3 minute read

A cosa serve a volte fare uno stage in un giornale online

Tre mesi di workshop retribuito per «eventuali futuri collaboratori». È la selezione fatta dal Post. Che racconta qualcosa sui bisogni dei lettori giovani, sugli aspiranti giornalisti, sui modi di fare innovazione nelle aziende editoriali e in generale sul giornalismo prossimo venturo.

di Francesco Gaeta

Advertisement

Il direttore: questa è una redazione di trentenni, ma se vuoi parlare a chi ne ha di meno è bene inserire gente ancora più giovane

L’annuncio diceva: «Ospitiamo stage per giovani tra i 20 e i 26 anni che vogliono imparare le cose che abbiamo imparato noi in vista di future eventuali collaborazioni». A pubblicarlo – marzo 2023 – era il Post, quotidiano online fondato e diretto da Luca Sofri. Non succede spesso nelle testate italiane che si cerchino nuovi collaboratori con un annuncio. In redazione sono arrivate 640 candidature. E alla fine di una selezione in quattro passaggi - lettera e curriculum; video di presentazione di due minuti; primo colloquio e secondo colloquio – da maggio sei stagisti hanno iniziato un workshop di tre mesi che «sarà retribuito e a tempo molto pieno, sarà dedicato alla formazione e si svolgerà in presenza a Milano». La notizia di uno stage come questo potrebbe sembrare poco rilevante, ma in realtà sottintende e rimanda ad alcune cose che riguardano il modo di fare giornali, e di fare innovazione nelle aziende dell’informazione. Il Post ha 13 anni di vita, oltre 60.000 abbonati e una redazione di 28 giornalisti assunti, con un’età media intorno ai 30 anni. Una redazione molto giovane se la si confronta con altre testate nazionali. Ma se l’obiettivo è «stare aderenti alla contemporaneità» per dirla con il suo direttore, cioè ambire a parlare a chi oggi ha 20 anni, occorre anticipare il ricambio generazionale. «Ci siamo chiesti che cosa dovrà essere questo giornale tra 5 e 10 anni e abbiamo deciso di inserire in redazione forze ancora più giovani». Dietro questo gruppo di «eventuali futuri collaboratori» ci sono percorsi e visioni internazionali. La metà di loro ha percorsi di studio o di lavoro all’estero, dal Medio Oriente all’Europa. Nei confronti dell’informazione italiana sembra esserci tra loro un filo rosso, per quanto attiene a difetti, mancanze e necessità. Andrea, laurea in Storia: «Ogni giorno sui nostri giornali c’è una crisi, uno scandalo. È una narrazione molto emotiva, in cui si perde il filo della storia ad ogni puntata». Elena, studi di Relazioni Internazionali: «Si da troppo per scontato, come se il lettore dovesse già conoscere le puntate precedenti». Ginevra, Scienze politiche a Parigi: «Trovi anche approssimazioni ed errori, un eccesso di aggettivazione, fatti e opinioni mescolati». Lorenzo, scuola di scrittura Holden di Torino: «Per me l’ideale è che l’autore svanisca come autore. Non che si metta in mostra». Emerge anche una insofferenza verso «un’idea eroica»espressione loro - del mestiere di giornalista. Ancora Ginevra: «Quello che serve è un giornalismo di ufficio, che metta in chiaro, dipani la matassa. Spiegare i meccanismi della società che il cittadino non ha il tempo di verificare in prima persona. Mi ha colpito, positivamente, sentirmi dire qui: non è importante che diciate “Ho sempre sognato di consumare le scarpe”. È un buon esercizio di antiretorica». Elena, un’esperienza di cooperazione internazionale in Libano: «Io non ho nulla in contrario all’andare sul posto, ma il vedere in prima persona deve dare un valore aggiunto al lettore, non è un atto dimostrativo». Ma in concreto di cosa è riempito questo «tempo molto pieno» di cui parla l’annuncio?

La prima linea di attività è sui prodotti. Ovvero: esercizi di scrittura, confezione di articoli o di alcune delle newsletter del Post. Elena: «Se devi dire “problema” qui impari che non serve dire “problematica”. Scrivere è un esercizio di sottrazione, di asciuttezza: evitare le frasi fatte, le metafore, contestualizzare sempre. Il lettore va aiutato a comprendere, non devi stupirlo o metterti in mostra». La seconda linea di formazione è su temi e fonti. A ognuno dei sei stagisti è stato assegnato un Paese, su cui creare una mappa di fonti per aree tematiche, in modo da mettersi in condizione di produrre contenuti. È un allenamento a comprendere cosa è rilevante in un contesto, e ciò a cui è necessario attingere per comprendere un dato, un fatto, un tema e spiegarlo ad altri. La terza linea sarà entrare nella produzione quotidiana del giornale. Ma con gradualità. «Per noi tutto questo è un investimento di tempo, energia e soldi» spiega Giulia Balducci, che è al Post dal primo giorno, coordina i social e ha partecipato con Luca Sofri al processo di selezione. La gran parte degli attuali giornalisti del Post è stata assunta dopo uno stage. «Ma erano training più operativi, forse anche più stressanti. Adesso vogliamo prenderci un filo di tempo in più. Quando noi abbiamo iniziato, qui al Post eravamo in sei, stavamo in un monolocale e davanti a noi avevamo enormi spazi di creatività. Oggi la redazione è fatta da 28 giornalisti, il giornale ha una sua identità precisa e riconosciuta, le cose da fare sono tantissime. Vogliamo consentire a chi arriva di avere più tempo per acclimatarsi al nostro modo di fare informazione - spiegare bene le cose - e metterli in condizione di dare qualcosa di proprio, di originale». Come diceva l’annuncio: «Il lavoro al Post ha criteri e inclinazioni giornalistiche che vogliamo condividere e affidare ad altre persone interessate al giornalismo contemporaneo: persone che abbiano la pazienza di studiare e imparare».

This article is from: