La rivista dell'OGL - Tabloid 2/23

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Tabloid

Informazione, il tempo che fa: nuove strade e antiche minacce

Crocevia

Le riforme indispensabili su diffamazione, querele temerarie, diritto all’oblio

Formazione

Gli errori quando parliamo di migranti e le dieci cose da tenere a mente

Giornalismi

L’inchiesta non è morta: tre casi di studio per capire come oggi si può fare

Periodico edito dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Numero 2/ 2023numero 3 nuova serie
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Tabloid

New Tabloid - Periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia

Poste Italiane S.p.a. Sped. Abb. Post.

Dl n. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1 (comma 1). Filiale di Milano - Anno LI

N. 2/2023 (numero 3 nuova serie)

Direttore responsabile Riccardo Sorrentino

Coordinamento editoriale

Francesco Gaeta francesco.gaeta@odg.mi.it

Direzione, redazione e amministrazione

Via Antonio da Recanate 1 20124 Milano

Tel: 02/67.71.371 - Fax 02/66.71.24.18

Consiglio Ordine giornalisti Lombardia Riccardo Sorrentino: presidente professionista. Francesco Caroprese: vicepresidente pubblicista. Rosi Brandi: consigliere segretario professionista. Maurizia Bonvini: consigliere tesoriere professionista. Giuseppe Caffulli, Ester Castano, Fabio Cavalera: consiglieri professionisti. Paolo Brambilla, Roberto Di Sanzo: consiglieri pubblicisti

Collegio dei revisori dei conti: Roberto Parmeggiani (presidente professionista), Monica Mainardi (professionista), Angela Battaglia (pubblicista).

Direttore OgL: Elisabetta Graziani

Registrazione n. 213 del 26-05-1970 presso il Tribunale di Milano. Testata iscritta al n. 6197 del Registro degli Operatori della Comunicazione (Roc) Tiratura: 300 copie.

Progetto grafico: Chiara Athor Brolli

Chiuso in redazione il 2 giugno 2023. Stampa: Prograf Soluzioni Grafiche di Francesco Formica

www.odg.mi.it
new Periodico
2023
edito dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
Numero
numero
nuova serie Formazione Gli errori quando parliamo di migranti e le dieci cose da tenere a mente
Crocevia Le riforme indispensabili su diffamazione, querele temerarie, diritto all’oblio Tabloid new e 3
Giornalismi L’inchiesta non è morta: tre casi di studio per capire come oggi si può fare Informazione, il tempo che fa: nuove strade e antiche minacce ©Karsten Wurth / Unsplash

Il difficile mestiere del traduttore culturale

In una società complessa e iperspecialistica spetta al giornalista ridurre le distanze tra saperi e competenze e favorire una società orizzontale e democratica. Questa funzione, oggi minacciata non solo dalla disintermediazione innescata dal digitale, va tutelata dalle istituzioni.

Anche dalle nostre

editoriale

Recuperare la fiducia dei cittadini. La soluzione è semplice: per uscire dalla crisi del giornalismo – una crisi economica generata dalla diffusione di tecnologie che hanno travolto anche le modalità della nostra professione – non c’è altra strada.

Le discussioni che l’Ordine della Lombardia ha aperto prima con il mondo dei medici per l’informazione sanitaria, dopo la pandemia, e poi con il mondo degli avvocati su quella che è provocatoriamente chiamata “giustizia mediatica” ha suggerito alcune riflessioni sul ruolo della nostra professione.

Ruoli e diritti. La prima riflessione

riguarda il ruolo, attivo, dei giornalisti, che sono davvero – collettivamente – i “guardiani del cancello” delle notizie. Tocca a noi decidere quali notizie siano in ciascun “settore” rilevanti; quali quelle che i cittadini devono conoscere. Esattamente come è il medico che deve spiegarci quali cure o quali medicinali acquistare, e come è l’avvocato che ci dice quale procedura adire. È questo, e non altro, che fa di noi dei professionisti e rende il nostro lavoro diverso –nell’eguaglianza della dignità di tutte le occupazioni – da quello di chi vende alimentari, o vestiti o automobili. L’ansia dei click va in una altra direzione. La seconda riflessione riguarda il nostro ruolo

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nella società. La nostra Costituzione non prevede un diritto all’informazione, che tuttavia è stato affermato dalla Corte Costituzionale, secondo la quale si tratta di un diritto individuale, ma anche di un diritto funzionale al corretto andamento della democrazia.

In realtà si può andare anche oltre, e per questo è un male che la Carta non preveda esplicitamente il diritto di informazione: al giornalismo è affidato il compito di ridurre tutte quelle asimmetrie informative che impediscono lo sviluppo di una società orizzontale e democratica sul piano politico e il buon funzionamento dei mercati sul piano economico. L’ampia discussione sul tema della presunzione di innocenza ha permesso di individuare un terzo ruolo, quello di “traduttore culturale”: ne ha parlato in più occasioni – anche nel precedente numero di Tabloid – l’avvocato Carlo Melzi d’Eril. In un mondo di competenze crescenti, in cui la divisione del lavoro crea specializzazioni sempre più alte, è necessario che “qualcuno” faccia da tradut-

tore. Nella consapevolezza delle insidie di questo ruolo: come dicevano gli antichi, “ogni traduttore è un tradittore”. Nel mondo del giornalismo economico e finanziario questo già avviene; in quello scientifico i grandi divulgatori non sono mancati; nel mondo della cronaca giudiziaria sono ora invocati a gran voce. È l’intero giornalismo che, però, può trovare qui una grande occasione di rilancio.

Spazi che si stringono. La tendenza, nella società e nella politica, va in un’altra direzione. Approfittando della crisi economica e professionale, gli spazi di libertà per la professione si riducono, sia pure in nome di buone intenzioni. La presunzione di innocenza è stato un caso clamoroso e recente (a pagina 34 tutte le nostre iniziative), ma altri ostacoli si ergono sul nostro percorso. Sono ben note le slapps, le strategic lawsuits against public participation, quelle querele e citazioni intimidatorie che in modo molto opportuno la definizione inglese definisce «contrarie alla partecipazione

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editoriale
I margini di libertà per la professione si riducono, sia pure in nome di buone intenzioni

pubblica». Altri ostacoli sono in arrivo: il diritto all’oblio apre la strada a nuove procedure intimidatorie (a pagina 23), un disegno di legge chiude invece le assemblee delle società quotate ai cronisti (a pagina 27). Gli spazi per la libertà di informazione insomma si riducono.

Cambiamenti e azioni. Il punto è che riconoscere i diritti – il diritto di informazione, in questo caso – in una Costituzione è fondamentale, ma occorrono anche istituzioni che diano loro vita. E in questo i tribunali non bastano. Nel nostro mondo occorrono imprese che siano finanziariamente solide e sostenibili, e non può essere più un tabù chiedere –tenuto conto della centralità del nostro ruolo – un aiuto economico: non parliamo qui di sussidi concessi dal governo, ma di una regolamentazione valida per tutti (esenzioni, crediti d’imposta, tassazione speciale e così via), che crei uguali condizioni di partenza. Le nuove tecnologie però stanno anche

ribaltando i rapporti tra le imprese e singoli giornalisti: se l’accesso alle notizie avviene innanzitutto attraverso i motori di ricerca, il singolo articolo diventa più importante di prima rispetto alla testata e alla gerarchia delle notizie che propone. Avanzano dunque anche nuove forme di organizzazione del lavoro (ne parliamo da pag. 62), e attraverso di esse si iniziano a testare nuovi modelli di business. Anche l’Ordine può contribuire a dar vita al diritto di informazione dei cittadini e alla libertà giornalistica che gli è funzionale. I giornalisti hanno bisogno di un’istituzione che si prenda cura dei loro interessi professionali correttivi (per quelli economici, il ruolo fondamentale spetta al sindacato). Inutile ripetere cose mille volte dette su formazione e competenze, deontologia e fiducia dei cittadini, interventi pubblici e libertà. Ormai è emersa anche la consapevolezza che l’Ordine ha bisogno di fare, insieme a tutti i colleghi, un “salto”. Prepararci sarà il nostro prossimo compito.

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Riccardo Sorrentino new Tabloid
Si testano nuovi modelli di business e di organizzazione del lavoro

SommarioSommario

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Il mestiere del traduttore culturale di Riccardo Sorrentino

9 Crocevia

La questione del momento

pag. 10

Slapp, uno schiaffo alla partecipazione democratica di Rossella Vignola

pag. 16

Diffamazione, rischi e opportunità della riforma che verrà di Guido Camera

pag. 23

Se il diritto all’oblio diventa una minaccia a chi scrive di Claudia Trombetti

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new
Tabloid

pag. 27

Saranno tutte assemblee a porte chiuse?

di Gerardo Graziola

pag. 29

Riformare la riforma: le tre strade possibili

di Giulio Enea Vigevani

pag. 34

Presunzione di innocenza, le proposte dell’Ordine e il dialogo con le Procure lombarde

di Riccardo Sorrentino

41 Formazione

Gli strumenti che ci servono

pag. 42

Marta Zanichelli (Università Iulm Milano) «Chi studia qui è un giornalista che lavora in una redazione»

di Sara Bichicchi

pag. 45

Luca Solari (università Statale Milano): «Teoria e pratica per dare vita a narrazioni a 360°»

di Fabio Pellaco e Andrea Miniutti

37

Bussole

Appunti di deontologia

pag.38

A cosa serve il consiglio di disciplina territoriale

pag. 50

Marco Lombardi (Università Cattolica Milano): «L’inchiesta sociale al centro dei nostri programmi»

di Eleonora di Nonno Carlotta Bocchi

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pag. 53

Dieci luoghi comuni che ripetiamo quando parliamo di migranti di Luciano Scalettari

pag. 58

A cosa serve a volte fare uno stage in giornali online di Francesco Gaeta

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Giornalismi

Il futuro che c’è già: casi, storie, persone

pag. 62

C’è giornalismo oltre la cronaca: il caso IrpiMedia

di Lorenzo Bagnoli

pag. 68

Multimedialità, diritti sociali e ambiente: il progetto Fada Collective

di Fada Collective

pag. 76

Il giornale per mettere i diritti al cuore dell’informazione

di Marco Ratti

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Citazioni

Il cinico non è adatto a questo mestiere

Ryszard Kapuscinsky

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Crocevia

La questione del momento

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SLAPP, uno schiaffo alla partecipazione democratica

Le querele temerarie sono strumenti legali che inibiscono la libertà di espressione e di informazione. L’Europa sta discutendo un pacchetto di norme per ridurne gli impatti. La priorità è armonizzare la normativa tra gli Stati membri: per riuscirci serve l’impegno del Governo e dei giornalisti stessi di Rossella Vignola, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

L’espressione SLAPP – querele strategiche contro la partecipazione pubblica, più comunemente note in Italia con i termini querele bavaglio o querele temerarie – nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta. Il termine si riferisce all’uso di strumenti legali per inibire la libertà di espressione e la partecipazione su temi di interesse pubblico. Se in origine il fenomeno riguardava principalmente gli attivisti in materia ambientale, oggi le SLAPP colpiscono giornalisti, whistleblower, difensori dei diritti umani, organizzazioni della società civile. Caratteristica delle SLAPP è la disparità di potere e di risorse economiche tra querelante e querelato. L’intenzione di chi avvia una causa temeraria non è vincerla, ma allungarla il più possibile con l’obiettivo di drenare le risorse finanziarie, psicologiche, di tempo di chi ne è bersaglio, silenziare le voci critiche e mandare un monito a tutti gli altri. Da qualche anno il dibattito sulle querele temerarie è arrivato in Europa. Sempre più spesso figure di spicco della politica o rappresentanti di grandi aziende utilizzano le SLAPP per sottrarsi allo scrutinio dell’opinione pubblica e spostare il confronto democratico dallo spazio pubblico ai tribunali. Mettendo a tacere ed intimidendo le voci critiche, le conseguenze di queste azioni vanno al di là dei

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A essere colpiti sono giornalisti, whistleblower, difensori dei diritti umani, organizzazioni della società civile
LIBERTÀ DI INFORMAZIONE/1

IL CASO GUIDA: DAPHNE CARUANA GALIZIA

Daphne Caruana Galizia, giornalista e blogger, è stata uccisa il 16 ottobre 2017 a Bidnija, piccolo centro dell’isola di Malta. Sul suo blog Running Commentary aveva rivelato il coinvolgimento di membri del governo maltese nella rete di società offshore denunciata dall’inchiesta Panama Papers. Per il suo omicidio è in attesa di giudizio l’imprenditore immobiliarista maltese Yorgen Fenech, che avrebbe pagato tangenti a esponenti del governo di Malta per essere favorito nella costruzione di una centrale energetica. Al momento della sua uccisione Daphne aveva a suo carico oltre 40 querele per le sue inchieste.

singoli coinvolti, arrivando a minacciare l’essenza delle società democratiche e la libertà di espressione.

La situazione in Italia. Il fenomeno è tutt’altro che nuovo anche nel nostro paese, come confermato dalla missione italiana del 2022 del consorzio europeo Media Freedom Rapid Response Mechanism, che svolge azioni di monitoraggio e offre supporto concreto ai giornalisti minacciati. La normativa più

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Hayoung Jeon / ANSA

frequentemente usata per esercitare un’azione temeraria è la diffamazione, sia in ambito civile che penale, ma anche le norme sul diritto alla privacy o sul diritto all’oblio vengono usate per impedire la rivelazione di informazioni scomode. In Italia incidono una serie di fattori a rendere il quadro più difficile che in altri paesi UE: la crisi del settore, il panorama normativo – in Italia la diffamazione è un illecito penale e può comportare il carcere – l’eccessiva lunghezza dei processi, l’alto livello di insicurezza occupazionale e contrattuale, soprattutto dei giornalisti indipendenti, freelance che lavorano per piccole testate a livello locale, la cui voce è tanto più importante nel far emergere storie dai margini o ignorate dai media mainstream.

Per Daphne, Jan e gli altri. Il 2022 è stato un anno cruciale nella lotta per la libertà di stampa. Superando resistenze fortissime ad intervenire nella sfera dei media, le istituzioni euro -

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Clemens Bilan / EPA MOBILITAZIONE. Le norme anti-SLAPP in via di approvazione in sede europea portano il nome di «legge di Daphne» .

pee hanno intrapreso una serie di azioni in difesa della libertà e del pluralismo dei media, segnale di un progressivo e cauto superamento di un dogma di lunga data secondo il quale la libertà dei media è appannaggio degli Stati membri. Tuttavia, date le limitate prerogative comunitarie in materia, gli sforzi delle istituzioni europee devono essere accompagnati dalla volontà dei governi nazionali.

Nell’aprile 2022

la Commissione UE ha annunciato interventi normativi: una Direttiva e una Raccomandazione

Per quanto riguarda le SLAPP, a segnare un momento decisivo è stata la tragica vicenda di Daphne Caruana Galizia, la giornalista uccisa con un’autobomba nel 2017 a Malta. Impegnata in inchieste su corruzione e riciclaggio che riguardavano ministri e personalità politiche di spicco, Daphne Caruana Galizia aveva in corso oltre quaranta cause conseguenza di querele temerarie. L’omicidio di Daphne Caruana Galizia – seguito appena un anno dopo da quello di un altro giornalista, lo slovacco Ján Kuciak – è stato catalizzatore di un’intensa mobilitazione transnazionale che si è organizzata nella coalizione CASE (Coalition Against SLAPPs in Europe) con l’obiettivo di proteggere tutte e tutti coloro che nell’esercizio dell’attività giornalistica e dell’attivismo vengono colpiti da SLAPP. L’impegno di CASE in questi anni è stato incessante nel richiedere un’iniziativa europea che stabilisse standard minimi di protezione contro le SLAPP.

La risposta dell’UE. Nell’aprile 2022 la Commissione UE ha annunciato un pacchetto anti-SLAPP che comprende una proposta di Direttiva, un atto legislativo che stabilisce degli obiettivi vincolanti per gli Stati membri, e una Raccomandazione, che suggerisce linee di azione a livello nazionale. Nonostante l’ambito di applicazione della Direttiva sia limitato alle cause di natura civile con implicazioni transfrontaliere (a causa dei limiti delle competenze UE), la proposta contiene molti degli elementi richiesti da CASE, ovvero: misure per l’archiviazione anticipata dei procedimenti giudiziari infondati, garanzie procedurali, risarcimento dei danni e sanzioni dissuasive. La Raccomandazione, rivolta agli Stati membri, suggerisce invece misure per affrontare i casi nazionali attraverso strumenti legislativi e

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Tra le misure proposte: l’archiviazione anticipata dei procedimenti giudiziari infondati, risarcimento dei danni e sanzioni dissuasive

non, come la formazione per professionisti legali e giornalisti, e la promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione. Il pacchetto europeo anti-SLAPP, chiamato “la legge di Daphne”, è stato accolto con favore dagli attivisti, ma la strada è piena di ostacoli. A marzo 2023 è stata resa nota la proposta di compromesso sulla Direttiva formulata dalla Presidenza di turno svedese come base del negoziato tra Consiglio UE e Parlamento previsto dall’iter di approvazione. Un compromesso che però sminuisce impatto ed efficacia della proposta di Direttiva originale. Sono saltati dal testo alcuni passaggi che avrebbero garantito forme di armonizzazione a livello transnazionale rendendone più difficile l’attuazione. È stato introdotto un criterio più restrittivo per classificare le SLAPP ai fini dell’archiviazione rapida, una soglia giudicata troppo alta. Peggiorativo anche l’intervento sul risarcimento dei danni e sulle misure per proteggere le organizzazioni della società civile prese di mira dalle SLAPP.

