ATLAS MAGAZINE - MAGGIO 2023

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APPRENDIMENTO: disturbi specifici e altre neurodiversità

FUGA DI CERVELLI: un caso italiano o un caso globale? pag.

FAST FASHION: effimero desiderio o reale bisogno? pag. 24

BIMESTRALE N. 17 USCITA DEL 05/23
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pag.
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DIREZIONE:

Debora Bizzi

REDAZIONE:

Martina Campanelli

Simone Facchinetti

Mario Gnocchi

Sergio Grifoni

Margherita Ingoglia

Silvia Mariani

Leonardo Tiene

Davide Tremante

Michela Viola

ART DIRECTION E IMPAGINAZIONE GRAFICA:

Giuseppe Di Benedetto

Riscoprire la magia della fiaba tra maghi, streghe e personaggi fatati: dall’analisi del testo alla produzione

- Guida di italiano di classe 3 -

EDITORIA GREEN: LA LETTURA CHE FA BENE ANCHE AL PIANETA di Debora Bizzi

EDITORIALE
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Dalla nascita della nostra rivista, noi di Atlas Magazine - Il mondo sulle nostre spalle ci siamo posti l’obiettivo di raccontare ai nostri lettori le tematiche della sostenibilità e del green, del rispetto dell’ambiente che abitiamo e di come muoverci per rendere più sano il futuro del nostro Pianeta. “Vivere sano”, “Vivere sociale” e “Vivere sostenibile”, sono infatti i pilastri delle nostre argomentazioni; stili di vita che applichiamo quotidianamente e che, ci auspichiamo, applichino i nostri lettori (e non solo!).

Differenti consigli, informazioni, nozioni, per scoprire e far conoscere le varie sfaccettature del concetto di sostenibilità, indissolubilmente legato al concetto di green. Termine inglese che, nella sua accezione più ampia, viene impiegato oramai in tutto il mondo e in diversi aspetti per far riferimento ai temi legati alla salvaguardia dell’ambiente naturale e per attribuire a un’azione, un’attività o a uno status una connotazione che richiami i principi della sostenibilità ambientale.

Green Economy, Green Marketing, Green Procurement, Green Papers. Sono solo alcuni dei settori più noti ai quali viene associato il termine inglese. Un’iniziativa è green qualora promuova i principi del rispetto dell’ecosistema o la diffusione di pratiche sostenibili - definizione dall’enciclopedia online treccani.it.

Il termine, tradotto in italiano come “verde”, è un aggettivo impiegato, in sintesi, nell’ambito dell’ecologia (ecosostenibilità) con l’intento di assegnare - a oggetti, servizi o programmi - una connotazione ecologica e rispettosa dell’ambiente. Ciò vuol dire che viene considerato green tutto ciò che riduce l’impatto ambientale, rispetto ad un approccio classico o tradizionale.

Green viene spesso affiancato al termine sostenibilità. Due concetti chiave applicabili in qualsiasi situazione e per qualsiasi settore dell’economia. Il primo, oggi è spesso usato in riferimento a tutto ciò che riguarda l’ambiente, in tutti i settori; il secondo, include attività eco-compatibili e prodotti ecologici. Si tratta di un concetto molto vasto ma il termine sostenibile è precisamente definito e rappresenta l’ampio gruppo di problemi e attività che, secondo le Nazioni Unite, non compromettono la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni, è compatibile con le esigenze di salvaguardia delle risorse ambientali.

E, rimanendo in tema “Nazioni Unite”, non possiamo non ricordare che, nel 2015, i 193 Paesi Membri delle Nazioni Unite hanno stilato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: un programma d’azione in 17 obiettivi da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale. È anche all’interno di questo frame che si colloca la spinta verso l’editoria sostenibile, che vuole favorire l’espansione del settore riducendo al minimo il suo impatto sull’ambiente.

E noi di Atlas Magazine - Il mondo sulle nostre spalle abbiamo fatto di questo concetto la nostra forza, la nostra routine quotidiana, impegnandoci ogni giorno alla salvaguardia dell’ambiente, dalla scelta dei materiali, sia nella stampa che nella rilegatura dei libri, che negli imballaggi. Ma per noi la sostenibilità è data anche dalla riduzione degli sprechi, l’ottimizzazione delle tirature e della distribuzione su tutto il territorio nazionale, e, in termini di ecosostenibilità, ci impegniamo a favorire lo sviluppo dell’editoria digitale, promuovendo la diffusione delle pubblicazioni e delle letture digitali. Sollecitando modalità e dispositivi di lettura alternativi. Con l’obiettivo di far bene all’ambiente e, di conseguenza, a tutti noi.

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INDICE FUGA DI CERVELLI: UN CASO ITALIANO O UN CASO GLOBALE? 8 MANUTENZIONE IMPIANTI FOTOVOLTAICI 10 DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO E ALTRE NEURODIVERSITÀ 13 FILOSOFIA DEL VIVERE SOCIALE 16 RUBRICA - IMPIANTO TERMO-IDRAULICO: I CONSIGLI DELL’ESPERTO IMPIANTI DI ULTIMA GENERAZIONE PER RENDERE LE NOSTRE CASE PIÙ CONFORTEVOLI, VRF O IBRIDO? VEDIAMO DI FARE CHIAREZZA SUL CONFORT 17 RUBRICA - RAPPORTO UOMO-NATURA: UN VIAGGIO NELLA LETTERATURA 19 INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE DELL’AMBIENTE 22 IL LATO OSCURO DEL FAST FASHION: EFFIMERO DESIDERIO O REALE BISOGNO? 24 IL CARCIOFO: UN PERFETTO MIX TRA SALUTE E GUSTO 26 RUBRICA - PILLOLE DELL’AVVOCATO STRUMENTI NEGOZIALI DI REGOLAZIONE DELLA CRISI DI IMPRESA 29 L’IMPORTANZA DEL MARE E PERCHÉ PRESERVARLO 31 RUBRICA - DETTO TRA NOI... NON È PRO..FUMO 33 LEGENDA SANO SOSTENIBILE SOCIALE

FORMAZIONE PER

IL SUCCESSO MANAGERIALE

E PROFESSIONALE

• MIGLIORARE LE PERFORMANCE

AZIENDALI

• CRESCITA PERSONALE

• CRESCITA PROFESSIONALE

• CREDITI FORMATIVI

PROFESSIONALI

FUGA DI CERVELLI: UN CASO ITALIANO O UN CASO GLOBALE? di Leonardo Tiene

La cosiddetta “fuga di cervelli” è un fenomeno che prevede appunto il trasferimento dei cittadini dal paese natale alla ricerca di un lavoro o di un’istruzione al di fuori di esso per condizioni migliori o per motivi di dimensione personale.

Secondo la prospettiva superficiale che ci siamo fatti un po’ tutti, questo movimento sociale nasce per un’insoddisfazione di fondo in cui l’istituzione non è in grado di dare la giusta attenzione dei talenti in cerca di un lavoro appagante e con condizioni sostenibili.

Tranquilli, le ragioni sono anche altre, spesso legate alla fisiologia della società mondiale in cui viviamo.

INTANTO, SONO TUTTI “CERVELLI” QUELLI CHE FUGGONO?

Spesso si tende a generalizzare ma non tutti sono cervelli in fuga. Ci sono infatti molte menti che rendono lustro al nostro Paese così come ci sono soggetti che hanno bisogno della propria dimensione e sono disposti a spingersi oltre i confini. Quindi ci teniamo a precisare che la fuga di cervelli non è necessariamente un fenomeno negativo, non è spreco di risorse. In questo modo, ossia generalizzando, si sposta solo l’attenzione dal vero problema.

IN QUANTI LASCIANO IL NOSTRO PAESE

Prendendo direttamente dai dati dell’AIRE (Associazione degli italiani residenti all’estero), sono ben 6 milioni le persone ad aver lasciato il nostro paese (solo dal 2015), con una crescita costante del 2,2%. Un dato di fatto purtroppo che ci invita a far riflettere del perché questa voglia di uscire di “casa”.

