici? - Mi aveva risposto Enrico - Forse è davvero un bene anche per lei.
« Scusami Enrico, ma per me sarebbe un gran bene che tu finalmente te la scopassi.
« Sì, hai ragione, ma se anche lei vuole allontanarsi...
« Ma siamo sicuri che lo vuole veramente?
« Sì, direi di sì
« Ma io invece penso che quelli stanno continuando a programmare la vita di Nadine
« Sì, in parte hai ragione, ma cosa posso fare?
« Vai a riprendertela. Tira fuori l’Enrico di Wädenswil!
« Sì, divento un rapitore seriale di Nadine!
« Enrico, passa un’altra estate, e questa va in America? »
XIII - Estate 1978
La storia potrebbe finire qui, e in effetti in un certo senso è finita.
A raccontare quello che successe dopo quel fatidico maggio del 1978, quel giorno in cui un volo della TWA portò Nadine a Los Angeles, basteranno poche pagine, almeno per descrivere la loro relazione.
Enrico era rimasto ferito dalla decisione di Nadine, ma cercava di consolarsi studiando sempre di più e ritornando a tutti i seminari e gli incontri extra-universitari che aveva disertato per Nadine.
Non aveva risposto alla lettera e non si era fatto sentire per una settimana, e anche lei non aveva chiamato.
Alla fine si era risolto a scriverle una breve lettera, che mi aveva più o meno anticipato. Io non condividevo quel suo senso di rinuncia, ma come ho detto più volte, una volta detto quello che pensavo lasciavo che le persone in genere, e gli amici in particolare, agissero secondo quello che ritenevamo meglio dentro di loro. Comunque secondo me la lettera era forse un po’ troppo fredda.
Cara Nadine
La tua decisione di allontanarti un’altra volta mi addolora tantissimo. Speravo che toccasse a me e non alla zia Margot il diritto di rimetterti in sesto. (Enrico dovette riscrivere la lettera perché aveva fatto un errore, un lapsus oltremodo eloquente, e la correzione era evidentemente impossibile: aveva scritto “di rimetterti in sesso”. )
Comunque forse è davvero meglio, forse tornerai rigenerata e forse...
Quanti forse, eh? Dopo pochi attimi di luce la nostra vita è ritornata piena di forse. Comunque è davvero meglio. Forse.
Dal punto di vista razionale capisco che per te è importante allontanarti dai tuoi per un po’. Ma da un punto di vista emotivo, cardiaco, sento che è sbagliato e mi suona come ingiusto. Leggendo la tua lettera ho sentito veramente un bruciore dietro lo sterno, anche in faccia.
Te ne stai andando via un’altra volta, un’ennesima volta, vero? Ma
perché? Voglio ricordarti (ce n’è bisogno?) che potremmo (forse dovrei dire avremmo potuto) prendere la tenda e starcene in Grecia per un mese, se il problema era quello. Potevamo starcene in Val Nure, alla casa di campagna.
Non so come la pensi tu. Spero che cambi idea. In ogni caso comunque la pensi io non posso fare altro che accettare la tua decisione. Con amore infinito
Enrico
La risposta arrivò dopo circa una settimana. Come al solito, in cima al foglio c’era quel famoso cuore con le ossa incrociate. Caro Enrico per favore non drammatizzare, che è già abbastanza drammatico. Si tratta solo di due mesi, gli ultimi.
PRO-MEMORIA:
Ti prego, vieni ad abbracciarmi prima della partenza, sento il bisogno di stringerti. Lo so che è dura, ma abbiamo passato momenti peggiori. Vieni, che ti aspetto, nel frattempo ti mando un bacio forte.
Nadine
PRO-MEMORIA 2: quando vieni non dimenticare la chiave del cofanetto. Lo scuoto ogni giorno come il sangue di San Gennaro. Enrico andò trovarla e poi andò a salutarla il giorno della partenza, ma non si baciarono perché c’erano anche i genitori di Nadine. « ... e la chiave del cofanetto?
« Non te l’ho portata
« E come ... oh, ma sei un sadico. Io voglio sapere cosa c’è dentro
« Allora dovrai romperlo.
« Oh, no, questo non lo farò mai! E’ così bello! »
Passarono i due mesi estivi. Enrico aveva pensato di raggiungere Nadine in California ma non aveva ricevuto nessun invito, il dialogo con Nadine si era un po’ diradato e gli sembrava di sentire nella sua voce qualcosa che si allontanava. In più il viaggio era molto costoso e le nostre finanze di studenti avrebbero avuto bisogno di una trasfusione, ma Enrico non voleva chiedere soldi ai suoi.
I sospetti di Enrico si concretizzarono quando arrivò una lettera di Nadine.
Caro Enrico
Mi manchi tanto. Non so come mi potrò abituare alla tua mancanza. E’ una cosa triste che ti dico, ma ho bisogno ancora di tempo.
Mentre te la dico sono quasi disperata, ma in generale devo ammettere che la scelta di venire qui è stata giusta perché ho ritrovato una certa serenità e ho cominciato anche a dipingere. Non ci crederai, ma vicino al mio cavalletto c’è sempre il tuo cofanetto. Spero che quello che c’è dentro non sia fragile perché l’ho scosso talmente tante volte...
Mi sono iscritta all’Art Center College of Design a Pasadena, è una scuola fantastica, sono andata a visitarla l’altro ieri. Farò un anno qui e poi terminerò gli studi in Italia.
E’ triste sapere che saremo ancora lontani, ma è bello sognare il giorno in cui saremo vicini.
Ci ho pensato tanto, e ti confesso che stavo già per prendere il biglietto di ritorno, ma quando ho pensato al rientro a casa, alle vecchie dinamiche, alla mia camera con il manifesto di Milton Glaser, mi viene una specie di nausea e vorrei che tu facessi parte di un’altro mondo.
Vorrei averti incontrato qui a Pasadena due giorni fa.
PRO-MEMORIA:
Vieni quando vuoi, che la zia Margot ha una casa grande e ha detto che ti ospita volentieri. Ti aspetto e ti mando un bacio grandissimo. Nadine
P.S.: il cofanetto è sempre chiuso
Con la coscienza dei venticinque anni o giù di lì facevo fatica a capire bene quale fosse il determinatore della lettera. La vedevo ambigua e nello stesso tempo non potevo non vederci un arrivederci che suonava come un mezzo addio. Forse, se la leggessi oggi, ci vedrei subito l’ambiguità di Nadine, della Nadine di allora, intendo. Non un’ambiguità in mala fede o calcolata, un’ambiguità che ancora una volta portava in se stessa, una non completa padronanza delle sue scelte e forse una certa incombenza dei genitori.
D’altra parte, a quell’età, per quasi tutti noi sarebbe stato così: in una situazione del genere avremmo alla fine fatto quello che avrebbe deciso la nostra famiglia.
Fui comunque abbastanza stupito dalla reazione di Enrico. Dopo la lettera avevo temuto che ricadesse in quella fase larvale, che si richiudesse in casa con i moschettoni, ai quali nel frattempo si erano aggiunti i libri di psicologia, di psichiatria, di neurologia, di ipnosi, di psicoanalisi e perfino sulla psicosintesi di Assagioli.
Leggeva tutto, indiscriminatamente, con un appetito insaziabile, come di chi non vuole impossessarsi di una teoria, ma vuole solo perlustrare le tante strade e farsi un’idea del territorio. Noostante il suo bunker fosse sempre più attrezzato e pieno di moschettoni e di altre attrattive per un suo probabile ritiro dalla vita sociale, fu proprio lui a dirmi: prendiamo le moto e andiamo a fare un giro di qualche giorno. Anche Esti avrebbe voluto venire con noi, ma Enrico voleva non avere più rapporti con chiunque potesse rappresentare un filo, anche involontario, che lo legasse a Nadine.
Sembrava risoluto, deciso a lasciarsi tutto alle spalle. Peccato, diceva, era stato un bel progetto finito male. Un investimento sbagliato. Ma sbagliando si impara, no?
Il suo allontanamento era cominciato dicendo che la loro storia si era consumata senza ardere, che Nadine rimaneva un fiabesco sogno giovanile. Che gli aveva insegnato tante cose.
Lo vedevo cambiare, mi sembrava diventato più cinico e più cattivo, ma non pensavo che sarebbe stata una cosa definitiva.
Per l’intera esistenza non si sarebbe mai più abbandonato ad una donna. Intendo nel senso classico, quello convenzionale, cioè di mettere tutto il tuo cuore ai suoi piedi. Lo aveva fatto con Nadine, c’era riuscito con un grande sforzo, sarebbe stata la prima e anche l’ultima volta.
Anche se non si trattava di una tragedia immane, ma solo di un problematico passaggio della vita, la vicenda di Nadine lo aveva modificato, arrivando proprio in quel momento della vita in cui giorno dopo giorno costruisci il tuo modo di stare nel mondo.
Naturalmente Enrico inquadrava tutta a faccenda in una prospettiva psichica, e la liquidava con i suoi Edipi e le sue Elettre, poi passava ad altre teorie. Quando gli chiedevo di rendere comprensibile anche a me quegli intrecci di es e super-io, di animus e anima, lui li traduceva in un catalogo di errori da non ripetere assolutamente.
Primo: non puoi prenderti il ruolo di padre se sei ancora solo un figlio. Secondo: comunque, se ti prendi il ruolo di padre, tua figlia a un certo punto cresce e va a cercarsi un marito.
E l’amore? gli chiedevo io, che lo vedevo come staccato dai sentimenti, che parlava della sua vita e della vita di Nadine come un caso clinico, oppure come a un film visto qualche anno prima.
E anche lì si sprecava in risposte teoriche, cosa dice quello e cosa dice quell’altro. Che l’amore comunque è una specie di delirio proiettivo, così diceva. E che guardandolo dal punto di vista biologico è semplicemente uno stratagemma con cui la natura ci costringe a riprodurci.
Obiettavo che se quella era la sua visione del mondo, ci restava ben
poco da dirci, che io volevo tenere in vita quella visione giovanile che avevo di Enrico, un po’ da libro cuore, che tante volte nell’infanzia e nell’adolescenza mi era servita da esempio per sapere quale fosse la parte giusta. Dov’era finito quell’Enrico lì?
Dico la verità, anche se me ne vergogno, ma ricordo di aver maledetto Nadine, certe volte, per il male che gli aveva fatto, magari involontariamente, magari facendo anche del male a se stessa.
Ma non si creda che quel cinismo e quel cattedratico distacco fossero una scusa per arroccarsi in una torre. Al contrario, quel fatto di aver “separato il sesso dall’amore” (questo fu il luogo comune che Enrico utilizzava di frequente, in ispregio alla sua storia personale) aveva in un certo senso sbloccato il suo carattere. Private di una ipotesi sentimentale su di loro, le ragazze diventavano più accessibili. Poi, non so se l’ho già detto, ma Enrico era un tipo piacevole, e all’università aveva cominciato a indossare le giacche di tweed dismesse dal padre, e ci teneva sotto una sciarpa di seta indiana.
In un periodo in cui abbondavano gli eskimo e per i più chic i montoni afghani, Enrico con il suo loden spelacchiato e le scarpe da tennis non passava inosservato. Per un po’ era come se non se ne fosse reso conto, ma da un certo punto in avanti, trascorsi un paiodi mesi dalle ultime lettere di Nadine, sembrava ogni tanto alzare gli occhi alla ricerca di altri sguardi, ogni tanto sogghignare impercettibilmente notando che delle ragazze lo guardavano e poi si guardavano tra loro sorridendo. Insomma, per uno sensibile come Enrico non ci voleva molto a capire. Così aveva cominciato a fare uso del suo fascino. Forse aveva anche letto qualche dannato manuale psicologico sulla comunicazione umana. Era uscito con una ragazza del suo corso. Poi con una del terzo anno. Poi a una festa aveva conosciuto una che faceva la ballerina, non ti dico che cose da pazzi, poi la commessa di un negozio di dischi. Ci vedevamo di meno, era spesso indaffarato con delle donne.
Quando ci vedevamo sorvolava sull’argomento, ma sapevo tante cose, perché gli amici in comune erano tanti e c’era Venturini che si era iscritto anche lui a medicina, e mi diceva che in facoltà Enrico aveva
un po’ la fama del genialoide. Fama confermata dai voti, naturalmente, ma che lui che lui usava “per soggiogare le femmine”.
Finalmente, un sabato pomeriggio, uscimmo insieme a berci due birre e ritrovai la confidenza degli anni precedenti, quando eravamo inseparabili. Nonostante la sua giacca principe di galles con sotto un maglione peruviano, nonostante quella barba un po’ mefistofelica e un modo di parlare molto più rilassato e fluido, ritrovai finalmente il vecchio amico, l’amico di infanzia, quello a cui non puoi mentire, perché sa com’eri fatto mentre ti stavi facendo, quindi conosce la pasta di cui sei fatto. Gli chiesi conferma di tutte le sue conquiste, e lui mi parlava di questa e di quella, oppure quell’altra che aveva una vera passione per il sesso, ne parlava sempre con una certa ironia. Si erano come invertiti i ruoli. In quel periodo io stavo con una ragazza, e le volevo bene. Mi sembrava una bella cosa, ma senza fare grandi progetti, si stava insieme con una certa prospettiva.
Ma tienitene una di riserva, mi diceva Enrico. Ma come? Ma cosa stai dicendo? Ma non eri tu quello che sesso, amore, rispetto, ascolto del’altro erano un tutt’uno? Ma cazzo, l’ho imparato da te. Ma cosa ti ha fatto Nadine per farti diventare questa cosa qua, che non sei tu?
Quando parlava di Nadine la sua faccia si trasformava un po’, riprendeva quell’incertezza curiosa che aveva solo qualche anno prima, e che adesso era stata sostituita da un’ironica pacatezza.
Dalla sua ultima lettera non avevo più saputo niente, non sapevo neanche cosa Enrico le avesse risposto.
« Un caso interessante, quello di Nadine, diceva. Ne parlava simulando il solito distacco.
« Non fare il genio della psicanalisi con me, che non hai bisogno di dimostrarmi niente. Lo so già, e lo sapevo fin da piccoli che sarai un bravissimo strizzacervelli o psico-qualcosa. Dimmi piuttosto cosa le hai risposto e cosa ti ha risposto lei.
« Guarda, la storia di Nadine l’ho abbandonata, non so se l’hai capito. E’ nell’album dei ricordi.
« Va bene, ma cosa le hai scritto?
« Le ho scritto che ero felice per lei e che le auguravo ogni bene.
« Così? con queste parole?
« Sì, esattamente così.
« E basta?
« Sì, basta. Va bene così, credimi. Sto bene così. Che è stato veramente come per un tossico smettere di farsi le pere, essere costretto a guarire semplicemente perché sono morti tutti gli spacciatori. Te la spiego così, che rende l’idea. Tutti gli spacciatori era lei. Quella che ti dava le bustine di quella sostanza buonissima che ti manda in estasi e che però è una droga mortale. Anzi, no. Dovrebbe essere droga mortale ma poi apri la bustina e scopri che ti hanno fregato, che dentro invece della droga c’è del bicarbonato.
« Enrico, stai delirando. Lo sai, vero?
« E’ esattamente il contrario. Il delirio è un disturbo che induce un giudizio errato della realtà. E non c’è né consiglio né ’esperienza diretta che ti possano far cambiare idea. Faresti bene a dire piuttosto che sono uscito da un delirio ».
Arrivò in un tempo che adesso sembra breve anche il giorno della laurea. Per me era finito il percorso, mentre Enrico Entrava in specialità e quindi aveva davanti ancora qualche anno di studio. Ma non erano più anni da veri studenti. Enrico si era anche iscritto ad un gruppo di ricerca in cui, da specializzando, era prevalentemente nel ruolo della cavia, ma che fu anche l’inizio della sua carriera.
Nello stesso tempo incominciò a sottoporsi alla psicanalisi, non tanto per un fatto personale, perché mai come allora Enrico pareva un personaggio sicuro di sè ed equilibrato, quanto piuttosto come una necessaria tappa per diventare a sua volta psicanalista.
Enrico scelse come sua psicanalista la Farneschi. Gli obiettai che non mi sembrava una scelta molto coerente, dal momento che aveva deciso di tagliare tutti i ponti con Nadine.
« Primo: è lei che ha tagliato i ponti. - rispondeva lui - Secondo: la Farneschi è una grande psicanalista ».
Non era un brutto periodo. Per me è quel periodo incantato in cui hai finito di studiare e stai cercando un lavoro. Fai colloqui, mandi il curriculum, vai di qua e di là, e intanto ti godi gli ultimi mesi, prima che ti mettano al collo un cappio che snoderanno poi tra quarant’anni e più, sempre ammesso che ci arriviamo e sempre ammesso che lo snodino.
Questo almeno era quello che pensavo io, e che già vedevo il lavoro come qualcosa che mi avrebbe distolto per almeno nove-dieci ore al giorno dalla vita che avrei voluto vivere.
Per Enrico era diverso. Passione e lavoro coincidevano , letteralmente si divertiva mentre studiava. La sua testa era una arborescenza di curiosità continue.
Di Nadine non parlava quasi più, e se ne parlava lo faceva da critico cinematografico. Tranne un giorno, a casa sua, in cui vidi appesa al muro la piccola chiave del cofanetto.
« Ma non gliel’hai più data?
« No, alla fine è rimasta qua. E’ un souvenir.
« Ne sai più niente, di Nadine?
Allora aprì un cassetto e mi mostrò un pacco di buste. Erano le lettere che Nadine gli aveva spedito negli ultimi anni. Non le aveva aperte.
« Ma perché?
« Perché il contenuto non mi interessa più
« Non dire cazzate
« Sì, forse hai ragione. Ho deciso di non leggere, di lasciar perdere, di andare oltre. Ho elaborato il lutto, se vuoi che te la dica alla nostra maniera. Un paio d’anni fa ho cominciato a capire che non potevo continuare a martoriarmi perché il Papa era morto. Ho scoperto che il mondo è pieno di potenziali papi, che ne puoi eleggere uno, anzi una, a tuo piacimento, e far durare il vicariato quanto vuoi tu. Il nuovo Papa magari non è all’altezza della situazione... capisci, no? Pazienza. Si fa un altro papa... molti non sono che semplici curati di campagna, ogni tanto si trova qualche vescovo, i cardinali sono ancora più rari. Ah, ci sono anche i sagrestani... ».
E rideva a questo paragone, ma mentre rideva io nella sua faccia vedevo il Gwynplaine di Victor Hugo.
Sentivo che c’era tristezza, e più sopra della rabbia, e con quella aveva curato la ferita che gli aveva fatto Nadine. Come i contadini, che sulle ferite mettevano le ragnatele. Mi limitai a dirgli che quell’atteggiamento irridente e quella chiusura iperbolica e cieca verso Nadine facevano a pugni con l’uomo risolto, che grazie alla psicologia aveva acquisito uno sguardo equilibrato sul mondo e sul suo passato.
« E poi, che senso ha? La chiave del cofanetto, le lettere neanche aperte?
« E’ qualcosa che è rimasto chiuso e mi va bene così. E comunque, tutto ha una scadenza, quella è roba scaduta.
« A me sembra piuttosto il contrario - obiettavo - Uno che vuol mettere la parola fine, butta la chiave, brucia le lettere, ma comunque almeno le legge. Tu così vuoi fare il contrario. Vuoi tenere chiusi dei tabernacoli con dentro la tua ostia consacrata ».
C’era qualcosa di sgradevole, nel nostro dialogare. Come se fossimo
su due frequenze d’onda differenti, mal sintonizzati. Non mi andava di fargli una specie di paternale, e a quell’età ero piu che altro portato a prender atto del fatto che il mio amico Enrico era cambiato. Non c’era niente di strano, nella vita si cambia, tutti quanti stavamo cambiando, compreso il buon Venturini che dal mattacchione che era si era pian piano trasformato anche lui in una specie di pontefice. Gli studenti di medicina, giunti verso il quinto anno, tendono a spararti lì una incredibile quantità di diagnosi al minimo sintomo che gli racconti. E assumono mentre ti spiattellano la diagnosi un’aria un po’ ieratica. Venturini era deciso a diventare un internista e quindi era particolarmente prolifico nelle diagnosi:
« Enrico è un bilioso trattenuto, condannato quindi alla gastrite, diceva. Lo si vede dal comportamento, dall’incarnato. Ma lo vedi, che non è più lui? Che ha un atteggiamento? Gliel’ho detto, sai, che il non esprimere la propria interiorità porta a somatizzare, che provoca degli accidenti. Lui lo capisce benissimo, che di psicosomatica ne sa più di me. Ma mi guarda e ride. Si sente superiore, ma noi lo sappiamo, che è un coglionazzo come noi, vero?
Venturini gli voleva bene, era un altro della vecchia guardia che conosceva Enrico fin dai tempi del fosso.
Anche Esti si era detto strabiliato del cambiamento di Enrico. Esti era iscritto a Economia e Commercio, lo vedevamo molto più di rado ed Enrico non lo voleva più vedere, in quanto fratello di Nadine.
Era innaturale anche quel taglio con Esti, dopo tanti anni di frequentazioni. Certo, con l’università il vecchio gruppo di amici del liceo si era disgregato, ma quando ci si incontrava era sempre una gioia. Esti accettava malvolentieri la distanza di Enrico, ma diceva: comunque lo posso capire benissimo, è per quel casino che c’è stato con Nadine. La cosa buffa è che Nadine ce l’ha con me per lo stesso motivo. Dice che sono stato complice dei miei nella congiura, quando è andata in California. Quando, secondo lei, “l’abbiamo mandata” in California.