Che fare? In un contesto di crisi del multilateralismo e di aperta sfida da parte di alcuni governi alle istituzioni e ai sistemi internazionali di difesa dei diritti umani, preoccupa la mancata attuazione da parte di alcuni Stati delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, organismo giurisdizionale internazionale che fa parte del sistema del Consiglio d’Europa, organizzazione intergovernativa che promuove la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto nell’Europa allargata. Negli anni la Corte ha sviluppato una consistente giurisprudenza in materia di libertà di espressione. Sulla diffamazione ad esempio ha ripetutamente ammonito l’Italia per il potenziale effetto paralizzante sulla libertà di stampa della pena detentiva. La Corte ha stabilito che personalità pubbliche devono essere disposte a tollerare alti livelli di critica e che il diritto alla libertà di espressione si estende ad affermazioni e idee espresse su temi di interesse pubblico anche nei casi in cui queste «offendano, urtino o inquietino».

È di fondamentale importanza conoscere e difendere il siste -

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Nell’ultima proposta sono saltati alcuni passaggi che avrebbero garantito forme di armonizzazione a livello transnazionale e che limitano l’efficacia della tutela
Peggiorativo l’intervento sul risarcimento danni e sulle misure per proteggere le organizzazioni della società civile

ma multilivello europeo di protezione dei diritti umani che prevede meccanismi sovranazionali di controllo e supervisione dell’operato dei governi. Proteggere la democrazia europea dalla minaccia delle querele temerarie riguarda tutti: giornalisti, media, società civile, cittadini.

I prossimi saranno mesi cruciali: occorre migliorare il testo della Presidenza svedese attualmente in discussione

I prossimi saranno mesi cruciali per le sorti della Direttiva anti-SLAPP: occorre fare pressione sul governo italiano perché rigetti le modifiche proposte dalla Presidenza svedese. Anche il Parlamento UE è chiamato a difendere la Direttiva a partire dalla proposta originaria. Il Governo ha il compito di implementare senza indugio le linee guida contenute nella Raccomandazione sui casi nazionali e il Parlamento quello di avviare una riforma complessiva del quadro normativo sulla diffamazione in linea con le pronunce della Corte Costituzionale e con gli standard internazionali. Anche i giornalisti possono contribuire, seguendo i casi di SLAPP e facendo da cassa di risonanza alle storie di coloro che ne sono colpiti.

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Jonathan Borg/Xinhua via ZUMA Wire NEL 2019. Una delegazione del Parlamento europeo a Malta per chiedere chiarimenti all’allora premier Joseph Muscat sul delitto Caruana Galizia.

LIBERTÀ DI INFORMAZIONE/2

Diffamazione, rischi e opportunità della riforma che verrà

Nel 2021 la sentenza della Consulta ha limitato ai cosiddetti discorsi d’odio la previsione del carcere e ha invitato il legislatore a porre mano alla normativa: ecco cosa dice il disegno di legge che giace in Senato di Guido Camera, avvocato esperto di Diritto dell’informazione

L’esercizio della libertà di espressione in ambito giornalistico è disciplinato da un sistema integrato di disposizioni legislative e norme di produzione giurisprudenziale.

L’intervento più importante è recente, e proviene dalla Corte costituzionale. Con la sentenza n. 150/2021, il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948), che prevedeva un aggravamento di pena per il delitto di diffamazione commessa col mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo

13 della legge sulla stampa del 1948: la detenzione non è più l’unica sanzione

Detta aggravante esponeva il giornalista al rischio del carcere, visto che la pena poteva arrivare fino a sei anni di reclusione e non lasciava al giudice la possibilità di irrogare una multa. La previsione di una sanzione detentiva obbligatoria – ha spiegato la Corte – confliggeva con la Costituzione perché finiva a dissuadere la comunità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri, anche in considerazione del diritto vivente, che condiziona l’operatività della causa di giustificazione del diritto di cronaca nella sua forma putativa al requisito

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dell’assenza di colpa nel controllo delle fonti. È utile ricordare che la sentenza demolitoria della Consulta è giunta dopo che i giudici, l’anno prima, avevano disposto un rinvio della trattazione della questione di costituzionalità, con l’ordinanza n. 132/2020, “in uno spirito di leale collaborazione istituzionale”, per dare modo al Legislatore di adottare una nuova disciplina organica, che riuscisse a contemperare la libertà di manifestazione del pensiero con il diritto alla protezione della reputazione individuale.

I casi di hate speech e fake news. A causa dell’inerzia del Parlamento, la Corte ha pronunciato la sentenza 150, che ha plasmato l’attuale disciplina. Oggi la sanzione applicabile è quella

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Massimo Capodanno / ANSA IN DISCUSSIONE. È in giacenza al Senato il disegno di legge 446 che riforma il regime della diffamazione e delle responsabilità dei giornalisti.
La norma oggi applicabile lascia al giudice la possibilità di irrogare una multa in alternativa alla reclusione fino a due anni

prevista dall’articolo 595, commi 2 e 3, del Codice penale, che prevede la reclusione sino a due anni in alternativa alla multa non superiore a 2.065 euro. La Corte ha anche circoscritto i casi di diffamazione a cui il giudice deve riservare la pena detentiva. Si tratta di ipotesi eccezionali, ovvero i « discorsi d’odio» e di «istigazione alla violenza», nonché le campagne di disinformazione «caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi». Infatti, ha spiegato la Corte, chi combatte “l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi dell’opinione pubblica” si rende responsabile di un “pericolo per la democrazia”.

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La Corte ha circoscritto ad alcuni specifici casi la possibilità di ricorre alla pena detentiva:
discorsi d’odio e fake news
SPARTIACQUE. La sentenza n. 150/2021 della Consulta ha riformato il sistema sanzionatorio in tema di diffamazione. Ettore Ferrari / ANSA

È stata sempre la giurisprudenza a estendere al giornalismo on line il divieto di sequestro stabilito dall’articolo 21 comma 3 della Costituzione. Con la sentenza n. 31022/2015, le Sezioni Unite della Cassazione hanno adottato un’interpretazione costituzionalmente orientata, in virtù della quale la garanzia costituzionale sopra citata è stata estesa ai giornali on line, sul presupposto che svolgano la medesima funzione professionale dei giornali tradizionali. Per tale ragione, la disposizione di favore non può riguardare gli altri mezzi di informazione telematica, ove chiunque può inserire informazioni senza alcun controllo e senza alcun dovere di rispetto della regolamentazione deontologica.

La proposta di riforma: il DDL S. 466 . A inizio anno, in Senato è stato depositato un disegno di legge di riforma del sistema delle responsabilità dei giornalisti (DDL S.466, integralmente consultabile al seguente URL https://shorturl.at/GPSWY). La proposta interviene su molteplici disposizioni della legge sulla stampa, del Codice penale e del Codice di procedura penale. In primo luogo, vengono ricompresi nella definizione di “stampa” i quotidiani on line. Per quanto concerne le pene, viene esclusa la reclusione: anche nei casi più gravi compare solo la multa da 10.000 a 50.000 euro, oltre alla sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna. Nei casi di recidiva specifica, scatta anche l’interdizione dalla professione da uno a sei mesi. In ogni caso, la sentenza di condanna viene trasmessa dal giudice all’ordine di appartenenza per le sanzioni disciplinari. Le pene vengono ridotte di un terzo per il direttore e il vicedirettore che rispondano per omesso controllo, nei cui confronti non scatta l’interdizione.

Novità anche sotto il profilo dei risarcimenti. Il giudice deve tenere conto della diffusione quantitativa e della rilevanza nazionale o locale del mezzo di comunicazione, della gravità dell’offesa, nonché dell’effetto riparatorio della pubblicazione e della diffusione della rettifica o della smentita.

È poi abrogata la disposizione della legge sulla stampa che prevede la possibilità per la persona offesa di

A inizio anno, in Senato è stato depositato un disegno di legge di riforma del sistema delle responsabilità dei giornalisti

Anche per i casi più gravi la normativa in discussione prevede la multa (fino a 50.000 €): il giudice deve tenere conto della diffusione e della rilevanza del mezzo di comunicazione

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chiedere, oltre al risarcimento dei danni, una somma a titolo di riparazione, determinata in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione della pubblicazione diffamatoria.

Rettifica e non punibilità. Il disegno di legge introduce una nuova causa di non punibilità, di cui possono beneficiare il giornalista, il direttore, l’editore e lo stampatore: si tratta della pubblicazione, anche spontanea, della rettifica. Il giornalista non è perseguibile anche se ha chiesto al direttore la pubblicazione della rettifica, e questa sia stata rifiutata. Nel nuovo scenario, la rettifica riveste un ruolo centrale, e subisce importanti modifiche. Come è spiegato nel comunicato di presentazione del disegno di legge all’ufficio di Presidenza del Senato, l’obiettivo è «favorire l’immediata riparazione dell’offesa subìta, consentendo alla persona offesa un’effettiva tutela del proprio onore e della propria dignità, senza le lungaggini processuali». La “nuova” rettifica deve essere pubblicata nella sua interezza, purché rispetti il limite di trenta righe e sessanta battute per riga, entro due giorni. Deve essere «gratuita e senza commento, senza risposta e senza titolo» e pubblicata nella stessa pagina in cui è comparso l’articolo o il servizio cui si riferisce. Per i quotidiani on line deve rimanere visibile per tutto il tempo in cui permanga la visibilità dell’articolo o servizio, «oppure nella pagina iniziale del sito, per la durata di trenta giorni, ove l’articolo o il servizio non sia più visibile».

Se è fornito un servizio personalizzato, le rettifiche devono essere inviate agli utenti che hanno ricevuto l’articolo o il servizio cui si riferiscono. Per la stampa non periodica, la pubblicazione deve avvenire nell’edizione successiva. Se riguarda un libro, va pubblicata sul sito dell’editore, entro due giorni, in una pagina appositamente dedicata alle rettifiche, il cui accesso deve essere visibile nella pagina iniziale del sito, fermo l’obbligo di inserirla nel volume in caso di ristampa. La mancata pubblicazione della rettifica fa scattare la sanzione da 5.146 a 51.646 euro e la pubblicazione coatta da parte del giudice. In caso di ulteriore inottemperanza è integrato il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice civile, punito con la reclusione fino a tre anni o con la multa da 103 a 1.032 euro.

20 1. Crocevia La mancata pubblicazione della rettifica fa scattare la sanzione da 5.146 a 51.646 euro e la pubblicazione coatta da parte del giudice

I dati del Committee to Protect Journalists (CPJ), Organizzazione nonprofit indipendente che monitora la libertà di stampa in tutto il mondo

• 294 giornalisti erano detenuti nel 2021 (livello record)

• 1866 giornalisti erano detenuti tra ii 1992 e ii 2020

• 142 giornalisti (l’8% dei giornalisti in stato di detenzione) erano stati accusati di diffamazione.

In 47 di questi casi, la diffamazione era collegata a insulti etnico/religiosi, vendette o notizie false e/o accuse di azioni anti governative (vedi la suddivisione per regioni qui accanto)

altri 24 giornalisti erano finiti in carcere per insulti etnico/religiosi (6 di loro con l’aggiunta di comportamento anti governativo): il 50% in Asia e Pacifico, ii 25% nei Paesi Arabi, ii 17% in America Latina e Caraibi, e l’8% in Africa.

Secondo l’ultimo Rapporto UNESCO sulla Libertà di espressione, almeno 160 paesi hanno leggi penali sulla diffamazione. Queste norme trovano nuovo vigore per due ragioni. La prima è la più ampia diffusione delle Strategic Lawsuit Against Public Partecipation (Slapp), le cosiddette querele temerarie. La seconda ragione sta nel cosiddetto turismo della querela, che consiste nell’avviare cause legali basandole in Paesi in cui le leggi sulla diffamazione sono più punitive.  Dal 2016 sono state adottate almeno 57 leggi e regolamenti in 44 paesi che - nell’intento dichiarato di colpire misinformazione e disinformazioneo - sono formulate in modo da consentire o avallare limitazioni alla libertà di espressione dei media.

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I GIORNALISTI IN CARCERE PER DIFFAMAZIONE TRA IL 1992 E IL 2020
48 4 23 8 8 9
Fonte: Commissione per la Protezione dei Giomalisti
Africa Stati Arabi Asia e Pacifico Europa centrale e orientale America latina e Caraibi Europa occidentale e Nord America

Le altre novità. Altre novità rilevanti riguardano:

1. il segreto professionale, esteso ai pubblicisti;

2. le misure cautelari, in cui è ricompresa l’inibizione a rendere accessibili agli utenti del web i contenuti diffamatori;

3. il giudice competente per la diffamazione, individuato in quello della residenza del querelante;

4. le querele temerarie, da cui può scaturire una sanzione oscillante tra 2.000 e 10.000 euro in favore della cassa delle ammende. Da ultimo, vanno segnalate le disposizioni in materia di diritto alla reputazione sul web. È previsto che l’interessato possa agire direttamente nei confronti dei motori di ricerca per eliminare contenuti diffamatori o dati personali trattati illecitamente, secondo specifiche procedure di notifica e rimozione contestualmente introdotte.

È abbastanza?

Le proposte di modifica, che in parte riprendono quelle già approvate nel 2015 dalla Camera dei deputati (https://shorturl.at/lPQZ6), contengono aspetti positivi, ma altri vanno migliorati. In particolare, è troppo severo il tetto della sanzione pecuniaria applicabile, visto che una multa da 50.000 euro può avere lo stesso effetto dissuasivo stigmatizzato dalla Corte Costituzionale in relazione all’astratta possibilità di irrogare la pena detentiva. Non è da perdere l’occasione per introdurre una specifica causa di esclusione della punibilità derivante dal corretto esercizio della professione di giornalista. Viceversa, ancorare la non punibilità alla sola pubblicazione “asettica” della rettifica può esercitare una forma surrettizia di condizionamento censorio. Anche il sistema delle procedure di rimozione dei contenuti offensivi sul web deve essere meglio coordinato con la disciplina specifica per il giornalismo, per evitare lesioni alle garanzie costituzionali previste dall’articolo 21 comma 3 della Costituzione.

Appaiono invece positive le norme riguardanti i criteri per evitare risarcimenti troppo onerosi, l’estensione del segreto professionale ai pubblicisti e le sanzioni per le querele temerarie. L’auspicio è che il dibattito parlamentare possa essere caratterizzato da un confronto che consenta di arrivare tempestivamente a una riforma che riesca a trovare un punto di equilibrio di lunga durata tra esigenze di tutela della libertà di espressione e del diritto alla reputazione individuale.

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LIBERTÀ DI INFORMAZIONE/3

Se il diritto all’oblio diventa una minaccia a chi scrive

Nel nostro ordinamento manca una norma capace di bilanciare in modo chiaro questo diritto con quello di cronaca: la richiesta di cancellazione di un articolo rischia così di trasformarsi in strumento di “intimidazione” a una testata di Claudia

Il diritto all’oblio, meglio conosciuto come il “diritto a essere dimenticati”, consiste nel non rimanere esposti a tempo indeterminato a una rappresentazione di sé non più attuale con conseguente pregiudizio alla propria reputazione e riservatezza. Tale diritto ha assunto maggior rilievo con lo sviluppo di Internet, che ha amplificato la permanenza online di dati personali e informazioni senza limiti di tempo e di spazio. Secondo l’art. 17 del GDPR (Regolamento Ue n. 679/2016), l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento dei suoi dati la cancellazione degli stessi qualora il loro trattamento non risulti più necessario rispetto alle finalità per le quali erano stati raccolti. Sono previste tuttavia delle eccezioni qualora il trattamento dei dati risulti ancora necessario per soddisfare alcune esigenze e, tra queste, il diritto alla libertà di espressione, di informazione e all’archiviazione nel pubblico interesse. Il diritto all’oblio, pertanto, trova un proprio limite nel diritto di cronaca. Si dovrà cioè porre in essere un bilanciamento con l’interesse del pubblico alla conoscenza di quel dato fatto, espressione del più ampio diritto di manifestazione del pensiero ma anche di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica. Ma come si traduce questo nella pratica? Sul piano operativo,

Internet ha amplificato la permanenza online di dati personali senza limiti di tempo e di spazio

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A differenza del contenzioso civile, l’avvio di un procedimento dinanzi al Garante della Privacy non richiede formalità

chiunque intenda esercitare tale diritto dovrà rivolgersi al titolare del trattamento dei dati per chiederne la cancellazione e, in caso di rifiuto o mancato riscontro, potrà rivolgersi all’autorità giudiziaria e/o al Garante Privacy. A differenza del contenzioso civile, l’instaurazione di un procedimento dinanzi al Garante non richiede particolari formalità. Infatti, non solo non sarà richiesta l’assistenza di un avvocato, ma il soggetto interessato non dovrà neanche compiere ulteriori atti nel corso del procedimento. Al reclamo seguirà un’istruttoria preliminare e un eventuale procedimento amministrativo che potrebbe concludersi, in caso di accoglimento e limitatamente ai casi più gravi, con l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10 milioni di euro o, se la violazione fosse posta in essere da un’impresa, sino al 2% del suo fatturato totale annuo, con preoccupanti conseguenze sul piano economico.