IL

SOPRENDENTE DIVARIO

TRA NORD E SUD

Uno dei dati più importanti, e che vale la pena sottolineare (sempre forniti dall’AIRE) è sicuramente quello dell’esodo dal meridione, dove ad esempio nella provincia di Enna ogni anno ogni 1000 abitanti si registrano ben 523 persone all’AIRE; oppure ancora ad Agrigento dove ogni 1000 abitani sono 330 i registrati (dati 2022).

LE CITTÀ UNIVERSITARIE

Come dicevamo poche righe fa, ogni anno c’è un aumento di “cervelli in fuga” dal nostro paese, anche dalle città più popolose e universitarie quali Milano (+18%), Torino (+17,8%), Bologna (+26,3%), Firenze (+20,4%) e Venezia (+23,1%)! Questo ovviamente è per quanto riguarda le grandi metropoli italiane, nei luo-

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ghi meno popolosi la percentuale purtroppo aumenta, arrivando ad oltre il 40% come nel caso registrato da Mantova nel 2022.

DOVE SI VA DI BELLO?

A quanto pare le persone che hanno scelto di vivere all’estero hanno preferito ben 187 destinazioni diverse ma più del 78% hanno preferito rimanere entro i confini europei. Forse più che persone dovrei dire “giovani”, in quanto è stato registrato che ogni anno dal 2015 più di 50 mila ragazzi hanno preferito vivere all’estero e nel 2022 ogni 100 under 30, più di 10 hanno lasciato il Paese. Questo comporta anche perdite economiche che in termini di investimento si stimano ammontino a 14 MILIARDI di euro in fumo (fonte: London School of Economics).

I MOTIVI

Quindi, concludendo e snocciolando questi dati, come potremmo concludere? L’Italia non è un paese per giovani o per far sbocciare i nostri sogni così da realizzarci?

Beh, non è esattamente il paese più meritocratico del mondo per certi versi, con un peso fiscale alto (media OCSE del 34%, mentre noi siamo al 46% sullo stipendio lordo) e rende difficile vivere

bene in certe zone (Milano, ad esempio, ormai inarrestabile con l’aumento del costo della vita con uno stipendio non adeguatamente livellato). D’altro canto invece all’estero c’è un aumento dello stipendio sicuramente ma commisurato allo stile di vita quantomeno.

Ma se invece la fuga di cervelli non fosse solo un fenomeno legato all’insoddisfazione personale ma semplicemente anche fame di nuove esperienze? Assolutamente! La globalizzazione ha di certo cambiato il nostro modo di vedere il “giardino” fuori casa, non come qualcosa da vedere ma da scoprire.

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MANUTENZIONE IMPIANTI FOTOVOLTAICI di Margherita Ingoglia

Gli impianti fotovoltaici sono diventati sempre più popolari negli ultimi anni, grazie alla loro capacità di produrre energia pulita e rinnovabile, consentendo allo stesso tempo un notevole risparmio in bolletta a tantissime famiglie italiane. Tuttavia, per garantire il massimo rendimento e la massima durata nel tempo, è importante effettuare regolarmente la manutenzione degli impianti fotovoltaici.

La manutenzione degli impianti fotovoltaici consiste principalmente in controlli periodici e pulizie, in modo da garantire che i pannelli solari siano sempre in grado di convertire la luce del sole in energia elettrica in modo efficiente.

Il primo passo nella manutenzione degli impianti fotovoltaici è il controllo della produzione di energia. Ciò può essere fatto attraverso il monitoraggio dell’inverter, che converte l’energia elettrica prodotta dai pannelli solari in energia utilizzabile. Se l’inverter non funziona correttamente, la produzione di energia potrebbe essere ridotta o addirittura interrotta. In questo caso, è necessario chiamare un tecnico specializzato per effettuare la riparazione.