« Ma è vero? » gli chiesi
Anche Esti era cambiato. Stava facendo un corso per parlare
in pubblico, e il suo modo di parlare era più pacato ed efficace. Ti guardava negli occhi, era convincente e credibile. Si stava preparando a qualche ruolo di amministratore delegato o vicepresidente, questo era certo, ma dietro la nuova forma da adulto che stava assumendo io vedevo sempre il vecchio Esti, il riccone che da bambino anziché andare al corso di scherma strepitava per scendere a giocare con noi ai giardini pubblici.
Laureato da poco, era anche lui in partenza per gli Stati Uniti, dove andava a fare un corso per supermanager ad Harvard, proprio come nei film.
« Forse un po’ è vero. Diciamo al 15%. Lei c’è andata di sua volontà, non ce l’abbiamo mandata. Ed è andata bene così. Bisognava schiodarla da quella storia con Enrico, minacciava di suicidarsi.
« Ma perché non l’avete lasciata... ma perché non è andata con Enrico?
« Perché era ancora troppo debole, troppo in balìa di umori momentanei. Vedeva Enrico come un dio, come quello che l’avrebbe salvata da ogni cosa. La Farneschi sosteneva che l’analisi non fosse finita. Alla fine si è deciso che...
« Ma “si è deciso” chi?
« I miei.
« E la Farneschi era d’accordo?
« Non tanto
« Così, diciamo che i tuoi...
« Mio padre. Perché mia madre non voleva
« Cioè, tuo padre ha forzatamente interrotto l’analisi di Nadine e l’ha mandata in America?
« No, non è andata proprio così...
« Esti, veniamo al succo. Nadine è andata contro la sua volontà?
« Beh, diciamo che si è fidata. Poi, arrivata in California si è trovata bene, è riuscita a lasciarsi un po’ di quel casino alle spalle. Sai, mio padre non vedeva bene Enrico.
« Ma se l’aveva salvata da Baumann!
« Sì, ma in che modo? E poi, in casa pensavano che Enrico avesse
come plagiato Nadine, che lei lo stesse idealizzando in un altro dei suoi deliri...
« E tu, non dicevi niente?
« Sì, ho detto la mia. Ho detto che Enrico era un bravo ragazzo, e che secondo me non plagiava nessuno. Però ho anche detto che un cambio d’aria per Nadine sarebbe stato salutare. In camera sua ho trovato decine di fogli di carta con sopra quel maledetto cuore con le ossa incrociate e con sotto il nome di Enrico. Ce n’erano decine, centinaia. I fogli erano pieni. Capisci che ho pensato che Nadine fosse sull’orlo della pazzia, tipo Jack Nicholson in Shining.
« E insomma, anche tu eri d’accordo.
« C’è il rispetto della gerarchia, lo sai. E poi, adesso...a maggior ragione penso che sia stato un bene... Lei gli scrive, lui non risponde mai.
« E tua madre?
« Mia madre non voleva, all’inizio. Poi, un po’ che lei pensava di essere la causa dei problemi di Nadine, un po’ che c’era la prospettiva di mandare Nadine da sua sorella, la zia Margot. Si è lasciata convincere. Comunque, ti ripeto: penso che sia andata bene così, anche per Enrico.
Non sapevo cosa rispondere. Quel giorno, tra gli altri clamorosi effetti del nosto diventare adulti, vidi un Esti più riflessivo, con tanti strumenti in più per interpretare la realtà. Fu lui a portare per la prima volta la mia attenzione su due termini che fino a quel giorno per me erano stati all’incirca sinonimi.
« Sai, a un corso di sviluppo personale, c’era un docente che parlava di indole e di carattere. Io non ci avevo mai riflettuto molto, ma c’è una bella differenza. L’indole è qualcosa che abbiamo dentro di noi dalla nascita. Il carattere ce lo costruiamo strada facendo, e quello che hai intorno determina il tuo carattere, che è un po’ come tubo che l’indole trova per rapportarsi col mondo.
« Beh, in effetti...
« E guarda, questa cosa dell’indole ho cominciato a notarla nella gente. Ho cominciato a studiare la mia, e anche quella degli altri. A
vedere se assecondano la loro indole o se la tradiscono.
In quel famoso corso ci insegnavano che tu devi scoprire la tua vera indole e poi costruire la tua strategia su quella. Se sei un passero, è inutile che tenti di fare il falco.
« E tu che bestia saresti?
« Non lo so. Penso di non essere un serpente velenoso. Almeno non vorrei esserlo, al contrario di Nadine che ha sempre fatto di tutto per sembrarlo
« Però non la è
« No, credo che sia una mosca. In senso buono, intendo. Quelle mosche che ti entrano in casa e poi impazziscono, e sabattono contro i vetri perché non trovano più la via d’uscita. E in più, continuano a girarti intorno, e ti infastidiscono.
« Però a Nadine non gliel’avete aperta la finestra.
« Le abbiamo aperto una finestra su un giardino, lei voleva uscire dall’altra parte, dove un camion l’avrebbe subito schiacciata. Perchè quando sei in paranoia, anche se riesci a scappare in genere ti schianti. Nadine non conosceva se stessa, nel modo più assoluto. Ho avuto sempre la sensazione che lei volesse apparire non solo diversa da come era, ma proprio all’opposto. Un po’ come fa adesso Enrico. Mi dava un fastidio incredibile, gliel’ho sempre detto. Si vedeva a occhio nudo che non rispettava la sua indole...
« E adesso?
« Adesso fa delle cose che le piacciono, pare anche brava. In quello, nell’arte, sta seguendo la sua indole. Ma nel comportamento la vedo come spenta, rassegnata. Quel fuoco che aveva...
« Ma può darsi che sia semplicemente cresciuta
« Si, certo. Però io che la conosco fin da piccola,ti assicuro che dopo la storia di Enrico, il rapimento, quella specie di infatuazione cieca... »
Continuando a parlarmi di Nadine, non poteva fare a meno di parlare anche di Enrico.
« Anche Enrico era perdutamente innamorato. Non pensi che sarebbe stato gusto lasciarli vivere?
« Eravamo tutti troppo preoccupati per Nadine per lasciarla in balìa di se stessa».
Non ero d’accordo, ma non mi sentivo di giudicare né Esti né i suoi genitori. Non sapevo cos’avrei fatto al posto del padre di Nadine, non sapevo niente della loro vita famigliare. Chissà, magari davvero doveva staccarsi da quella famiglia apparentemente perfetta, con la signora Chantal che era sicuramente una madre amorevole, ma che era indubbiamente una donna bellissima, brillante, che conduceva la casa dei Braida come una regina e sembravea decidere tutto, almeno fino all’allontanamento di Nadine sul quale aveva delle riserve.
Ma lì era intervenuto il commendatore, il Grande Timoniere dalle decisioni irrevocabili, prese esattamente con lo stesso spirito con cui prendeva evidentemente le decisioni aziendali.
XV - 1985-1986
Passarono cinque anni, o forse poco di più. Enrico aveva finito la specialità ed aveva cominciato ad esercitare la professione di psicanalista. I nostri rapporti si erano diradati, la vecchia compagnia era del tutto disgregata: Esti, tornato dagli Stati Uniti, era stato mandato dal padre a imparare il mestiere in una filiale olandese dell’azienda di famiglia. Venturini aveva vinto un concorso ed era a correre per le corsie dell’opedale di un’altra città. Per quello che ne sapevo, Nadine era rimasta in California. Del resto, anch’io nella nostra bella città
di provincia ormai ci stavo poco perché il lavoro spesso mi faceva viaggiare.
Una sera, mentre tornavo a casa in autostrada, mi fermai a bere un caffé in autogrill e leggendo un giornale, nella cronaca di Milano, vidi un piccolo annuncio pubblicitario di una celebre galleria d’arte milanese che diceva: Textures - personale di Nadine Braida. L’inaugurazione della mostra era l’indomani.
Appena arrivai a casa telefonai a Enrico che rimase imperturbabile alla notizia.
« Lo so, ha mandato un invito, disse.
« E cosa fai? Ci vai?
« No, non posso. Tu ci vai?
« Ma davvero non ci vuoi andare?
« Purtroppo domani ho il giorno pieno. Se riesco andrò nei giorni successivi ».
Ancora una volta la sua ostinazione mi sembrava forzata, innaturale. La sua pacatezza mi irritava. D’accordo, hai dimenticato Nadine. E’ una pagina girata, un libro chiuso, tutto quello che vuoi. Ma possibile che non ti venga neanche la curiosità di rivederla?
Sinceramente, mi disse: « Mi brucia ancora.
Ebbi finalmente la conferma. Quella faccenda sanguinava ancora, o comunque, se non sanguinava più, era così fragile la guarigione da non poterla esporre neanche alla più piccola abrasione.
Forse ero rimasto l’unico a pernsarlo, ma io quando ritornavo con la memoria agli anni passati non potevo evitare di provare un rammarico per la storia di Nadine e di Enrico, che addirittura paragonavo a quella dei celeberrimi veronesi. Era stato un episodio che mi aveva impressionato perché ci sentivo dentro una nota stonata di ingustizia. Cosa sarebbe successo se quei due avessero potuto amarsi, come spesso succede a tanti ragazzi dopo l’adolescenza? Forse il Grande Amore, quello che tutti vagheggiano e quasi nessuno trova, era lì, a portata di mano. C’era stato un momento... un momento perfetto, in cui entrambi avevano letteralmente il cielo nel palmo delle mani.
C’era quella canzone francese, quella di Fugain, che continuava a tornarmi a mente come se fosse la colonna sonora della loro storia, anche se nella canzone i due ragazzi hanno un incontro fugace e poi si dicono addio. Enrico e Nadine invece non si erano mai incontrati. Lui ai tempi mi aveva detto che quando era in ospedale lei l’aveva baciato, ma lui aveva le labbra screpolate e non si era lavato i denti, essendo ingessato da cima a fondo. E quindi aveva tenuto la bocca chiusa. Cazzo, neanche un bacio, pensavo. Per non dire di una notte di intenso amore, che io da pochi anni avevo sperimentato cosa significa fare l’amore con una persona di cui sei innamorato perso, che è una cosa che non ha uguali sulla terra. Ed era successo a me, che senza false modestie, in confronto a Enrico ero una persona più banale, forse più normale, con meno talenti e forse anche senza quell’anima così grande. E anche Nadine, per quel poco che l’avevo conosciuta... no, non avrei potuto dire, a quei tempi, se Nadine aveva un’anima grande come quella di Enrico. Oggi so che è così, ma ci sono voluti altri decenni.
Comunque anch’io, come molti, guardando negli occhi Nadine, non avevo potuto fare a meno di convincermi che dietro quelle due corniole indagatrici si celasse uno spirito elevato e in fondo gioioso. Avevano un tesoro immenso, e l’avevano sprecato. Oppure era così grande che ne avevano avuto entrambi paura.
Questo era quello che pensavo allora, poco più che trentenne, quando ancora ti rimane qualche speranza che il bello, il buono, il giusto, l’amorevole, l’utile pervaderanno sempre più persone e alla fine cambieranno il mondo.
Erano già passati più di dieci anni da quella fatidica estate a Cap d’Antibes, quell’estate che dopo dieci anni ancora portava la risacca dell’Anse de l’Argent Faux a lambire ancora i miei piedi, e di certo anche quelli di Enrico.
All’ingresso della mostra c’era molta gente. L’arte mi piace, ma io non ero lì per i quadri. Cercavo di intrufolarmi nella folla di gente che chiacchierava con i bicchieri in mano, poi mi alzavo in punta di piedi
per vedere se riuscivo a vedere Nadine sopra le teste di quella massa di persone sproloquianti. Non la vedevo. Non c’era? Impossibile. Guardare i quadri? Dopo.
Certo, la fauna umana presente era notevole: la ricca sciùra milanese con il cappello da cowboy di feltro giallo limone, il giovane punk seminudo con le spille nell’orecchia, la gallerista giovane con i capelli bianchi e gli occhiali tigrati, il critico con la barba, il vestito gessato e il papillon, gli studenti di arte, alcuni dei quali ancora in stile woodstock con i capelli lunghi e i jeans consumati, altri già convertiti allo stile degli anni ottanta, con i mocassini color legno e le camicie dal colletto sfuggente. I quadri erano grandi, molto grandi. Ed erano belli, intensi. Ma io volevo vedere Nadine.
Tornai verso l’uscita e mi fermai davanti a un pannello all’ingresso. C’era sempre il cuore con le ossa incrociate, che ormai accompagnava le attività di Nadine ed era diventata la sua firma.
Mentre tenevo d’occhio il passaggio delle persone, lessi il testo che c’era sotto il titolo della mostra:
L’amore è un bisogno di affogarsi, una tentazione di profondità. In questo assomiglia alla morte. Così si spiega perché solo le nature erotiche possiedano il senso dell’infinito. Nell’amare si scende fino alle radici della vita, fino alla freddezza fatale della morte. Nell’abbraccio non ci sono raggi in grado di trapassare, e le finestre si aprono fino allo spazio infinito, affinché uno possa precipitarvi. C’è molto di felicità e di infelicità negli alti e bassi dell’amore, e il cuore è troppo stretto per queste dimensioni...
Di tutto ciò che viene offerto alla sensibilità, l’amore è il meno vuoto, al quale non si può rinunciare senza aprire le braccia al vuoto naturale, comune, eterno. Concentrando in sé un massimo di vita e di morte, l’amore costituisce un’irruzione di intensità nel vuoto.
Avremmo potuto sopportare la sofferenza dell’amore se questo non fosse un’arma contro la decadenza cosmica, contro il marciume immanente?
E saremmo stati in grado di scivolare verso la morte, attraverso incantamenti e sospiri, se non avessimo trovato in esso una forma di essere fino al non essere?
Emil
Cioran(per concessione de La Jornada)
Confesso che, un po’ superficialmente, io alle mostre non leggo mai i volantini o le spiegazioni. Guardo. E’ un evidente sitomo di
ignoranza, lo so benissimo. Infatti quella volta feci bene a leggere quel testo, perché ebbe un po’ il potere di cambiare la mia frequenza d’onda.
Avrebbe dovuto predispormi alla visione delle opere, mi predispose per sintonizzarmi con il mondo di Nadine.
Quando alzai gli occhi vidi prima Esti, che svettava un po’ per altezza, e a fianco, di spalle, c’era quella chioma castano chiaro coi riflessi appena un po’ rossi, raccolti in una crocchia sopra la nuca, una specie di vestito medioevale di velluto verde.
Esti mi vide, alzò la mano chiamandomi e Nadine si voltò.
Qui, se fossi bravo a scrivere, dovrei sprecare una pagina o due per descriverla, ma anche per descrivere le mie sensazioni, che erano quasi di soggezione, anche forse una leggera palpitazione e in un attimo pensai che era davvero facile innamorarsi di una persona così. E mi ritornava quel perenne pensiero su Nadine: il giorno in cui dovesse rendersi conto del fascino che ha, potrebbe far girare il mondo intero intorno a lei. Si girò, disse il mio nome ad alta voce ed allargò le braccia. Non so se fu una mia sensazione, ma molta gente si girò a vedere chi era questo che stava per finire abbracciato e baciato da Nadine, che era attorniata da un bel po’ di persone compresi due fotografi, che scattarono diverse foto, pensando forse che io potessi essere un personaggio famoso o rilevante.
La gallerista con gli occhiali leopardati era simpatica. Rispondeva alle domande, chiamava in causa gli astanti, si dava un gran da fare. Ad un certo punto un signore dalla folla chiese a Nadine:
« Scusi, lei è l’artista, vero? L’autrice, intendo
« Sì, sono io
« Scusi, ma non ho capito cosa c’entra il testo di Cioran che lei ha messo all’entrata con i suoi quadri, dei bellissimi intrecci astratti che... mi perdoni, ma mi parlano di tutto, tranne che d’amore!
La domanda era un po’ polemica, ma d’altra parte si era usciti da poco dagli anni settanta, e gli ultimi colpi di coda di contestazione e di critica sociale serpeggiavano ancora tra qualche gruppo di persone.
La risposta di Nadine mi disse molto su di lei, su cosa era diventata.
Bastò il suo atteggiamento, un po’ sorridente, gentile. Si avvicinò al visitatore e con un bel tono di voce, quasi un po’ teatrale, disse:
« L’amore è il motore dell’Universo. La vita è solo una delle mille manifestazioni dell’amore, come la morte. Nella trama di ogni cosa, vita e morte collaborano e si avvicendano continuamente.
Nelle mie textures c’è solo questo: un alternarsi di vita e di morte, di pieno e di vuoto. Di pieno che tenta disperatamente di coprire il vuoto, e a volte ci riesce ». Seguì un piccolo applauso. Poi Nadine aggiunse:
« Comunque il testo entrata non l’ho deciso io. L’ha deciso Miriam Kosky, la geniale gallerista che è qui con me. In ogni caso io lo trovo perfetto ».
La sua bellezza era intensa e pervasiva come un profumo. Dieci, mille volte più bella che a Cap d’Antibes, come sempre accade alle donne belle che si avvicinano alla trentina. Ma c’era qualcosa di più. C’era in lei una specie di allegria tranquilla. Aveva un sorriso, come se le scappasse da ridere, con gli occhi luminosi, le guance colorate da un po’ di emozione. Sembrava finalmente consapevole della sua bellezza, e quella bellezza sembrava essersi affrancata anche sulla salute. Quella bellezza era diventata solida, concreta. Per Nadine, che adesso assomigliava un po’ di più alla signora Chantal, quella bellezza si sarebbe instaurata pressocché identica per numerosi anni a venire, perché con lei la vita è stata gentile .
Mentre parlavo con Nadine continuavo a pensare a Enrico e mi toccava constatare che forse aveva fatto bene a non venire, perché sarebbe stato obbligato a innamorarsi di nuovo, o meglio, a ridare fuoco alle polveri del suo amore con Nadine.
Ma io mi chiedevo anche cosa ci fosse nel cuore di Nadine. Cosa fosse successo dentro di lei in quegli ultimi cinque anni. Le dissi:
« Però non sembri tanto americana, sembri più una donna preraffaellita
« Gli americani sono pazzi, mi disse lei. Però sanno organizzarsi.
« Beh, poi tu, in California, starai certo bene
« Sì, bello... un po’ finto. Ma la California è bellissima, specialmente
il sud.
« Tu stai benissimo, veramente.
« Anche tu. Cosa fai?
« Giro per cantieri. Faccio l’architetto
« Ah, come il mio fidanzato ».
XVI - autunno 1986
Esti e Nadine mi avevano poi invitato ad una cena con un po’ di milanesi colti e ricchi, ma io avevo declinato. Tornato a casa, frugando nella posta di qualche giorno prima vidi che l’invito per la mostra era arrivato anche a me, solo che l’avevo scambiato per pubblicità e non l’avevo aperto.
Comunque evidentemente era destino che ci andassi, e quindi avevo visto l’annuncio pubblicitario.
Aprii la busta, la grafica dell’invito era molto bella. Ci trascrissi dentro il numero di telefono di Nadine che avevo scritto su un pezzo di carta, poi lo fissai con una puntina da disegno sulla porta d’entrata.
Enrico non si era fatto sentire, e io non avevo sentito il bisogno di dirgli quanto Nadine fosse risorta come la Fenice. Quasi gliel’avrei voluto dire per punirlo della sua ostinazione, ma ormai ci frequentavamo così poco che quel tipo di confidenza si era persa. E anche quel gusto giovanile di compiere azioni meschine.
Dunque Nadine era fidanzata, Enrico ormai girato altrove. Forse non più chiuso nel suo guscio, ma comunque non più coinvolto nella vita di Nadine.
Tutto procedeva nella normalità di quel dialogo mancante, che ormai sembrava lasciato ai diari del passato. Ma una sera dopo cena suonò il telefono.
« Sono Nadine. Come stai?
« Che bello sentirti. Sei ancora in Italia?
« Si, parto dopodomani
« Peccato, l’altro giorno eri la superstar... avrei voluto chiacchierare di più.
« Anch’io, e infatti...
« Brava. Intanto volevo dirti che le textures sono bellissime
« Grazie, ne ho vendute cinque
« Bene
« E tu... fai l’architetto, mi hai detto?
« Sì, come il tuo fidanzato, no?
« Come lo sai? Ah, già, te l’ho detto io
« Fidanzato fidanzato?
« Boh, lui vorrebbe che ci sposassimo
« E tu?
« Ssssiiii... forse
« Beh, ma le farfalle nella pancia quando lo vedi, le senti, no?
« ...
« Eh?
« No.
« Ah, cazzo. Ma allora... perché...?
« Ma lui mi piace tantissimo. E ha un cuore grande.
« Eh, ma non bastano le dimensioni...
« Ah ah! Che stupido che sei
« No, ma dico seriamente. Che sposarsi non è mica una cosa da poco.
« Sì, infatti. Ma sai, se vuoi farlo non devi aspettare troppo.
« No, troppo no. Ma neanche troppo poco
« E tu, hai una fidanzata?
« Sì
« E la sposerai?
« Eh, mah... può darsi...
« Vedi che anche tu...
« No, ma io ...
« ... e... Enrico?
Me l’aveva finalmente chiesto. Ero praticamente certo che il motivo della telefonata fosse Enrico, e adesso arrivava la conferma.
« Enrico... è cambiato parecchio. Ci vediamo di meno.
« Ma... come sta?
« All’apparenza bene, ma...
« Lo sai che non ha più risposto alle mie lettere?
« Nadine...
« Sì?
« Posso parlarti con tutta la franchezza possibile?
« Oh, cioè, devi!
« Beh, allora ti dico cosa penso: penso che Enrico si stia rovinando la vita, sempre che non se la sia rovinata del tutto, perché era, forse è ancora innamorato di te. Ma non una cotta, neanche un’innamoramento normale... è come... tipo Paolo e Francesca... Penso, scusa il linguaggio, penso che quando eravamo a Cap d’Antibes avreste dovuto scopare come matti dalla mattina alla sera, come facevamo io e Lisa. Io non ti conosco molto, Nadine, non so se questa cosa di Enrico sia reciproca, se lo sia stata, anche se mi sembra di aver capito che anche tu...