Il fatto che la procedura sia gratuita apre la strada a potenziali abusi:

l’assenza di costi incentiva la quantità di ricorsi

Il timore di essere destinatari di una tale sanzione è ancor maggiore se si considera l’assenza nel nostro ordinamento di una norma capace di orientare in maniera oggettiva la prevalenza della tutela di un diritto (oblio) piuttosto che di un altro (cronaca). In questo scenario, gli editori tenderanno ad affidare le loro sorti tanto agli orientamenti giurisprudenziali, quanto a quelli del Garante, pur consapevoli dei possibili effetti e delle conseguenze che ne deriverebbero a seguito del susseguirsi del superamento degli stessi. Quando manca certezza nel diritto ci si deve necessariamente affidare all’interpretazione. Mossi dal timore di subire una condanna o di dover affrontare un ingente dispendio di denaro per un’adeguata difesa legale, si rischia di rinunciare alla tutela del diritto di cronaca anche quando non si dovrebbe.

Eliminare la gratuità del reclamo. L’assenza di una chiara normativa di riferimento è dunque la prima causa di pressione nei confronti degli editori a cui se ne deve aggiungere una seconda: la gratuità. La querela, l’atto di citazione e il reclamo al Garante sono alcuni dei mezzi attraverso cui si attiva la complessa e articolata macchina giudiziaria

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(solo concettualmente per il Garante). Ma tanto la querela quanto il reclamo al Garante, come anticipato, non richiedono particolari formalità e sono del tutto gratuiti. Sia nella fase iniziale, non essendo necessaria l’assistenza di un avvocato per dare impulso all’intervento del Garante, sia nella fase finale poiché, a differenza di quanto accade in sede civile ove il pagamento delle spese legali segue il principio della soccombenza, non sussiste alcun rischio economico in capo al soggetto agente in caso di rigetto del reclamo (o definizione positiva del procedimento penale, per rimanere nell’esempio). Il destinatario delle “accuse”, invece, sarà costretto a difendersi con un inevitabile dispendio di denaro, tempo ed energie. Non è forse proprio questo lo scopo delle SLAPP ( Strategic Lawsuits Against Public Participation )? Intimidire ma anche esasperare i giornalisti e gli editori al solo fine di limitare la libertà di stampa. Per tale ragione, sarebbero auspicabili delle tutele anche a garanzia di tutti quei soggetti, giornalisti e editori, costretti - il più delle volte - a subire procedimenti infondati rispetto ai quali, anche in caso di esito favorevole, subirebbero in ogni caso delle conseguenze pregiudizievoli. Se, ad esempio, venisse prevista una forma di indennizzo per le spese sostenute da questi soggetti, limitatamente ai casi di manifesta infondatezza della domanda, forse ciò potrebbe fungere da deterrente per tutte quelle azioni, penali e non, esercitate al solo fine di ostacolare il diritto ad una corretta informazione.

Il destinatario delle accuse è invece costretto a difendersi con inevitabile dispendio di denaro tempo ed energie

L’eccesso del ricorso al Garante. Alla luce di quanto sopra, negli ultimi anni, si è iniziato a sentire anche nel reclamo al Garante uno strumento di pressione ai danni degli editori (e, di conseguenza, dei giornalisti). Per fare un esempio, accade frequentemente che il soggetto interessato non trovi soddisfazione nella sola deindicizzazione degli articoli quale strumento per garantire il proprio diritto all’oblio e pretenda la definitiva rimozione degli articoli stessi anche dall’archivio storico online della testata giornalistica, minacciando di ricorrere al Garante per la tutela del proprio diritto e dinanzi alle altre competen-

Accade di frequente che la deindicizzazione degli articoli non venga giudicata sufficiente e si pretenda la loro rimozione dall’archivio online della testata

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Sarebbe da prevedere un filtro: il garante dovrebbe dichiarare non procedibile il reclamo quando sia stata accolta la richiesta di deindicizzazione

L’attuale scenario induce editori e giornalisti a optare per la scelta più

semplice: accogliere senza discutere le richieste del soggetto interessato

ti sedi giudiziarie per il risarcimento del danno. Ebbene, la più recente giurisprudenza di legittimità si è nuovamente pronunciata su questo aspetto affermando che il diritto all’oblio deve essere posto in bilanciamento anche con il diritto alla conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica (quindi nell’archivio storico online) trovando, per l’effetto, soddisfazione anche nella sola deindicizzazione. Non solo. In caso di omesso aggiornamento della notizia, graverà sullo stesso soggetto interessato richiedere l’inserimento nell’articolo di una nota informativa volta a dar conto del successivo esito del procedimento giudiziario non potendo, il mancato aggiornamento, integrare, di per sé, un illecito idoneo a generare una pretesa risarcitoria (cfr. Cassazione, sentenza n. 2893/2023 e sentenza n. 6116/2023). Sarebbe opportuno, in questi casi, prevedere un filtro preventivo ad opera del Garante dichiarando “improcedibile” il reclamo qualora l’editore abbia già ottemperato alla richiesta con la sola deindicizzazione dell’articolo così da evitare ulteriori dispendi di tempo e di denaro. I recenti orientamenti giurisprudenziali hanno permesso agli editori di destreggiarsi meglio tra le richieste di oblio così da garantire quel bilanciamento tra diritti contrapposti ed egualmente tutelati dalla nostra Costituzione. Tuttavia questo non ha di certo impedito il protrarsi di azioni infondate con il chiaro intento di “travolgere” gli editori (e i giornalisti) da lunghe e dispendiose cause civili e procedimenti dinanzi al Garante.  Tale scenario potrebbe indurre gli editori e/o i giornalisti, come talvolta accade, a optare per la scelta più semplice: quella della rinuncia. Quindi, decidere di non subire un procedimento e dunque accogliere tout court le richieste del soggetto interessato. A danno però del diritto di cronaca. Se è vero infatti che ognuno dovrebbe battersi per la difesa di un diritto in cui crede, è anche vero che questo non deve danneggiare la parte che ritiene di aver agito correttamente.

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LIBERTÀ DI INFORMAZIONE/4

Saranno tutte assemblee «a porte chiuse»?

Salvo modifiche in Parlamento, il «disegno di legge Capitali» rischia di tradursi in un ostacolo per tutti i cronisti che seguono e raccontano la vita delle società quotate: un danno per i piccoli soci e i cittadini di

«L’assemblea (di una società quotata, ndr) ha perso la sua funzione informativa, di dibattito e di confronto essenziale al fine della definizione della decisione di voto da esprimere» scrive il Governo nella relazione al disegno di legge Capitali, approvato in Consiglio dei ministri pochi giorni dopo Pasqua. «La partecipazione all’assemblea – si legge ancora - si riduce, in particolare modo per gli investitori istituzionali e i gestori di attività, nell’esercizio del diritto di voto in una direzione definita ben prima dell’evento assembleare».

Il testo è frutto di una lunga gestazione da parte del ministero dell’Economia. E rischia di avere conseguenze non soltanto per i soci piccoli risparmiatori ma anche per i cronisti. Quello che sembra profilarsi, infatti, è l’addio alle assemblee delle società quotate a porte aperte, con la partecipazione dei soci, il dibattito sul bilancio e le altre proposte, come la remunerazione dei top manager, con la conseguenza che i cronisti finanziari non potranno più assistere al dibattito e in generale all’iter di approvazione.

Il sottosegretario al ministero dell’Economia, Federico Freni, in un’intervista al Sole 24 Ore, ha detto che il testo è aperto alle modifiche in Parlamento. C’è da augurarselo. Con questa norma in vigore, infatti, le assemblee delle quotate diventerebbero

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Si profila l’estensione della modalità di partecipazione del “rappresentante designato” introdotta durante la pandemia per ridurre i contagi

In questa modalità, le domande dei soci sono presentate solo in forma scritta, così come le risposte della società alle quali non si può controreplicare

definitivamente a porte chiuse: basterà inserirlo nello statuto. La modalità del “rappresentante designato” ha esordito con la pandemia, con il fine di ridurre i rischi di contagio. In questa modalità, le domande dei soci sono presentate solo in forma scritta, così come le risposte della società, alle quali non si può ovviamente controreplicare. Ma se le assemblee delle quotate fossero state a porte chiuse negli ultimi dieci anni, noi cronisti non avremmo scritto decine e decine di pagine di cronaca finanziaria. Molte notizie di contrapposizioni tra soci, fulcro della vita di una società, sarebbero rimaste nell’ombra.

Le assemblee a porte aperte sono particolarmente utili nelle situazioni di conflitto sul governo societario, quando si contrappongono importanti gruppi di azionisti. Basti ricordare le assemblee fiume delle banche popolari prima della loro trasformazione in spa, lo scontro in Bnl ai tempi dei cosiddetti “furbetti del quartierino” o i mesi difficili della Cassa di Genova, per dare un riferimento più recente. Tutti casi nei quali il lavoro dei giornalisti presenti alle assemblee ha offerto un’informazione puntuale e tempestiva.

Se le assemblee si fossero svolte così negli ultimi dieci anni, noi cronisti non avremmo scritto decine e decine di pagine di cronaca finanziaria

Prima del Covid la partecipazione silente dei giornalisti era sancita (lo è tuttora) da una raccomandazione della Consob. In quest’ultima tornata di primavera la quasi totalità delle quotate ha colto l’occasione della proroga della normativa Covid e ha confermato la chiusura delle porte a soci e, non si capisce bene con quale ratio, anche alla stampa. La proroga della modalità di riunione “a porte chiuse” nella stagione assembleare 2023 non ha permesso, ad esempio, l’accesso alla stampa ad un’assemblea importante come quella di Tim. È mancata, quindi, la possibilità di dare conto, in tempo reale, di un voto negativo del principale azionista della società delle tlc, atto non di secondaria importanza per un piccolo azionista della società, che ha potuto saperlo in ritardo attraverso il comunicato ufficiale della società rispetto ai soci con rappresentanti in cda. È solo un esempio di asimmetria informativa che la proposta sullo svolgimento delle assemblee del Ddl Capitali rischia di reintrodurre.

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Riformare la riforma: le tre strade possibili

Il decreto legislativo 188/2021 lede il principio costituzionale di trasparenza del procedimento e quello del diritto di informare. E ci sono almeno tre modi per arrivare a un giudizio della Corte Costituzionale di Giulio Enea Vigevani, docente di Diritto dell’informazione, Università degli Studi di Milano-Bicocca

In un convegno di una decina di anni fa, provai a elencare tutti i beni di rango costituzionale che venivano in gioco quando l’informazione si occupa di vicende giudiziarie. Venne fuori un catalogo lunghissimo di diritti e interessi, che investono la sfera della persona, la corretta amministrazione della giustizia, il controllo dell’opinione pubblica sul potere “terribile” del giudicare, la concezione stessa della democrazia come “casa di vetro”. Tra essi: il diritto di informare e di essere informati; il principio di pubblicità del processo; il diritto all’onore, alla reputazione all’identità personale e alla privacy dei soggetti sottoposti ad un procedimento o di terzi; il rispetto della dignità umana; il principio di non colpevolezza; il diritto all’oblio; la tutela dei minori; il diritto a un equo processo; il diritto di difesa dell’imputato; l’effettivo perseguimento dei reati; la retta amministrazione della giustizia; la serenità del dibattimento; il prestigio del potere giudiziario; la corretta formazione del convincimento del giudice; l’imparzialità e la c.d. verginità cognitiva dell’organo giudicante; la sicurezza dello Stato; il diritto dell’indagato a essere informato riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa.

E si tratta di un catalogo incompleto: un lettore scrupoloso potrebbe aggiungerne molti altri. Ciò spiega quanto sia difficile

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PRESUNZIONE D’INNOCENZA/1

Il decreto legislativo ha finito con il produrre uno sbilanciamento tra gli interessi in gioco e una compressione eccessiva del diritto di informare

trovare una composizione accettabile, che consideri l’esistenza di questa pluralità di interessi diversi e spesso contrapposti, che si affacciano sul teatro del processo e che devono in qualche modo essere tutti preservati. Soprattutto, chiarisce quanto sia pericoloso ergere uno solo di questi diritti a “tiranno”, da privilegiare quasi a ogni costo a scapito degli altri.

È questo, a mio avviso, quanto avvenuto con il decreto legislativo n. 188 del 2021 sulla presunzione di innocenza, che per tutelare un principio di grande civiltà giuridica, quale il diritto di una persona a non essere additata come colpevole prima della condanna definitiva, ha finito con il produrre uno sbilanciamento tra tutti questi interessi e, in particolare, una compressione eccessiva del diritto di informare e del diritto dei cittadini ad essere compiutamente informati.

La scelta di ciò che è pubblicamente rilevante è affidata alla discrezionalità di un solo soggetto, il Procuratore, che decide quando e cosa comunicare

I nodi della normativa. Il principale punto critico risiede nell’art. 3, comma 1, lett. b) del decreto (ora 2-bis d. lgs. 20 febbraio 2006, n. 106), secondo cui «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico». Due aspetti problematici debbono essere evidenziati. In primo luogo, il procuratore della Repubblica, anche nei casi di interesse pubblico, può e non deve diffondere le informazioni sulle indagini. La scelta è sostanzialmente affidata alla discrezionalità di un solo soggetto, che decide quando e cosa sottoporre all’attenzione dell’opinione pubblica, senza che tale scelta sia sindacabile. E questo soggetto è tutt’altro che terzo, è il titolare dell’indagine, il controllato, che ben potrebbe voler celare i propri comportamenti. Inoltre, il criterio dell’interesse pubblico è assai sfuggente, in quanto ogni procedimento penale è di per sé di interesse pubblico, perché riguarda un reato e perché la conduzione di un’indagine altro non è che l’esercizio di un potere tra i più delicati e dunque da controllare. Tutto questo in un quadro che pone tali comunicazioni del procuratore della Repubblica (da effettuarsi per legge solo tramite

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comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa) come le uniche legittime fonti per conoscere l’andamento di un’indagine. Il decreto legislativo, infatti, conferma e rafforza il divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire agli organi di informazione notizie o copie di atti relativi all’attività giudiziaria dell’ufficio.

Tre strade per accedere alla Consulta. In questo senso, mi pare che si possa prospettare una violazione del principio costituzionale di trasparenza del procedimento e del diritto di informare. A questo punto però arriva il passag-

E questo soggetto è tutt’altro che terzo, è il titolare dell’indagine, il controllato, che ben potrebbe voler celare i propri comportamenti

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ANSA
RIFORMA. Marta Cartabia è stata ministra della Giustizia del governo Draghi: sua la firma sul decreto in tema di presunzione d’innocenza.

gio giuridicamente più complesso: come arrivare davanti un giudice che sollevi una questione di legittimità costituzionale?

Come avere dalla Consulta una pronuncia interpretativa che limiti la discrezionalità del Procuratore?

Come avere dalla Corte costituzionale quanto meno una pronuncia interpretativa che limiti la discrezionalità del procuratore, che inquadri tale sua funzione quale “potere-dovere”, con l’obbligo in capo a questi di ponderare i valori contrapposti?

Una via potrebbe essere quella di sollevare la questione in un processo disciplinare a carico di un magistrato che abbia, in ipotesi, diffuso informazioni di interesse pubblico senza autorizzazione del procuratore. Ma in questa ipotesi evidentemente l’Ordine dei giornalisti è estraneo.

Vi è poi un’altra ipotesi che invece vedrebbe un protagonismo dei giornalisti, degli editori e dell’Ordine. Il punto di partenza potrebbe essere un’istanza di un giornale al procuratore, con la richiesta di divulgare informazioni su una indagine di rilievo pubblico. A fronte di un diniego o di un silenzio-rifiuto, si potrebbe impugnare avanti al giudice amministrativo il diniego del comunicato e, come atto presupposto, la direttiva del procuratore della Repubblica inerente ai rapporti dell’autorità giudiziaria e delle forze dell’ordine con gli organi di informazione (nel caso di Milano, quella del procuratore f.f. Targetti dell’8 febbraio 2022). E, avanti al Tar, chiedere di sollevare la questione di costituzionalità. Certo, sarebbe stato forse opportuno impugnare direttamente le varie direttive dopo la loro emanazione ma non è più possibile perché i termini sono scaduti.

Una ulteriore via per giungere al giudizio di costituzionalità potrebbe partire dalla presentazione di un esposto al CSM in merito alla discrezionalità incontrollata del procuratore e alle modalità concrete di esercizio di questo potere atipico, nel caso in cui il medesimo si rifiuti di fornire informazioni in merito a procedimenti di rilevanza pubblica. Quale sia la strada per giungere a Palazzo della Consulta, una pronuncia della Corte servirà comunque a riaffermare che il rapporto

informazione e giustizia non è di principio antinomico, ma dialettico e collaborativo. In altre parole, la libera stampa non è un’antagonista della giustizia e dei diritti di chi

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tra
La buona giustizia esige un’informazione continua e vigile, un “tribunale dell’opinione pubblica”

è sottoposto a indagine ma, al contrario, la buona giustizia esige un’informazione continua, vigile ed evidentemente corretta, un “tribunale dell’opinione pubblica” in grado di conoscere e valutare errori ed abusi giudiziari. Del resto, già Cesare Beccaria esecrava le accuse segrete e sosteneva che l’accusa deve essere pubblica, perché l’accusato non può difendersi dalla calunnia, «quand’ella è armata dal più forte scudo della tirannia, il segreto», così come debbono essere «pubblici i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perché l’opinione, che è forse il solo cemento della società, imponga un freno alla forza e alle passioni» (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano 2010, p. 57). E se la lingua del grande milanese può sembrare arcaica, certo il contenuto è di evidente attualità.