Inoltre, è importante controllare periodicamente lo stato dei pannelli solari stessi. È possibile che i pannelli siano danneggiati o

che ci sia uno sporco che ne limita la produzione di energia. In questo caso, è necessario pulire i pannelli con acqua e un detergente delicato o chiamare un professionista per eseguire la pulizia.

Un’altra parte importante della manutenzione degli impianti fotovoltaici è la verifica dei cavi e delle connessioni. Ciò include il controllo delle connessioni dei cavi, dei connettori e degli interruttori di sicurezza. Se queste parti non funzionano correttamente, l’impianto potrebbe non funzionare come previsto o addirittura essere pericoloso.

Infine, è importante controllare regolarmente la presenza di ombre sui pannelli solari. Anche le ombre più piccole possono ridurre la produzione di energia degli impianti fotovoltaici, quindi è importante posizionare i pannelli in un’area esposta alla luce solare diretta e senza ombre.

La manutenzione di un impianto fotovoltaico può essere eseguita in qualsiasi momento dell’anno, ma ci sono alcune considerazioni che potrebbero influire sulla scelta della stagione più adatta per la manutenzione.

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In generale, la stagione migliore per la manutenzione di un impianto fotovoltaico dipende dalle condizioni climatiche della regione in cui si trova l’impianto. Ad esempio, in alcune zone, le piogge autunnali o primaverili potrebbero essere la stagione migliore per la pulizia dei pannelli solari, poiché la pioggia può aiutare a rimuovere lo sporco e la polvere dai pannelli.

D’altra parte, in alcune regioni dove l’inverno può essere molto rigido, potrebbe essere meglio fare la manutenzione in primavera o in estate, quando le temperature sono più miti e il clima è meno inclemente.

Tuttavia, l’importante è che la manutenzione degli impianti fotovoltaici venga eseguita regolarmente, indipendentemente dalla stagione, al fine di garantire la massima produzione di energia e la massima durata dell’impianto.

In sintesi, la manutenzione degli impianti fotovoltaici è un processo importante, che garantisce numerosi vantaggi:

- Ottimizzazione in termini di produzione di energia: un’adeguata manutenzione dell’impianto fotovoltaico aiuta a mantenere i pannelli solari e l’inverter in ottime condizioni, garantendo una produzione di energia ottimale. Una manutenzione regolare consente inoltre di identificare e risolvere eventuali problemi prima che diventino più seri e compromettano la produzione di energia.

- Più vita all’impianto: una manutenzione regolare dell’impianto fotovoltaico contribuisce a prolungare la sua vita utile. Ciò significa che l’impianto sarà in grado di produrre energia rinnovabile

per molti anni a venire, garantendo un ritorno sull’investimento a lungo termine.

- Migliore sicurezza: una manutenzione regolare dell’impianto fotovoltaico consente di verificare la sicurezza del sistema. Ad esempio, i controlli periodici dei cavi e delle connessioni possono prevenire cortocircuiti o problemi elettrici che potrebbero compromettere la sicurezza dell’intero impianto.

- Risparmio di denaro: la manutenzione regolare dell’impianto fotovoltaico può aiutare a identificare eventuali problemi in tempo, prima che questi diventino più gravi e costosi da riparare. Inoltre, una produzione di energia ottimale consente di risparmiare sui costi dell’energia elettrica acquistata dalla rete nazionale.

ATTENZIONE

Una buona manutenzione deve e può essere svolta solamente da personale specializzato. Infatti, chi effettua interventi “fai da te” senza avere le giuste competenze, potrebbe, oltre che svolgere un lavoro superficiale, con scarsi risultati, causare addirittura danni all’impianto, o peggio, correre un vero e proprio rischio per la propria sicurezza e salute.

Per questo, si consiglia sempre di affidarsi a tecnici competenti e autorizzati, in grado di garantire il corretto funzionamento del sistema e la massima produzione di energia.

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DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO E ALTRE NEURODIVERSITÀ di Silvia Mariani

Idisturbi specifici dell’apprendimento si manifestano nel bambino nei primi anni della formazione scolastica, durante i quali egli presenta progressive difficoltà nell’apprendere le abilità di base, con conseguenti complicazioni in termini di rendimento e di relazioni sociali.

