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C’è giornalismo oltre la cronaca: il caso IrpiMedia

Storia, metodi e obiettivi di «Investigative Reporting Project Italy»: un gruppo di reporter che riesce a finanziare, costruire e realizzare inchieste e approfondimenti investigativi su scala internazionale di Lorenzo

Bagnoli, co-direttore di IrpiMedia

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Ho cominciato a fare il giornalista nel 2011, dopo due anni di praticantato con la Scuola di Giornalismo all’Università Cattolica di Milano. Già allora si parlava di crisi della professione, si faceva fatica a trovare redazioni in cui svolgere gli stage curricolari, figuriamoci a lavorare. Dodici anni dopo, nonostante il tracollo delle vendite dei giornali nelle edicole, dal mio punto di osservazione vedo possibilità che si aprono, nonostante tutto. Le vedo all’interno dello spazio che insieme a un gruppo di colleghi abito dal 2012: quello del giornalismo collaborativo sostenuto da realtà non profit.

Un’associazione di promozione sociale nata nel 2012 entro il Global Investigative Journalism Network (GIJN)

IRPI, la nostra associazione, è un acronimo che sta per Investigative Reporting Project Italy. Formalmente è un’associazione di promozione sociale ed è nata nel 2012 nel solco dell’annuale edizione della conferenza internazionale della Global Investigative Journalism Network (GIJN), all’epoca uno dei pochi appuntamenti per connettere giornalisti d’inchiesta internazionali. In quegli anni erano pochi gli italiani a frequentarla. Da quel confronto con l’estero nacque l’idea di fondare un centro di giornalismo investigativo anche in Italia. Si tratta, nei fatti, di una struttura che aiuta i giornalisti a costruire inchieste, trovare finanziamenti, strumenti e competenze per svolgere il lavoro di ricerca.

Personalmente, non sapevo nemmeno cosa fosse la GIJN, né che esistessero occasioni del genere per incontrare colleghi e sviluppare possibili spunti d’inchiesta comuni. Ero un professionista fresco di tesserino con poca esperienza. Stavo cercando semplicemente nuove occasioni, da freelance, per misurarmi con il genere inchiesta, quando incappai in IRPI, quasi per caso. Feci domanda per entrare e mi accettarono.

IRPI 1.0. Per otto anni, IRPI ha svolto due missioni: la prima è stata creare occasioni per discutere, promuovere, formarsi e formare all’uso di tecniche di giornalismo investigativo; la seconda è stata produrre inchieste in collaborazione con altri gruppi internazionali, da pubblicare poi con testate italiane e straniere. Attraverso la partecipazione a bandi di sostegno per le inchieste o grazie a occasioni di collaborazione come fixer con giornali stranieri, è riuscita a garantire qualche finanziamento extra per il lavoro di ricerca dei suoi associati durante tutti gli anni di precariato senza rete. Il pagamento che può garantire una testata nazionale non giustifica diverse settimane di lavoro di un gruppo di più persone. Nonostante le difficoltà, è allora che abbiamo iniziato a costruire un nostro modello di produzione. “Nostro” fino a un certo punto, dato che si basa sulla Story-based inquiry, un approccio al giornalismo investigativo che si fonda su un punto: costruire un’ipotesi investigativa da continuare a sfidare (e modificare di conseguenza in base a quanto si è trovato) durante tutta la ricerca. Mafie italiane (anche all’estero), criminalità economica, traffici di beni e persone, infiltrazione russa nel tessuto economico italiano, reati ambientali, sono stati alcuni dei principali pilastri del nostro lavoro, che è sempre rimasto condiviso.

Il metodo è costruire un’ipotesi investigativa da continuare a sfidare e modificare durante tutta la ricerca in base a quanto si è trovato

Tra gli alti e bassi che caratterizzano la vita di qualunque associazione, stava però diventando ingestibile ritrovarsi perennemente impigliati negli stessi problemi che quotidianamente si trova a gestire un freelance. Il precariato sfianca e distrugge tanti progetti condivisi. Per fortuna non è stato il nostro caso.