L’accusa deve essere pubblica perché, come diceva Beccaria, l’accusato non può difendersi dalla calunnia «quand’ella è armata dal segreto»

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Kelly Sikkema

Le proposte dell’Ordine e il dialogo con le Procure lombarde

Dopo la pubblicazione del documento sul decreto legislativo 188 del 2021, l’OgL ha chiamato a un confronto i magistrati inquirenti sul testo di legge e sulla sua interpretazione. Che a seconda dei territori risulta essere diversa di Riccardo Sorrentino, presidente dell’OgL

Occorre che i vincoli all’informazione posti dal decreto vengano superati. Questa è e resta la priorità dell’Ordine

L’innocenza e la dignità delle persone. La libertà di espressione e il diritto di informazione dei cittadini. La verità, infine, e la pluralità delle culture e delle competenze. Il decreto legislativo “Cartabia” (il n. 188/2021) ha sollevato con modi inaccettabili il tema della presunzione di innocenza ma ha anche aperto le porte a un’ampia discussione sui temi e i problemi della cronaca nera e giudiziaria. L’accusa di fare “giustizia mediatica”, provocatoria ma proprio per questo corrosiva del rapporto di fiducia tra giornalisti e grande pubblico, richiede sicuramente da parte nostra un “salto” professionale (di cui anche altre specializzazioni potranno beneficiare). Prima però – ed è un “prima” sia logico che temporale – occorre che i vincoli all’informazione posti dal decreto vengano superati. Questa è e resta la priorità dell’Ordine, che ha animato una buona parte dell’attività di quest’anno. Il lungo lavoro svolto sembra ora dare qualche primo frutto. La cronaca dei fatti, innanzitutto. Il documento sulla presunzione di innocenza di fine 2022, con il quale l’Ordine dei giornalisti ha proposto un’interpretazione virtuosa del decreto legislativo – senza rinunciare all’idea della sua abrogazione – è stato al centro di molti corsi-dibattiti, ai quali hanno partecipato magistrati e avvocati penalisti in diversi capoluoghi

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PRESUNZIONE D’INNOCENZA/2

lombardi. Si è incominciato a Milano il 17 gennaio, alla presenza dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, che si è detto molto d’accordo con il documento dell’Ordine; e poi il 24 gennaio, alla presenza del procuratore di Milano Marcello Viola e dell’allora presidente della Camera Penale di Milano Andrea Soliani. I due appuntamenti hanno suscitato qualche richiamo se la rivista dell’Associazione nazionale magistrati, Questione giustizia, ha chiesto di ospitare il documento e una presentazione dell’Ordine della Lombardia.

Una frase di sintesi:

Si è discusso, di nuovo a Milano, di Cartabia e di presunzione di innocenza nel convegno organizzato dall’Associazione lombarda dei giornalisti il 30 marzo, alla presenza di Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, che si è rivelato molto attento al tema della comunicazione degli uffici giudiziari, e di due esperti, il costituzionalista Giulio Enea Vigevani, e l’avvocato penalista Carlo Melzi d’Eril.

Il 4 aprile, l’Ordine ha ospitato a Bergamo il procuratore Antonio Chiappani che si è dimostrato – malgrado le polemiche per il suo comunicato sulla zona rossa in provincia di Bergamo – il procuratore lombardo più attento, finora, alle nostre ragioni. Al contrario il 12 aprile, a Brescia, il procuratore Francesco Prete ha rivelato in tutta la sua drammaticità il vero nodo della questione, solo accennato nei precedenti appuntamenti: i magistrati temono procedimenti disciplinari da parte del Consiglio superiore della magistratura. «Non potete chiedere a noi di sacrificarci per la libertà d’espressione» ha detto in buona sostanza Prete, il quale ha giudicato il documento «insufficiente e tardivo»: è emerso spesso, nei corsi, lo stupore per l’assenza dell’Ordine nazionale dei giornalisti – nella precedente consiliatura – durante le fasi di approvazione del decreto Legislativo. L’appuntamento più difficile è stato forse quello dell’8 maggio, a Lecco, dove il procuratore Ezio Domenico Basso ha argomentato con irremovibile rigore a favore di un’applicazione “letterale” delle norme del decreto legislativo. Il prossimo evento sul territorio lombardo è previsto ora il 29 giugno a Pavia, alla presenza del procuratore Fabio Napoleone e del presidente del Tribunale Guglielmo Leo. Non tutte le porte restano chiuse. Il 5 maggio si è tornati a parlare di presunzione di innocenza a Milano. Fabio Roia, presi-

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«Non potete chiedere a noi magistrati di sacrificarci per la libertà di espressione»

dente del Tribunale di Milano, e il procuratore aggiunto Eugenio Fusco hanno aperto la strada a nuove forme di comunicazione da parte degli uffici giudiziari. Il “padrone di casa, il presidente dell’Ordine degli avvocati, Antonino La Lumia, e la nuova presidente delle Camere penali, Valentina Alberta, hanno manifestato interesse. Saremo coinvolti nelle discussioni.

È un fatto da tener presente, in ogni caso, la scelta dei procuratori di applicare le norme rifugiandosi quasi nel silenzio. Non dappertutto è così, e non si vede perché dovrebbe esserlo. Se il timore di una segnalazione disciplinare è reale, è anche vero – come ha detto un magistrato in un colloquio privato – che il procuratore può subire una procedura disciplinare «perché ha dato informazioni, ma anche perché non le ha date o perché le ha date male». Sembra quasi che il silenzio abbia anche una dimensione provocatoria verso le norme sulla comunicazione giudiziaria.

Questa idea spinge ora l’Ordine a percorrere due strade. La prima è quella giudiziaria: provare a creare le condizioni per un giudizio di fronte alla Corte Costituzionale. La seconda punta invece all’abrogazione o, almeno, alla profonda revisione delle norme: coinvolgere i deputati e i senatori “lombardi” – residenti o eletti nella regione – sarà il prossimo compito dell’Ordine e della sua Commissione Cronaca nera e giudiziaria.

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La scelta ricorrente tra i Procuratori è applicare le norme quasi rifugiandosi nel silenzio assoluto

Bussole

Appunti di deontologia

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A cosa serve il Consiglio di disciplina territoriale

L’organismo che vigila sull’aspetto deontologico della professione fa parte dell’Ordine regionale ma al tempo stesso è indipendente e sovrano nelle sue decisioni. Una piccola guida su composizione, caratteristiche e funzioni di Riccardo Sorrentino, presidente dell’OgL

Ènell’Ordine, è l’Ordine. Il Consiglio di disciplina territoriale (Cdt) è però anche un organismo indipendente, sul quale il Consiglio regionale – eletto dai colleghi – non può e non deve intervenire. Se non in un modo: difenderne l’indipendenza e, come avviene senza esitazioni in Lombardia, esprimergli totale fiducia.

Il Cdt, dopo la riforma del 2011, ha caratteristiche che permettono agli Ordini italiani di ridimensionare il problema che assilla, per esempio, i press council all’estero: l’autodichia, l’amministrare giustizia da sé, innescando potenziali conflitti di interesse. Gli illeciti disciplinari continuano a essere valutati da colleghi; non si tratta però di persone interessate a conservare il consenso elettorale. L’apertura dell’Ordine dei giornalisti alla società civile, attraverso la figura dei pubblicisti, riduce questo problema: nel Cdt lombardo, per esempio, siedono tre giuristi: due avvocati, uno dei quali ex preside della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Milano, e un ex magistrato.

Giornalisti giudicati da giornalisti. Ovunque nei sistemi liberaldemocratici, laddove c’è il rischio o il tentativo di un intervento del Parlamento per disciplinare il giornalismo, che deve restare libero, i colleghi si precipitano a formare un press

DEONTOLOGIA E PROFESSIONE 38 2. Bussole
Il Consiglio regionale eletto dai colleghi non può e non deve intervenire su di esso se non per difenderne l’autonomia

council, un Ordine “in tono minore”, senza le caratteristiche e il riconoscimento da parte dell’Ordinamento giuridico, dell’istituzione italiana. Hanno fatto così, in tempo record, i giornalisti dei Paesi appena usciti dal socialismo reale; quelli australiani, quelli britannici; e quelli del Belgio, dopo la depenalizzazione della diffamazione. Se, in futuro, l’Ordine fosse abolito si può essere abbastanza certi del fatto che resterebbe comunque attivo, anche in Italia, un Consiglio di disciplina. L’obiettivo è quello di garantire il diritto di informazione dei cittadini. Funzionale a questo obiettivo è la libertà giornalistica – una classica libertà “di” fare informazione e non solo una libertà “da” interferenze esterne – che deve sempre restare un faro della valutazione deontologica. Il primo dovere dei giornalisti – ed è una caratteristica unica del Testo italiano dei doveri del giornalista – è del resto quello di «difendere il diritto all’informazione e la libertà di opinione di ogni persona». La giurisprudenza del Cdt lombardo tende a una interpretazione restrittiva delle norme che possono, anche per la loro genericità, estendere l’ambito di valutazione disciplinare oltre i confini di un fisiologico controllo. Si è più volte affermato il principio secondo cui è sempre da privilegiare il fondamentale diritto alla libera manifestazione del pensiero cui l’art. 21 della Costituzione àncora la libertà di stampa. La valutazione di responsabilità deontologica, soprattutto in tema di correttezza dell’informazione e di opinioni espresse, può quindi scattare, secondo il Cdt lombardo, solo quando altri ed omogenei principi di rango costituzionale rischiano di essere posti in discussione su basi e prospettive oggettive.

La giurisprudenza del Cdt lombardo restringe il proprio ambito di valutazione entro i confini di un fisiologico controllo

Come è composto. Il Consiglio di disciplina è composto da nove membri: pochi rispetto, per esempio, ai quaranta dell’Ordine degli avvocati di Milano, di dimensioni analoghe a quello dei giornalisti lombardi. Sono nominati dal presidente del Tribunale del capoluogo di regione enrto una rosa di diciotto nomi predisposta dal Consiglio regionale. La legge prevede che la carica di presidente sia affidata al giornalista con maggiore anzianità professionale, quella di segretario al collega con minore anzianità. Tutto per ridurre al minimo arbitrio e discrezionalità.

È composto da nove membri, nominati dal presidente del Tribunale in una rosa di 18 nomi proposti dal consiglio dell’Ordine

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Come funziona. La separazione dei poteri istituita dalla riforma del 2011, impone al Consiglio regionale dell’Ordine di avere in materia disciplinare una funzione di «mera denuncia». Segnalazioni possono però arrivare anche dalla Procura della Repubblica o da terzi, istituzioni – Garante delle comunicazioni, Garante della privacy, Consob... – o anche da colleghi e lettori. Il Consiglio dell’Ordine non può far altro che trasmettere – senza esprimere valutazioni – gli atti al Consiglio di disciplina, che ha sia poteri istruttori sia decisionali. L’esponente, invece, non ha più alcun ruolo: può solo conoscere, su richiesta, la decisione finale. Le segnalazioni che riguardano comportamenti oggetti di un parallelo procedimento penale sono sospese, in attesa di giudizio. Le altre vengono affidate a un collegio di tre persone, istituito caso per caso dal presidente, nel quale siedono due professionisti e un pubblicista, con almeno una componente donna. Il collegio, valutato l’esposto, può decidere un “non luogo a procedere”, può ampliare l’istruttoria con una “raccolta di sommarie informazioni”, sentendo anche il giornalista segnalato, oppure può aprire il procedimento. A questo punto scatta anche il diritto di difesa del giornalista, il quale può farsi assistere da un legale, può presentare memorie difensive, e deve in ogni caso essere ascoltato. L’apertura del procedimento disciplinare non comporta, come talvolta erroneamente si ritiene, una valutazione di colpevolezza ma, semplicemente, la ritenuta opportunità di un chiarimento approfondito tanto che, frequentemente, il giudizio disciplinare si conclude con un proscioglimento. Le audizioni, in Lombardia, vengono integralmente trascritte. Le decisioni vengono adottate dal collegio a scrutinio segreto e le sanzioni sono esecutive. Possono però essere sospese da un ricorso al Consiglio Nazionale dell’Ordine, che può essere presentato solo dal giornalista sanzionato – con un avvertimento, una censura, una sospensione da due a dodici mesi, o una radiazione – o dalla Procura della Repubblica. Non dal Consiglio dell’Ordine. I gradi di giudizio sono cinque: dopo l’Ordine nazionale, il procedimento può passare, con una procedura particolare, alla magistratura ordinaria. Il sistema è quindi decisamente garantista.

Il giornalista sotto procedimento può farsi assistere da un legale e deve in ogni caso essere ascoltato
40 2. Bussole
L’apertura del procedimento non comporta una valutazione di colpevolezza, è opportunità di chiarimento

Formazione

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Gli strumenti che ci servono Tabloid

«Chi studia qui è un giornalista che lavora in una redazione»

Intervista a Marta Zanichelli, coordinatrice del master dello Iulm: «La multimedialità è la nostra caratteristica saliente. E ogni corso porta alla realizzazione di un prodotto editoriale»

di Sara Bichicchi, allieva della Scuola di giornalismo Walter Tobagi dell’Università Statale di Milano

Un master multimediale attento alla continua evoluzione della professione. Una scuola in grado di formare professionisti versatili, che abbiano «la capacità, oltre che di saper fare, di saper pensare». Così Marta Zanichelli, coordinatrice organizzativa del master in Giornalismo dell’Università Iulm, descrive la scuola che, arrivata al 22esimo anno, accoglie ogni autunno 15 nuovi praticanti.

Quali sono le discipline e le aree tematiche su cui la scuola punta?

Il master in giornalismo dell’università Iulm ha una caratterizzazione multimediale, grazie anche alla partnership con Mediaset. Abbiamo una decina di corsi (giornalismo televisivo, video-editing, regia) che fanno sì che i nostri allievi sappiano essere particolarmente capaci nel montaggio e nella realizzazione di video di tutti i generi. E così su aree come il mobile journalism, i social media, il personal branding. La nostra è quindi un’offerta attenta alle esigenze di mercato e attuale, ma che allo stesso tempo fa conoscere la professione a chi dovrà praticarla.

Com’è articolato il percorso formativo?

Al primo anno si affrontano le basi del giornalismo: agenzia, quotidiano, periodico, e ancora corsi per parlare al pubblico e

42 3. Formazione
SCUOLE DI GIORNALISMO/1

social media. Accanto a questi ci sono insegnamenti più teorici, come Storia del giornalismo. Al secondo anno, invece, ci si occupa delle declinazioni del giornalismo, quindi giornalismo economico e scientifico, giornalismo televisivo.

Qual è il rapporto tra teoria e pratica?

Ogni corso porta alla realizzazione di un prodotto editoriale: il cartaceo, il sito, il giornale radio, il telegiornale. Da questo punto di vista c’è uno sbilanciamento in favore della pratica. Chi entra qui non è più uno studente ma un giornalista che sta facendo pratica in una redazione. Però mantiene, grazie ai corsi teorici, la capacità, oltre di saper fare, di saper pensare a quello che sta facendo.

Qual è “la settimana tipo” allo Iulm?

Si arriva, si fa una riunione e si imposta la giornata: si decide che cosa scrivere sul sito, si dividono i compiti, si producono giornali radio e telegiornali

L’impegno è a tempo pieno dalle 9 alle 18, dal lunedì al venerdì. Ci sono le lezioni, tendenzialmente al mattino, e poi la parte redazionale. Si arriva, si fa una riunione e si imposta la giornata: si decide che cosa scrivere sul sito, ci si dividono i compiti e poi, a seconda del momento, si producono giornali radio e telegiornali, per gli allievi del secondo anno, e si fa la produzione social. Il tutto compatibilmente con le ore di lezione teorica che al se -

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IULM. Marta Zanichelli coordina il master dello Iulm, giunto alla 22ma edizione.

condo anno servono anche per preparare l’esame di idoneità professionale a Roma. Ci sono corsi come diritto dell’informazione, al primo anno, e procedura penale al secondo.

Avete intenzione di inserire anche l’intelligenza artificiale come materia dei vostri programmi?

Ci stiamo lavorando. Abbiamo già fatto degli esperimenti di pezzi “alla maniera di”, facendo scrivere a ChatGPT un articolo nello stile di un giornalista, e i risultati sono stati controversi. È molto importante porre le domande nel modo giusto e saper sfruttare questo strumento che può essere utilizzato per semplificare il lavoro senza perdere tutta la parte di riflessione sulla professione che va fatta.

Sono previsti degli stage?

Oltre agli stage individuali di due mesi al primo anno e tre mesi al secondo anno, noi abbiamo uno stage di due mesi nella redazione digitale di Tgcom grazie alla partnership con Mediaset. I nostri allievi, sia del primo che del secondo anno, entrano nel flusso di lavoro della redazione e tendono a essere riconfermati.

La deontologia è una forma di libertà: permette al giornalista di muoversi con consapevolezza

In che modo gli studenti sono formati sulla deontologia professionale?

Fin dal primo anno abbiamo un corso - che quest’anno è stato fatto con elementi di deontologia e di diritto dell’informazione, che sono due corsi distinti - in modo da far capire fin da subito ai nostri allievi quanto la deontologia sia importante per esercitare la professione in modo accurato e consapevole. La deontologia è una forma di libertà che permette al giornalista professionista di muoversi in un campo di cui avere competenza e consapevolezza.

Ci sono scuole di giornalismo estere a cui guardate nel progettare i piani didattici della scuola?