La caratteristica di tali disturbi è – per l’appunto – la “specificità”, in quanto la problematica non intacca il funzionamento intellettivo generale ma interessa un circoscritto campo di abilità indispensabili per l’apprendimento di una singola materia di studio. Nella categoria dei disturbi specifici dell’apprendimento rientrano principalmente la dislessia, la discalculia, la disgrafia e la disortografia.

Nel primo caso, la difficoltà che incontra il bambino attiene alla lettura, che non è accurata e/o fluente; sotto un profilo tecnico-scientifico, il bambino, in buona sostanza, non riesce a riconoscere le lettere dell’alfabeto, a fissare la corrispondenza fra segni grafici e suoni e ad automatizzare tale processo di conversione. La disortografia riguarda la componente costruttiva della scrittura, incontrando il bambino difficoltà a scrivere in modo corretto da un punto di vista ortografico, in quanto non riesce a tradurre correttamente i suoni in segni grafici né a individuare le regolarità o irregolarità ortografiche e il corretto ordine con cui questi elementi si compongono.

La disgrafia si riferisce, invece, alla difficoltà di realizzazione del segno grafico; il bambino non riesce a scrivere in modo fluido e

leggibile.

Infine, la discalculia implica lacune specifiche nelle operazioni con i numeri e con i calcoli e la difficoltà automatizzare alcuni meccanismi a essi inerenti.

Tutte le problematiche di ordine “pratico” che incontrano questi bambini sono, ad oggi, in realtà facilmente risolvibili attraverso percorsi mirati, finalizzati ad accettare tale diversità e a insegnargli una differente modalità di apprendimento, così da consentirgli di poter raggiungere lo stesso risultato mediante nuovi strumenti a loro disposizione.

La vera difficoltà – di ordine “relazionale-sociale” – emerge nel bambino in cui il disturbo dell’apprendimento non viene compreso.

Quando il bambino non ha un elevato rendimento scolastico per un simile deficit, risulta essere molto frustrato, spesso ribelle, con crisi di nervi o di ansia. In realtà, in questi casi sta solo dimostrando di essere molto scontento di sé per non essere in grado di fare meglio.

Soltanto quando quel bambino viene aiutato in un percorso al medesimo totalmente dedicato, riesce, poi, a trovare il suo posto nel mondo.

Del resto, anche essere mancini tempo fa non era accettato e le modalità di correzione (o presuntivamente tali) adottate al riguardo, facevano vivere nel bambino una disabilità inesistente, con l’evidente rischio di minare la sua autostima.

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Sotto tale ultimo profilo, però, si deve sottolineare che non è soltanto compito degli insegnanti e dei genitori individuare il problema e cercare di risolverlo per consentire al bambino di crescere con un buon livello di fiducia in se stesso, ma è dovere della società degli adulti accogliere quel bambino diventato grande. Fondamentale in merito a ciò, è l’impegno del mondo del lavoro nella cultura dell’inclusione di ogni genere di diversità, tra le quali non si può più rinunciare a ricomprendere le cc.dd. neurodiversità.

È ormai chiaro, dal punto di vista scientifico, che tra i soggetti neurodiversi rientrano non solo le persone che soffrono dei suddetti disturbi specifici dell’apprendimento, ma anche chi è affetto dalla sindrome di Tourette o dal disturbo da deficit di attenzione e iperattività (adhd) e, più in generale, tutte le persone che si posizionano nel variegato spettro autistico.