Dall’altra parte del filo si sentiva silenzio.
« Nadine?
« Sì?
« Scusa, non so usare mezzi termini. Però capisci, io questa vostra vicenda l’ho vissuta dall’inizio, ed è stato uno strazio, vedere Enrico avvitarsi su se stesso come un lombrico
« Che bel paragone!
« Eh, lo so. Lui è un pezzo da novanta, ma su certe cose è... esitante.
Non sai quanto lo spronavo a provarci...
« Sono già passati più di dieci anni... ho quasi trent’anni. E poi, stando a quanto dice Esti, mi sembra che Enrico sia diventato una specie di Casanova... »
Forse Nadine stava facendo un ultimo tentativo. Attraverso di me, stava cercando di capire se il terreno cedevole su cui avevano camminato lei e Enrico fosse crollato tutto oppure ci fosse ancora un sentiero percorribile. Naturalmente erano tutte mie congetture, ma dentro di me sospettavo che quel matrimonio minacciato fosse una nuova sollecitazione che Nadine voleva mandare a Enrico tramite il sottoscritto.
Io mi trovavo in una situazione abbastanza spiacevole: da un lato avrei voluto rendere partecipe Enrico dei miei sospetti, fargli capire che forse lei lo aspettava ancora, che stava facendo un passo contro se stessa; dall’altro non mi sembrava giusto tentare di spostare l’enorme pietra tombale che Enrico aveva messo su tutta la faccenda.
Oppure ero rimasto l’unico a provare interesse per questa storia. Ero rimasto l’unico ad averci visto qualcosa di soprannaturale ed ero l’unico a coltivare ancora quel ricordo dentro di me.
I dubbi che avevo allora sono stati poi dissipati dalla vita, ma a quell’età mi facevo ancora un vanto di non interferire nella vita degli altri e così mi tenni la cosa per me.
Pensavo che comunque avrei trovato il modo di far sapere a Enrico qualcosa di Nadine, magari parlandone distrattamente, e vedendo, in base alle sue reazioni, se era il caso di dire tutto o solo qualcosa.
Le occasioni non erano ormai molte, ma ci pensò Venturini che rientrava in città per il weekend insieme alla sua nuova fidanzata da far conoscere ai genitori. Sapeva che anch’io da qualche tempo avevo una ragazza.
« Dai, vediamoci con le fidanzate, aveva detto
« E Enrico?
« Enrico viene con Aurora
« E chi è Aurora?
« E’ la sua... quella con cui sta adesso, per quel che può durare».
Quando lo chiamai, mi sembrò molto contento.
« Ma perché invece di andare al ristorante non venite qui a casa? Che stiamo più tranquilli e poi abbiamo più tempo per parlare dopo cena» disse.
Entrammo, e dal modo con cui ci salutavamo e ci presentavamo, sembravamo tre coppie di signori con le relative consorti. Lo spumante, il dolce.
Fu quella la prima volta che vidi Aurora, e rimasi subito colpito dalla sua efficiente capacità organizzativa. Aveva trasformato la casa di Enrico: i libri erano ordinatamente disposti in scaffali, la scrivania era straordinariamente sgombra e tutto intorno c’era un’aria di pulito e organizzato, ben diverso da come avevo visto la casa di Enrico fino a pochi mesi prima, con i pro-memoria appesi con lo scotch allo specchio dell’entrata. Gli chiesi quale spirito lo avesse pervaso per quell’incredibile riordino e quei bei cuscini di raso verde chiaro e verde scuro. Merito di Aurora, mi rispose.
Enrico negli ultimi anni aveva avuto diverse ragazze. Qualcuna l’avevo anche conosciuta, e in genere avevo sempre avuto la chiara sensazione che fossero compagnie occasionali. Per una sera, un weekend, o magari anche per un mese, ma comunque con la data di scadenza bene in evidenza.
Aurora era diversa. Progettuale, determinata, seria, intelligente. Non molto attraente, ma elegante e con un certo fascino, un’aria un po’ medicale, pulita. Infatti era anche lei una psichiatra, una collega, disse Enrico.
Ma prima che vi facciate delle idee sbagliate, volevo dirvi che io e Aurora non stiamo insieme, siamo solo molto molto amici.
Collaboravano insieme a un progetto di ricerca dell’università, dove Enrico sperava di conquistare una docenza.
Da come Aurora lo guardava, mi feci l’idea che lei fosse innamorata, mentre lui la vedeva effettivamente come una collaboratrice con cui si era consolidata una amicizia piena di stima. Ma in quel momento
sottovalutavo Aurora; lei apparteneva a quel tipo di donne che fanno progetti a lunga scadenza e mettono in campo un sacco di strategie per raggiungere i loro obiettivi. C’è quel famoso proverbio che dice che dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna, e anche se forse neppure lei in quel momento lo aveva ancora messo a fuoco, Aurora aveva un progetto sulla sua vita e anche sulla vita di Enrico. Capii che gli avrebbe costruito una tela intorno, e dentro la tela avrebbe tolto tutti gli ostacoli, capii sarebbe stata disposta ad annullarsi per costruire il successo di Enrico.
A distanza di tutti questi anni ancora oggi a volte mi compiaccio per quanto quella prima impressione sia stata corretta e veritiera, altre volte invece penso di avere frainteso e di non aver mai capito veramente che tipo di donna sia Aurora.
Il rapporto tra Enrico e Aurora mi era parso svilupparsi tutto sul piano intellettuale. Tra loro non c’erano sguardi complici, scambi di sorrisi o battute ironiche sul carattere. Si trattavano come colleghi, e infatti per loro espressa dichiarazione “non stavano insieme” eppure io avrei scommesso che Aurora prima o poi avrebbe espugnato i bastioni di Enrico. Ma avrei anche scommesso che non l’avrebbe mai amata davvero. E avrei vinto.
Aurora non era affatto antipatica, anzi. Sapeva rendersi piacevole, era gentile e attenta. Forse addirittura così sapiente da volersi accreditare perfino con i vecchi amici di Enrico, magari solo per non dispiacerlo. Perché la sensazione che ne ricavai fu anche quella di non capire bene quali fossero i suoi gusti, le sue posizioni. Era capace di tenere un ruolo, era capace di fingere.
Per differenza, mi venne in mente Nadine, e pensai: Aurora è il suo esatto contrario. Anche questa è una di quelle stupide semplificazioni che si fanno a trent’anni, ma in quel momento le vedevo veramente come due figure opposte, come la donna di cuori e la donna di picche.
Forse, da qualche parte, nella testa di Enrico, stava maturandosi l’idea che una persona così utile, così capace di costruire scalini per salire, era anche una persona alla quale si poteva voler bene, soprattutto se questa
persona sta costruendo gli scalini per te.
In quel momento, senza rendermene conto, intuivo qualcosa di simile e mi sentivo infastidito.
Poi, andando via, da vigliacco, gli dissi:
« Ah, stavo per dimenticarmi: ti porto i saluti di Nadine, dice di preparare i confetti, che sta per sposarsi.
Poi mi girai e me ne andai via, e questo a riprova che non c’era da parte mia nessun godimento, nessun “voglio vedere che faccia fa”. Avevo solo fatto un ingenuo ragionamento: mettiamo che esista ancora un filo di speranza. Mettiamo che il filo di speranza ce l’abbia nelle mani io, che in questo momento sono lo strumento, l’unico miserabile strumento che il destino ha in mano per compiere il suo progetto. Era chiaramente una stupida illazione; sappiamo benissimo che il destino quando vuole compiersi non ha certo bisogno di persone o cose.
Se vuole può compiersi travolgendole addirittura, scaraventando nel vuoto migliaia di persone, uccidendole, obbligandole a fuggire dalla loro casa... quale assurda presunzione mi spingeva a tanto? Eppure lo feci, e in cuor mio sapevo che Nadine lo avrebbe voluto. Mentre io e Venturini tornavamo a casa constatavo ancora una volta come la vita di Enrico si stesse differenziando dalle nostre. La mia ragazza e la ragazza di Venturini erano due tipe simpatiche, alla mano. Si potrebbe dire due neolaureate normali, alla ricerca del loro destino. Noi ne eravamo innamorati, e infatti da lì a qualche anno saremmo entrambi convolati a nozze più o meno felici. Le nostre due ragazze avevano simpatizzato molto tra loro, ma non molto con Aurora. Nonostante ciò, fu proprio grazie ad Aurora che il gruppo dei vecchi amici trovò ancora delle occasioni periodiche per rivedersi. Aurora organizzava le cene, telefonava a Esti si accordava con mia moglie Annamaria, passava in palestra a prelevare la moglie di Venturini, preparava da mangiare e comperava il gelato.
E in altre sere, Aurora invitava a cena dei docenti universitari, degli editori, dei giornalisti. Aurora teneva l’agenda di Enrico. Aurora faceva in modo che Enrico scrivesse una relazione per quella tale Associazione. Aurora faceva in modo che Enrico fosse chiamato come
relatore a quella tale conferenza. Aurora trascriveva e correggeva i testi di Enrico e decideva il colore dei suoi pullover.
XVII - Primavera-estate 1994
Negli anni successivi le nostre vite avevano proceduto in modo molto prevedibile. Erano successe diverse cose, ma nessuna veramente significativa per quanto riguarda la nostra vicenda.
Sia Venturini che il sottoscritto ci eravamo sposati, avevamo fatto figli ed eravamo proiettati nel lavoro, in quella specie di quarantennio di delirio che ci costringe a spostare il centro della nostra vita fuori dal suo vero centro, nella convinzione che stai costruendo il futuro dei tuoi cari e nella dimenticanza che i tuoi cari, i tuoi figli, in particolare, hanno bisogno che tu costruisca loro anche un presente.
Io per la verità mi ero innamorato di mia moglie Annamaria per il suo mero aspetto fisico. Stavo seguendo dei lavori di ristrutturazione per un piccolo editore locale, ed ero rimasto rapito da questa giovane coordinatrice editoriale che sembrava una via di mezzo tra la Audrey Hepburn di Insieme a Parigi e la Lauren Bacall in Il grande sonno, o almeno così la vedevo io. All’inizio faceva un po’ la sostenuta, perché le piacevo ma non le ero parso intelligente. Lei, intelligente lo è parecchio, spesso mi sembra addirittura che il suo modo di pensare somigli a quello di Enrico. Dell’Enrico dei vecchi tempi, intendo.
Venturini era riuscito ad ottenere un trasferimento e a tornare in città. Io continuavo a fatica ad esercitare la libera professione, con quel tanto di minimo successo da non sentirmi di abbandonarla. Esti viaggiava molto, ma quando tornava a casa avvertiva sempre Aurora, che per Esti aveva una spiccata predilezione essendo appartenente al jet set. Enrico aveva fatto carriera, come previsto. Era diventato assistente e a breve aspettava un concorso fatto su misura per lui per appropriarsi di una docenza all’università. In più continuava la sua attività come terapeuta, con un’agenda piena di appuntamenti ed inaccessibile a nuovi pazienti. Grazie ai buoni uffici di Aurora, che apparteneva a una famiglia influente, Enrico era anche entrato a far parte del comitato etico di una certa clinica psichiatrica, e da lì a breve ne sarebbe divenuto consulente.
Io osservavo la vita di quell’Enrico che era diventato così diverso dall’Enrico pauroso della gioventù. Eravamo tornati amici, ma era come se lo fossimo diventati da poco tempo. Se con Venurini era frequente rievocare le gesta dell’adolescenza, con Enrico il passato era una specie di tabù. Quando il passato compariva nei nostri dialoghi, lui lo liquidava sempre con un sorriso da bon père che scuote la testa indulgente alle marachelle dei ragazzi.
Quindi, era questo, per lui? Quel periodo fantastico in cui la tua indole traspare ancora sotto una struttura caratteriale in via di solidificazione, quel periodo in cui giorno dopo giorno, ti inventi un tuo modo di stare nel mondo, davvero per lui era solo era solo una collana di ragazzate, buone solo per il dimenticatoio? Per me non era così, e mi dava fastidio che lui la potesse pensare diversamente. A meno che la faccenda di Nadine non lo avesse costretto a fare un unico mazzo delle sue paure, dei suoi sensi di colpa, delle promesse, dei malintesi, dei tuffi al cuore e delle lacrime, e buttare tutto nella spazzatura, senza selezionare, come quando vuoi vuotare un magazzino e cominci a cacciare via le cose in blocco, senza stare a guardare in ogni scatola e in ogni sacchetto per vedere se qualcosa ti può ancora servire.
Di Nadine avevo notizie tramite Esti, e poi ci sentivamo almeno un paio di volte l’anno. Se veniva in Italia trovavamo sempre il tempo
per un caffè. Anche lei, seguendo un copione ben previsto, a dispetto della sua impetuosità giovanile poi tramutatasi in autlesionismo, si era sposata con l’architetto americano (per la verità di origini irlandesi), aveva avuto una figlia ed era in attesa del secondo.
Come sua madre, aveva ormai acquisito un certo fascino adulto ma aveva ancora qualcosa di scapestrato e qualche lampo di irrequietezza negli occhi, che nella signora Chantal non avevo mai notato, trovandovi invece sempre un pacato e tranquillo sguardo, da padrona della situazione.
Negli occhi di Nadine invece io vedevo ancora quella curiosità nervosa che avevo visto a Cap d’Antibes. Con gli anni la nostra confidenza era aumentata e lei era diventata simpatica, incline allo scherzo e al sorriso. Nonostante una solida famiglia americana, una notevole sicurezza economica, una bellezza invidiabile e sempre luminosa, in molte cose Nadine per molti aspetti continuava ad essere una specie di Pippi Calzelunghe.
« E’ grazie all’arte che non sono caduta in qualche altro stereotipo, mi aveva detto
« In effetti sei molto lontana dalla tipica moglie americana
« Per fortuna, no?
« Certamente!
« Mio marito mi vorrebbe più americana
« Cioè, in che senso?
« Incontri, cene, gioielli grossi e vestiti da sera tipo la Barbie Reginetta
« E tu?
« Ci stiamo lavorando ».
Non so se fosse una mia sensazione, ma ogni tanto, quelle poche volte che ci siamo visti, i suoi occhi mi indagavano, scrutavano il mio sguardo, aspettavano forse qualche parola senza chiederla, qualche risposta senza voler formulare la domanda.
Avrei voluto parlarle di Aurora, di come Enrico avesse scelto quel percorso in ascesa, senza più guardare al posto da cui era partito. Ma forse mi inventavo tutto. Quasi certamente ormai per Nadine era
soltanto un ricordo, un piccolo rimpianto degli anni giovanili, di quelli che quando ci sei dentro ti sembrano enormi e poi se li riguardi dopo vent’anni ti accorgi che erano poco più di un gioco.
Ma durante una telefonata, fu quando mi disse che era in attesa del secondo figlio, i miei dubbi ancora una volta si rivelarono fondati.
« Hai notizie di Enrico?
« Enrico? Ah, sì certo. Sta bene.
« Mi ha detto Esti che presenta un suo libro il mese prossimo a Milano
« Ah, sì. Da Feltrinelli, credo « Ci vai?
« Penso di sì « Se venissi?
« Oh, beh... certo, perché no?
« Non so...
« Beh, forse...
« Sai, non mi ha mai più scritto...
« Lo so
« Niente, neanche una telefonata quando è nata Emily « Non so cosa dirti, in effetti...
« Ma come sta?
« Direi che sembra entrato nel ruolo di uomo di successo « Ma ha una compagna? Esti mi ha detto di questa Aurora... « Più che una fidanzata a me pare un’amministratore delegato « Uh, in che senso?
« E’ una di quelle donne che decidono loro, non so se hai presente « Ah
« Allora, vieni? Vengo con mia moglie a prenderti all’aeroporto « Non so. Tu cosa dici?
« Non dico niente, che quando parlo sbaglio. Ma tu hai voglia di fare il viaggio, che sei in attesa?
« Ma sì, quello non mi pesa « A proposito, è maschio o femmina?
« Maschio
« Sapete già come chiamarlo?
« Enrico ».
In effetti poi Nadine era venuta alla presentazione. Alla fine, si era messa in coda per avere una firma sul libro.
Non so di preciso cosa avesse nella testa. Se fosse venuta solo per festeggiare un vecchio amico, o se invece non fosse animata dal desiderio di rivederlo. Le parole che si scambiarono furono davvero poche, e sotto gli occhi vigili di Aurora avevano anche un timbro molto convenzionale. Ma quando Enrico alzò gli occhi per vedere in faccia la persona che aveva davanti ebbe per un attimo quello sguardo sperduto che gli leggevo da studente sotto le palpebre abbassate. Fu questione di un attimo, poi riprese il controllo dello psichiatra in ascesa. Un produttore della televisione lo aveva avvicinato per proporgli la presenza in alcune trasmissioni, uno studente si mostrava ossequiante, una signora truccata voleva chiedergli “una specifica”. Lui rispondeva educatamente a tutti, sorvolando sapientemente sulle domande inopportune o inadeguate, ma per quei pochi secondi i suoi occhi increduli non furono che per Nadine.
Tentavano di sfuggire, di guardare intorno, di sorridere ad altre persone, ma erano attimi. Poi tornavano a guardare lei. Non so dire se con aria interrogativa o solo sorpresa, o forse con aria rapita per quella presenza che, non lo si poteva negare, era ancora più splendente e finalmente più consapevole di quella adolescenziale di Cap d’Antibes.
« Grazie, sei venuta anche tu!
« Sì
« Quanto tempo, vero?
« Sono quasi vent’anni
« Vent’anni...
« Già
« Stai in Italia per un po’?
« No, parto domani».
Poi Enrico prese il libro dalle mani di Nadine, lo aprì alla prima pagina, stette un attimo a pensare e poi scrisse:
“Nessuno ama la luce come il cieco”. (Victor Hugo)
Nadine lesse, guardò Enrico. Enrico guardò altrove. Nadine riabbassò gli occhi sulla pagina. Li rialzò. Enrico la stava guardando. « Grazie, disse Nadine. Poi prese il libo e si allontanò velocemente. Enrico la inseguì per un po’ con lo sguardo mentre se ne andava, poi venne tirato per la giacca da qualcuno e fu costretto a tornare alle firme. Non si sarebbero più rivisti per altri dieci anni.
Ritornando dalla presentazione, alla sera, Enrico aveva avuto un malore. Eravamo andati a cena insieme per festeggiare, ma dopo il primo piatto aveva cominciato a non stare bene. Per fortuna c’era Venturini, che da buon medico internista fu previdente ed accorto e fece arrivare un’ambulanza. Enrico era pallido, aveva la tachicardia e un lieve stato confusionale; Venturini continuava a chiedergli se sentiva dolore al braccio, alla spalla o da qualche altra parte, ma Enrico non rispondeva.
Venturini salì sull’ambulanza, chiese subito un defibrillatore, poi giunto in ospedale si accertò che fossero praticate tutte le terapie del caso. Probabilmente gli salvò la vita, perché un infarto incipiente senza terapie tempestive avrebbe potuto avere conseguenze gravi.
Probabilmente io fui l’unico a pensare che quel colpo al cuore fosse in relazione con la vista di Nadine. Lo pensai, ma non ne ero certo, e a volte pensai addirittura di essere fuori strada, di essere rimasto l’unico a ricordare la storia d’amore tra Enrico e Nadine.
Ma gli anni passavano, e arrivava quel momento della vita in cui le vite degli altri sono sempre meno nostre, perché ognuno di noi resta poi intrappolato nel lavoro e cerca rifugio nella famiglia, o viceversa, e in ogni caso è molto concentrato sul suo percorso.
Era accaduto così ad ognuno di noi. Esti sempre più manager cosmopolita, Venturini non era proprio un primario, ma era diventato un pezzo abbastanza grosso in ambito ospedaliero, io che maledicevo la libera professione e la partita iva, Enrico sempre più sulla cresta dell’onda, nonostante quella lieve cardiopatia lo avesse costretto a spendersi con un po’ di cautela, e a lesinare i suoi interventi pubblici in conferenze, convegni e lectio magistralis. Anzi, questa sua parsimonia contribui a rendere più preziosi i suoi interventi.
Alla soglie dei cinquant’anni, Enrico aveva già pubblicato cinque libri, di cui due per il grande pubblico e tre di carattere scientifico. Era diventato uno dei massimi esperti nella terapia dei disturbi giovanili legati all’alimentazione. Niente era successo per caso, la storia di Nadine aveva impresso una direzione alla sua vita, anche se ormai di quel bivio iniziale, dell’inizio di quella strada intrapresa decenni prima nessuno sembrava più ricordarsi.
Nadine aveva proseguito la sua vita nella West Coast, che non era più, neppure per lei, quella terra mitica che avevamo immaginato da giovani con la musica di Crosby, Stills & Nash, e neanche quella che lei aveva visto negli anni Settanta.
Si sarà capito che il fascino di Nadine io l’ho sempre subito. In lei ho sempre visto la creatura adorabile che avevo visto anni prima attraverso gli occhi di Enrico. Naturalmente ero innamorato di mia moglie ed avevo una felice vita coniugale, e Nadine era un’amica che rivedevo una o due volte l’anno, e sempre grazie a Esti, che periodicamente riuniva il gruppo di Cap d’Antibes.
