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Atarassia

atarassìa s. f. [dal gr. ἀταραξία «imperturbabilità»]

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Dal gr. ἀταραξία «imperturbabilità», comp. di ἀ- priv. e tema di ταράσσω «turbare» (il tutto viene da τάραξις «confusione, sconvolgimento»). Il termine, già usato da Democrito. Nei nostri vocabolari, il termine viene definito più o meno equivalente a quello di apatia e a quello di adiaforia. Ma apatia dalle nostre parti viene usato spessissimo, atarassia invece viene usato raramente, e in genere con un significato sublime e celestiale. Non parliamo poi di adiaforia, che è roba per trattati filosofici o per linguisti, ma è difficilissimo da sentire in un bar o sull’autobus.

Eppure, al di là della sua connotazione di benessere assoluto che ce la fa sembrare qualcosa di appartenente alle religioni orientali, la sua etimologia ci conduce ad un’altra definizione del benessere: qua non si fugge più dal pathos, ma dalla taràsi, cioè dalla confusione, dal disorientamento. Non so se questo disorientamento venga superato dal naufrago perché all’orizzonte ha visto un lembo di terra oppure perché abbia accettato in pieno il fatto di essere in balia del destino, in mezzo al mare, e senza avere la minima idea di dove si trovi.

Il campo semantico del termine atarassia, nella sua accezione di stato d’animo di benessere (eudaimonía), si

contrappone a quello di marasma, quale stato d’animo di consunzione, di confusione, che si trova già nella tragedia greca e che è una riproduzione interiore del dualismo cosmogonico: ordine: κόσμος (kósmos) contrapposto a χάος (disordine, vuoto).

In questo caso, più che una fuga dal dolore l’atarassia sembra portarci una certa idea di ordine, di pace, di completa emancipazione dal chaos, simile a quella raccomandata dal Siddhārtha Gautama Buddha, nel Dhammapada (Versi della Legge): “libero dal desiderio, libero dal dubbio, ha raggiunto la profondità dell’eterno. Al di là dell’attaccamento al merito e al demerito, al di là delle passioni, al di là della sofferenza, al di là di ogni impurità. In lui la sete dell’esistenza si è spenta. E puro, sereno, imperturbabile, splendente come la luna”.

Da ragazzo, ho sentito dei drogati alle prime armi paragonare l’effetto dell’eroina indifferentemente all’atarassia, al Nirvana, ai Campi Elisi, all’Empireo e al Paradiso Edenico. Spiace deludere, ma a parte i negativi effetti dell’eroina, occorre dire che l’atarassia è celestiale solo in quanto ci salva dalla confusione. Cosa evidentemente di tutto rispetto ed ampiamente auspicabile, specialmente nella terza età, dove diventano complicate anche le cose semplici.

Il termine atarassia oggi è in disuso. Era particolarmente in uso nelle scuole postaristoteliche degli stoici e degli scettici, per designare lo stato di serenità indifferente del saggio, che contempla il mondo senza più subirne la pressione affettiva.

Poi i romani cominciano il loro paziente e imperioso

processo di “istituzionalizzazione” dei concetti, e quello di atarassia diventa addirittura una disciplina, una tecnica, si chiarisce come una vera e propria ricetta comportamentale (praxis) finalizzata al conseguimento dell’imperturbabilità (Tranquillitate) intesa come felicità.

Per questo l’atarassia risulta come la massima espressione dell’egemonia (il potere Hêgemonikon) [dal gr. ἡγεμονία; v. egemone, derivato da quel ἡγέομαι «guidare, condurre»], che i media ci fanno sembrare quello delle mafie o dei poteri forti, di coloro che tengono le mani su un territorio, ma che in realtà si esercita in primo luogo su sé stessi e sulle proprie pulsioni. Un mio amico islamico mi ha detto più o meno la stessa cosa della jihad. La vera guerra santa è quella che dichiari ai tuoi nemici interiori. Una volta debellati quelli, sarà difficile trovarne al di fuori. Come dice Mary Shelley, “un essere umano perfetto dovrebbe sempre mantenere la mente calma e serena e non permettere che la passione o che un desiderio passeggero disturbino mai la sua tranquillità”.