Certamente è importante sapere quello che succede all’estero. Abbiamo anche insegnanti che arrivano dall’estero, come quello di mobile journalism, il professor Anthony Adornato che lavora all’Ithaca College di New York. Grazie anche a questi scambi riusciamo a mantenere una vista più internazionale.

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«Teoria e pratica per dare vita a narrazioni a 360 gradi»

Luca Solari, direttore del master Walter Tobagi dell’Università Statale di Milano: «Formiamo persone in grado di rendere vive le storie per diversi media ed esserne responsabili»

di Fabio Pellaco e Andrea Miniutti, allievi della Scuola di giornalismo della Cattolica di Milano

«Chi conclude il master, oltre ad essere un bravo giornalista dal punto di vista tecnico, operativo e di costruzione di storie significative, deve essere consapevole che, nonostante la crisi del nostro mondo, chi scrive vale. Perché chi legge i prodotti dell’attività giornalistica, pur nella confusione che viviamo oggi, è ancora in grado di riconoscerli; quindi, quello che scriviamo ci rende responsabili». È uno sguardo puntato dritto sul futuro quello di Luca Solari, direttore della Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi” di Milano, e sulle sfide che i suoi studenti dovranno affrontare. In questo scenario in continua evoluzione, le scuole dovranno farsi trovare pronte per accogliere le esigenze dei nuovi aspiranti professionisti.

Stiamo investendo sul data journalism: la pandemia ha dimostrato quanto sia importante la ricerca e la sistematizzazione dei dati

Quali sono le tematiche prioritarie per il vostro master?

La scuola ha da sempre investito su un’idea di giornalista a tutto tondo; quindi, una persona che sa rendere vive le storie per diversi media. Pensiamo al giornalismo come la capacità di assumere punti di vista e di narrazione a 360 gradi. Stiamo già investendo su quelli che si considerano temi di avanguardia, come il data journalism. Credo che il periodo che abbiamo tra-

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Anche in un contesto multimediale, la capacità di scrivere rimane essenziale. Teoria e pratica vanno integrate ancora di più

scorso legato alla pandemia e alla difficoltà nell’utilizzo dei dati abbia evidenziato come una buona capacità di acquisizione e ricerca, l’utilizzo e la sistematizzazione dei dati sia importante.

Le innovazioni non vanno a screditare il giornalismo classico?

Assolutamente no, perché la capacità di scrivere, metro di giudizio per l’ammissione e l’esame finale, rimane essenziale. Inoltre, riteniamo che la professione non stia abbandonando alcune dimensioni, ma stia andando verso una integrazione di tante dimensioni che per molto tempo sono state più periferiche o addirittura dedicate a ruoli specialistici. Per esempio, sebbene un grafico sia un grafico e un giornalista sia un giornalista, quest’ultimo parla anche attraverso l’immagine.

Come gestite l’equilibrio fra la teoria e la pratica?

Penso sia necessario lavorare ancora di più sull’integrazione tra questi due mondi. In questi anni abbiamo reso centrali alcuni temi, come le scienze della politica, la sociologia, l’economia e gli elementi di contesto internazionale, nei quali tenere assieme la componente giornalistica con quella teorica. L’altro elemento è stato compattare molto di più dal punto di vista temporale

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A MILANO. Il master Walter Tobagi della Statale, avviato nel 2006, è sostenuto anche dall’OgL.

gli interventi di natura teorica, aiutando il percorso di acquisizione di una conoscenza di attualità da applicare nella pratica per costruire un quadro d’insieme.

Quali sono i vostri rapporti con le scuole estere? Avete dei modelli?

Facciamo parte di Ejta (European Journalism Training Association), la più importante associazione delle scuole di giornalismo con la quale i momenti di confronto sono continui. È molto importante considerare la peculiarità delle scuole di giornalismo in Italia, dove abbiamo un Ordine e un meccanismo anche un po’ più eterodiretto rispetto all’estero. Sul lato operativo abbiamo osservato i curricula e le modalità con cui vengono costruiti i percorsi delle scuole in contesti diversi nei quali esistono vere e proprie school of journalism. Un mio sogno sarebbe un percorso integrato che parta dalla laurea triennale, passi per il master e arrivi fino agli studi di dottorato sul mondo del giornalismo e dei media. Negli Stati Uniti questo è già presente, da noi è ancora una prospettiva distante ma è già successo in altri ambiti, ad esempio quello dell’infermieristica: nel tempo ci siamo conformati a quello che già accadeva altrove, quindi è possibile che questo sia un percorso applicabile pure alla costruzione della competenza giornalistica.

In Italia servirebbe un percorso integrato che parta dalla laurea triennale, passi per il master e arrivi fino agli studi di dottorato sul mondo del giornalismo

Come improntate l’insegnamento della deontologia ai vostri studenti?

La deontologia è un tema centrale. Abbiamo il vantaggio di avere questo rapporto fortissimo con l’associazione Walter Tobagi e con l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia per cui la copertura dei contenuti legati alla deontologia viene garantita attraverso docenti e giornalisti che sperimentano in prima persona il significato di rispettare una deontologia in ambito giornalistico. Vogliamo che al termine del master i nostri giornalisti non siano bravi solamente dal punto di vista realizzativo e di costruzione di storie significative, ma che siano anche consapevoli che i loro prodotti debbano avere una valenza per le persone, soprattutto considerando la confusione del mondo in cui viviamo.

Qual è il rapporto della scuola con le istituzioni, dall’Odg ai sindacati?

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Il rapporto con l’Ordine lombardo è diretto, anche perché di fatto la Tobagi ha assorbito quello che fu lo storico Istituto per la Formazione al Giornalismo (Ifg). Con l’Ordine nazionale ci rapportiamo durante i momenti istituzionali, gli incontri e le verifiche, che non sono solo controlli, ma anche occasioni di scambio e confronto. Auspicherei che questo rapporto fosse ancora più intenso e, rispetto a un’attenzione a volte un po’ troppo legata alla norma, si spostasse maggiormente l’attenzione alla sostanza. Inoltre, all’interno del nostro percorso, ci confrontiamo con le persone che rappresentano la dimensione del sindacato. Altre occasioni nascono poi dai rapporti con gli editori, anche se questo avviene in modo minore rispetto ad altre realtà che hanno anche un rapporto più diretto con i grandi editori.

Quali sono i progetti per la scuola del futuro?

L’ateneo ha approvato, con un grosso investimento, un percorso di modernizzazione tecnologica della nostra sede. Sarà installata una serie di monitor che durante le attività lanceranno costantemente le notizie da tutti i canali, come può accadere in una redazione vera. Le aule saranno dotate di microfoni ambientali che consentiranno l’interazione anche a distanza. Infine, ampie vetrate permetteranno a chiunque sia presente nel piano della scuola di vedere cosa sta accadendo nelle altre aule. Credo che l’azione collettiva sia una delle dimensioni più emozionanti dello stare in una redazione e questo progetto ci consentirà di migliorare ulteriormente la qualità della didattica e dell’esperienza all’interno del praticantato. Un altro investimento già approvato prevede di rafforzare il coordinamento tra la componente giornalistica e quella universitaria per avere degli strumenti di interpretazione di fondo che in passato non venivano sfruttati.

Aggiorneremo le tecnologie della nostra sede per favorire l’interazione a distanza e la dimensione collettiva del lavoro degli allievi

Come sono cambiati gli studenti e le loro necessità dopo dieci bienni?

È evidente lo spostamento dalla carta stampata, che nei primi anni la faceva ampiamente da padrona, verso altri media come l’online, il video, ma anche verso percorsi professionali originali. In questo mutamento del contesto, un ele -

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mento centrale dei miei due mandati da direttore, a conclusione di ogni biennio, è stato proprio quello di discutere insieme agli studenti della loro esperienza. C’è una richiesta di lavorare sempre di più sull’uso delle tecnologie digitali, quindi abbiamo investito sul rafforzamento dei nostri tutor delle aree tecnologiche. Un altro elemento a mio avviso molto importante è lavorare di più sulle dinamiche interpersonali di gruppo. Abbiamo introdotto alcune sessioni perché il lavoro di redazione non è una pratica solo individuale ma di interazioni, di contatto, di collegamento e, per chi farà carriera, anche di coordinamento organizzativo e gestionale all’interno delle redazioni. In futuro cercheremo di capire quali altri elementi siano rilevanti per i nostri studenti. Probabilmente avranno sempre più a che fare con la capacità di districarsi rispetto al placement finale: comprendere le diverse forme contrattuali, capire che scelte fare. Il mio sogno sarebbe avere la possibilità di una mentorship, durante i due anni, che aiuti ognuno a qualificare i propri talenti, una brutta parola perché viene usata a volte a sproposito, ma che in questo caso rende il senso. Mi riferisco alle inclinazioni dei ragazzi, agli ambiti in cui eccellono, non per fare esclusivamente determinati compiti ma per far capire loro che possono essere delle chiavi importanti per decidere cosa vogliono fare al termine di questo percorso.

Il mio sogno sarebbe avere per ogni studente una mentorship durante i due anni, che aiuti ognuno a qualificare il proprio talento

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STATALE. Luca Solari, direttore del master di giornalismo Walter Tobagi dell’Università di Milano.

«L’inchiesta sociale al centro dei nostri programmi»

Parla Marco Lombardi, direttore della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica di Milano: «Non forniamo solo tecniche ma una visione entro cui usarle: gli strumenti di domani dentro le regole di sempre» di Eleonora di Nonno e Carlotta Bocchi, allieve del master di Giornalismo dello IULM

lgiornalismo di oggi è profondamente mutato. I professionisti del futuro devono imparare a interfacciarsi con la dimensione digitale, continuando, però, ad affidarsi al faro della deontologia e dell’etica. Di questo è certo Marco Lombardi, direttore della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I nuovi giornalisti devono essere in grado di usare gli strumenti di domani ma con le regole e la disciplina di ieri e di sempre.

All’interno del piano formativo, quali le tematiche prioritarie e quali di frontiera?

La nostra scuola si caratterizza per un taglio di inchiesta sociale: mettiamo al centro il reportage. Noi abbiamo scelto di organizzare le materie in blocchi: uno sul sistema dell’informazione e le diverse tipologie di giornalismo, un secondo sulle tecniche e i metodi e infine uno sulle carte deontologiche. Abbiamo costruito un piano formativo che fosse un “tavolino a quattro gambe”, sorretto dal Print Lab, ovvero il giornalismo cartaceo. Le altre gambe del tavolo sono: il Tv Lab, tutto quello che riguarda il giornalismo televisivo, il Radio Lab, cioè il giornalismo radiofonico, e il Digi Lab, il giornalismo digitale. A questo si aggiungono le lezioni frontali e un lavoro di redazione.

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L’attività di redazione non è finalizzata solo a ottenere un buon prodotto sul mercato ma a formare professionisti
SCUOLE DI GIORNALISMO/3

Qual è il bilanciamento tra teoria e pratica?

È un tema delicato. Se non correlato alla conoscenza del perché si fanno le cose, il “saper fare” diventa una pratica fine a sé stessa. L’attività di redazione non è finalizzata solo a ottenere un buon prodotto sul mercato, la teoria e la pratica sono strumenti per raggiungere l’obiettivo della Scuola: preparare dei giovani a una professione. La dimensione pratica, comunque, occupa l’80%, tra redazione, laboratori e stage.

La scuola di giornalismo della Cattolica come insegna a essere giornalisti multimediali?

Oggi parliamo di crossmedialità. Il digitale ha cambiato le tecniche, ma anche la domanda di consapevolezza etica che deve essere propria del giornalista. Tutto diventa molto più facile ma diventa anche più semplice allontanarsi dai principi di realtà, verità ed etica. Basta un cellulare e pochi accessori per essere in diretta e raccogliere materiali. Anche l’intelligenza artificiale fa parte di questo cambiamento. Non se ne conoscono ancora gli effetti. Il suo sviluppo è frutto degli utenti che la usano quotidianamente. L’uso della IA deve

Abbiamo organizzato le materie in blocchi: tipologie di giornalismo, tecniche e metodi, deontologia

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CATTOLICA. Marco Lombardi, direttore della scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano.

essere posta al centro dell’attenzione da parte dell’Ordine dei giornalisti, ma anche dagli insegnanti delle scuole. Per ora nessuno l’ha fatto davvero.

Come viene trattato l’aspetto deontologico della professione?

Da tanti anni questo aspetto della formazione è al centro della nostra programmazione, sia al primo che al secondo anno. Ogni comunicazione ha degli effetti, spesso sconosciuti, ma dei quali siamo responsabili. L’etica e la deontologia, però, non devono limitarsi ai corsi specifici di etica e deontologia, ma devono essere un habitus, una preoccupazione e un’assunzione di responsabilità.

Avete dei modelli a cui vi ispirate, italiani o stranieri? Non abbiamo un modello di riferimento, ma degli orientamenti. La nostra è la Scuola dell’Università Cattolica, questo vuol dire sottolineare una preoccupazione per l’etica e la morale, non tanto per la specificità religiosa. Non vogliamo fornire solo tecniche, ma anche una visione entro la quale usarle. Sicuramente il reportage sociale orienta tutte le nostre pratiche, grazie a giornalisti che si occupano da anni di guerre e zone di conflitto. L’altro principio ispiratore è il riferimento a un circuito di relazioni internazionali: facciamo parte dell’European Journalism Training Association (Ejta), che racchiude una settantina di scuole europee. Questo permette una contaminazione efficacissima tra i diversi modelli, affinché ciascuno trovi il proprio.

L’etica e la deontologia non devono limitarsi a corsi specifici ma essere un habitus, una preoccupazione

Qual è il ruolo e la funzione degli stage?

Abbiamo 30 giornalisti praticanti che vanno in stage ogni anno. La funzione degli stage è fondamentale. La pratica della redazione che si sperimenta in una scuola è comunque, seppur il più vicino possibile a quelle che ci sono fuori, una simulazione di redazione finalizzata a un impegno didattico. Quando vai in stage non è così, provi sulla tua pelle una struttura organizzativa – una linea di comando e controllo – che non è più legata a una dimensione esercitativa. Ti rendi davvero conto di quali sono le competenze richieste.

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Dieci luoghi comuni che ripetiamo quando parliamo di migranti

Un pezzo del nostro sistema mediatico replica su questo fenomeno falsi stereotipi e contribuisce a rafforzarli nella percezione pubblica, sempre più distorta e lontana dai fatti. Per questo serve più formazione. Ai giornalisti di

«La faccia tosta delle Ong: la Louise Michel fa ricorso contro il fermo. Ma è già stata smascherata». «I pirati del mare della Geo Barents. La nave dei migranti non era in pericolo: soccorsa a forza». «In contatto con gli scafisti: “Pronti a partire. In mare aperto ci aspettano le navi delle Ong”». «Decreto naufragi. Così le Ong vogliono dettare legge in Italia». Sono alcuni titoli recenti di articoli sul tema del soccorso in mare e sulla rotta migratoria mediterranea. Titoli che sono specchio delle tante polemiche provocate dalla questione immigrazione e dall’attività di chi i migranti li soccorre o li assiste in mare.

Ciascuno di quei titoli è rivelativo. O per i toni sprezzanti o per le affermazioni inverosimili o infondate, e a volte calunniose. Non si tratta di essere o meno politicamente schierati. I titoli citati non sono né editoriali né articoli di opinionisti. Sono tutti pezzi di cronaca. E questo solleva un problema.

Molti titoli di cronaca sono lo specchio di affermazioni inverosimili o infondate che si spiegano con una scarsa conoscenza della materia

Escludiamo la malafede, resta la disinformazione. Le reiterate affermazioni false da parte di un giornalista che ha come primo dovere professionale il «riportare la sostanzia-

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CORSI DI FORMAZIONE

Spesso anche noi giornalisti finiamo per inseguire le attese del pubblico in un gioco al rialzo della cifra emotiva che prevale su dati e fatti

le verità dei fatti» possono essere dovute a due ragioni: disinformazione o malafede. Nessuna appartenenza ideologica può consentire al giornalista di distorcere i fatti, né può venire meno la continenza e la sobrietà dei toni. Visto che la malafede non si può che escluderla a priori - è l’esatto opposto del fare informazione, il venire meno dell’essenza stessa della professione - si deve ritenere che vi sia un grave problema di disinformazione o di misconoscenza da parte di molti colleghi. L’effetto è che su un tema come questo, tanto rilevante per la politica e soprattutto per la percezione dell’opinione pubblica, (alcuni) media finiscano per lavorare “a tesi”, spesso rilanciando e confermando una serie di stereotipi, di luoghi comuni che si percepiscono graditi ai propri lettori o ascoltatori. Si innesca quindi un cortocircuito che poco ha a che fare con la reale comprensione del fenomeno. Il sistema mediatico - o almeno un suo pezzo - ingenera cioè nel pubblico una percezione distorta del fenomeno migratorio, e a sua volta da questa percezione è ulteriormente condizionato, in un costante gioco al rialzo della cifra emotiva, sempre più prevalente su dati e fatti.

Dieci stereotipi da sfatare. Prendiamone alcuni di questi stereotipi, di queste “frasi fatte” che rischiano di diventare nella mente di chi legge fatti che non lo erano.