Più invecchiavamo, più le riunioni del gruppo diventavano un evento piacevole e atteso al quale pian piano avevano aderito tutti. Gli anni
avevano modificato i rapporti. Hugo era diventato un uomo simpatico: il pedante tedesco aveva lasciato spazio ad un barbuto anziano vikingo dall’aria un po’ mistica che costruiva prototipi aeronautici. Lisa era diventata anche lei una mamma e la titolare di un’agenzia di marketing, aveva conservato la sua simpatia e i modi spicci, anche se forse era un po’ troppo donna in carriera. Guy-Jean era l’unico ad essere rimasto identico a se stesso, anche fisicamente. Sempre con al sua amata Catherine, sempre con la sua rimessa ad aggiustare barche, abbronzato e coi capelli lunghi.
Esti era un grande accentratore, nel lavoro si preparava a sostituire il Commendatore, con il quale aveva avuto anche notevoli scontri sulla conduzione dell’azienda, e che era ormai vicino agli ottant’anni. Nella vita privata era rimasto il guascone di un tempo, senza quella nota di carisma in più che si ritrova quasi automaticamente nella gente che ha ruoli di comando.
Esti mi era rimasto veramente amico, e questo aveva significato sia farmi avere tramite le sue aziende un bel po’ di lavoro, ma anche avermi spesso coinvolto come amico e confidente nelle sue vicende private.
Ci vedevamo con una certa frequenza, e anche i nostri figli avevano giocato insieme. Quando era stato in crisi con sua moglie, ero stato io ad adoperarmi per la loro riconciliazione. Quando stava per prendere una qualche decisione imprenditoriale, non tralasciava di chiedere il mio parere. La stessa cosa facevo io con lui.
Nadine era divenuta forse un po’ ineffabile, un po’ americana, un po’ materna. Negli ultimi anni non era più successo, ma a volte si era presentata con il suo incomprensibile marito, l’architetto americano con cui aveva fatto due figli e che a me sembrava un alieno. Non che fosse antipatico, era cortese, anche abbastanza colto, anche se all’americana. Ma mi sembrava proprio di un altro pianeta rispetto a Nadine. Non riuscivo a capire come si fossero accordate quelle due anime così diverse.
Solo Enrico disertava il Gruppo di Cap d’Antibes, nonostante le nostre frequentazioni non si fossero mai interrotte, e neppure quelle con Esti. Ci si vedeva non di frequente, ma con una certa periodicità e forse
recuperando anche qua e là dei pezzi della nostra amicizia giovanile; anche se era una operazione che Enrico sembrava fare malvolentieri, per non escludere Aurora, che con Cap d’Antibes non c’entrava per niente. Almeno questa era la motivazione che adduceva lui. Quindi ci si vedeva, di quando in quando, qui in città oppure anche a Milano. Ma per le riunioni di Cap d’Antibes lui non era mai disponibile. Era venuto solo due volte, credo nel 94 e nel 96, gli anni in cui Nadine guarda caso non era venuta. Ormai ero praticamente quasi sicuro che Enrico avesse volto rimuovere dal suo percorso ogni eventualità, ogni minima possibilità di poter imbattersi in Nadine. In quell’ostinata prevenzione io continuavo a vedere qualcosa di irrisolto, qualche cosa che doveva essere evitato. Mi ero addirittura reso complice di questa difesa, segnalando a Enrico l’eventuale presenza di Nadine in qualche occasione, o il suo arrivo in città per vedere la famiglia.
Io gli fornivo queste informazioni così, tra una frase e l’altra, en passant, ma intendevo fargli capire che avevo compreso la sua reticenza. Lui riceveva l’informazione distrattamente, come una notizia a margine, ma intendeva farmi capire che mi ringraziava per quella implicita complicità. Erano passati trent’anni da quando, compagni di banco, ci bastava guardarci per capirci, ma quella certa comunicazione metaverbale continuava a funzionare, perfino al telefono. Ero contento di avere riguadagnato il mio amico in quelle essenziali forme di riconoscimento reciproco, e anche adesso che lui era un personaggio famoso continuavo a mancargli di rispetto come si fa tra commilitoni. Anche per lui, mentre parlava con me, era più facile scendere dal ruolo, dimenticarsi per mezz’ora di essere il Celebre Psicoterapeuta e tornare ad essere il compagno di banco. Di Nadine non faceva mai menzione. Ma se la menzionavo io, lui mi faceva sempre qualche piccola domanda. Una volta mi ero forse un po’ dilungato a parlargli della vita americana di Nadine, di quanto mi aveva raccontato lei al telefono pochi giorni prima, ma lui mi aveva quasi tacitato dicendo: ma sai, mi interessa così poco quello che è Nadine oggi. Continua a interessarmi quello che era. Con lei ho passato il capodanno più bello della mia vita. Ero in ospedale con la flebo e le ossa rotte, ma è stato
fantastico. Non ce ne sarà mai più uno uguale.
Cioè, per lui Nadine era diventata, o era rimasta, come un ritratto dipinto in una galleria degli antenati, come un’istantanea scattata in un certo giorno ad una certa ora e poi appesa ad una parete a imperituro e indeformabile ricordo.
Eppure lo sapevo benissimo perfino io, che i ricordi non sono veritieri. Sono quel poco che è rimasto, i sassi più grossi nel setaccio della vita, nel cui crivello nel frattempo scorrono miliardi di granelli di sabbia che poi sono l’intera vita, tutta quella massa di granelli grigi che passano senza che ce ne accorgiamo e che se poi li metti tutti insieme fanno una montagna, e se li guardi uno per uno con una lente d’ingrandimento hanno tanti colori diversi e le forme più svariate.
Ma poi lui aveva aggiunto: Mi interessano tutte le Nadine, ne vedo decine ogni giorno, che hanno sedici, diciassette anni. Io servo a loro. A Nadine non servo più.
In parte rientrava nei suoi panni di medico, dopo quella piccola concessione confidenziale che gli era quasi sfuggita per caso, tornava ad essere l’attento analista di problemi altrui, e mi metteva lì una frase che dava un senso ben diverso a quel “continua a interessarmi”. Ma poi ci metteva lì il Capodanno più bello, le frasi apodittiche tipo “a Nadine non servo più” e io ci vedevo sotto del sangue che scorreva, ma tacevo, acconsentendo alla visione propostami da Enrico: Nadine era ormai solo un simbolo di tutte le ragazzine sofferenti, tipo un’emblema da mettere in un messaggio. La vera Nadine, quella che lui aveva amato e dalla quale era stato amato, quella che adesso viveva in California, sposata con un americano dallo sguardo da mustelide col quale aveva una figlia e un figlio che si chiamava Enrico, a lui non interessava più. Capito? Va bene, va bene. Che bisogno c’era di sottolinearlo. A volte, finito di parlare con Enrico, mi giravo indietro, rivedevo la licenza liceale, le lauree di questo e di quello, la gioia che avevamo messo nel lavoro da trentenni, la divergenza nelle nostre vite di quarantenni. Poi pensavo a mia moglie ai miei figli, che dopo un’infanzia che ci era parsa lunghissima adesso cresciuti tra febbri, vaccinazioni, piscine e alberi di Natale. E Enrico invece, con Aurora. Niente figli. Tanti libri.
Tutti e due dediti al lavoro. Possibile? più di trent’anni, quasi quaranta erano lì sul tavolo come un album di figurine Panini. Anche il Millennio era passato, e in barba alle profezie più oscure eravamo ancora tutti lì.
Fu il giorno dell’Immacolata del 2001 che Esti mi parlò a lungo di Nadine, e che mi disse che era in crisi con il marito, e che progettava di tornare. Il divorzio era in programma, si aspettava solo la maggiore età della figlia, per problemi legali o di cittadinanza, non ricordo più.
Fu in quella situazione che Esti mi rese partecipe dei suoi pensieri su Nadine.
« Sono contento che torni a casa.
« Ma col marito la situazione com’è? Civile?
« Il marito è un imbecille.
« L’ho sempre pensato anch’io.
« Comunque niente tragedie, per fortuna. Lui ha un’altra.
« Che coglione. Uno che fa le corna a Nadine
« Si, certo. Ma Nadine non è che sia innocente, eh
« Ah, no?
« No, ma non per infedeltà o altro, non per quello
« Per cosa, allora?
« Lo trattava come un idiota
« In effetti lo sembra proprio
« Sì, ma lei l’ha sposato. Ma mi domando...
« Eh, me lo sono domandato anch’io
« Secondo me non lo ha mai amato
« Ma allora, perché?
« Non farmelo dire, penso che tu lo sappia
« Enrico?
« Sì, dai
« Dopo tutti questi anni?
« Ma lei... non so... è come se non avesse mai...
« Ma lo sai che penso la stessa cosa riguardo a Enrico?
« Ma io ho parlato con lei
« No, a me con Enrico tocca leggergli tra le righe, ma...
« Ma io ti dico che ho parlato con lei
« E cosa ha detto?
« Dice che la nostra famiglia ha approfittato di un suo momento di debolezza per allontanarla dall’amore. da quello che le avrebbe reso la sua vita migliore.
« E secondo te, è vero?
« Ma no, cioè... c’è dentro un po’ di verità. Diciamo l’un per cento. Ma te lo ricordi come stava Nadine, no?
« Sì, ma sembrava che la terapia qui in Italia stesse funzionando, no?
« Si e no. La Farneschi stessa aveva detto che cambiare aria sarebbe stato un bene, per Nadine. Che poi, anche là in America, le ci sono vuluti ancora due o tre anni di terapia per mettersi in pace. Ma di pace, quella povera donna ne ha trovata poca. Forse è proprio incapace di fabbricarla, la pace. Che strano, somiglia così tanto a mia madre, eppure è il suo esatto opposto.
« E come i sogni inascoltati che si trasformano in incubi
« Cavoli, parli come Enrico
« Ah, appunto, Enrico
« Sì, credo che per Nadine sia rimasto come...
« Si, ho capito. Anch’io non trovo mai un nome, per queste cose
« Sai che ci ho pensato spesso, da giovane, alla loro storia sfortunata?
« Già, anch’io... Quando l’aveva rapita dalla clinica di Baumann... e la faccia di mio padre quando è stato costretto ad ammettere che Enrico aveva ragione. Ma soprattutto è stato costretto ad ammettere di aver avuto torto, e penso che a Enrico non l’abbia mai perdonata.
« E’ sempre tosto, il Commendatore, eh?
« Non lo dire a me, che ancora non ho capito se ha ragione lui o se ho ragione io.
« E così Nadine torna in Italia... ma è una cosa certa?
« Mah, lo sai anche tu, con Nadine non si sa mai se una certezza è certa.
« Chissà come la prenderà Enrico...
« Ma lasciamo stare Enrico. Non ti dico certo queste cose perché penso a Enrico e a Nadine insieme... proprio no.
Ma ci hai mai pensato a come sarebbe stato... cioè, loro due insieme?
Ci ho pensato ogni volta che vedevo quella specie di cowboy alieno di suo marito. Ma ci pensavo così, in astratto. Enrico mi sembra ormai da tutt’altra parte. Però penso che abbia condizionato la vita di Nadine. Lo sai che quel cofanetto di legno ce l’ha sempre lì sul comodino? Lo sai che a Cap d’Antibes Enrico aveva inciso una N su un osso di seppia e Nadine ancora oggi lo tiene nella borsa?
« Sai, Esti... ho avuto la stessa sensazione per Enrico. Che il suo lavoro, le sue scelte, quello che ha scritto, perfino quella specie di manager di Aurora... tutto sia stato come una risposta... a Nadine.
« Ma secondo me lui oggi, veramente... mi sembra proprio che non ci pensi più. A me sembra un uomo pacificato.»
« Sì, questa è l’immagine esteriore, non c’è dubbio. Ma adesso che abbiamo ripreso a sentirci più spesso, ogni tanto rivedo in lui certe tracce di come era. Forse adesso le nasconde di meno, le avrà reintegrate, come dice lui. Ma tant’è che a me è capitato più volte di pensare alla sua vita come a una lunga serie di conseguenze di quell’estate a Cap d’Antibes. Che tutte le sue scelte siano state come una ripicca o una redenzione per quella specie di vuoto che si era creato tra loro.
« Beh, comunque ormai non serve parlarne.
« Perché no?
« Perché è passata una vita, e Enrico sta facendo una vita da tutt’altra parte. E mi sembra di aver visto che evita accuratamente di incontrare Nadine.
« E secondo te, cosa significa?
« Ma sì, potrebbe essere anche come dici tu. Che anche lui ha da qualche parte un qualcosa come una ferita aperta. Ma mentre Nadine aspetta forse che in qualche modo quella ferita guarisca, forse Enrico ne ha fatto una fistola, uno stoma, e ci convive quasi dimenticandosi che c’è.
« Sì. penso che sia così
« Comunque non sono cazzi nostri, giusto?
« Sì, lo sai come la penso. Mai interferire nella vita degli altri, che tanto sanno sbagliare benissimo da soli, senza bisogno che qualcuno
li consigli di sbagliare in un modo diverso da quello che intendono praticare.
« E poi comunque la vita è come quel famoso torrente, no? E’ come l’acqua. Che per tanto che cerchi di incanalarla alla fine risponde sempre alla forza di gravità, e scende a valle. Insomma, il destino.
« Ah, bene! Detto da un imprenditore suona come una resa.
« Anche su quello ho dovuto imparare molto. Sai, l’azienda non va più a gonfie vele come nei tempi d’oro. Mio padre sostiene che è per colpa mia, di decisioni troppo democratiche. Ma non si rende conto che non dipende da noi. La nostra seguirà il destino di decine e decine di altre aziende italiane. Verranno mangiate oppure fatte fallire. Verranno comperate e chiuse. Stanno arrivando i pesci grossi, i pesci piccoli e medi come noi saranno mangiati.
« Lo sto vedendo anch’io dappertutto. Che la ricchezza è sempre meno spalmata qua e là. Che cinquanta negozi sono morti perché se li è mangiati un centro commerciale. Non c’è salvezza, vero?
« Per carità, una salvezza c’è sempre. Dipende da cosa si intende per salvezza. Certo, forse potrei tentare di diventare un pesce grosso. Potrei smettere di occuparmi di economia, di vendite e di acquisti e occuparmi solo di finanza. Potrei occuparmi solo di produrre dividendi per gli azionisti, fregandomene del destino delle aziende e di quelli che ci lavorano dentro.
« Già, pare che la tendenza sia questa, di giocare con i bilanci e le plusvalenze. Di far quadrare i conti con un teatro, di fare il gioco dei tre bicchieri con i capitali.
« Penso di non essere tagliato per passare nel nuovo millennio. Non in questo modo.
« Sei di una razza vecchia, come me.
« Eh, come in C’era una volta il West, quando Armonica dice a Frank: così hai scoperto di non essere un uomo d’affari”
« Già, e lui gli risponde: soltanto un uomo
« E’ pazzesco, vero? Dovrei essere qualcosa che non sono.
« Grazie a Dio sei qualcosa di meglio di quello che dovresti essere
« Mio padre, che ha quasi ottant’anni, dice che non ho le palle
« Lui cosa vorrebbe fare?
« Lui dice che dovremmo acquisire altre aziende, espanderci... a volte mi sembra che non abbia una visione nitida della realtà, di come tutto è cambiato.
« Servirebbero dei capitali
« Ah, certo! Dovrei andare a chiedere altri soldi a quelli che mi stanno già tenendo per le palle? Oh, non sarai anche tu come il vecchio, eh?
« Cosa farai?
« L’azienda, anzi, il Gruppo vale ancora parecchio. Finché sono in tempo lo venderò al migliore offerente. Finché ci sono gli offerenti.
« Tu ne hai, di offerenti?
« Oh, sì, certo. E sembrano anche bravi. Siccome sanno che ho qualche problema di liquidità, mi dicono: vendici la metà delle tue aziende. Ti metti in tasca un bel po’ di bigliettoni e rimani padrone per metà. Che poi proprio metà non è, sarebbe il quarantotto o quarantanove per cento. Poi fra un anno riuniscono il consiglio d’amministrazione, alzano il capitale sociale a qualche cifra inarrivabile, e mi troverò con in mano il cinque per cento della mia azienda in meno di due anni. Andrà bene se mi troveranno ancora una scrivania, ma è probabile che per uno come me ci siano ben poche scrivanie in un mondo del genere.
« E il Commendatore cosa dice?
« Mio padre dice che ho paura di saltare il fosso. Te la ricordi la storia di Enrico da bambino, no?
« Come no
« Bene, ti ricordi che Sabina mi chiamava il Giovane Leone, no?
« Si, anche il Golden Boy, certe volte
« Beh, il giovane leone ha scoperto alla fine di essere un ruminante. Non proprio un bue, neanche un agnello. Diciamo una capra. Mi va bene di fare a cornate con un’altra capra, ma non mi va di sbranare la gente. Ne ho veramente pieni i coglioni. Già troppe volte nella vita ho dovuto fare il figlio di puttana controvoglia. Ma era un gioco, l’arroganza dei quarant’anni. Mi credevo di essere davvero un golden boy.
« Ma infatti lo eri. Hai moltiplicato l’export, assunto gente, creato un nuovo stabilimento a basso impatto ambientale! Hai portato in Borsa
tre nuove società
« Sì, ma adesso è finita. Forse non ho avuto l’occhio abbastanza lungo, ma adesso porto i multifocali. O magari ho visto dove si andava, e non mi è piaciuto. Pensavo che il mercato avesse delle regole, invece ne ha delle altre. Non mi pacciono. Non mi piace più l’intera faccenda. Forse faceva schifo anche prima, e io non me ne accorgevo. Ma adesso che vedo le cose col grandangolo... non mi piacciono più. Comunque mi sto dando da fare per uscirne senza lasciarci le chiappe e facendo in modo che più gente possibile non finisca nella inevitabile merda.
« Non sei un po’ troppo pessimista?
« Mah, può darsi. Ma mi sono anche un po’ rotto di trasmettere ottimismo ai manager, quando non ne ho più molto in me stesso
« Magari si tratta di tener duro... di aspettare un po’
« No guarda, ti posso raccontare una specie di aneddoto? Ti confesso che per tutta la vita io ho sempre sentito il caffè un po’ amaro. Ma sai, con questa storia dello zucchero, la glicemia, ho sempre detto: pazienza. Mi abituo a berlo un po’ amaro. Capisci? Per tutta la vita ho sempre bevuto caffè amari. Poi, non lo nascondo mica, qualche volta succede che lo zucchero c’è, e io non l’ho girato, e alla fine, l’ultimo sorso è diventato dolce. Comunque spero sempre che alla fine ci sia il dolce, ma non succede di frequente. Sto cercando di mettere un po’ di zucchero nel caffè che sto bevendo, che adesso è veramente amaro. Anche questo non è facile, e neanche troppo etico per certi aspetti. Ma spero per me, per i figli, i miei e quelli di Nadine... spero di fare le scelte giuste.
« Quando arriva Nadine?
« Se non cambia idea arriva il 23 ».
XIX - Primavera 2008
Non so quanti lettori ancora siano rimasti interessati alla vicenda. Io a quell’epoca avevo ben altro da pensare, come Esti, come tutti gli altri, del resto. Le vite procedevano con la loro dose di incertezza e di piccoli successi. Nadine era già in Italia da qualche anno. Come pittrice aveva una certa visibilità e almeno una volta all’anno faceva una mostra negli Stati Uniti, perché la sua gallerista aveva sedi quà e là.
Le avevo chiesto di partecipare a un mio progetto per la ristrutturazione di un palazzo pubblico con un suo murale gigantesco da mettere nell’atrio. Durante quella collaborazione avevo conosciuto una Nadine diversa, direi pacificata, con il senso dell’umorismo e una certa inclinazione al sarcasmo, ma spesso allegra e di buon umore. Anche lei ormai aveva passato la cinquantina, ma era sempre bella come da giovane. D’altra parte la signora Chantal era ormai intorno agli ottanta, ma era sempre snella e dritta. A parte le rughe e i capelli bianchi era sempre quella bella signora di Cap D’antibes. E Nadine sembrava seguire le sue orme. Nel suo volto non vedevo più l’inquietudine di un tempo, ma non è che fosse sparita, si era trasformata in una strana espressione di rassegnazione malinconica. In questo c’era la più grande differenza con la signora Chantal. Lei a ottant’anni aveva lo stesso sorriso rassicurante e lo stesso sguardo un po’ materno e un po’ superiore verso le cose del mondo. In Nadine questa padronanza delle situazioni non c’era. Il suo sguardo sembrava contenere sempre una domanda.
Ovviamente era ormai ben lungi da me l’idea che questa ipotetica domanda potesse riguardare Enrico. Nadine era una persona tranquilla, allegra, e della sua vita sentimentale non sapevo niente. Per la verità avrei dovuto accorgermi che lei non menzionava mai nessun marito o compagno o amico, che i suoi riferimenti maschili erano sempre suo padre, Esti, il suo ex-marito e suo figlio. Tuttalpiù qualche critico d’arte o qualche gallerista. Ma non ci avevo fatto caso, davo quasi per scontato che una come Nadine non avesse avuto in quegli ultimi anni
ben più di un pretendente, ed ero quasi certo che avesse “qualcuno”, ma non mi interessava particolarmente, e di mia spontanea volontà non avrei mai chiesto niente.
Fu lei che durante una pausa di lavoro un giorno mi chiese di Enrico.
In particolare, voleva sapere del suo rapporto con Aurora. Che tipo era, visto che non si erano mai viste. All’inizio della chiacchierata era stata quasi una domanda un po’ distratta. E... Enrico? Come sta? Continua sempre a evitarmi come se fossi un’appestata. Non c’è stato più modo di vederlo, eppure le occasioni non sono mancate, in questi ultimi cinque o sei anni.
« Eh, già, sembra proprio così, le dissi. Poi cominciai senza troppa intenzione a parlare di Aurora. Del raporto con Enrico, che sicuramente funzionava dal punto di vista culturale e mondano, anche dal punto di vista commerciale e promozionale, se vogliamo essere meno prosaici.