Tra il 2018 e il 2019 c’è stata la svolta quando le prime fondazioni hanno cominciato a erogare dei fondi tali da sostenere la

Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP) è una piattaforma di giornalismo investigativo fondata in Olanda nel 2005 da due giornalisti, Drew Sullivan (nella foto) e Paul Radu, che stavano lavorando a inchieste che avevano molti tratti in comune. «Ci siamo resi conto che potevamo fare di più insieme che separatamente» ha raccontato Drew. «E che avremmo risparmiato denaro centralizzando alcuni dei costi come l’assicurazione, l’accesso a database commerciali, lo sviluppo di strumenti e persino la ricerca e la raccolta di fondi». Oggi la piattaforma conta oltre 150 giornalisti in 30 paesi e uno staff di data analyst, specialisti della sicurezza, tecnologi per consentire indagini collaborative e sicure basate sui dati. La risorsa principale è Aleph, una piattaforma di dati investigativi alimentata da un software proprietario attraverso la quale i giornalisti possono incrociare più di tre miliardi di record per collaborare tra diversi Paesi. OCCRP è in grado di produrre inchieste in tutte le aree del mondo, appoggiandosi a partner regionali tra cui Arab Reporters for Investigative Journalism (ARIJ), il Centro Latino Americano de Investigacion Periodistica (CLIP) e Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL).

Il cambio di passo è arrivato quando le fondazioni hanno cominciato a finanziare la struttura e non soltanto la produzione dei contenuti nostra struttura e non solo la produzione dei contenuti. È stato il primo passo verso la creazione di qualcosa di nuovo. È stata una fase delicata, che ha richiesto anni di avvicinamento al mondo delle fondazioni che sostengono il giornalismo, una realtà che ad oggi in Italia ancora non esiste (se non con rare eccezioni e per singoli progetti più che per entità). Ha richiesto molto tempo aggiungere alle competenze anche il saper parlare con un donor, imparare a presentare un budget, imparare a definire la progettualità e la scalabilità di un progetto. Competenze che nessuno di noi aveva ma che alla fine ci hanno portato a decidere di passare al livello successivo: avere una nostra testata.

Giornalismo seriale. IrpiMedia è andata online il 23 marzo 2020, dopo una fase di progettazione di circa sei mesi. La prima inchiesta collaborativa è stata The Nigerian Cartel, una serie sulle società petrolifere in Nigeria e sui loro collegamenti con la politica locale, realizzata insieme ai colleghi di Sahara Reporters. Prima era uscita un’anteprima: il racconto dell’omicidio di un collega slovacco, Jan Kuciak, e della sua fidanzata Martina Kušnírová, avvenuto nel 2018. Jan Kuciak era parte di un progetto d’inchiesta in cui eravamo coinvolti anche noi. Stavamo cercando insieme di identificare società agricole legate a cosche di ‘ndrangheta coinvolte in frodi per l’assegnazione di fondi europei per l’agricoltura. Inizialmente avevamo coperto il tema con La Repubblica. In seguito abbiamo poi continuato a collaborare con diverse testate nazionali e regionali. Non abbiamo mai avuto però esclusive con nessuno per mantenere appieno il controllo editoriale sulle nostre storie.

La prima inchiesta collaborativa è stata The Nigerian Cartel, una serie sulle società petrolifere in Nigeria

Applicare la metodologia delle nostre ricerche basate sulle ipotesi investigative ci ha permesso di allargare lo spazio del racconto: invece che dover costringere tutto in un pezzo solo, abbiamo iniziato a ragionare per episodi. Un filone di ricerca è diventato una serie; le infografiche, i disegni, le gallerie fotografiche, sono diventati mezzi per espandere le possibilità di lettura.

È venuto anche il podcast, pochi mesi dopo. Anche in questo caso, a seguito di un’esperienza maturata all’estero: nel mio caso, grazie a una borsa di studio dell’organizzazione The Ground Truth Project sulla destra identitaria italiana; nel caso dei colleghi Cecilia Anesi, Alessia Cerantola e Giulio Rubino grazie alla serie Verified sul carabiniere stupratore Dino Maglio. Nella nostra redazione ci sono cinque giornalisti “senior”, a cui spetta il compito di coordinare i progetti di ricerca. La squadra dei reporter junior è composta da altrettante persone. Ogni progetto ha un editor, che segue la fase di scrittura dell’intera serie e che verifica le note di cui è corredato ogni articolo per la verifica delle informazioni. Anche in questo percorso di organizzazione e struttura del lavoro abbiamo cercato di imparare dai colleghi che facevano lo stesso all’estero e

Nella nostra redazione ci sono cinque giornalisti “senior”, a cui spetta il compito di coordinare i progetti di ricerca stiamo cercando di formare al nostro interno persone che siano in grado di condurre un progetto giornalistico dalla ricerca dei finanziamenti fino all’ideazione di una serie di articoli.