1. Se i migranti arrivano è perché sanno che in mare ci sono le Ong. È il cosiddetto pull factor: la presenza delle navi umanitarie nelle acque internazionali al largo della Libia spingerebbe i migranti a partire. È un falso. A parte le ragioni di buon senso (nessun migrante sano di mente farebbe la traversata più letale del mondo nella remota speranza di incrociare in mezzo al Mediterraneo una nave di soccorso, senza contare che la maggior parte dei migranti in Libia, essendo preda delle organizzazioni criminali dei trafficanti di esseri umani, non è libera di decidere quando e con che barca partire), l’unico studio scientifico sulla questione, realizzato da Eugenio Cusumano e Matteo Villa per l’Ispi e l’European University Institute, dimostra il contrario. Non c’è alcun effetto attrattivo da parte delle navi delle Ong. L’unico pull factor è il sogno di arrivare in Europa e il bel tempo (le partenze avvengono quando le condizioni meteo sono buone).

2. Le Ong fanno affari con i trafficanti. È un falso. Sono state av-

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CRONACA. Nella notte del 25 febbraio 2023 il naufragio di un barcone a Steccato di Cutro (Crotone) ha causato la morte di almeno 94 migranti.

viate e archiviate più di una ventina di inchieste giudiziarie, tutte finite nel nulla. Si tratta di una delle campagne diffamatorie più gravi e immotivate nella storia del giornalismo italiano.

3. Siamo invasi dai migranti. Frase che si declina anche in un altro classico: «Non possiamo accoglierli tutti». In realtà, gli stranieri residenti in Italia sono soltanto 5.200.000 e costituiscono l’8,7% della popolazione italiana (dato Istat 2021), percentuale al di sotto rispetto alla media dell’Unione Europea. Peraltro, quasi la metà degli stranieri sono europei, il 22% asiatici, il 7,5% americani e solo il 22% africani. Inoltre, facendo pochi facili calcoli sui dati relativi alla popolazione italiana in rapporto al numero annuale di arrivi di profughi attraverso il Mediterraneo o la rotta balcanica, si evince facilmente che oltre 90 immigrati su 100 passano per l’Italia ma la abbandonano in pochi giorni o poche settimane: la loro meta è costituita da altri Paesi europei.

La quota di migranti giunti con le navi di soccorso varia negli anni fra il 9 e il 12% del totale. Una quota irrisoria

4. Sono le Ong del mare che portano i profughi in Italia. La quota dei migranti giunti con le navi di soccorso varia, a seconda degli

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Francesco Ceraudo / ANSA

anni, fra il 9 e il 12% del totale. Una quota irrisoria.

5. Le Ong portino i migranti nei rispettivi Stati di bandiera. Le leggi del mare hanno codificato con molta precisione che sulla prima destinazione di chi viene soccorso in mare non conta la bandiera di chi soccorre, ma il luogo sicuro più vicino (Pos, place of safety, porto sicuro).

6. Va bene salvarli, ma ci pensino la Libia o la Tunisia. Impossibile. In Libia e in Tunisia i migranti non vengono salvati ma riportati in luoghi dove si perpetuano violazioni, anche gravissime, dei diritti umani. I due Paesi africani non possono in ogni caso avere alcuna “delega” al soccorso, perché è contrario alle normative internazionali. Non solo. Le convenzioni internazionali e le normative italiane del codice di navigazione indicano chiaramente quali caratteristiche deve avere il Pos, porto sicuro di cui sopra. Sostanzialmente, dev’essere in un Paese democratico, che abbia siglato la Convezione di Ginevra e che rispetti i diritti umani. Perciò nessuna nave che effettua un soccorso può chiedere di sbarcare i naufraghi a Tunisi, come non può farlo in Libia, in Egitto, in Algeria. In nessun Paese, di fatto, della costa Sud del Mediterraneo.

7. L’Europa se ne infischia, con la variante “l’Europa ci lascia soli”. È falso. Per incidenza dei profughi sulla popolazione italiana, secondo i dati OIM del novembre 2022, l’Italia è all’15° posto in Europa, con 1 richiedente asilo ogni 1.308 abitanti, mentre la Germania ne conta uno ogni 561 abitanti, la Francia uno ogni 652. A chiedere a buon diritto la redistribuzione per essere sollevata dal peso dell’accoglienza dovrebbero essere Cipro, prima in classifica, con un richiedente asilo ogni 68 abitanti.

8. L’Italia vuole che sia cambiata la Convenzione di Dublino Non è così. Dopo aver sottoscritto sia la Dublino 1 che la 2 – lo Stato membro Ue in cui viene registrata una richiesta di asilo (o vengono memorizzate le impronte digitali) è responsabile della richiesta d’asilo di un rifugiato - l’Italia in realtà non ha mai fatto alcun reale passo perché la convenzione sia modificata, e siano stabiliti criteri per la redistribuzione e l’accoglienza. E ben si capisce il perché dai dati sopracitati: per essere al pari con la media Ue il nostro Paese dovrebbe accrescere notevolmente l’accoglienza.

9. Le organizzazioni di soccorso favoriscono, ovvero puntano, alla sostituzione etnica e all’islamizzazione del nostro Paese. È falso. Sulla “sostituzione etnica” (a prescindere da considerazioni sul lugubre richiamo all’ideologia nazi-fascista) i dati elencati sopra

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L’Italia ha 1 richiedente asilo ogni 1.308 abitanti, mentre la Germania ne conta uno ogni 561, la Francia uno ogni

parlano da soli, riguardo all’appartenenza religiosa la maggioranza relativa dei migranti è sempre stata ed è ancora cristiana.

10. Per i migranti spendiamo un mucchio di soldi. È falso. Spendiamo 3 miliardi di euro all’anno, ma in termini di lavoro e produzione gli immigrati creano ricchezza per circa 8 miliardi. È falso anche che ci tolgono il lavoro. In realtà, non i “buonisti accoglienti” ma Confindustria e Coldiretti lanciano l’allarme sulla urgente necessità di reperire lavoratori, specie nei settori in cui non si trova disponibilità da parte dei residenti in Italia. La stima è che occorrerebbero, da subito, almeno 250 mila lavoratori stranieri. Confindustria del Veneto ha parlato addirittura di mezzo milione.

In conclusione, sì, abbiamo un problema. Occorre una seria riflessione. Un’informazione tanto disinformante è tossica. È urgente e necessario ribadire che il nostro mestiere è «riportare la verità sostanziale dei fatti». Qui non è questione di libertà d’opinione e di espressione ma del rispetto dei dati e dei fatti. Perciò è urgente e necessario fare formazione per i giornalisti sui temi legati alla migrazione. L’Ordine della Lombardia su questo si sta impegnando: in sei mesi ha proposto due cicli di incontri nell’ambito della Formazione Permanente. Il successo di presenze e il gradimento da parte dei partecipanti confermano che la scelta è buona e lungimirante.

Spendiamo per loro 3 miliardi di euro all’anno, ma gli immigrati creano ricchezza per circa 8

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Carmelo Imbesi / ANSA VIMINALE. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

A cosa serve a volte fare uno stage in un giornale online

Tre mesi di workshop retribuito per «eventuali futuri collaboratori». È la selezione fatta dal Post. Che racconta qualcosa sui bisogni dei lettori giovani, sugli aspiranti giornalisti, sui modi di fare innovazione nelle aziende editoriali e in generale sul giornalismo prossimo venturo.

Il direttore: questa è una redazione di trentenni, ma se vuoi parlare a chi ne ha di meno è bene inserire gente ancora più giovane

L’annuncio diceva: «Ospitiamo stage per giovani tra i 20 e i 26 anni che vogliono imparare le cose che abbiamo imparato noi in vista di future eventuali collaborazioni». A pubblicarlo – marzo 2023 – era il Post, quotidiano online fondato e diretto da Luca Sofri. Non succede spesso nelle testate italiane che si cerchino nuovi collaboratori con un annuncio. In redazione sono arrivate 640 candidature. E alla fine di una selezione in quattro passaggi - lettera e curriculum; video di presentazione di due minuti; primo colloquio e secondo colloquio – da maggio sei stagisti hanno iniziato un workshop di tre mesi che «sarà retribuito e a tempo molto pieno, sarà dedicato alla formazione e si svolgerà in presenza a Milano». La notizia di uno stage come questo potrebbe sembrare poco rilevante, ma in realtà sottintende e rimanda ad alcune cose che riguardano il modo di fare giornali, e di fare innovazione nelle aziende dell’informazione. Il Post ha 13 anni di vita, oltre 60.000 abbonati e una redazione di 28 giornalisti assunti, con un’età media intorno ai 30 anni. Una redazione molto giovane se la si confronta con altre testate nazionali. Ma se l’obiettivo è «stare aderenti alla contemporaneità» per dirla con il suo direttore, cioè ambire a parlare a chi oggi ha 20 anni, occorre anticipare il ricambio

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CASI DI STUDIO

generazionale. «Ci siamo chiesti che cosa dovrà essere questo giornale tra 5 e 10 anni e abbiamo deciso di inserire in redazione forze ancora più giovani». Dietro questo gruppo di «eventuali futuri collaboratori» ci sono percorsi e visioni internazionali. La metà di loro ha percorsi di studio o di lavoro all’estero, dal Medio Oriente all’Europa. Nei confronti dell’informazione italiana sembra esserci tra loro un filo rosso, per quanto attiene a difetti, mancanze e necessità. Andrea, laurea in Storia: «Ogni giorno sui nostri giornali c’è una crisi, uno scandalo. È una narrazione molto emotiva, in cui si perde il filo della storia ad ogni puntata». Elena, studi di Relazioni Internazionali: «Si da troppo per scontato, come se il lettore dovesse già conoscere le puntate precedenti». Ginevra, Scienze politiche a Parigi: «Trovi anche approssimazioni ed errori, un eccesso di aggettivazione, fatti e opinioni mescolati». Lorenzo, scuola di scrittura Holden di Torino: «Per me l’ideale è che l’autore svanisca come autore. Non che si metta in mostra». Emerge anche una insofferenza verso «un’idea eroica»espressione loro - del mestiere di giornalista. Ancora Ginevra: «Quello che serve è un giornalismo di ufficio, che metta in chiaro, dipani la matassa. Spiegare i meccanismi della società che il cittadino non ha il tempo di verificare in prima persona. Mi ha colpito, positivamente, sentirmi dire qui: non è importante che diciate “Ho sempre sognato di consumare le scarpe”. È un

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«Quello che serve è un giornalismo di ufficio, che metta in chiaro, dipani la matassa e consenta al lettore di comprendere»

buon esercizio di antiretorica». Elena, un’esperienza di cooperazione internazionale in Libano: «Io non ho nulla in contrario all’andare sul posto, ma il vedere in prima persona deve dare un valore aggiunto al lettore, non è un atto dimostrativo». Ma in concreto di cosa è riempito questo «tempo molto pieno» di cui parla l’annuncio?

La prima linea di attività è sui prodotti. Ovvero: esercizi di scrittura, confezione di articoli o di alcune delle newsletter del Post. Elena: «Se devi dire “problema” qui impari che non serve dire “problematica”. Scrivere è un esercizio di sottrazione, di asciuttezza: evitare le frasi fatte, le metafore, contestualizzare sempre. Il lettore va aiutato a comprendere, non devi stupirlo o metterti in mostra». La seconda linea di formazione è su temi e fonti. A ognuno dei sei stagisti è stato assegnato un Paese, su cui creare una mappa di fonti per aree tematiche, in modo da mettersi in condizione di produrre contenuti. È un allenamento a comprendere cosa è rilevante in un contesto, e ciò a cui è necessario attingere per comprendere un dato, un fatto, un tema e spiegarlo ad altri. La terza linea sarà entrare nella produzione quotidiana del giornale. Ma con gradualità. «Per noi tutto questo è un investimento di tempo, energia e soldi» spiega Giulia Balducci, che è al Post dal primo giorno, coordina i social e ha partecipato con Luca Sofri al processo di selezione. La gran parte degli attuali giornalisti del Post è stata assunta dopo uno stage. «Ma erano training più operativi, forse anche più stressanti. Adesso vogliamo prenderci un filo di tempo in più. Quando noi abbiamo iniziato, qui al Post eravamo in sei, stavamo in un monolocale e davanti a noi avevamo enormi spazi di creatività. Oggi la redazione è fatta da 28 giornalisti, il giornale ha una sua identità precisa e riconosciuta, le cose da fare sono tantissime. Vogliamo consentire a chi arriva di avere più tempo per acclimatarsi al nostro modo di fare informazione - spiegare bene le cose - e metterli in condizione di dare qualcosa di proprio, di originale». Come diceva l’annuncio: «Il lavoro al Post ha criteri e inclinazioni giornalistiche che vogliamo condividere e affidare ad altre persone interessate al giornalismo contemporaneo: persone che abbiano la pazienza di studiare e imparare».

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«Nulla in contrario all’andare sul posto, ma a patto che dia valore aggiunto al lettore e non sia un atto dimostrativo»
«Se devi dire “problema” qui impari che non serve dire “problematica”.
Scrivere è un esercizio di sottrazione, di asciuttezza»

Giornalismi

Il futuro che c’è già: casi, storie, persone

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C’è giornalismo oltre la cronaca: il caso IrpiMedia

Storia, metodi e obiettivi di «Investigative Reporting Project Italy»: un gruppo di reporter che riesce a finanziare, costruire e realizzare inchieste e approfondimenti investigativi su scala internazionale di Lorenzo

Ho cominciato a fare il giornalista nel 2011, dopo due anni di praticantato con la Scuola di Giornalismo all’Università Cattolica di Milano. Già allora si parlava di crisi della professione, si faceva fatica a trovare redazioni in cui svolgere gli stage curricolari, figuriamoci a lavorare. Dodici anni dopo, nonostante il tracollo delle vendite dei giornali nelle edicole, dal mio punto di osservazione vedo possibilità che si aprono, nonostante tutto. Le vedo all’interno dello spazio che insieme a un gruppo di colleghi abito dal 2012: quello del giornalismo collaborativo sostenuto da realtà non profit.

Un’associazione di promozione sociale nata nel 2012 entro il Global Investigative Journalism Network (GIJN)

IRPI, la nostra associazione, è un acronimo che sta per Investigative Reporting Project Italy. Formalmente è un’associazione di promozione sociale ed è nata nel 2012 nel solco dell’annuale edizione della conferenza internazionale della Global Investigative Journalism Network (GIJN), all’epoca uno dei pochi appuntamenti per connettere giornalisti d’inchiesta internazionali. In quegli anni erano pochi gli italiani a frequentarla. Da quel confronto con l’estero nacque l’idea di fondare un centro di giornalismo investigativo anche in Italia. Si tratta, nei fatti, di una struttura che aiuta i giornalisti a costruire inchieste, trovare finanziamenti, strumenti e competenze per svolgere il lavoro di ricerca.

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LAVORARE IN NETWORK/1

Personalmente, non sapevo nemmeno cosa fosse la GIJN, né che esistessero occasioni del genere per incontrare colleghi e sviluppare possibili spunti d’inchiesta comuni. Ero un professionista fresco di tesserino con poca esperienza. Stavo cercando semplicemente nuove occasioni, da freelance, per misurarmi con il genere inchiesta, quando incappai in IRPI, quasi per caso. Feci domanda per entrare e mi accettarono.

IRPI 1.0. Per otto anni, IRPI ha svolto due missioni: la prima è stata creare occasioni per discutere, promuovere, formarsi e formare all’uso di tecniche di giornalismo investigativo; la seconda è stata produrre inchieste in collaborazione con altri gruppi internazionali, da pubblicare poi con testate italiane e straniere. Attraverso la partecipazione a bandi di sostegno per le inchieste o grazie a occasioni di collaborazione come fixer con giornali stranieri, è riuscita a garantire qualche finanziamento extra per il lavoro di ricerca dei suoi associati durante tutti gli anni di precariato senza rete. Il pagamento che può garantire una testata nazionale non giustifica diverse settimane di lavoro di un gruppo di più persone. Nonostante le difficoltà, è allora che abbiamo iniziato a costruire un nostro modello di produzione. “Nostro” fino a un certo punto, dato che si basa sulla Story-based inquiry, un approccio al giornalismo investigativo che si fonda su un punto: costruire un’ipotesi investigativa da continuare a sfidare (e modificare di conseguenza in base a quanto si è trovato) durante tutta la ricerca. Mafie italiane (anche all’estero), criminalità economica, traffici di beni e persone, infiltrazione russa nel tessuto economico italiano, reati ambientali, sono stati alcuni dei principali pilastri del nostro lavoro, che è sempre rimasto condiviso.

Il metodo è costruire un’ipotesi investigativa da continuare a sfidare e modificare durante tutta la ricerca in base a quanto si è trovato

Tra gli alti e bassi che caratterizzano la vita di qualunque associazione, stava però diventando ingestibile ritrovarsi perennemente impigliati negli stessi problemi che quotidianamente si trova a gestire un freelance. Il precariato sfianca e distrugge tanti progetti condivisi. Per fortuna non è stato il nostro caso.

Tra il 2018 e il 2019 c’è stata la svolta quando le prime fondazioni hanno cominciato a erogare dei fondi tali da sostenere la

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Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP) è una piattaforma di giornalismo investigativo fondata in Olanda nel 2005 da due giornalisti, Drew Sullivan (nella foto) e Paul Radu, che stavano lavorando a inchieste che avevano molti tratti in comune. «Ci siamo resi conto che potevamo fare di più insieme che separatamente» ha raccontato Drew. «E che avremmo risparmiato denaro centralizzando alcuni dei costi come l’assicurazione, l’accesso a database commerciali, lo sviluppo di strumenti e persino la ricerca e la raccolta di fondi». Oggi la piattaforma conta oltre 150 giornalisti in 30 paesi e uno staff di data analyst, specialisti della sicurezza, tecnologi per consentire indagini collaborative e sicure basate sui dati. La risorsa principale è Aleph, una piattaforma di dati investigativi alimentata da un software proprietario attraverso la quale i giornalisti possono incrociare più di tre miliardi di record per collaborare tra diversi Paesi. OCCRP è in grado di produrre inchieste in tutte le aree del mondo, appoggiandosi a partner regionali tra cui Arab Reporters for Investigative Journalism (ARIJ), il Centro Latino Americano de Investigacion Periodistica (CLIP) e Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL).

Il cambio di passo è arrivato quando le fondazioni hanno cominciato a finanziare la struttura e non soltanto la produzione dei contenuti

nostra struttura e non solo la produzione dei contenuti. È stato il primo passo verso la creazione di qualcosa di nuovo. È stata una fase delicata, che ha richiesto anni di avvicinamento al mondo delle fondazioni che sostengono il giornalismo, una realtà che ad oggi in Italia ancora non esiste (se non con rare eccezioni e per singoli progetti più che per entità). Ha richiesto molto tempo aggiungere alle competenze anche il saper parlare con un donor, imparare a presentare un budget, imparare a definire la progettualità e la scalabilità di un progetto. Competenze che nessuno di noi aveva ma che alla fine ci hanno portato a decidere di passare al livello successivo: avere una nostra testata.

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IL NETWORK OCCRP

Giornalismo seriale. IrpiMedia è andata online il 23 marzo 2020, dopo una fase di progettazione di circa sei mesi. La prima inchiesta collaborativa è stata The Nigerian Cartel, una serie sulle società petrolifere in Nigeria e sui loro collegamenti con la politica locale, realizzata insieme ai colleghi di Sahara Reporters. Prima era uscita un’anteprima: il racconto dell’omicidio di un collega slovacco, Jan Kuciak, e della sua fidanzata Martina Kušnírová, avvenuto nel 2018. Jan Kuciak era parte di un progetto d’inchiesta in cui eravamo coinvolti anche noi. Stavamo cercando insieme di identificare società agricole legate a cosche di ‘ndrangheta coinvolte in frodi per l’assegnazione di fondi europei per l’agricoltura. Inizialmente avevamo coperto il tema con La Repubblica. In seguito abbiamo poi continuato a collaborare con diverse testate nazionali e regionali. Non abbiamo mai avuto però esclusive con nessuno per mantenere appieno il controllo editoriale sulle nostre storie.

La prima inchiesta collaborativa è stata The Nigerian Cartel, una serie sulle società petrolifere in Nigeria

Applicare la metodologia delle nostre ricerche basate sulle ipotesi investigative ci ha permesso di allargare lo spazio del racconto: invece che dover costringere tutto in un pezzo solo, abbiamo iniziato a ragionare per episodi. Un filone di ricerca è diventato una serie; le infografiche, i disegni, le gallerie fotografiche, sono diventati mezzi per espandere le possibilità di lettura.

È venuto anche il podcast, pochi mesi dopo. Anche in questo caso, a seguito di un’esperienza maturata all’estero: nel mio caso, grazie a una borsa di studio dell’organizzazione The Ground Truth Project sulla destra identitaria italiana; nel caso dei colleghi Cecilia Anesi, Alessia Cerantola e Giulio Rubino grazie alla serie Verified sul carabiniere stupratore Dino Maglio. Nella nostra redazione ci sono cinque giornalisti “senior”, a cui spetta il compito di coordinare i progetti di ricerca. La squadra dei reporter junior è composta da altrettante persone. Ogni progetto ha un editor, che segue la fase di scrittura dell’intera serie e che verifica le note di cui è corredato ogni articolo per la verifica delle informazioni. Anche in questo percorso di organizzazione e struttura del lavoro abbiamo cercato di imparare dai colleghi che facevano lo stesso all’estero e

Nella nostra redazione ci sono cinque giornalisti “senior”, a cui spetta il compito di coordinare i progetti di ricerca

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stiamo cercando di formare al nostro interno persone che siano in grado di condurre un progetto giornalistico dalla ricerca dei finanziamenti fino all’ideazione di una serie di articoli.

Il centro di giornalismo investigativo al quale ci siamo ispirati inizialmente si chiama

Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP)

Cosa accade altrove. Il centro di giornalismo investigativo al quale ci siamo ispirati inizialmente si chiama Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP). Ha sede in Olanda ed è fondato da giornalisti americani. Oggi poggia su un’ampia rete di centri affiliati, compreso il nostro. Nel 2008 contava una dozzina di persone, oggi ha più di cento reporter e pubblica sia da solo, sia in collaborazione con testate. Ha realizzato due delle più importanti infrastrutture attraverso cui collaborare tra colleghi: una è Aleph, un database di database navigabile in cui sono messi assieme i dati raccolti durante la ricerca giornalistica (in parte è accessibile a tutti, in parte è “chiuso”). L’altro è la Wiki, un ambiente sicuro costruito come una sorta di Wikipedia dell’inchiesta dove si possono iniziare a condividere spunti e piste investigative. Oggi i centri così sono diversi. Per citare i più famosi, sempre in Olanda, è nato Lighthouse Report, un progetto che mette insieme giornalisti di varie redazioni - comprese quelle tradizionali - per seguire inchieste a medio-lungo termine. Lighthouse Report mette la capacità di coordinare, ricercare, sviluppare e mettere a disposizioni per tutti un materiale di ricerca. È una delle realtà che ha saputo meglio collaborare con ricercatori che analizzano immagini satellitari o profili social.

Forbidden Stories è una realtà francese che coordina progetti d’inchiesta transnazionali che partono sempre dall’omicidio di un giornalista o dalla sua incarcerazione. Paper Trail Media è invece la struttura co-fondata dai premi Pulitzer Frederik Obermaier e Bastian Obermayer, i giornalisti dai quali è partita l’inchiesta dei Panama Papers, per produrre inchieste, documentari e podcast di respiro internazionale dentro Der Spiegel e Zdf in Germania. E strutture del genere continuano a nascere, soprattutto in Europa, per cercare di superare i limiti e le difficoltà economiche delle redazioni tradizionali.

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Strutture del genere continuano a nascere, soprattutto in Europa, per cercare di superare i limiti e le difficoltà economiche

Il Global Investigative Journalism Network (GIJN) è un hub internazionale di reporter investigativi fondato a Copenhagen nel maggio 2003 che ha come obiettivo sostenere e rafforzare il giornalismo di inchiesta nel mondo. Al cuore di GIJN c’è un gruppo di associazioni e organizzazioni giornalistiche senza scopo di lucro: oggi sono 244 in 90 paesi. Per supportare i giornalisti che aderiscono, GIJN ha uno staff sparso in 24 paesi, lavora in una dozzina di lingue e fornisce ai giornalisti database di fonti, tecnologie e formazione per agevolarne e raffinarne il lavoro. Dal 2012, l’Help Desk GIJN ha risposto a oltre 15.000 richieste di assistenza da tutto il mondo su una vasta gamma di argomenti: dall’assistenza in luoghi di reporting a dati su temi specifici, dal finanziamento per progetti giornalistici alla consulenza su tecniche investigative. Ogni due anni, GIJN organizza e co-ospita la Global Investigative Journalism Conference.

Le sfide del futuro. Chiunque viva di giornalismo, a qualunque latitudine, ha in cima alle priorità il problema di essere sempre al limite della sostenibilità economica. Vale anche, se non di più, per chi deve attrarre donatori. Non saranno inserzioni pubblicitarie, né le copie vendute a fare il bilancio, ma “l’impatto”, una delle parole tabù all’interno del mondo non profit. Senza sensazionalismi, senza forzature e nella piena consapevolezza delle abitudini dei lettori, questo giornalismo fuori dalla cronaca deve tornare a servire, cioè a essere letto. Deve far capire a chi lo sostiene perché effettivamente contribuisce alla tenuta del dibattito pubblico e quindi alla democrazia. È un passaggio delicato, perché al di là dei soldi, richiede, per riuscire, visione.

Questo giornalismo

fuori dalla cronaca deve tornare a servire, cioè a essere letto

In un contesto come quello di oggi, però, è difficile farcela da soli. Il nostro formato - pezzi lunghi e articolati - non è “mainstream”. E non è necessario che lo sia. In un ecosistema virtuoso delle informazioni, ogni attore occupa la sua casella, che poi coincide con quello che sa fare. Solo in questo sistema, dove le storie viaggiano e si raccontano con voci diverse e con punti di vista diversi, si torna a credere nel giornalismo come bene comune.

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IL GIJN NETWORK

Multimedialità, diritti sociali e ambiente: il progetto Fada Collective

Sviluppare un giornalismo di approfondimento e di respiro internazionale è l’obiettivo di questa rete di reporter: l’importanza delle sinergie tra organizzazioni e colleghi di diversi Paesi per unire grande storia e piccole storie di FADA Collective

Pochi nostri reportage e documentari hanno trovato spazio nei media italiani: sono stati pubblicati da Al Jazeera, Arte, Der Spiegel, The Guardian, Libération

Pochi lo ricordano ma nel 2019, prima della diffusione del coronavirus, il pianeta stava vivendo un incredibile contagio di rivolte e sollevazioni. Dall’Iraq al Libano. Dal Cile ad Hong Kong passando per Francia, Ecuador, Algeria, Sudan, Iran e Spagna, migliaia di giovani scendevano in piazza, occupando, con tende e sacchi a pelo, luoghi pubblici e riappropriandosi di spazi a loro negati da tempo. Con le dovute differenze - a Hong Kong si facevano barricate contro la restrizione delle libertà democratiche, in Iraq si scendeva in piazza per chiedere riforme, diritti e lavoro, in Algeria si chiedeva la testa del Presidente - c’era qualcosa in comune in quelle sollevazioni sparse in angoli disparati del pianeta. Erano movimenti nati dal basso, sotto l’impulso di giovani, che rivendicavano diritti e giustizia sociale. E noi, come giovani giornalisti freelance (nelle testate straniere i “giovani” giornalisti sono già inviati) guardavamo con attenzione e curiosità a quei movimenti, convinti che andassero osservati e documentati come veniva fatto all’estero, ma non in Italia. Eravamo, infatti, convinti che fosse necessario raccontare anche nel nostro Paese quelle rivolte. Eppure, nonostante la portata storica di quegli eventi, pochissimi dei nostri reportage e documentari hanno trovato spazio

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LAVORARE IN NETWORK/2

nei media italiani. Sono stati pubblicati da Al Jazeera, Arte, Der Spiegel, The Guardian, Libération e altri media internazionali ma non in Italia.

Il senso di un nome. Ed è così che, nel 2020, spinti da una crescente frustrazione nei confronti di un panorama mediatico stantio e dall’urgenza di un agire collettivo, abbiamo deciso di fondare FADA. Il termine ha origine in Niger e indica degli spazi informali di discussione pubblica, aperti a tutti. Nasciamo come un collettivo informale di sette reporter, sparsi in diversi Paesi, che decidono di unirsi per raccontare i diritti in un mondo in cambiamento. Decidiamo, anche, di parlare dei nostri diritti come lavoratori precari, con l’idea di portare nel dibattito pubblico una riflessione sullo stato di salute del giornalismo in Italia, precario quanto gli incarichi di troppi giovani giornalisti.

Nasciamo come un collettivo informale di giornalisti sparsi in diversi Paesi, che decidono di unirsi per raccontare i diritti in un mondo in cambiamento

In questi tre anni FADA è cresciuta, diventando un’associazione non profit, con una rete allargata di oltre 40 reporter freelance, che si occupano di temi e territori diversi. L’obiettivo è sviluppare e promuovere un giornalismo d’approfondimento e di interesse pubblico, con al centro i diritti, la giustizia sociale e l’ambiente. A distinguerci è la capacità di raccontare sul campo, in profondità, con strumenti multimediali, le cause e gli effetti di fenomeni complessi, mettendo in evidenza connessioni globali e locali, realizzando narrazioni accurate e creative, che hanno un impatto sul pubblico, sulle comunità e che contrastino forme di polarizzazione tossiche.

Lo abbiamo fatto con il webdoc multimediale Iraq without water - premiato dall’Associazione dei Corrispondenti delle Nazioni Unite a New York - un viaggio sull’acqua da Mosul a Basra, lungo i fiumi Tigri ed Eufrate, che racconta la crisi idrica attraverso le voci degli ambientalisti iracheni. Oppure con il webdoc Donne fuori dal buio, prodotto grazie a un crowdfunding e al supporto dell’ong Un Ponte Per, che ci ha permesso di raccogliere le voci di quattro donne irachene quindici anni dopo l’invasione a guida statunitense in Iraq. Un lavoro premiato con la

L’obiettivo è sviluppare e promuovere un giornalismo d’approfondimento e di interesse pubblico: narrazioni accurate e creative sul campo

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Colomba d’Oro per la Pace che è stato portato in oltre 30 città d’Italia attraverso associazioni, comitati di cittadini e cinema.

Ma uno dei veri punti di forza di FADA sono le sinergie internazionali. In questi anni, grazie al sostegno di organizzazioni e programmi come Journalismfund Europe, Investigative Journalism for the Eu, Pulitzer Center on Crisis Reporting, Free Press Unlimited, Lighthouse Reports, Bertha Foundation e Evens Foundation siamo riusciti a tessere reti di collaborazione con colleghi e colleghe di altri Paesi, per realizzare inchieste, reportage e documentari. Basti pensare all’inchiesta Dal Punjab a Latina, pagare per diventare schiavo di Daniela Sala e Ankita Anand pubblicata su Irpi Media, che ricostruisce la rete di sfruttamento dall’Agro Pontino fino in India, unendo i puntini di fenomeni come il caporalato e la migrazione, raccontati troppo spesso in modo superficiale. Oppure l’inchiesta Tunur: il modello di esportazione di energia verde dal Nord Africa all’Ue, di Arianna Poletti e Aïda Delpuech che mette in luce le contraddizioni della transizione ecologica voluta dall’Unione Europea ma pagata dalle comunità locali in Tunisia, private di acqua. E ancora il lavoro immenso sull’uso dei fondi italiani ed europei per l’esternalizzazione del controllo delle frontiere portato avanti da Giacomo Zandonini insieme a decine di colleghi internazionali e premiato dalla Evens Foundation nel 2022. O il lungo reportage realizzato in Benin grazie al sostegno del Pulitzer Center, dove Marco Simoncelli e Davide Lemmi, hanno dimostrato come land grabbing e colture intensive da parte di multinazionali del Nord globale abbiamo stravolto l’economia e la sussistenza delle comunità locali spingendole o nelle braccia di gruppi jihadisti o verso la migrazione.

Piccole storie e grande storia. Questi sono solo alcuni esempi dei lavori realizzati da FADA: approfondimenti di lungo periodo che, partendo dal dettaglio, provano ad allargare lo sguardo unendo la piccola con la grande storia, collegando i puntini di fenomeni che abbracciano la crisi climatica, l’ambiente e i diritti - negati - delle persone, per restituire ai cittadini un racconto completo e chiaro, che aiuti a comprendere quanto tutto

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L’obiettivo è restituire ai cittadini un racconto completo e chiaro, che aiuti a comprendere quanto tutto sia interconnesso
Se manca un giornalismo di qualità si finisce per credere alla propaganda o a semplificazioni eccessive

sia interconnesso. L’abbiamo visto con la pandemia, quando molte filiere globali di approvvigionamento si sono interrotte. Lo stiamo vedendo adesso con il gas, il grano ed altre materie prime. E lo continueremo a vedere sempre di più. Per questo crediamo che sia necessario praticare un giornalismo capace di raccontare la complessità di quest’epoca, partendo dal micro per arrivare al macro, dalla singola storia alle storie, dall’individuo alla comunità. Un giornalismo di interesse pubblico che racconti il mondo in cui viviamo attraverso il reportage e le storie delle persone perché, laddove i cittadini sono ben informati, il dibattito pubblico si articola, orientando la politica verso decisioni tese verso il bene comune. Laddove, invece, manca un giornalismo di qualità si grida, si urla e ci si polarizza, e si finisce per credere alla propaganda o a semplificazioni eccessive, spacciate per verità.