« Non so che genere di rapporto sia. Non no neanche capito se vanno a letto insieme, anche se vivono nella stessa casa e ogni tanto si scambiano qualche segno di affetto. Ma sembra affetto, ecco, a me non è mai sembrato niente più di quello. Un affetto pieno di stima, anche di rispetto... ma nient’altro.
Mentre parlavo mi rendevo conto, anzi, mi si esplicitava davanti agli occhi una mia visione dei fatti, e mi rendevo conto che Aurora non mi era mai piaciuta, nonostante fosse impeccabile e sinceramente anche irreprensibile, tanto da non riuscire a trovare una vera motivazione per quella vaga antipatia. Poi mi rendevo anche conto che mi stavo scaldando. Che avrei voluto dire a Nadine: guarda che Enrico non ha mai più avuto un rapporto di vero amore, (sempre ammesso che possa esistere il vero amore come ce lo immaginiamo da ragazzi). Che ha rinunciato alla sua vita sentimentale, che ha smesso di amare le donne da quando sei andata in America. Guarda che secondo me, anche Enrico, il gran professore, lo psichiatra di fama, anche lui ha in qualche angolo buio del torace quel piccolo fuoco adolescenziale, quel desiderio di Campi Elisi, quell’aspirazione all’amore incondizionato che bene o male c’è dentro una certa percentuale di persone. Guarda che secondo
me sta ancora aspettandoti, anche se da anni si racconta l’enorme bugia che ha smesso di aspettarti già trent’anni fa.
Avrei voluto sciorinare lì, davanti a Nadine, tutta la pena e tutte le deviazioni che avevano fatto seguito a quella relazione mancata, a come le loro vite avessero deviato da una strada maestra solo perché sulla strada maestra c’erano stati diversi ostacoli. Avrei voluto, ma ormai avevo passato i cinquant’anni già da un po’, avevo i capelli grigi e l’esperienza sufficiente per capire che parlare a cuore aperto dicendo tutto quello che si pensa non sempre è una buona idea, anche se sembra sempre un anelito verso la Verità.
In questo caso, poi, non avrei rispettato la volontà di Enrico, o almeno quella che lui diceva essere la sua volontà, e cioè quella di avere una Nadine sepolta. E, ammesso che Nadine desiderasse ancora in qualche modo Enrico, avrei comunque sbagliato se le avessi anche solo suggerito qualunque remota possibilità per un incontro.
Ma poi, era la verità? O non era piùttosto un mio modo di vedere le cose, di voler ributtare della paglia su delle ceneri ormai non solo spente, ma perfino bagnate, nelle quali non c’era neppure più la memoria di quell’antico fuoco.
Io l’avevo tenuto dentro di me con quel senso di disdetta, di puntata vincente su un numero che era poi effettvamente uscito nella roulette della vita, ma di cui i giocatori non avevano incassato la vincita. Forse dipendeva dal fatto che anch’io ero stato innamorato un po’ di Nadine, ma soprattutto per interposta persona. E avrei voluto che quell’interposta persona, quella parte di me che era Enrico, potesse finalmente trovare il tanto atteso coronamento del sogno.
Così mi limitai, cercai delle risposte diplomatiche, neutre o un po’ evasive, ma più cercavo di passare ad un altro argomento più Nadine ritornava a parlarmi di Enrico. Alla fine, quando il dialogo si fece più accorato e senza barriere, me lo disse, che sentiva di averlo tradito, che capiva la sua porta chiusa, e che ormai c’era spazio solo per i rimpianti, e che quei rimpianti c’erano, e non erano né pallidi né remoti.
Al rientro dalle ferie avevo ricevuto una telefonata di Enrico.
Voleva radunare un po’ dei vecchi amici per un saluto, visto che era in partenza per Stoccarda.
« Come? Per Stoccarda?
« Sì, vado a insegnare ... e a dirigere una clinica universitaria
« Ma quanto stai?
« L’incarico è per tre anni, poi si vedrà
« Tre anni!, Accidenti, è un bel po’ di tempo
« Eh, non è escluso che vada a finire la mia carriera in Svizzera...
« Ma... perché? Qui eri messo benissimo, che bisogno c’era?
« Fare il docente in Svizzera è più interessante... e poi, legato alla clinica c’è un centro studi del quale mi interessa molto far parte... mi hanno invitato loro, sarebbe scortese rifiutare.
« Ma in Svizzera, sei famoso come in Italia?
« Guarda che a me interessa molto di più fare lo studioso che l’uomo di spettacolo. Mi frega molto di più scrivere un solo articolo su una rivista scientifica che tenere una rubrica su uno stupido portale di psicologia online, o andare in televisione a dire delle ovvietà per vedere dei libri.
« Eh, immagino. E quindi vi stabilite in Svizzera...
« Parla pure al singolare. Mi stabilisco in Svizzera.
« E Aurora?
« Aurora non viene.
« Ah, e perché?
« Stiamo per prendere strade diverse.
« Oh, cazzo. Ma perché, se non sono indiscreto?
« Lo so che ti piacciono le risposte semplici, ma una semplice non ce l’ho. E’ tutto un problema di ruoli e di proiezioni, come al solito.
« Quando parti?
« Il mese prossimo, verso il venti.
« Accidenti ».
Il fatto a me aveva lasciato abbastanza sorpreso. Ormai mi ero abituato a Enrico-Aurora come a qualcosa di inossidabile. Certo, un legame basato su ruoli ben precisi, su una reciproca utilità ed un reciproco riconoscimento intellettuale. Non certo basato su quelle che in genere si ritengono gli assi cartesiani dell’innamoramento tipo batticuore, costanza dell’altro nei pensieri, farfalle nella pancia, sorriso spontaneo e un po’ ebete quando vedi l’altro. Tra loro non c’era mai stato niente di tutto questo, eppure forse il rapporto aveva funzionato per vent’anni proprio per questo. Perché dove non c’è il-lusione non ci può essere de-lusione, come aveva pontificato una volta Enrico, e io ci avevo creduto.
Quando lo raccontai a Nadine sembrò risvegliata da uno speciale interessamento per la faccenda. Ormai mi aveva quasi eletto a suo confidente, almeno per quanto riguardava i suoi trascorsi sentimentali. Ormai era una signora di cinquant’anni passati e anche se la sua presenza fisica ne fornisse un’immagine esteriore ben diversa, lei non faceva niente per nascondere la sua età. Tendeva, anzi, ad accentuare spesso quella parola “ormai”, come se fosse veramente vecchia.
Io, che avevo pochi più di lei, non mi sentivo così, e l’avevo amichevolmente redarguita più volte sull’argomento. Ma devo dire in verità, che in quell’ormai di Nadine non c’era acredine, rimpianto o nostalgia, ma piuttosto uno sguardo benevolo, compiaciuto, a volte un po’ ironico. Lei ogni tanto chiecchierando tornava ai ricordi con Enrico, ma ne parlava con lo stesso tono con cui si raccontano le gesta di un bambino, orgogliosamente divertiti, anche se il bambino avesse rotto un vaso o rovesciato una torta sul pavimento.
Allo stesso tempo, ironizzava anche sulle faccende contemporanee:
« Chissà, magari gli tornerà anche la voglia di vedermi. Magari era lei, che lo teneva al guinzaglio”
« Non saprei, può darsi. Anche se Enrico non mi sembra uno che sta al guinzaglio”
« Magari se n’è accorto solo adesso...”
« Col lavoro che fa mi sembra difficile che non abbia analizzato a
dovere la sua relazione con Aurora. Però, chissà... a casa dell’idraulico di solito il rubinetto perde...” Nadine rise.
« In teoria saremmo due single, io e lui... Potrei invitarlo a cena”
« Pensi che verrebbe?”
« Beh, certo, non adesso, non subito. Ma mi piacerebbe così tanto parlargli. Capire il perché di questa esclusione così assoluta nei miei confronti...”
« Ne abbiamo già parlato tante volte, Nadine. Sai come la penso”
« Appunto. Potrei tornare all’attacco...” (questo lo disse ridendo, naturalmente)...
« E’ che tu sei un po’ nostalgica, come me
« Non credo di essere nostalgica. Per alcuni i ricordi sono solo cose passate da archiviare e poi da riguardare ogni tanto con rimpianto. O magari anche da dimenticare. Per me i ricordi sono come le figure delle carte da gioco. Li tiro fuori continuamente, li modifico, li combino, li invento anche, a volte. Mi ci diverto. Mi fanno compagnia, mi consolano.
« Enrico invece, almeno in apparenza, sembra proprio che voglia evitare i ricordi. O almeno certi ricordi.
« Forse ha ragione. Forse vista dalla sua parte io sono qualcosa da rimuovere completamente. Aveva una sensibilità acuta, fin troppo. Probabilmente per lui le ferite sono più dolorose. E capisco amche la sua delusione, quando me ne sono andata in America.
Ma non ero padrona delle mie scelte. Ero in balia degli eventi e la mia famiglia decideva per me. Vorrei che almeno ci fosse la possibilità di spiegarci.
« Credo che la sua fuga continui. Adesso, poi, va addirittura in Svizzera.
« Beh, Stoccarda è a seicento chilometri da Milano. Un’ora di volo o poco più”
« E’ vero, ma se non vi siete mai visti mentre eravate qua... pensa adesso!”
« Però adesso non c’è più Aurora...”
« Troverà presto una sostituta, vedrai”
« una...?”
« Sostituta”
« Ah, avevo capito un’altra cosa » (risate)
Pochi giorni dopo andai a cena da Enrico. Ci eravamo ripomessi un incontro da vecchi amici, testa a testa, prima della sua partenza.
Come prevedevo, Aurora non c’era. La casa aveva perso quello smagliante senso di efficienza e di ordine rigoroso. Un filo sottile di polvere rendeva opachi gli scaffali, in più, qualche scatolone occupava già l’ingresso. Erano i primi segni dell’imminente trasloco.
Per prima cosa parlammo dell’assenza di Aurora.
Sì, il primo segno della sua assenza è stato il crescere del disordine e lo scompaginarsi del ritmo quotidiano. Ma per fortuna ero preparato, l’avevo previsto. Era uno dei modi in cui lei si era resa insostituibile.
« Uno dei? » gli chiesi
« Sì, l’altro è che aveva dei progetti. Su si me, intendo. Pensava di avermi fatto lei e pensava che senza di lei sarei morto. O meglio: pensava che io lo pensassi. E da un certo punto di vista... certo, è vero che mi ha incanalato lei verso questa situazione
« Quale situazione?
« Questa insostenibilità dei ruoli
« Spiegami, che io psicologicamente sono un hobbysta
« Cioè, se sono arrivato dove sono arrivato è anche grazie al suo sprone, al suo organizzare, segnalare, invitare, seguire la corrispondenza... ma dove sono arrivato?
« Beh, credo che tu non ti possa lamentare
« Te l’ho già detto, a me di vendere dei libri o di andare in televisione mi frega poco o niente. Non che mi faccia schifo, ma piùttosto che essere in una tv generalista a sparare cazzate da psichiatra famoso, preferirei essere un oscuro e schivo ricercatore innamorato del suo lavoro come il primo giorno.
« E invece?
« Ma te l’immagini? Ma mi conosci, no? Ammettiamo pure che il mio ego negli ultimi trent’anni si sia addomesticato, si sia abituato a
farsi blandire, fino ad arrivare ad esserne quasi deliziato... cazzo, che vergogna.
« Beh, non la farei così terribile. Tutte le volte che ho letto un tuo articolo o ti ho visto in tv hai sempre detto cose sensate, non banali.
« Grazie, ma non è quello... non è quello che voglio.
« Cioè?
« Voglio andare avanti nella ricerca, stare più vicino ai pazienti, sperimentare tutto quello che ho capito, confrontarmi con altri, curare le persone. E poi eventualmente scrivere, ma solo se ho qualcosa da dire.
« Ma cosa c’entra Aurora in tutto questo?
« Lei non vuole. Le vorrebbe che io “cavalcassi la tigre”, come ama dire.
« E tu, invece...
« Tu forse te lo puoi immaginare. Cosa vuol dire riuscire a guidare una persona fuori da un labirinto. Guidarla fuori, completamente fuori. Non succede di frequente, ma quando succede è una soddisfazione immensa. E’ come liberare un’anima da una prigione... vederla ricostruirsi una vita...
« E’ la tua professione, no?
« La era. Ma poi i pazienti hanno cominciato a seguirli gli assistenti, le lezioni all’università le fa spesso il mio aiuto, perché io non posso mai. Cioè, capisci? non posso mai fare le uniche cose che vorrei fare.
« Hai troppi doveri istituzionali?
« Stronzate. Teatro. Non per dire che il teatro sia una stronzata eh. Ma fuffa. Presenzialismo. Incarichi. Piani di prevenzione nazionale. Commissioni. E in tutto questo ci sono entrato un po’ alla volta, un passo al giorno, senza rendermi conto che stavo andando nella direzione opposta a quella che desideravo.
« C’entra Aurora, in tutto questo, vero?
« Ma poveraccia, lei aveva il suo progetto. Le cose che ho fatto le ho fatte di mia volontà, non posso certo dare la colpa a lei. Tra l’altro significherebbe ammettere che ha avuto un potere eenorme su di me.
« Forse un po’ è vero...
« Certo che è vero! Ma chi glielo ha dato, quel potere? Non gliel’hai certo dato tu!
« Sì, capisco. Quindi adesso sei incazzato con te stesso...
« Non me lo posso permettere. Per uno come me è proibito avere una crisi.
« Comunque tra voi è finita, no? Intendo finita finita?
« Guarda che forse tu hai frainteso. Non eravamo mica una coppia.
« Però lo sembravate. E tanto, anche.
« Sì, hai ragione. Forse a tratti la siamo anche stata, una coppia. Però io non ho mai... non c’è mai stato un... ho avuto diverse relazioni...
« E lei? Lo sapeva?
« Sì, credo di sì. Non abbiamo mai affrontato l’argomento. Era chiaro fin dall’inizio. Il nostro era un sodalizio prevalentemente intellettuale, almeno all’inizio. Poi abbiamo cominciato ad andare a letto insieme. Poi è diventata la mia socia in affari, dannazione.
« Una brava socia, però. Efficiente, in gamba.
« Fin troppo. Ma poi c’è stata un’altra cosa. Un altro fatto che...
« Che?
« Che ha fatto sì che la faccenda arrivasse al suo epilogo.
« Cioè
« Mi ha chiesto di sposarla
« Ma dai?
« Diceva che lo vedeva come un fatto normale, e molto conveniente dal punto di vista legale eccetera.
« Davvero ha detto così? Ma secondo me ti ama!
« Sì, lo penso anch’io. Anche se sulla parola amore bisognerebbe mettere un asterisco e aggiungere una nota a pie’ di pagina che ne sciorini almeno un centinaio di differenti accezioni, anche solo volendo limitare il campo al solo amore sentimentale di coppia.
« A grandi linee... boh, credo di capire.
« Guarda, in genere i rapporti o sono nevrotici o sono terapeutici... e in entrambi i casi sono destinati a finire. Se sono nevrotici, come nella maggior parte dei casi, finiscono per insostenibilità. Se invece sono terapeutici finiscono perché quando hanno assolto la loro funzione non
servono più. Anche se, in verità anche in questo caso ciò che sembra o che si pone come terapeutico in un primo momento, spesso fallisce.
« Quindi secondo te i rapporti finiscono tutti?
« Tutti. Senza eccezione.
« Ma io? Io con mia moglie sto benone. Andiamo d’accordo, ci sono i figli. E anche a letto...
« Sì, lo so. Siete bravissimi. Il vostro è ancora un rapporto vivo. Ma un giorno lo vedrai crollare. Poi tu, da bravo architetto, ti metterai lì con le macerie e magari in silenzio ricostruirai qualcos’altro. Se Annamaria ti darà una mano riuscirete a ricostruire un’altra casetta più funzionale e più fredda, e lì aspetterete la Mietitrice.
« Enrico, cazzo! Ma non sei tu quello che conosce le vie di salvezza?
« Salvezza da cosa? »
XXI - 2009
Non c’era stato niente da fare. Non avevo neanche abbozzato un tentativo per fargli cambiare idea, anche se gli avevo detto che quella poteva essere certamente una scelta di libertà, un riappropriarsi della sua vita, ma poteva anche essere un’ennesima fuga. Lui mi aveva chiesto da che cosa avrebbe dovuto fuggire, secondo me. Io non ero riuscito a dirgli che a mio parere era ancora una fuga da Nadine. Non avrebbe avuto senso, perché Enrico non aveva più parlato di lei da anni, ormai, parlare di Nadine in presenza di Enrico era diventato quasi un tabù. Avevo anche pensato che fosse una forma di rispetto verso Aurora ma poi era diventato chiaro che era tutta una situazione desiderata da
Enrico. Perfino Esti mi aveva detto che quando occasionalmente gli capitava di parlare di Nadine in presenza di Enrico vedeva sulla sua faccia disegnarsi una specie di... boh, un’espressione indescrivibile, aveva detto Esti. Una faccia tra l’incazzato e il triste, tra l’indispettito e il disinteressato, dietro a cui però si poteva forse vedere un bencelato interesse che veniva a galla, nonostante Enrico facesse di tutto per tenerlo sul fondo. Insomma: l’anno della maturità, la vacanza a Cap d’Antibes, Nadine, la clinica, il rapimento, l’incidente, l’ospedale, le promesse di amorte eterno. Possibile che nessuno di questi argomenti comparisse mai, neppure di striscio? Quell’assenza era eloquente, quell’esclusione così totale di Nadine dalla sua vita, dai suoi discorsi, quel mostrare di averla dimenticata, tanto da non citarla mai, neanche occasionalmente in un ricordo, in una domanda sull’oggi... tutto quell’oblio così caparbio era esattamente il motivo per cui io continuavo a pensare che per Enrico fosse sempre presente il pensiero di Nadine.
Mi ero sempre ben guardato dal parlargliene. Avevo assunto fin troppo il ruolo del mezzano in quella loro mancata relazione. Cioè, mi ero dato da fare perché quel sogno giovanile si realizzasse, ma ormai avevo capito che la realizzazione di quel sogno era quanto di più distante potessi imaginare dai desideri di Enrico.
Almeno da quelli che ammetteva. Perché a mio parere era troppo esperto di inconscio per non sapere che da qualche parte quel desiderio sopravviveva caparbiamente dopo decenni.
Che cosa ne aveva fatto? Lo avrei scoperto di lì a un paio d’anni, quando poi Enrico finalmente ha scritto quell’ultima lettera a Nadine.
Comunque l’esperienza svizzera di Enrico durò un solo anno accademico, a riprova che quella trasferta era stata più che altro un dribbling per eludere tutte le problematiche che incombevano su di lui al momento della partenza. In ogni caso, dopo l’estate del 2010 Enrico era rientrato in Italia.
Nel periodo in cui Enrico era in Svizzera, Nadine gli aveva mandato gli inviti per due mostre, una delle quali si svolgeva a Monaco, e quindi a poco più di duecento chilometri da Stoccarda. In quell’occasione, insieme all’invito, Nadine aveva mandato anche un biglietto con due
righe scritte a mano.
Il biglietto diceva così:
PRO-MEMORIA: La Svizzera è una terra neutrale! Può darsi che riesca a neutralizzare tutti gli influssi negativi e rendere possibile la tua presenza? Ti aspetto! Nadine”
Enrico aveva prontamente risposto con una mail, che Nadine mi raccontò come fredda e impersonale, anche se molto gentile.
“Cara Nadine, sono veramente dispiaciuto di non poter essere presente all’inaugurazione della tua mostra. Ci tengo molto a vedere i tuoi lavori, andrò senz’altro a vederli prima della chiusura. Grazie dell’invito, e un caro saluto”.
Poi Enrico era effettivamente andato, scegliendo accuratamente un giorno successivo al rientro di Nadine in Italia. La gallerista aveva telefonato a Nadine, Enrico aveva comperato due quadri.
XXII - 2010
Quel simbolo del cuore con le ossa incrociate che Nadine aveva usato da ragazza era diventato il suo emblema, una specie di marchio con cui aveva firmato le sue opere e che spiccava sulla sua carta intestata.
La sua notorietà nel mondo dell’arte era aumentata, ed ora che i
figli erano un po’ cresciuti (Enrico, il più piccolo, stava per compiere quattordici anni) aveva intensificato l’attività e mi aveva chiesto di darle una mano a sistemare il suo studio, un attico ampio e luminoso all’ultimo piano dell’edificio dove abitava.
La nostra amicizia era cresciuta, anche mia moglie e Nadine erano diventate amiche e i nostri figli andavano d’accordo. Enrico e mia figlia Giulia erano compagni di scuola.
Nonostante Nadine fosse ormai una artista internazionale, che esponeva in diverse galleria all’estero, aveva scelto di continuare a vivere nella nostra città di provincia anche se avrebbe potuto permettersi un loft newyorkese. In effetti per un po’ era stata in procinto di acquistare un fantastico magazzino abbandonato, in un fabbricato degli anni trenta nella zona più occidentale della Lower Manhattan. Non mi sarebbe dispiaciuto occuparmi della ristrutturazione di un vero loft nel Village, ma Nadine disse che per la vita dei ragazzi la nostra città era molto più sana, anche se molto meno stimolante di New York.
Durante una cena a casa nostra, Nadine rese più esplicito il suo desiderio di incontrare di nuovo Enrico.
«Francamente, è incomprensibile. Capisco che possa avercela con me, che possa essersi sentito tradito. Ma, diavolo, stiamo parlando di quasi quarant’anni fa. Cosa ci sarà mai di tanto terribile nel vedermi in faccia? Scusatemi, ma se per trent’anni l’ho quasi capito, oggi come oggi mi sembra patologico ».