Il centro di giornalismo investigativo al quale ci siamo ispirati inizialmente si chiama

Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP)

Cosa accade altrove. Il centro di giornalismo investigativo al quale ci siamo ispirati inizialmente si chiama Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP). Ha sede in Olanda ed è fondato da giornalisti americani. Oggi poggia su un’ampia rete di centri affiliati, compreso il nostro. Nel 2008 contava una dozzina di persone, oggi ha più di cento reporter e pubblica sia da solo, sia in collaborazione con testate. Ha realizzato due delle più importanti infrastrutture attraverso cui collaborare tra colleghi: una è Aleph, un database di database navigabile in cui sono messi assieme i dati raccolti durante la ricerca giornalistica (in parte è accessibile a tutti, in parte è “chiuso”). L’altro è la Wiki, un ambiente sicuro costruito come una sorta di Wikipedia dell’inchiesta dove si possono iniziare a condividere spunti e piste investigative. Oggi i centri così sono diversi. Per citare i più famosi, sempre in Olanda, è nato Lighthouse Report, un progetto che mette insieme giornalisti di varie redazioni - comprese quelle tradizionali - per seguire inchieste a medio-lungo termine. Lighthouse Report mette la capacità di coordinare, ricercare, sviluppare e mettere a disposizioni per tutti un materiale di ricerca. È una delle realtà che ha saputo meglio collaborare con ricercatori che analizzano immagini satellitari o profili social.

Forbidden Stories è una realtà francese che coordina progetti d’inchiesta transnazionali che partono sempre dall’omicidio di un giornalista o dalla sua incarcerazione. Paper Trail Media è invece la struttura co-fondata dai premi Pulitzer Frederik Obermaier e Bastian Obermayer, i giornalisti dai quali è partita l’inchiesta dei Panama Papers, per produrre inchieste, documentari e podcast di respiro internazionale dentro Der Spiegel e Zdf in Germania. E strutture del genere continuano a nascere, soprattutto in Europa, per cercare di superare i limiti e le difficoltà economiche delle redazioni tradizionali.

Il Global Investigative Journalism Network (GIJN) è un hub internazionale di reporter investigativi fondato a Copenhagen nel maggio 2003 che ha come obiettivo sostenere e rafforzare il giornalismo di inchiesta nel mondo. Al cuore di GIJN c’è un gruppo di associazioni e organizzazioni giornalistiche senza scopo di lucro: oggi sono 244 in 90 paesi. Per supportare i giornalisti che aderiscono, GIJN ha uno staff sparso in 24 paesi, lavora in una dozzina di lingue e fornisce ai giornalisti database di fonti, tecnologie e formazione per agevolarne e raffinarne il lavoro. Dal 2012, l’Help Desk GIJN ha risposto a oltre 15.000 richieste di assistenza da tutto il mondo su una vasta gamma di argomenti: dall’assistenza in luoghi di reporting a dati su temi specifici, dal finanziamento per progetti giornalistici alla consulenza su tecniche investigative. Ogni due anni, GIJN organizza e co-ospita la Global Investigative Journalism Conference.

Le sfide del futuro. Chiunque viva di giornalismo, a qualunque latitudine, ha in cima alle priorità il problema di essere sempre al limite della sostenibilità economica. Vale anche, se non di più, per chi deve attrarre donatori. Non saranno inserzioni pubblicitarie, né le copie vendute a fare il bilancio, ma “l’impatto”, una delle parole tabù all’interno del mondo non profit. Senza sensazionalismi, senza forzature e nella piena consapevolezza delle abitudini dei lettori, questo giornalismo fuori dalla cronaca deve tornare a servire, cioè a essere letto. Deve far capire a chi lo sostiene perché effettivamente contribuisce alla tenuta del dibattito pubblico e quindi alla democrazia. È un passaggio delicato, perché al di là dei soldi, richiede, per riuscire, visione.

Questo giornalismo fuori dalla cronaca deve tornare a servire, cioè a essere letto

In un contesto come quello di oggi, però, è difficile farcela da soli. Il nostro formato - pezzi lunghi e articolati - non è “mainstream”. E non è necessario che lo sia. In un ecosistema virtuoso delle informazioni, ogni attore occupa la sua casella, che poi coincide con quello che sa fare. Solo in questo sistema, dove le storie viaggiano e si raccontano con voci diverse e con punti di vista diversi, si torna a credere nel giornalismo come bene comune.

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