Laddove i cittadini sono ben informati, il dibattito pubblico si articola, orientando la politica verso decisioni tese verso il bene comune

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ACQUA. Tra i webdoc di Fada Collective anche un lavoro sulla crisi idirica in Iraq raccontata attraverso la voce degli ambientalisti. ANSA / Evan Vucci / PAL

Fare inchiesta in Italia. E qui arriviamo all’altro fattore cruciale di un giornalismo di qualità: le risorse economiche. Le inchieste sociali che realizziamo sul campo, attraverso varie forme di collaborazione, richiedono tempo - per scrivere il bando, per ottenere il finanziamento, e infine per essere pagati dai media che decidono di pubblicarci - e denaro per fare ricerca, realizzare il reportage e post-produrlo. A volte, dall’idea alla pubblicazione può passare anche un anno. Insomma sono investimenti di lungo periodo sulla cultura - per dirla in grande - che poco si addicono al sistema editoriale italiano. Un sistema che insegue lo share, l’intrattenimento, basato sulla velocità e su un modello di business controllato da pochi gruppi imprenditoriali, che genera contenuti schizofrenici e lavoratori con sempre meno diritti. Secondo EurOMo - osservatorio di monitoraggio della proprietà dei

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Le inchieste sociali che realizziamo sul campo, attraverso varie forme di collaborazione, richiedono tempo e risorse
SFRUTTAMENTO. I nessi tra caporalato e immigrazione clandestina sono al centro di alcuni lavori di Fada Collective. Carabinieri / ANSA

media in Europa «Rai, Fininvest, Sky e Cairo realizzano il 90% delle entrate del mercato audiovisivo; quattro sono le società che hanno il 56% dei proventi del mercato radiofonico e quattro si spartiscono il 62% di quello dell’informazione stampata». Inoltre, si legge nel rapporto, «i principali rischi per la trasparenza nel Paese sono rappresentati da complesse catene di proprietà, mancanza di dati all’interno dei rendiconti finanziari che comportano una difficile tracciabilità delle informazioni e un intricato sistema di finanziamento spesso non trasparente per i cittadini. Il primo elemento degno di nota, che rimanda a questioni ampiamente riportate nella letteratura accademica, è la vicinanza di editori e proprietari a partiti politici e gruppi di interesse industriali e finanziari». Inoltre come ribadisce anche il rapporto “Liberties. Media Freedom 2023”, in Italia, «la forte concentrazione della proprietà dei media persiste e rappresenta un rischio significativo per il pluralismo dei media». A ciò si

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Oxfam / ANSA MIGRAZIONI. Tra i temi trattati dal collettivo giornalistico anche la gestione dei fondi per il controllo delle frontiere in Europa.

aggiunge il problema dei finanziamenti pubblici dello Stato «assegnati a media di grandi o medie dimensioni», il crescente problema delle Slapp - le Strategic Lawsuits Against Public Participation, ovvero cause legali che «colpiscono giornalisti freelance, direttori di testate giornalistiche, scrittori citati in giudizio per diffamazione o presi di mira da politici locali e funzionari governativi di alto livello» e la retribuzione dei giornalisti. Secondo l’Autorità per la Garanzia nelle Comunicazioni, AGCOM, nel 2018, quindi in una situazione pre Covid, «il 78% dei giornalisti freelance guadagnava meno di 20mila euro all’anno».

Cosa accade all’estero. Altrove, tuttavia, non è così. In altri Paesi come Francia, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, lo Stato, gli editori e gli imprenditori scelgono di investire in giornalismo, fotografia e documentari di qualità perché investire in cultura garantisce un prestigio sociale, oltre che cittadini informati. E basterebbe vedere la qualità delle riviste - mensili, bimensili e semestrali - e la cura che è riposta nel prodotto, dagli articoli alla grafica, dalle fotografie alla carta. Lo stesso vale per la produzione di documentari - brevi e lunghi - trasmessi in prima serata sulle televisioni pubbliche francesi o tedesche. Nei Paesi Bassi, i media vengono finanziati da ben tre fondi pubblici: il Media Fund, il CoBo Fund e il Journalism Promotion Fund. E progetti giornalistici innovativi e collaborativi di inchiesta transnazionale come Lighthouse Reports - con cui anche FADA ha collaborato - ricevono persino una parte di fondi dalla Lotteria nazionale olandese.

Il momento storico di grande cambiamento che stiamo attraversando in questi anni ha bisogno di cittadini informati e, viceversa, di un’informazione che possa fornire loro gli strumenti per potersi orientare. Di meno talk show e più giornalismo di interesse pubblico. Per questo abbiamo bisogno di imprenditori ed editori visionari, ma anche di una comunità di redattori e lettori che cerchino notizie di qualità e che sappiano riconoscerle, pretenderle e sostenerle.

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All’estero si sceglie di investire in giornalismo, fotografia e documentari di qualità perché questo garantisce prestigio sociale a chi lo fa
In Italia la concentrazione della proprietà dei media persiste e rappresenta un rischio significativo per il pluralismo dell’informazione

LIGHTHOUSE REPORT

Lighthouse Reports si definisce una «redazione di giornalismo collaborativo». Nata nel 2019, ha sede ad Amsterdam ed è coordinata da uno staff di oltre 20 persone che collabora con i principali media del mondo. L’obiettivo è ideare e realizzare inchieste su temi di interesse pubblico, in particolare su migrazione, cambiamenti climatici e agricoltura sostenibile, conflitti, corruzione. Il progetto è volto a mettere in connessione e coordinare giornalisti esperti, freelance e reporter locali facendo sinergia tra risorse e competenze su obiettivi di indagine complessi e che richiedono lavoro di squadra. Lighthouse Reports non si definisce come una (ennesima) piattaforma di pubblicazione. «Il nostro obiettivo è fornire prodotti giornalistici originale per farli arrivare al più vasto pubblico possibile lavorando con le piattaforme esistenti e non facendo loro concorrenza» ha spiegato l’amministratore delegato Daniel Howden nel primo Report stilato nel 2020. «Per riuscirci, mettiamo a disposizione dei nostri giornalisti strumenti, esperti ed editor». In quattro anni le inchieste multimediali di Lighthouse hanno raggiunto 30 milioni di persone grazie a 100 media partnership. E la «redazione collaborativa» ha già vinto oltre 15 premi internazionali di giornalismo.

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Lighthouse Report

Il giornale per mettere i diritti al cuore dell’informazione

Quaranta collaboratori sparsi in Italia e nel mondo per denunciare le violazioni dei diritti umani e raccontare le storie di chi lotta per difenderli. Osservatorio Diritti è una testata che fa a meno della pubblicità. E che presto aprirà anche un centro studi

di Marco Ratti, direttore responsabile di Osservatorio Diritti

Il progetto più recente, il più impegnativo, riguarda lo sviluppo di una App sul consumo critico e la creazione di un centro studi in grado di valutare le aziende in base al rispetto dei diritti umani e dell’ambiente. Ma questo è solo l’ultimo passo del cammino di Osservatorio Diritti (OD), un percorso cominciato tra fine 2016 e inizio 2017 da un gruppo di giornalisti freelance che si incontravano in alcuni caffè di Milano. È in quel periodo, infatti, che è maturata l’idea di una testata che si occupasse esclusivamente di diritti umani. Di informazione al riguardo ne circolava (e ne circola) tantissima, ma con limiti evidenti, che ne bloccavano la diffusione tra il grande pubblico. Ad occuparsene, a parte alcuni centri universitari che mantenevano uno stile accademico, erano soprattutto ong, associazioni, organizzazioni informali e singoli, tutti spinti da forti motivazioni ideali e con l’obiettivo di portare avanti azioni a favore di chi non poteva ancora godere appieno di quei diritti. Ma mancava qualcuno che si impegnasse a farlo in maniera professionale, indipendente, approfondita e con continuità. E così, mentre i media mainstream guardavano a queste notizie con poco interesse e solo in occasione di fatti gravissimi, i giornalisti che hanno partecipato alla fondazione di OD hanno deciso che fosse importante colmare questo vuoto informativo.

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LAVORARE IN NETWORK/3
L’informazione legata a questi temi, se fatta in maniera indipendente e professionale, non è un argomento per soli addetti ai lavori

Il sito va online. Il 29 marzo 2017, grazie al lavoro di una quindicina di giornalisti, è andato online OsservatorioDiritti.it, la testata che negli anni è diventata il punto di riferimento per chi si interessa ai diritti umani. E il gruppo, nel tempo, è cresciuto sia da un punto di vista numerico, sia geografico: i collaboratori sono ormai una quarantina e, oltre che in Italia, vivono e scrivono da diversi Paesi dell’America Latina, dell’Europa centrale, dell’Asia e dell’Africa. Gli argomenti trattati – sempre con articoli di approfondimento piuttosto lunghi per il web (5-10 mila battute), così da fornire il contesto – sono tanti, anche se il taglio non cambia mai: denuncia di violazioni dei diritti umani e racconto dei difensori dei diritti. La sezione madre di tutto il sito è Diritti umani, elaborata ispirandosi alla Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. La sezione è suddivisa in: salute, lavoro, istruzione, ambiente, diritti civili, diritti sociali. Un’altra “colonna” di OD è la parte relativa alla Discriminazione: bambini, carcerati, donne, senza fissa dimora, Lgbt, minoranze, nomadi, persone con disabilità e popoli indigeni. Viene anche dato spazio a: Inchieste, Migranti, Conflitti (guerra, terrorismo e armi), Economia, Difensori dei diritti (ong, gruppi e movimenti sociali, campagne, organizzazioni internazionali, giustizia), Dossier, Cultura (cinema, libri, teatro). Le Idee sono tenute distinte dalle informazioni e in questa parte del sito rientrano blog, editoriali e interviste.

La scommessa su cui si fonda tutto il progetto, in sintesi, è questa: l’informazione legata ai diritti umani, se fatta in maniera indipendente e professionale (sia da un punto di vista dei contenuti, sia per quanto riguarda la Seo), non è un argomento per soli addetti ai lavori, ma è capace di interessare tanta gente.

Mancava qualcuno che coprisse questi ambiti in maniera professionale indipendente approfondita e con continuità L’Osservatorio cerca di avvicinare la vita delle vittime di violazioni dei diritti umani a quella dei lettori, e ha un impatto culturale che è difficile da misurare

L’impatto culturale e sociale. L’attività di Osservatorio Diritti, che cerca di avvicinare la vita delle vittime di violazioni dei diritti umani a quella dei lettori, ha un impatto culturale che è difficile da misurare. Ma nel corso degli anni ci sono state ricadute visibili, anche se in certi casi non è stato possibile darne conto nei dettagli. In un Paese africano,

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la pubblicazione di una serie di articoli ha contribuito in maniera determinante alla liberazione di due attivisti che erano stati arrestati dal regime. Alcuni pezzi sulla situazione di un Paese dell’Europa orientale di cui non si occupava alcuna testata sono stati presentati in un tribunale svizzero per sbloccare la richiesta dello status di rifugiato presentata da alcuni difensori dei diritti e già rifiutata in passato. Il fatto di essere indipendente e senza conflitti d’interesse (si veda più avanti), inoltre, ha permesso a Osservatorio Diritti di occuparsi di notizie che gli altri media non coprivano. Un esempio su tutti: OD ha seguito tutte le udienze del processo a Eni e Shell, accusate insieme ai loro vertici di corruzione internazionale per l’acquisizione della licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria (si ipotizzava una tangente da quasi 1,1 miliardi di dollari). Indipendentemente dalla conclusione del processo (sono stati tutti assolti), si trattava di un dibattimento di interesse pubblico, perché si ipotizzava il pagamento di una delle più

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CONFLITTI. Bakhmut, Ucraina orientale: una rilevante sezione di Osservatorio Diritti è dedicata ai conflitti in corso nel mondo. ANSA / ANP / Carlo Orlandi

MIGRANTI. La scena di uno sbarco nel porto di Catania nell’aprile scorso: Osservatorio Diritti ha un focus particolare sul tema delle migrazioni.

grandi tangenti della storia da parte di una società partecipata per circa il 30% dallo Stato italiano. Eppure le grandi testate si sono viste di rado.

La sostenibilità economica. Dal 2019

OD è edita dall’associazione non profit Osservatorio sui Diritti Umani ETS e non ospita pubblicità, se non molto sporadicamente e con criteri piuttosto restrittivi. Questa scelta è stata fatta per due ragioni. L’esperienza fatta nelle redazioni dei grandi giornali, innanzitutto, ha fatto toccare con mano ai fondatori di OD quanto le ragioni degli inserzionisti pesino sulla scelta delle informazioni da dare (e da non dare) e sul taglio dei pezzi, motivo per cui il gruppo, all’unanimità, ha scelto di mettere l’indipendenza davanti a tutto, pur sapendo di rinunciare in questo modo a una fonte d’entrata economi-

OD è edito dall’associazione non profit Osservatorio sui Diritti Umani ETS e non ospita pubblicità, se non molto sporadicamente e con criteri molto restrittivi

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ANSA/Orietta Scardino

Malgrado si sostenga senza pubblicità OD può vantare di aver raddoppiato il compenso dei collaboratori dalla sua nascita nel 2017 a oggi

ca potenzialmente rilevante. In secondo luogo, OD ha scelto di rifiutare la pubblicità di qualunque soggetto economico che opera, o che potrebbe agire, in violazione dei diritti umani. Un criterio molto stringente, dunque, che ha portato di fatto la testata a non ospitare alcuna inserzione negli ultimi anni. A distanza di tempo, questa scelta si è rivelata importante. E anche se richiede un impegno continuo per trovare i finanziamenti necessari ad andare avanti, Osservatorio Diritti può vantare di aver raddoppiato il compenso dei collaboratori dal 2017 a oggi (l’ultimo aumento risale a giugno 2022).

La sostenibilità economica dell’attività ordinaria dell’associazione è garantita quasi interamente dal sostegno di singoli donatori e associazioni non profit, soprattutto nel corso delle campagne di raccolta fondi. In questo modo, infatti, OD riesce a coprire tutti i costi relativi alla testata online (pagamento dei giornalisti, soprattutto, e servizi digitali), alla produzione e invio di due newsletter settimanali (una su Imprese e Diritti Umani, un’altra che riassume i contenuti del sito degli ultimi sette giorni) e alla pubblicazione di libri (i tre titoli editi dall’associazione dal 2019 a oggi sono: Immigrazione oltre i luoghi comuni. Venti bufale smontate un pezzo alla volta, per cominciare a parlarne sul serio; Coronavirus. Viaggio nelle periferie del mondo e Tracce indelebili. Storie di dieci attivisti che hanno cambiato il mondo).

In passato OD ha curato anche la sezione specifica sui diritti umani per altre testate giornalistiche.

Per realizzare progetti che richiedono una quantità di risorse maggiore, OD si è rivolto a enti di grandi dimensioni, scelti sempre con l’obiettivo di preservare l’indipendenza dell’informazione. In particolare, in questo momento l’associazione pubblica due podcast, entrambi finanziati in parte da Fondazione Cariplo. Uno è Diritti e Rovesci, che seleziona e racconta ogni giorno, in circa 5 minuti, notizie e approfondimenti sui diritti umani dall’Italia e dal resto del mondo. L’altro è Diritti al Cuore, che a settimane alterne, un sabato sì e un sabato no, porta l’ascoltatore a conoscere storie di lotta per la difesa dei diritti umani (ogni puntata dura una ventina di minuti).

A fine 2022, infine, l’associazione Osservatorio sui Diritti Uma-

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L’associazione pubblica due podcast finanziati da Fondazione Cariplo

ni ETS è stata ammessa nel Registro unico nazionale del terzo settore (Runts), il che le permette da quest’anno in avanti di ricevere il 5 per mille (il Codice Fiscale è 97843770153).

Il futuro: un’App per il consumo critico. Come accennato più sopra, da un paio d’anni l’associazione sta lavorando per porre le basi a un nuovo, ambizioso, progetto: quello di sviluppare un’App sul consumo critico, che valuterà le aziende in base al rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.

Lo scorso marzo, il Gruppo Banca Etica ha accettato di finanziarie una parte importante delle spese iniziali ed entro giugno 2024 si prevede la pubblicazione dell’applicazione.

Il progetto dell’App potrà essere realizzato grazie alla collaborazione con altre realtà. In Italia, infatti, OD ha trovato l’appoggio del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Pisa (quelli della Guida al consumo critico) e sta tuttora allargando il network. A livello internazionale, inoltre, l’associazione è entrata a far parte della rete messa in piedi da Ethical Consumer, un’organizzazione di Manchester, anch’essa formata perlopiù da giornalisti, che si occupa di questi temi dal 1989 e che aiuterà nella formazione dei ricercatori.

SINERGIE E SOSTEGNI

OD ha puntato sin dalla sua nascita alla collaborazione con altre realtà. All’interno del sito, per esempio, è ospitato il blog Umani Diritti, curato dal Master in Diritti Umani e Gestione dei Conflitti della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. E, per diverso tempo, OsservatorioDiritti.it ha condiviso i contenuti con Opera Mundi, una testata brasiliana. Fino all’arrivo della pandemia, inoltre, OD si è occupato di coordinare e realizzare gli interventi nelle scuole superiori di Milano insieme al Festival dei Diritti Umani, così da assolvere anche con altre modalità alla propria missione di diffusione della cultura dei diritti umani.

Per altre informazioni: segreteria@osservatoriodiritti.it

Per sostenere l’attività con una donazione: www.osservatoriodiritti.it/sostienici

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Citazioni Il cinico non è adatto a questo mestiere

La nostra professione non può essere esercitata al meglio da nessuno che sia cinico. Occorre distinguere: una cosa è essere scettici, realisti, prudenti. Questo è assolutamente necessario, altrimenti non si potrebbe fare giornalismo. Tutt'altra cosa è essere cinici, un atteggiamento incompatibile con la professione del giornalista. Il cinismo è un atteggiamento inumano, che allontana automaticamente dal nostro mestiere, almeno se lo si concepisce in modo serio. Naturalmente qui parliamo solo di grande giornalismo, che è l'unico di cui valga la pena occuparsi, non certo di quel cattivo modo di interpretarlo che vediamo di frequente. Nella mia vita ho incontrato centinaia di grandi, meravigliosi giornalisti, di diversi paesi e in epoche differenti. Nessuno di loro era un cinico. Al contrario, erano persone molto legate a ciò che stavano facendo, molto serie, in generale persone molto umane. Come sapete, ogni anno più di cento giornalisti vengono uccisi e varie centinaia vengono messe in prigione oppure torturate. In varie parti del mondo si tratta di una professione molto pericolosa. Chi decide di fare questo lavoro ed è disposto a pagarne il prezzo sulla propria pelle, con rischio e sofferenza, non può essere cinico

Ryszard Kapuścińsky

Tratto da Il cinico non è adatto a questo mestiere, conversazioni sul buon giornalismo

E/O 2002

www.odg.mi.it
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