A un occhio disattento, questa ostinazione sarebbe potuta sembrare quasi una fissazione, un quasi-senile desiderio di rivivere una idealizzata rimembranza giovanile da parte di una signora che si sarebbe potuta aspramente definire un’anziana divorziata. Ma né io né Annamaria vedevamo in Nadine niente di simile. Non era possibile. Conoscevamo bene Nadine, era una donna vivace, serena, allegra, con tanti contatti sociali, con due figli e una vita piena di cose da fare. Era sempre bella, e non mostrava in nessun modo di aver passato i cinquant’anni, a cominciare dall’energia con cui si alzava da un divano pr arrivare fino alla sua creatività, non solo artistica, ma anche nell’allevare i figli, nel cucinare, nel coltivare piante, nell’interpretare la realtà.
Anche mia moglie ed io eravamo tacitamente convinti che Enrico e Nadine dovessero dirsi ancora qualcosa. Che quel dialogo era stato interrotto contro la volontà di Enrico ma adesso continuava ad esserlo per volontà di Enrico.
In un certo senso, facevamo il tifo per Nadine, anche se lei sembrava non avere nessun obiettivo, nessun progetto se non quello di vederlo, di incontrarlo e forse chiedergli la chiave di quel vecchio cofanetto ancora chiuso. Ma io ero anche dalla parte di Enrico, rispettavo la sua fuga, sempre che fosse così, e in ogni caso ormai era un uomo ben lontano dalle sue esitazioni giovanili: spettava solo a lui decidere se saltare o non saltare quel fosso. Sempre, ovviamente, nell’ipotesi in cui Enrico albergasse ancora un sentimento per Nadine.
Speravo solo che quella decisione, qualunque fosse stata, venisse determinata dalla sua vera volontà, e cioè quella di un uomo sano e maturo, equilibrato certamente, ma ancora capace di dare ascolto a una parte primordiale, selvaggia o infantile, che ama il gioco e che per questo ama la sfida, l’azzardo, l’altra sponda del fossato, l’unica meta che ti potrà dare la piena soddisfazione. E non perché l’altra sponda sia un posto migliore, anzi, forse è addirittura peggiore della sponda dalla quale hai spiccato il salto. Però il senso sta nel salto. Anzi, addirittura un attimo prima del salto: nell’intento. Quando cioè hai mosso il primo passo ma è come se tu avessi già saltato. A quel punto non ti frega più niente del risultato, non ti interessa più se ce la farai o non ce la farai, perché ce l’hai già fatta. Perché è il salto, che devi fare. Il gioco in realtà è quello. C’entra l’intento, non il risultato. Non c’entra per niente se cadi nel fossato. Anche perché in genere non si cade nel fossato. Anzi, succede spesso il contrario, e cioè che per paura di non farcela fai un salto talmente lungo che vai oltre l’erba e cadi sul selciato. E quando ti rialzi con le ginocchia sbucciate scopri che non era incapacità, era solo paura. Che a volte, per non dire sempre, l’incapacità è solo l’immagine della paura. Non ti ricorderai neanche più quand’è che poi l’hai saltato, quel benedetto fosso. Però ti ricorderai per sempre quella volta che hai avuto l’intento.
Certo, tutta questa psicologia spicciola, da parrucchiere, con Enrico
non poteva essere usata. Il suo argomentare si avventurava subito verso ruoli, identificazioni, aspettative, parti più o meno integrate della personalità di questo o di quell’altro. Eppure, così come è possibile che un grande atleta scivoli e si rompa una gamba facendo la doccia, allo stesso modo è altresì possibile che un grande psichiatra abituato a sciogliere i giganteschi nodi degli altri si faccia venire la gastrite per un qualche nodo nodo domestico apparentemente tenuto sotto controllo, riconosciuto, classificato e poi archiviato.
In effetti a Stoccarda Enrico aveva cominciato ad aver a che fare con una certo riflusso gastroesofageo. Tornato poi in Italia, oltre a stare meglio, anche se non del tutto, sembrava avere anche trovato un certo equilibrio tra lavoro e vita privata, ma soprattutto tra lavoro e vita pubblica. Una certa notizia era poi servita a chiarire ancora meglio il suo ritorno. Aurora era andata a lavorare a Bruxelles in un centro studi della Comunità Europea. Aveva un grande curriculum, e finalmente era arrivata al posto giusto. Le sue capacità organizzative e lavorative sarebbero state riconosciute ed esaltate e poi si sarebbero disperse nelle loro rappresentazioni, come lei amava. Questa almeno era la versione di Enrico, che sosteneva che Aurora fosse interessata unicamente all’escalation, indipendentemente dal settore in cui si sarebbe trovata ad operare.
Quindi, senza più la presenza di Aurora, Enrico aveva finalmente assunto la collocazione voluta da lui: più studioso che divulgatore, anche se la notorietà che si era costruito (che Aurora gli aveva costruito) continuava ad essergli utile. Adesso ci vedevamo più spesso, e anche se non avevamo proprio ritrovato l’intesa reciproca dei vent’anni provavo per lui un grande affetto, simpatia ed ero certo che fosse un grande professionista della psichiatria. Per fortuna, con noi dismetteva gli abiti del solone e si rilassava. A volte veniva alle cene con qualche compagna estemporanea, il più delle volte da solo.
Verso la metà di novembre Esti cominciò a telefonare a tutti per organizzare la tradizionale cena del gruppo di Cap d’Antibes, e l’impegno che si era preso era quello di recuperare proprio tutti, compresa Esther, la sua girlfriend di allora, con eventuale marito, poi
Sabina, Lisa con la sua famiglia, Hugo, Guy-Jean con l’inseparabile Catherine, e naturalmente anche Enrico.
« Stavolta dobbiamo proprio esserci tutti, è il trentottesimo anniversario. Il trentotto è il mio numero preferito. Porterà fortuna a tutti. Ma devi aiutarmi a far venire Enrico. Nadine ci tiene.
« Oh, santo cielo! Tanto non verrà
« Credo che voglia vederlo, anche solo per un saluto veloce, magari definitivo. Non credo che Nadine sia interessata a riallacciare una qualche forma di relazione.
« Sì, spesso penso a questa sua rinuncia così prolungata
« Eh, ormai sono cinque anni che ha lasciato il suo amico
« Dai? Non sapevo che avesse avuto un amico
« Quando ha sentito il bisogno di amicizie, diciamo così, in questi anni non ha stentato a trovarne... una mi era parsa anche molto buona. Ma recentemente non più. Sono stato testimone di decine di inviti a cena rifiutati, tanto che un giorno le ho detto: sei quasi diventata una monaca. E lei mi ha risposto che l’arte richiede un atteggiamento ascetico. Sì, me l’ha detto con ironia, ma se penso che mia sorella non scopa da cinque anni mi prende un vuoto nella pancia, scusa il linguaggio esplicito.
« Pensa che io non sapevo niente di questo... accompagnatore.
« Sì, ma... lo sai che lei è riservata. Mica me l’ha detto. E’ che una sera ero a Milano e sono passato a trovarla senza telefonare e... mi ha aperto questo tipo in accappatoio.
« Oh, e che tipo era?
« Simpatico. Un regista teatrale. Mi ha detto di fermarmi a cena e ha fatto un salmone in crosta veramente buono
« Beh, sono un po’ sorpreso, ma mica mi dispiace.
« Si, di uomini ne ha sempre intorno un sacco, anche adesso che ha l’età che ha. Che dopo che ho beccato il tipo a casa sua mi ha detto anche di qualche altro piccolo flirt.
« Ma dai? Comunque ... è giusto che Nadine abbia ...
« Abbia avuto, vorrai dire
« Ah, sì. Mi dicevi che adesso è ascetica.
« Siii... lei dice anche che è vecchia. Dice che prima di morire...
« Dai, che discorsi... ha poco più di cinquant’anni, direi che manca ancora un po’.
« Sì, ma lo sai come parla lei, no? Dice che prima di morire vorrebbe vederlo e dirgli delle cose, che le basterebbero un paio d’ore. Comunque, per motivi suoi, ci terrebbe a rivederlo, ma lui è letteralmente fuggito in ogni occasione possibile e immaginabile. Questo sottrarsi di Enrico mi pare veramente ormai un po’... una fissa, no?
« Sì, anche a me. Qualunque cosa sia stata, sono passati quasi quarant’anni. Penso che gli parlerò. Gli dirò di venire, anche se mi pare che ci sai molto da fare sulle ragioni di un rifiuto così ostinato... Sai, tendenzialmente sarei restio. Preferisco lasciare che...
« Certo, lo so. Ti conosco fin troppo bene ». * * *
« Enrico, stavolta devi venire. Nadine vuol vederti, che ci sarà mai di male? Non pensi che, qualunque cosa sia stata , sia ormai venuto il momento di lasciarsela alle spalle? Ormai siamo nella maturità, quella vera, non quella del 72. Abbiamo i capelli grigi. Niente ci può più sovvertire, no? E allora, che cosa ti costa?
« Va bene, verrò, ma ti confesso che avrei preferito non essere invitato. Comunque lo capisco benissimo, capisco benissimo la richiesta... vedo che nessuno sembra invece preoccuparsi di capire la mia, di richiesta.
« L’abbiamo rispettata per quarant’anni, la tua richiesta. Non puoi negarlo.
« Trentadue anni, per l’esattezza. Erano gli ultimi mesi del Settantotto.
« Trentadue anni che tu, clack, ci hai messo una pietra sopra e non ci hai più pensato, eh?
« Al contrario. Ci ho pensato quasi tutti i giorni.
« Eh, ma... ne ero quasi certo.
« E nonostante quello, ci ho messo una pietra sopra. Era ... era l’unico modo. Almeno, a quel tempo mi è sembrato l’unico modo.
« Va bene, questo l’avevo capito. Ma adesso, cosa comporterebbe?
Tu... ehm... non la conosci, cioè, non fraintendermi... ma oggi, per come è diventata oggi, Nadine è una signora veramente simpatica.
« Non lo metto in dubbio, ne sono sicuro
« Non è una divorziata a caccia di un merito, ha solo voglia di parlarti... penso che... non sia un fosso così profondo da saltare, che ne dici?
Enrico sorrise.
« Vorrei spiegarti, lo farò prima o poi. Mi dispiace tanto che Nadine voglia vedermi, te lo giuro. Io proprio non lo desidero, ma non è un atto contro di lei, lo faccio per me stesso.
« Io... non fraintendermi... credo che tu glielo debba ».
L’ultimo fine d’anno alla cena del Gruppo non è mancato veramente nessuno. Io e Esti eravamo sorpresi dall’adesione completa, e anche contenti di rivedere tutte quelle persone che, nonostante la saltuarietà degli incontri, erano ormai dei vecchi amici. Il vecchio Honegger mi ha addirittura abbracciato. Era bello rivedere Sabina, sentirla lamentarsi della Sanità italiana, Guy Jean che ora era passato al restauro di mobili antichi, Lisa, Esther, che subito aveva inchiodato Enrico per coinvolgerlo in una discussione psichiatrica.
Nonostante fossi frastornato dalle tante chiacchiere, dal constatare quanto quello o quell’altro fossero invecchianti, non potevo fare a meno di controllare come stava andando tra Enrico e Nadine.
C’era stato un saluto al nostro arrivo, ma non avevo osato guardare. Con la coda dell’occhio ho visto che parlavano per qualche istante, mentre si stringevano la mano.
« Come stai”
« Abbastanza bene... E tu?
« Su e giù, però bene
« Oh, beh... bene. Mi fa piacere
« Sì...
Poi qualche nuovo invitato in arrivo, forse Guy Jean, doveva aver tirato Nadine per un braccio, chiamandola per i saluti e gli abbracci e il dialogo si era interrotto.
Enrico mi era in quel momento particolarmente antipatico. Non so spiegare perché. Speravo che Nadine non l’avesse visto come lo vedevo io. Poi, quasi subito, si era lasciato coinvolgere da Esther in una discussione nella quale lui non aveva dismesso l’abito dell’uomo pubblico. Si erano appartati in un divanetto vicino a una finestra del salone. Anche Esther era diventata una psichiatra e l’argomento quindi doveva essere qualcosa di molto tecnico e complicato, a gudicare dall’impegno che Enrico profondeva nella discussione.
Io vedevo Nadine che ogni tanto passava con un vassoio di qualcosa
e lanciava un’occhiata obliqua verso il divanetto. Era come se aspettasse che Enrico si liberasse di Esther, sembrava quasi chiederglielo con gli occhi, ma Enrico non sollevava lo sguardo.
Per tutta la sera aveva cercato di evitare Nadine. Sedendosi nel posto più lontano da lei, intrattenendosi con chiunque potesse fornirgli un’elusione, un pretesto estemporaneo per essere in un altrove qualunque, purchè non ci fosse lei. Nadine era nervosa e io vivevo tutto intero il suo disagio. Quando lo spiegai ad Annamaria, lei mi disse che stava provando le stesse cose. Anche Esti, passandomi vicino, mormorò « però Enrico è un po’ stronzo, no?”
E solo l’amicizia tra saltafossi che mi lega a Enrico fin dagli anni sessanta mi proibì di dire « Hai perfettamente ragione”. Nonostante ci fosse un gran chiacchierare tra gli ospiti, l’inquietudine di Nadine spargeva intorno un certo disagio. Mlo avvertivo io, Annamaria, anche Esti.
Io forse ancora di più, perché mi sembrava di rivivere quell’imbarazzo di Cap c’Antibes, quell’incomunicabilità che veniva fuori tra quei due, ogni volta.
Forse non erano fatti l’uno per l’altra. Forse era un’alchimia sbagliata fin dall’inizio, e non c’era un bel niente da fare. Allora aveva ragione Enrico, investire in quella faccenda non aveva più alcun senso.
Quando poi Enrico era andato via presto, dicendo che all’indomani mattina avrebbe dovuto prendere un aereo per Stoccarda, Nadine si era incupita, ma senza darlo troppo a vedere. Anzi, diciamo che lo venni a sapere perché lei, parlando con Annamaria, disse proprio così.:
« Vedi, da giovane un atteggiamento come quello di Enrico mi rendeva idrofoba, mi scatenava una rabbia incredibile, non riuscivo ad accettare che qualcuno mi rifiutasse e naturalmente questa rabbia ce l’avevo prevalentemente con me stessa. Adesso mi incupisco un po’, ma domani questo color blu di Prussia lo sbatterò su una tela e la mia anima sarà di nuovo libera. Mi spiace solo che non ci sia stato quell’attimo di intimità che aspettavo da decenni, anche solo per dirgli addio, se è questo che vuole. A me danno solo tanto fastidio le tele incompiute, i lavori lasciati a metà. Ma è chiaro che sono solo fissazioni
mie. Comunque il messaggio mi sembra più che chiaro. Il passato non è mai esistito. Quello che per me è stato l’episodio più importante di tutta la mia adolescenza per lui forse non è neppure da ricordare.
« Può darsi, risposi io, eppure in tutta questa faccenda c’è ancora un nodo. Magari il nodo esiste solo per te, Nadine, ma io non credo. Io credo che un cappio ce l’abbia tu e un cappio ce l’abbia lui. E penso addirittura che tu vorresti scioglierlo, mentre lui lo vuol tenere ben stretto.
« Certo che voglio scioglierlo » aveva detto.
All’indomani mattina Nadine, mentre faceva colazione, quasi sopra pensiero ha acceso il suo portatile e ha controllato se effettivamente c’èra un volo da Malpensa a Stoccarda che partiva alle 7. Il volo c’era. Salutò i ragazzi che andavano a scuola, poi salì nell’attico. Tirò fuori da uno scaffale un contenitore blu con dentro diverse buste, estrasse una busta gialla di carta pesante con scritto sopra Cap d’Antibes 1973. Sotto la scritta c’era il cuore nero con le ossa incrociate. Cominciò a scorrere le foto, ogni tanto si soffermava su qualcuna. Di sue non ce n’erano, le aveva strappate tutte nell’inverno del settantasette, il peggiore.
Prese una foto di Enrico, un bel primo piano di tre quarti che Hugo gli aveva scattato a sua insaputa, sotto la tettoia della Sorcière. Non era la foto preferita di Nadine, anzi, Enrico in quella foto le era quasi antipatico. Mise la foto sull’episcopio e la proiettò sul muro.
Poi scelse un colore intenso e brillante e cominciò a colorare la tela. Di quel blu di Pussia non c’era più traccia, dentro di lei. Si sentiva allegra e tranquilla.
Dopo aver lavorato un paio d’ore tornò al computer, cercò qualche notizia, poi mandò una mail a Hugo Honegger.
Caro Hugo
Come stai? Lo so, ci siamo visti da pochi giorni, ma stamattina riguardando le tue vecchie foto ti ho pensato così tanto! Sto preparando una mostra e mi servirebbero le immagini di Cap d’Antibes. Le hai
ancora? Spero di sì, almeno i negativi... Lo so, ti arrabbierai perché me le avevi già mandate. In effetti le ho ancora tutte, tranne quelle dove ci sono io, perché quelle le avevo strappate tutte quando ero in manicomio (!). Mi bastano anche delle scansioni che mi puoi mandare via computer. Basta che siano ad altra risoluzione.
Quando farò la mostra (spero di farla questa primavera, e proprio in una galleria di Antibes), se mi dai il permesso, vorrei esporre anche le tue foto, direi che mi piacerebbe metterne una ventina, venticinque al massimo. Una per quadro, perché ogni quadro sarà ricavato da una foto, anche se poi alla fine i quadri avranno ben poco di figurativo.
Spero che accetterai questa proposta. Se ti va possiamo anche incontrarci e parlarne. Fammi sapere al più presto! Un abbraccio
Nadine
Poi Nadine chiuse il portatile, andò alla finestra. Si sentiva bene, i giardini e i cortili di provincia che lei vedeva dalle sue vetrate erano attraversati da un sole giallino, pallido, da inverno di pianura. Ma lei si immaginava già la primavera e aveva addosso un’ energia potente, data dall’immaginarsi la sua mostra tutta intera, anche un bel po’ di lavoro doveva ancora essere fatto. Ma l’idea c’era, adesso si trattava solo di mettersi all’opera, e anche se c’erano solo pochi mesi di tempo lei si sentiva in grado di fare tutto.
Il giorno dopo Hugo aveva spedito a Nadine tutte le fotografie, anche quelle scartate. Da buon ingegnere tedesco aveva già tutto catalogato, informatizzato e archiviato in buon ordine. La mail diceva:
“Cara Nadine, sono entusiasta del tuo progetto. Intanto ecco le foto, per il resto sono a tua completa disposizione. Non mi sembra vero che le mie foto possano servirti, sono curiosissimo di sapere cosa ne farai. In ogni caso sarà di sicuro un capolavoro. Vedrai che di tue ce ne sono molte di più di quelle che ti mandai a suo tempo. D’altra parte, innamorato cotto com’ero, e senza speranza, non potevo far altro che scattarti delle foto.
Ti abbraccia con impazienza il tuo fan Hugo”.
Enrico nel frattempo era a Stoccarda, a chiudere il suo ufficio. Adesso gli era chiaro, anzi, chiarissimo. Era fuggito in Svizzera, ma in realtà era fuggito da Aurora. Sapeva che frequentando lo stesso ambiente, la stessa università, lei avrebbe continuato a tessere la sua tela. A suo modo, senza aggressività, senza tempestarlo di telefonate o di messaggi nel telefono, rispettando anzi, in apparenza, la sua decisione, ma continuando a lavorare per fargli sentire la sua mancanza.
D’altra parte Aurora era quello, o voleva apparire quello: tutta ponderatezza, buonsenso, rigore, giudizio. Decisioni prese sempre con la testa. In lei sembrava che quella parte irrazionale, sventata, istintiva e sensuale fosse tenuta al guinzaglio, per non dire in gabbia, fino al punto da diventare inoffensiva. Ma quale architettura caratteriale può pensare che quella parte possa essere offensiva? Che persona è, colei o colui che decide di soffocare quella parte, che poi non è una ma sono decine e decine... quelle parti di noi inascoltate, addirittura buttate fuori dal salotto buono della nostra coscienza? Ce ne vergognamo talmente che non solo non vogliamo vederle, non vogliamo parlarci. Vorremmo che non esistessero. E così facciamo finta che non esistano. Ma poi, quelle povere scimmiette sbattute fuori di casa, non è che se ne facciano una ragione. Anzi fanno più casino che mai, ma tu non le hai più sott’occhio, perché le hai sbattute fuori. Questa era almeno la tesi di Enrico per dimostrare quella parte di Aurora smarrita e supplichevole, quella bambina abbandonata che c’era nel suo profondo, lei l’aveva tacitata a suon di sberle, e alla fine la bambina era diventata una specie di virago.
Comunque non provava preoccupazione per Aurora. Quando lui le aveva detto che sarebbe andato in Svizzera senza di lei, e che non voleva più continuare la loro “collaborazione”, lei aveva semplicemente alzato il mento, guardando Enrico in silenzio per un po’, con un’aria tra lo sdegnato e il severo, come un’istitutrice che sorprende l’alunno mentre ne sta combinando una grossa.
« Potevi dirmelo prima - aveva detto - Avremmo evitato di sprecare anni per costruire un magnifico castello dove non andremo ad abitare
« Cos’è che avrei dovuto dirti prima?
« Che non avevi nessuna intenzione di...
« Ma io credevo che anche tu...
« Sì, ma poi ho cominciato ad amarti.
« Non me lo hai mai detto
« Pensavo che non ce ne fosse bisogno, ma poi ho capito « Che cosa?
« Che tu non sai amare. Forse non vuoi « Sì, è così»
Confesso che anche in questa storia ci capivo sempre meno.Forse aveva ragione Aurora. Enrico era apparentemente anaffettivo. No, sbaglio. Aveva talvolta atteggiamenti paterni, ma mai quell’affettività sensuale che rivela gli amanti come una cartina al tornasole.
Comunque, preso atto della fine del loro sodalizio, Aurora aveva semplicemente fatto i bagagli, una prima borsa, e poi era uscita. Il giorno dopo si erano rivisti in clinica, e lei era esattamente come al solito. Gentile, rilassata, razionale, solerte, efficiente e sorridente. Non c’era traccia di una recente delusione. “Ho cominciato ad amarti”, aveva detto. Aveva deciso che era finita anche per lei, “Ho smesso di amarti”, avrà pensato. Aveva registrato il fatto ed era decisa a passare ad altro. Perché questo, era Arianna. Un super-io strapotente, un autocontrollo così ben gestito che non era solo un controllare gli atteggiamenti esteriori, era proprio un addomesticare gli impulsi dentro se stessa. Oppure, per lei, povera Aurora, l’amore era quella cosa lì, quella cosa utile, funzionante a meraviglia, rettilinea, ben impostata e priva di sussulti, tiepida. E di più non si poteva né si doveva desiderare. Non sapeva niente, di lui, della storia di Nadine. Gli aveva anche detto “tu non sai amare”... Non sapeva. Non aveva neanche la minima idea di che cosa fosse quella particolare condizione estatica, in cui non c’è solo l’adorazione dell’altro; c’è che l’altro, dall’Empireo in cui tu l’hai collocato, ti tira su, ti aspira verso l’alto. Ti rende santo insieme a lui. E questa santità non è più di uno o dell’altro, è di tutti e due, e li avvolge, e li fa uguali, tutti e due bellissimi e talmente certi della loro bellezza che non si specchiano più, perché guardandosi l’un l’altro capiscono come sono, e si sorridono e si confondono l’uno dentro l’altro e gli organi del
corpo non sono più tuo o suo, sono in comune.
No, lei con tutta probabilità non conosceva questo abisso girato verso l’alto, così come lui non ne aveva praticamente trovato traccia nei dialoghi con centinaia di pazienti, nelle coppie degli amici, nelle storie della vita. L’unico posto in cui l’aveva trovato erano i manuali di biochimica... ci sono certamente più di dodici aree del cervello coinvolte nel rilascio di quegli ormoni che chiamiamo amore… la dopamina dal mesencefalo, e poi adrenalina e ossitocina, via! neurotrasmissioni a tutto spiano… e la serotonina che diminuisce… ci fa perdere lucidità, equilibrio... per non dire di quello che entra dagli occhi, dalle orecchie, dal naso…e poi nell’ipotalamo, e da lì, via, verso l’ipofisi, l’epifisi. Ma descrivere un fenomeno non serviva certo a spiegarlo.
Per il resto... decine e decine di interpretazioni, di definizioni, di riduzioni... Nessuno, nessuno conosceva quello stato di grazia allo stesso modo in cui l’aveva conosciuto lui. E nessuno aveva mai conosciuto quell’abisso che c’era dentro di lui, e dal quale aveva dovuto difendersi per tutta la vita, continuando ad osservare gli abissi degli altri.
Poi, come sempre gli accadeva, Enrico aveva ripensato alle cose che aveva pensato pochi istanti prima. Che parte di lui stava parlando così? Era un evidente delirio, anche il suo, come quello di tutti gli altri. Ma ogni espressione che la vita assume è un delirio...
Cominciò a ripercorrere decine di casi psichiatrici. Il signor F. , l’adolescente R., il caso straziante di G., suicida per amore, catalogato come depressione. Quelli sì, che avevano amato davvero. Per tutta la vita, con la moglie tertraplegica, o col marito all’ergastolo. O anche nel trantran della vita quotidiana. Il caso della signora F., moglie di un delinquente, che si è fatta uccidere pur di non tradire il marito.
Quanto ce n’era di amore, o di quello che in quel momento gli sembrava amore, un sentimento strabordante per gli altri, per lui chiuso in un crogiuolo, in una cassaforte, in un cofanetto.
Sì, anche lui dopo tutto non ne sapeva niente, dell’amore. Non l’aveva mai praticato. Ma l’amore deve essere praticato? No, forse no. Tutte le volte, quando viene praticato, finisce per affievolirsi, spegnersi.
Quasi tutte le volte, o tutte le volte? Non sapeva, non voleva saperlo, ma sapeva che non si deve dire mai così come non si deve dire sempre.
In fin dei conti, anche lui, del suo amore, cosa ne aveva fatto? L’unica cosa possibile, l’aveva conservato. Ma non era anche quello un modo per soffocarlo? Eh sì, forse aveva ragione Aurora. Forse era incapace di amare. Cioè, di esercitarlo, di praticarlo, l’amore. Che poi l’amare è quello, esporsi, mettersi alla prova per vedere se davvero la vita dell’altro è più importante della tua. Era stato capace di farlo solo per un attimo, una volta sola nella vita. Nadine.
E allora, perché pensare così negativamente all’atteggiamento Aurora? Non aveva anche lui fatto la stessa cosa? Anche lui aveva trovato una via d’uscita, un modo razionale di sistemare la faccenda, facendone un santuario nella mente, nel quale aveva accesso lui solo.
Ma adesso la divinità che albergava nel sacrario - un’immagine ideale, la Santa-Giovinetta, martire e vergine - si era manifestata. Quell’incontro che lui aveva evitato non aveva più potuto essere eluso, ed era successo ciò che lui temeva. Il bagliore della Santa-Giovinetta splendeva ancora inalterato, non c’era modo di negarlo.
Ma ormai era vecchio, che senso aveva? Non c’era più spazio per grandi sommovimenti dell’anima. Oppure no? Chi decide quanto spazio ha intorno la nostra anima?
Era strano per Enrico parlare a se stesso chiamando in causa l’anima. Un pseudo-organo sul cui statuto ontologico nutriva qualche dubbio, ma era perfetto come simbolo capace di racchiudere tutto quanto c’è di più alto della nostra interiorità. Era anche raro che Enrico indugiasse così a lungo nei pensieri, che si frammischiavano ai ricordi. Ormai aveva interpretato tutto, analizzato tutto. Risolto no, questa era una rivelazione molto intima, che non doveva assolutamente trapelare, nemmeno dalle espressioni facciali.
Pensò che doveva tener duro sulla sua decisione. Grazie a quella aveva trovato la redenzione per tutti, la quiete interiore, il tabernacolo con lo spirito della Giovane Martire Splendente era stato accuratamente conservato. Intonso. Venerato ogni giorno con più di un pensiero. Era stata una fortuna, una vera fortuna che lui non l’avesse mai avuta, per
poi trovarsi magari dopo vent’anni con la Santa-Giovinetta lì a fianco e non rendersene neppure più conto. Svilire quella meraviglia, fare con lei a letto quello che aveva già fatto con tante altre donne, trattarla alla stessa stregua di tutte le altre. Lei era perfetta, come la ninfa di Bouguereau. Non vorresti che si staccasse dal quadro e venisse a cena con te, vorresti che restasse lì per l’eternità e si lasciasse adorare.
Era stato un bene. Non sarebbe mai andata come succedeva nel quaderno con le storie parallele, che lui l’avesse presa, rapita un’altra volta, sposata a Las Vegas, dove poi avrebbero rapinato una banca e sarebbero fuggiti in Messico con un idrovolante, per poi ammarare nella laguna di una spiaggia deserta e lì vivere come due Robinson a cui mancava ben più di un Venerdì.
La ninfa di Bouguereau invece era scesa, e... sant’iddio, era sempre la stessa ninfa, perché... perché era la stessa, non c’era una spiegazione. Quello che temeva, quello che aveva rinviato per decenni, adesso era lì, che risuonava come una sveglia.
Va bene, fa niente. Basta spegnerla. Enrico si sentiva magnetizzato da Nadine, ma per fortuna durante quell’incontro era stato monopolizzato da Esther. Era riuscito a guardarla il minimo indispensabile, e soprattutto era riuscito ad evitare quel faccia a faccia, quella specie di resa dei conti, immaginava, in cui lui avrebbe dovuto almeno spiegare perché non aveva risposto a delle lettere, tante, quasi un centinaio.
Ormai erano passati troppi anni, erano passati quasi tutti, diceva Enrico. E non era veramente il caso di rivoluzionare una solida impalcatura caratteriale, compresa un’immagine pubblica di uomo serafico, pacificato. Andava tutto bene così. Non era più il caso di riscoprire quella famosa fluidità dell’anima di cui lui aveva fatto una specie obiettivo terapeutico per i suoi pazienti, aiutandoli a vedere ogni stato, qualunque esso sia, come un processo dinamico. C’era il rischio di soffrire, e come anestesia lui, proprio lui, stava vivendo il risveglio di un piccolo delirio paranoide, non c’erano altre parole per definirlo. Ma ne era perfettamente consapevole e non aveva nessuna intenzione di metterci mano, né per tacitarlo né per avvalorarlo.
XXIV - Febbraio- aprile 2011
C ontando le pagine scritte fin qua, sembra niente, ma per sommi capi siamo arrivanti al tempo presente, la mia cronaca sta per terminare.
Lo so benissimo: è lacunosa, parziale e di certo non sufficientemente approfondita. D’altra parte l’avevo detto all’inizio. Non sono uno particolarmente speculativo. Ho fatto del mio meglio per raccontare tutti i risvolti, quelli che la mia mente “da architetto” mi ha consentito di vedere. Dico questa cosa dell’architetto perché mia moglie Annamaria si fa gioco di me. Dice che ho la mente da architetto perché tendo a dare una collocazione funzionale alle cose, ma che a volte non le guardo neppure. Che tendo ad archiviare senza spiegare, insomma. Lei invece sa un sacco di cose sulla filosofia del linguaggio, e va a cercare perfino il significato di ogni grugnito che emetto nel dormiveglia. Tutto sommato comunque è un periodo piuttosto sereno, soprattutto se si considera che siamo quasi arrivati tutti alla soglia dei sessanta senza grossi guai e con una salute discreta per tutti, se si esclude l’ infarto di Enrico e la moglie di Venturini che soffre di coliche renali. La vecchia compagnia sembra avere retto al tempo, le nostre amicizie non si sono disperse. Le nostre mogli si sono amalgamate abbastanza bene. Esti con la sua “nuova” moglie inglese, ha risolto almeno una parte dei suoi problemi imprenditoriali ed ha fatto in tempo a fare pace con il Commendatore prima della sua dipartita. Venturini ha fatto un terzo figlio è diventato primario, Nadine ha già tirato fuori un buon numero di tele per la sua mostra, alcune le deve ancora fare.
Enrico è più disponibile per gli amici e di frequente è qui in città, anche se spesso si ferma a Milano.
Non c’è più stato verso di fargli incontrare Nadine neanche per caso, e ormai la faccenda era stata tacitamente archiviata da tutti: se c’è il rischio che ci sia Nadine, Enrico non si presenta. Ci invita lui, sempre cene per poca gente, massimo cinque. Vive solo e appare molto tranquillo, immerso nei suoi studi e nei suoi interessi.
Mia moglie e Nadine hanno preso gusto a organizzare cene a tema. Talvolta i risultati non sono fantastici, ma la compagnia è talmente
buona che anche il cibo, nella peggiore delle ipotesi, diventa argomento di ilarità. Peccato che Enrico non partecipi mai. Anzi, è venuto due volte, quando Nadine era in Francia.
Mia moglie dice che Enrico è pazzo, che è un uomo che usa una intelligenza enorme per farsi del male. E’ un giudizio severo, ma lei non lo conosce fin dagli inizi, e allora non posso darle torto. Tra lei ed Enrico non corre grande simpatia, io dico che sono due poli uguali che si respingono e sono certo che prima o poi s’intenderanno. Ma anche mia moglie Annamaria, come buona parte di quelli che la conoscono, si è innamorata di Nadine. La sua creatività, la carica umana l’hanno conquistata, sono diventate amiche intime.
Adesso, se mi arrivava una notizia di Nadine è tramite Annamaria. Se telefona Nadine, dopo i saluti, vuole che le passi Annamaria.
Hanno cominciato una collaborazione per la nuova mostra, a cui Annamaria dà il suo suo contributo da letterata ed esperta di linguistica.
Le è piaciuta una frase di mia moglie: “tutta la vita è un gioco di parole” e così Nadine ha cominciato a interessarsi alle figure letterarie, all’etimologia, all’origine del linguaggio. Legge cose così, alla rinfusa, dalla grammatica araba agli Esercizi di stile di Queneau.
Annamaria ha cominciato a coinvolgere Nadine nel labirinto del linguaggio, ma spesso i loro dialoghi passano dal dissertare teorico al racconto di fatti personali, come spesso accade quando parlano due amiche. E’ stato proprio ad Annamaria che Nadine ha raccontato “i segreti” della mostra a cui stava lavorando.
Le ha mostrato le foto di Hugo, le persone di Cap d’Antibes, i loro rapporti. Mia moglie si è arrabbiata un po’ per una foto in cui baciavo Lisa, ma Nadine le ha detto che non la userà per la mostra. Poi GuyJean un po’ triste, Hugo ossequiante, ripreso da Nadine, una foto bellissima in cui Esther sembrava una dea uscita dalle acque, Enrico che si mangia le unghie, Enrico che parla, Enrico che fruga in una borsa, Enrico che beve... Nei quadri di Nadine, la foto diventa la metà di un’immagine quasi astratta che si specchia in una specie di alter-ego, a volte mostruoso, a volte celestiale.
« Scusa, Nadine, io non sono un’esperta di arte, e lo so che non
c’entra niente, ma io ci vedo una battaglia tra John Singer Sargent e Francis Bacon...
« Ma bravissima! Tu capisci tutto al volo. Eros e Thanatos a confronto. A volte l’eros è nella realtà, e Thanatos è il suo specchio scuro. Ma a volte è diverso. E’ nella realtà che la nostra psiche è distruttiva e piena zeppa di pulsione mortale. E’ li che l’arte ci salva, mi ha salvata, quando ero l’immagine della morte. Vedi questa foto? Questa l’avevo strappata. Per fortuna che Hugo aveva i negativi... Mi guardavo e mi vedevo morta, così morta che mi sembrava impossibile che qualcuno potesse amarmi... e invece...
« Sembra impossibile, eri bellissima
« Sì, adesso lo vedo anch’io, che ero carina. Lo capisco guardando mia figlia. Ma io avevo la faccia da porcellino d’India, lei è più bella « Eri bellissima, ribadisco, sprizzavi vita e luce « Beh, allora vorrà dire che mi dipingerò un alterego-Thanatos, mentre a Enrico, che adesso è Thanatos, farò un alterego luminoso, quello che lui forse non sa di avere... cioè, di essere
« Enrico... Non vi parlate da un secolo!
« Lo conosci bene, tu?
« E’ un grande amico di mio marito, ma l’ho conosciuto già a metamorfosi avvenuta, a quanto mi dice mio marito.
« E... com’è, a metamorfosi avvenuta? Simpatico?
« Beh, ha un certo fascino, ma all’inizio non mi è piaciuto... mi intimoriva un po’. Non era molto allegro. Sai, poi, è anche un personaggio abbastanza famoso... non saprei. Dopo un anno di frequentazioni abbiamo simpatizzato. Ma lui mi sembra un tipo molto riservato... è diverso dagli altri. Da Esti, da Venturini, da mio marito. Loro sono rimasti dei mattacchioni, Enrico no. Penso di non averlo mai visto farsi una risata a crepapelle.
« Povero Enrico...
« Ancora lo compiangi?
« So di conoscerlo, sento di conoscere la sua indole. Il carattere cambia con gli anni, perché il carattere è qulcosa che ci fabbrichiamo strada facendo. Ma l’indole no, quella rimane sempre la stessa, perché ce
l’hai come patrimonio genetico. Io conosco la sua indole e lui conosce la mia. Ma comunque non mi importa più niente di lui. Mi importa solo di importunarlo per imporgli la mia impalcatura e impartirgli una improvida visione imparziale. Ti piace come gioco di parole?
« Molto carino, ma cosa ti importa di Enrico? Lascia perdere. Dopo tutte le vigliaccherie che ha tirato fuori, cosa vuoi impartirgli, ancora?
« Non lo so, Annamaria, non lo so. Ma sento che quel dialogo che avevamo interrotto deve essere chiuso. C’è qualcosa in sospeso che non mi fa stare bene. La storia la saprai tutta, immagino.
« Per carità, mio marito me ne ha fatta un’epopea
« Bene, voglio chiuderla. La mostra, questa è la mia visione privata, è proprio la manifestazione concreta della mia volontà di chiudere quell’epopea, che dentro di me in un modo o nell’altro ha continuato a vivere, a coltivare un filo di speranza, sognando qualcosa di impossibile. E ti giuro che c’è stato un periodo che mi chiedevo perché non potevo averlo. Quando con mio marito andava già maluccio, e io avrei potuto farmi degli uomini meravigliosi! Non hai idea di quanti corteggiatori avessi fin oltre i quarant’anni...
« Non stento a crederlo
« mamma mia cosa mi sono persa!
« Cosa si sono persi loro!
« Beh, ma dopo la separazione qualche galanteria l’ho accettata, eh!»
Ridevano, Nadine e Annamaria, ma poi Nadine tornava sempre a parlare della mostra.
« Quindi, Annamaria, mi serve il tuo aiuto
« Ma in che senso? Ti cerco dei testi? Vuoi lavorare su delle parolechiave? Che idea hai?
« Dev’essere qualcosa di solenne. Di eroico, di mistico. Una specie di incontro tra il passato e il futuro, che si dissolvono entrambi nel presente.
« Fammici pensare
« Però non troppo. Mancano poco più due mesi.
Devo ancora finire tre tele. Le foto di Hugo. Le didascalie... Oh, santo cielo, non ce la faremo...
« Ce la faremo, vedrai
« Ma io intendevo: ce la faremo a far venire Enrico?»
Quando Annamaria era tornata a casa, aveva sposato in pieno la causa di Nadine:
« Stavolta quel bellimbusto del tuo amico Enrico dovrà affrontare il drago. Qui si vedrà di che pasta è fatto. Se tutto quello che mi avete raccontato tu e Nadine è vero, mi stupisco di come lui fugga...
« Io penso che le persone vadano rispettate nelle loro volontà. Se Enrico...
« E la volontà di Nadine non conta niente?
« Non possiamo costringere Enrico. Tutto quello che dovevo dirgli, gliel’ho già detto. Non voglio interferire
« Invece dovresti
« Forse dovrei, ma non lo farò ».
Ci sono stati poi cinque o sei giorni di temporali, Nadine lavorava forsennatamente, tanto che qualche volta i suoi figli cenavano e dormivano da Esti oppure da noi. Nadine lavorava fino a notte tarda, e certe volte voleva anche me e Annamaria per ultimare il progetto dell’allestimento e il “percorso concettuale” della mostra. Mi rendevo conto che per Nadine, oltre all’impegno professionale, c’era un grande investimento emotivo. Le tele erano quasi finite, ma per ognuna c’era un concetto da tirare fuori, qualcosa di primordiale e arcaico, aveva detto. C’erano le fotografie di Hugo, già incorniciate, stampate meravigliosamente direttamente da pellicola su carta Ilford Gallery. Era il regalo di Hugo, che nonostante si fosse convertito al digitale aveva conservato un’anima analogica e disponeva ancora di un ingranditore Durst, e aveva pensato di fornire il suo “piccolo contributo” nella forma più nobile e tra l’altro, più fedele all’epoca in cui le foto erano state scattate.
Alla fine io suggerii di fare la mostra alla Sorcière. Dopo aver fatto
un sopraluogo alla galleria di Antibes che avrebbe dovuto ospitare la mostra, non avevo trovato i locali adatti agli obiettivi di Nadine, che voleva una specie di “percorso disseminato di bivi”. L’idea di fare la mostra alla Sorcière, proprio nel luogo in cui gran parte delle foto erano state scattate, parve a Nadine un meraviglioso uovo di Colombo.
La Sorcière si adattava al mio progetto e all’idea di Nadine.
La sera in cui tutte le soluzioni andarono a posto Nadine organizzò una cena a casa sua. C’era la sua gallerista, un critico di una certa fama e di una comunicativa pessima, c’era Esti con la moglie, Annamaria io, e Hugo, sceso apposta dalla Germania.
Dopo cena salimmo tutti nello studio a vedere le tele. Erano diciotto opere importanti, tutte molto grandi, c’era un grande sapere dietro un numero di pennellate straordinariamente ridotto. Nadine le aveva firmate tutte sul retro con il cuore e le ossa, la sua sigla e la data.
« Sarà perfetta » detto la gallerista
« Vedremo, dipende» aveva risposto Nadine
« Dipende da cosa?
Ma Nadine aveva cambiato discorso.
La mattina dopo si era svegliata con un po’ di mal di testa. Forse ieri sera ho bevuto un po’ troppo vino, ha pensato. Il tempo era ancora brutto e lei si sentiva un po’ stanca. Per fortuna il lavoro era finito. Adesso c’erano gli inviti, i comunicati stampa, ma per fortuna la ci penavano alla Galleria. Lei doveva solo comunicare un po’ di indirizzi e andare a vedere la grafica dell’invito. Poi, da lì a pochi giorni sarebbe partita per la Sorcière dove poi l’avrei raggiunta per l’allestimento.
Mancava poco più di un mese all’inaugurazione. Speriamo che ci sia bel tempo. Andò in cucina, mangiò due crackers, si fece una spremuta e prese un analgesico.
Cominciavano le preoccupazioni. perché quando gli impegni non assorbono più la tua attenzione la mente comincia a fabbricare qualche altra cosa che la tenga occupata. In fondo i dipinti erano un po’ diversi dalla sua precedente produzione. Sarebbero piaciuti? Cosa avrebbero detto i critici? Ma mentre pensava a queste cose si rendeva anche
conto che erano solo rumore di fondo. La sua vera preoccupazione era Enrico. Sarebbe venuto? Ci sarebbe stato modo di avere con lui questo confronto così tanto a lungo evitato? In ogni caso, quello sarebbe stato l’ultimo tentativo.
Prese due pennelli, preparò due colori: rosso, e poi un’orrenda miscela di colori, un bistro quasi nero. Immerse i due pennelli, il bistro nella mano destra, nella sinistra il rosso. Andò davanti ad una grande tela bianca e fece un gesto simultaneo con entrambe le mani, poi ne fece altri. Non molti. Alla fine lo scarabocchio astratto era costituito da due forme speculari.
A guardarle bene però si vedevano due volti che si fronteggiavano, si specchiavano l’uno nell’altro, e forse stavano per baciarsi. Le bastarono pochissime altre pennellate per tirar fuori due abbozzi di fisionomie ben conosciute, che si potevano leggere a fatica, confuse nelle pennellate che in apparenza erano casuali.
Fece due o tre passi indietro.
E’ strano - pensava - che dei miracoli come questo vengano fuori proprio in un giorno brutto, in cui ho mal di testa e sono di cattivo umore. Era la sintesi di tutta la mostra, il quadro che mancava e che dava un senso a tutto quanto.
C’era ancora tempo per cambiare l’immagine sulla copertina delle brochure? Telefonò subito alla galleria.
Poi si sedette alla scrivania, aprì un cassetto e tirò fuori un foglio di carta da lettere; in alto, a centro pagina, c’era un cuore con le ossa incrociate e sotto il nome il cognome. Cancellò con una riga il vecchio indirizzo della California e a mano scrisse quello attuale. Poi scrisse:
PRO-MEMORIA:
Caro Enrico, nonostante tu non abbia mai risposto alle mie lettere, tento un’ennesima volta di scriverti, sperando almeno che tu apra la busta, cosa della quale non sono affatto certa.
Ormai da più parti, compreso mio fratello e l’amico più caro che abbiamo
in comune, ti sarà arrivata l’informazione che io desidero parlarti. E’ da tempo che sento questa esigenza, ma per non essere fraintesa te lo dico con parole chiare: non ho nessun progetto di riallacciare amicizie, nessuna aspettativa, ho solo il desiderio di passare con te un’ora, forse meno. Pensavo che tu questa esigenza non la avvertissi, ma se fosse così, perché sfuggirla così insistentemente?
Non riesco a interpretare questo tuo sottrarti così pervicacemente ad ogni occasione di incontro. Non può essere indifferenza, perché se la fosse non sarebbe così mostruoso per te incontrarmi, sarebbe appunto solo indifferente. Quindi è qualcosa d’altro. Se fosse un sentimento di repulsione, di fastidio, di odio, lo vorrei comunque sapere, e se fosse possibile vorrei conoscerne il motivo.
Se invece fosse una specie di fasciatura preventiva che tu continui ad indossare per non riaprire una vecchissima ferita, potrebbe essere forse un’occasione per guarirla del tutto.
Ti ripeto che il mio desiderio è solo quello di mettere le ultime cinque o sei battute a un dialogo che si è interrotto anni fa, contro la mia volontà. Così sospeso, non mi piace. Ho bisogno di un riscontro per poter essere tranquilla dentro di me e non lasciarmi dietro delle cose incomplete, che è ciò che odio di più al mondo.
Per tanti anni ho rispettato la tua distanza. Tante volte avrei voluto telefonarti, ma rispettavo il tuo silenzio, che a volte mi ha anche offeso, perché l’ho inteso come disprezzo. Poteva esserlo veramente?
Spesso ho pensato che lo fosse... il tempo cambia tante cose, e proprio per questo vorrei parlarti, per sapere come è stato il tuo cambiamento, le lettere senza risposta, la chiave del cofanetto ancora chiuso, la fuga davanti ad ogni possibile incontro.
Davvero è così terribile vedermi? Non credo di essere più instabile psicologicamente dei tuoi pazienti, né più intollerabile di un isterico o di un depresso.
Quindi mi piacerebbe che tu mi regalassi una piccola frazione del tuo tempo per riordinare qualche ricordo, farti qualche domanda e raccontarti qualcosa dei miliardi pietre che mi hanno colpito dopo la nostra separazione. Ho capito che per te vedermi è un sacrificio, e mi
dispiace, ma ti chiedo lo stesso di farlo per una vecchia amica, una fiamma mancata, una fuggitiva... non so come mi potresti definire se ti trovassi a parlare di me con qualcuno.
Io, se penso a quegli anni continuo a vedermi come una creatura terrorizzata, indebolita fino ad essere inerme, con gli eventi come pietre che mi cadevano addosso... Molte di quelle pietre sono anche raccontate nelle mie lettere, quelle che probabilmente non hai mai letto... chissà se esistono ancora? Quante mattine ho pianto, andando vicino al cancello a Pasadena e controllando la cassetta della posta. Le mie lettere, circa una alla settimana, ricevevano puntualmente come risposta una cassetta della posta vuota. Se esistessero, chiuse o aperte che siano, non mi dispiacerebbe riprendermele. E’ un mio modo per completare un dossier, e se serve, anche per bruciarlo scrivere la parola fine.
Mantenendo le dovute distanze, ti mando un saluto.
Nadine
La risposta di Enrico, arrivò rapidamente, per posta raccomandata. Ormai la carta e la busta erano un mezzo desueto, era curioso che la sua corrispondenza si servisse ancora delle Poste. Ma Nadine amava scrivere lettere a mano, e questo era senz’altro un modo per adeguarsi a quel linguaggio.
Nadine aveva aperto la cassetta della posta, aveva subito identificato la busta con l’indirizzo scritto a mano. Poi sul retro, la conferma nell’intestazione del mittente. Aveva forse un po’ di batticuore? Aveva poi ripreso l’ascensore, ma dal piano terra non sapeva se risalire in casa oppure premere il bottone in alto, quello dello studio all’ultimo piano. In casa c’erano i ragazzi, e lei preferiva leggere la lettera in pace, da sola.
Però prima passò in casa e disse ai suoi figli: se non avete bisogno di me io vado nello studio. Non voleva che una volta salita qualcuno
la interrompesse. Prese un tagliacarte, apri la busta e andò a sedersi su una poltroncina vicino alla vetrata.
Cara NadineForse avrei dovuto scriverti questa lettera venti o trent’anni fa. Così avresti avuto almeno alcune delle risposte che immagino tu stia cercando.
Ti voglio dire la verità, o almeno la cosa più sincera che riesco a tirare fuori da me.
Lo dico perché la verità è sempre incerta; in tanti anni in cui ho cercato di sondare le profondità dell’animo umano, ogni volta che credevo di scoprire una verità ero costretto poi a ricredermi, perché c’era un’altra verità, ancora più sepolta. Un po’ come le tuniche della cipolla, una copre l’altra.
Ma alla fine, tolte tutte le bucce, della cipolla non rimane più niente. E allo stesso modo, se per ipotesi dovessimo riuscire a togliere tutti gli strati alla nostra coscienza, tutte le verità parziali, nel tentativo di arrivare al centro, alla fine non troveremmo più niente, anche se magari c’è tutto. Eccoti dunque le bucce più vicine al centro, le mie verità spogliate da tutte le coperture.
Non esagero se dico che mi hai salvato la vita. Aver sentito di appartenerti, averti sentita “mia”, è stato per me l’incontro con qualcosa di sconosciuto, che non c’è stato mai più; se ne cerco una definizione, non trovo altre parole che “amore” .
Per me è stato così grande, immenso, come un frastuono, come un Concorde che ti passa sopra la testa e ti travolge. Poi, quando sei andata via, è cresciuto al punto che proprio non sapevo come contenerlo.
Ti avevo perduta, e non potevo fare più niente. Tu soffrivi dall’altra parte del mondo e io non potevo fare niente. Ti avrei voluta vicina, ero certo che ti avrei “salvata”, che il mio amore sarebbe stata l’unica vera medicina. Speravo che saresti fuggita dalla California, e invece arrivavano sempre quelle lettere, quelle buste gialle che odiavo, perché sapevo che erano atti giudiziari contenenti ogni volta il prolungamento
della mia condanna. Con motivazioni che non volevo più leggere. Così ho smesso di aprirle, ho cominciato a sviare la mia vita da quella dedizione che ti avevo giurato.
E sono cambiati i miei comportamenti, ma quella dedizione sviata dalla vita quotidiana non è sparita, si è fissata nel profondo come una ferita non più rimarginabile.
Poi è successa una cosa strana, più o meno all’epoca del tuo matrimonio. Proprio nel momento in cui mi arrivava la conferma di averti perduta per sempre, la ferita ha cominciato ad emettere una strana luce.
Mi sono reso conto che il ricordo di quegli anni, almeno fino al 78, erano la cosa più preziosa che avevo dentro di me, un ricordo struggente e bellissimo che mi faceva male e bene nello stesso tempo. Più passavano gli anni e più quel ricordo si consolidava, diventava la mia forza.
E poi vedevo centinaia di storie d’amore andare a rotoli. Vedevo quel sentimento spegnersi, fuggire o trasformarsi nel suo opposto.
Vedevo gli altri, tutti gli altri, diventare vittime di ciò che era stata la loro gioia. Mentre la mia storia d’amore era perfetta, non prendeva nessuna strada laterale, si ergeva, e si erge tuttora come un baluardo nella mia coscienza.
E’ anche vero che molte volte mi sono visto come un idiota per aver costruito un mausoleo dove sarebbe stata necessaria una semplice casa, ma in quel mausoleo il mio sacro fuoco si conservava intatto, perfetto, e l’immagine della mia venerazione eri tu.
Tu quando litigavi con Esti e nuovevi le mani in quel modo meraviglioso, e lo insultavi con una voce adorabile. Tu mentre danzavi l’assolo di batteria degli Iron Butterfly, e non sapevi che ti stavo guardando. Tu all’ospedale con il libro di Freud in mano. Tu nelle fotografie di Hugo a Cap d’Antibes. Tu, nuda alla Batterie, come la ninfa di Bouguereau.
A un certo punto è stato così meraviglioso conservare quel ricordo di te, che quasi mi sentivo salvato da tutto il resto. Non hai idea di quante volte, in ogni momento buio o triste pensavo “se ci fosse lei”. Ogni volta che una donna mi faceva arrabbiare, mi deludeva o mi disgustava pensavo “con lei non sarebbe mai successo”. Ogni volta che rientravo in casa, ogni giorno, ho immaginato come sarebbero stati tutti questi anni.
Come sarebbe stato rientrare in una casa e trovarti lì.
E pensavo, e lo penso ancora, che questo immaginarti sia stato molto meglio che averti, contaminarti con il mio carattere perfido, essere costretto ad ammettere di non saperti mantenere per tutta la vita nella gloria che meritavi. Forse anche essere costretto a vederti trasformare sotto i miei occhi, vedere un sogno sovramondano sciogliersi nel ritmo del quotidiano, perderti pur avendoti vicina, smettere di adorarti, gettare acqua sulla tua luce, spegnerti.
Così ho preso una decisione. C’è stata una cosa meravigliosa nella mia vita, l’unico cristallo veramente perfetto, un evento più bello di qualunque sogno, un fiore che grazie a dio non è mai diventato un frutto e quindi non potrà mai deteriorarsi, è rimasto perfetto nel suo stato, e ha continuato a regalarmi il sogno di come sarebbe stata la nostra vita insieme. Io voglio salvare quel sogno.
Ti giuro che sbaglia chi crede che in questa scelta ci sia della paura o della viltà. C’è solo la certezza che sia per me che per te sia stato molto meglio che quel lontano episodio d’amore sia rimasto dov’era.
Te lo dico con una certa esperienza, ciò che pensi di sentire, questo desiderio di parlare, questo voler rianimare un dialogo, non è che nostalgia di quella antica estate, che in ogni caso è ormai troppo lontana. E’ molto meglio non toccare niente, non spostare niente, non trasformare più niente. Non pensi anche tu che sia bellissimo così?
Niente di ciò che avrebbe potuto accadere è così meraviglioso, chiuso in una cornice, con un suo inizio e una sua fine. E’un momento della vita che ormai non assomiglia neanche più a ciò che veramente abbiamo vissuto, è solo mythos. E con un autentico slancio di egoismo, non intendo in alcun modo smantellare la sua cattedrale.
Spero che nella mia lettera avrai trovato qualche risposta che forse attendevi. Perdonami se continuerò a vivere in questa mia dimensione di delirio, della cui ammissione tu sei l’unica testimone.
Ringrazio il destino di averti incontrata, e ti prego, facciamo in modo che le cose restino come sono oggi. Nessun dialogo o incontro potrà mai aggiungere o togliere qualcosa a ciò che è stato e continuerà per me ad essere. Dopo tanti anni di osservazione dei sentimenti umani sono
arrivato a pensare che ci sia un solo modo per amare una persona per tutta la vita, ed è questo.
Con infinito affetto
Enrico
P.S.: Ti rispedisco le tue lettere. Come vedrai sono tutte aperte, perché nel corso degli ultimi vent’anni le avrò rilette decine di volte.
Nadine lesse la lettera d’un fiato. Poi la rilesse, scosse la testa. Chi era veramente quell’uomo? Era rimasto in lui qualcosa di ciò che lei aveva conosciuto? E perche poi, voler finire quel dialogo, spiegarsi, salutarsi, rimpiangersi, magari? Forse aveva ragione lui. Forse anche lei aveva mantenuto vivo dentro di sè una specie di altarino? E poi... come si sentiva, dopo averla letta? Lusingata? No. Quella era la lettera di un pazzo, per sua stessa ammissione. Un pazzo innamorato di una cartolina, di un santino.
Nadine era scossa, inquieta. Ma quella lettera era un addio, una dichiarazione, un delirio? Non pensi anche tu che sia bellissimo così, aveva scritto. Delirava. Come ci si comporta di fronte ad un delirio? Lo si avvalora o si cerca di ricondurre il delirante nei binari di una visione più condivisa?
Un po’ per calmarsi, un po’ per prendere tempo, si fece un caffè, accese il computer e digitò “ Come aiutare una persona delirante”.
Le venne da ridere. Lei che cercava di dare un aiuto psicologico a uno dei più grandi psichiatri italiani. E lo faceva cercando su internet...
Comunque lesse: “Intraprendere azioni aleatorie, cercare di intraprendere una cooperazione o pseudocontatto, sedersi di fronte e offrire oggetti desiderati come sigarette, acqua, caramelle, biscotti.”
Cavoli, per offrirgli dei biscotti dovrei almeno averlo davanti... Nadine non sapeva cosa fare. O meglio, l’avrebbe saputo benissimo, e sarebbe stata una lettera d’impulso e... accidenti, più rileggeva più si arrabbiava e si sentiva offesa, quasi gelosa. Era una dichiarazione d’amore, certamente, ma fatta a qualcun’altra... ma certo! Enrico
sapeva benissimo che l’avrebbe offesa. L’aveva fatto di proposito, di non tener conto di lei. Era un modo molto più ingegnoso, più sottile per allontanarla.
Altro che “ti amerò per sempre”. Qua era proprio il contrario. Serbo il tuo passato perché del tuo presente non me ne frega niente.
Eppure, nel suo delirio, perché era un delirio, no? Nel suo delirio, si ripeteva Nadine, c’è una specie di... non trovava una parola che potesse definire quella verità contenuta nelle sue parole.
Continuò a leggere “Come aiutare una persona delirante”, il primo articolo a caso trovato nel web: “Ascoltare con attenzione e pazienza i discorsi vaneggianti, ripetere spesso parti del discorso. Fare domande discrete, usare frasi accondiscendenti come “ti credo”, ”si certo”, favoriscono l’espressione del delirium, che non sempre è una strategia positiva. Cercare di intraprendere discorsi meno deliranti possibile, di suscitare l’interesse del soggetto. Cercare di evitare di usare tecniche di rispecchio.”
Nadine dopo la lettura di poche righe già sentiva trasformarsi il suo atteggiamento. Adesso era lei a vedersi nei panni della persona delirante. Si ricordava dei tempi di Wädenswil, di quando era in balia di una specie di scimmia impazzita che si era impossessata del suo cervello e delirava davanti allo specchio, con il metro in mano a misurarsi la pancia tre volte al giorno, a infilarsi le dita in gola per vomitare. Allora erano gli altri , ad ascoltare con pazienza i suoi discorsi vaneggianti. Lui, prima di tutto. Lui, che l’aveva salvata. Perché in fondo questo lei lo pensava. La mia salvezza è cominciata da lui. E’ stato lui l’Orfeo che è venuto a ripescarmi nell’oltretomba, ed è stato così bravo da non voltarsi indietro, così mi ha portata fuori, ma poi ha continuato a camminare senza voltarsi.
Santo cielo, la sua testa era un vero guazzabuglio. Perché non ammetterlo, almeno a se stessa? Che lei ci sperava. Che forse era più delirante lei di lui, che magari, senza quasi esserne cosciente, sperava in qualcosa... a quasi sessant’anni. Che vagheggiava, naturalmente. Perché è già difficile tessere una relazione quando ci si sta formando... ma quando si è persone fatte e finite, deve essere vermente un’impresa
titanica. Specialmente se uno dei due ha dentro di sè una forza centrifuga che lo spinge via. Ma che presunzione, pensare che il centro sia qua...
Fece scorrere il testo nel monitor: “Cosa evitare di fare con una persona delirante” . “Evitare fare leva sui contenuti deliranti, con frasi tipo: “se non mi obbedisci ti sparo con il mio raggio laser”, “se non esci subito da qua arriverà il demonio”. Non intraprendere discorsi con contenuti sessuali perché tali soggetti hanno una sessualità molto oppressa”.
Cazzo, che idiozie, pensò Nadine. Ma non volendo tornare a pensare proseguì la lettura: “Evitate di trarre in inganno il soggetto, chiedetegli di quali persone si fida maggiormente. Non mentite al soggetto ma non siate totalmente sinceri con lui, non ditegli i vostri scopi”.
Deve averlo scritto una donna, pensò. Alla fine chiuse il portatile con un colpo secco. Adesso gli rispondo, si disse. Ho già pensato fin troppo. Tirò fuori un foglio di carta da lettera :
PRO-MEMORIA:
Ciao Enrico, quello che hai scritto è bellissimo e tremendo nello stesso tempo. Lo ammiro, se vuoi lo rispetto perfino, ma è di una ferocia inaudita.
Poi mi offende anche un po’, perché non tiene minimamente conto della mia esistenza. Nella tua lettera parli di un idolo che non sono io, evidentemente. Sai, io sono un’artista (forse mi hanno solo convinta di esserlo), e nel mio mondo gli idoli finiscono sempre per sfracellarsi da qualche parte, come Icaro. Ma non c’è niente di male: le idee alla fine devono sempre concretizzarsi in qualcosa. Io le spiaccico sulla tela. E come buona parte degli artisti, non ho nessuna paura del risultato. Può essere perché non abbiamo aspettative, oppure perché se il risultato non ci piace siamo subito pronti a tentare un’altra volta, oppure a cominciare qualcos’altro, perfino a lasciar perdere.
Quindi ti invito ad essere un po’ artista. Ti chiedo di passare dal mythos al logos, per usare l’esempio che hai usato nella tua lettera. Vorrei che vedessi la mostra, perché questo passaggio io lo trasformo
quotidianamente passando dalla theoria alla praxis. E in questa mostra io l’ho fatto corrispondere a un passaggio da Thanatos a Eros.
Quanta dualità, vero? E’ bello quando questi due elementi della dualità dialogano tra loro, come spero faremo noi.
Guarda caso, il titolo della mostra che inauguro ad Antibes il mese prossimo si chiama Tharos, che sarebbe, come potrai facilmente desumere, un mix tra i due opposti. Sono tutte immagini sdoppiate e partono tutte da quelle foto che aveva scattato Hugo Honegger alla Sorcière nel 73. Credo che una di quelle tele ti spetti, vorrei regalartela.
Ti aspetto quindi alla Sorcière per ritirare il tuo dipinto (in realtà bisognerà lasciarlo in esposizione fino ad agosto), ma soprattutto perché vorrei fare l’inaugurazione insieme a te.
L’avrai visto nell’invito, il vernissage è il 31 alle 18, ma a me farebbe piacere se tu arrivassi con grande anticipo, al mattino possibilmente, ma se vuoi anche il 30 o il 29. Non so perché, ma sono quasi sicura che verrai, quindi farò tutto come se avessi già ricevuto la tua conferma.
Un saluto affettuoso da una vecchia di 56 anni che non ha niente a che fare con gli idoli ma ha l’enorme pregio di essere fatta di carne e di sangue. Potrai continuare a venerare la tua giovane divinità, e a me potrai dare una stretta di mano e versarmi un bicchiere di vino.
P.S. Ti sei accorto che PRO-MEMORIA è l’anagramma di PRIMO AMORE? “Un pro-memoria, cioè” è l’anagramma di “Primo e unico amore”. Non so se ti piacciano i giochi di parole... non ti conosco affatto. Ma Annamaria dice che tutta la vita non è altro che un gioco di parole.
XXV - fine maggio 2011
Eccoci tornati alla prima pagina. Guardo verso Cannes. Le colline più lontane sono diventate un po’ più scure, così Nadine sta tornando alla Sorcière. Anche Annamaria, Esti e sua moglie sono già rientrati in casa, perché quando cala il sole c’è ancora un po’ di fresco che spira dall’Estérel. Nadine è scesa, per il viale sta salendo un’auto. Si sente chiudere la portiera. Noi usciamo dall’uscita postertiore, andremo a cena fuori. fine 30 maggio 2011