E la logica – a volte ossessiva – e l’estrema cura per i dettagli dei soggetti interessati dalle diverse forme di autismo non solo rappresentano valori che devono essere rispettati, ma sono anche degli strumenti redditizi per le aziende che scelgono di mettere in luce la diversa capacità di ragionamento di cui sono dotati. La redditività, poi, non va intesa solo in termini strettamente economici; certo, non investire in un Bill Gates, in uno Steve Jobs o in un Elon Musk (tutte persone nello spettro dell’autismo) o, ancora, in un Einstein (che mostrava chiari segni di dislessia), sarebbe un errore anche finanziariamente parlando, ma il valore aggiunto consisterebbe nel fatto che i manager che imparano a comunica-

re con i c.d. neurodiversi riescono ad avere un rapporto migliore anche con tutti gli altri colleghi c.d. neurotipici.

Ciò accade perché parlare con un neurodiverso implica avere un linguaggio più diretto, posto che il medesimo neurodiverso non riuscirebbe a capirne uno differente.

Andrebbero, dunque, rivisti anche i canoni standard legati alla valorizzazione delle cc.dd. soft skills che portano a preferire candidati che si mostrano sicuri di sé (con lo sguardo sempre dritto negli occhi del proprio interlocutore), in quanto inevitabilmente comportano l’esclusione di persone introverse, che non ragionando come neurotipici, finiscono per trovarsi di fronte a un muro insormontabile.

Il rischio è, allora, quello di perdersi tutta la bellezza che è al di fuori della nostra “comfort zone”, che potremmo apprezzare se, invece, tutti noi – prima ancora delle aziende – ci sforzassimo di superare quelle barriere mentali che ci obbligano a misurare le nostre performance fin dalla nascita, senza purtroppo considerare che è tutto ricondotto all’interno di una continua competizione. Se consideriamo lo sforzo immane che bambini e adulti neurodiversi fanno quotidianamente per relazionarsi con soggetti neurotipici e con il loro mondo, dovrebbe essere quasi scontato per questi ultimi imparare a relazionarsi con soggetti neurodiversi e con il loro mondo; ciò consentirebbe ai neurotipici di non perdere l’opportunità di conoscere persone che potrebbero cambiare la loro vita, migliorando – senza fare molto – quella dei neurodiversi.

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FILOSOFIA DEL VIVERE SOCIALE di Debora Bizzi

L’uomo è un animale sociale. Così Aristotele definì l’essere umano, in quanto capace di unirsi in gruppo e costituire una società, ovvero, un insieme organizzato di individui. La capacità di interagire con gli altri, il risultato delle cosiddette “abilità sociali”, è essenziale per l’essere umano. Queste ultime, sono così fondamentali da essere per la maggior parte automatiche, fuori dal controllo cosciente.

Fin dalla nascita delle prime comunità, infatti, gli uomini si sono riuniti in gruppi sociali per poter sopravvivere. Questa unione è stata possibile grazie a regole e modi di vivere comuni. Per poter vivere all’interno di una comunità è importante attenersi a quelle che sono le regole sociali della stessa. Regole comportamentali, così da mantenere un clima pacifico e sereno, così che ogni membro della società si senta al sicuro e protetto. E ciò fa bene sia al corpo che alla mente dell’individuo.

Oggi questo concetto è oramai assoluto in ogni essere umano e in ogni società. Ed è stato, in parte - e per certi versi - declinato alla “dimensione umana” dell’individuo. Al ben vivere sociale In salute, nel corpo e nello spirito. Per noi stessi e per il bene del prossimo. L’insegnamento che governa tutto il comportamento dell’individuo e lo indirizza al bene, dirige anche le azioni che sono rivolte alle altre persone, cioè le azioni che riguardano il vivere sociale - nell’accezione d’oggi. L’etica del ben vivere, in quanto il vivere bene consiste nell’agire bene.

E, come nell’antichità, la società si forma in vista del bene comune. Vivere in comunità e vivere civile. Ovvero rispettando gli altri e le regole che ci sono nella comunità, dei nostri governi.

Rispettando la cultura di riferimento. La convivenza civile è infatti la forma di vivere sociale tutelata da norme. Non rubare, non insultare il prossimo, non assalire le donne, non imbrattare né inquinare l’ambiente. Rispettando ciò che ci circonda: dal prossimo alla natura. Nella vita quotidiana, nel lavoro, nel rapporto con il prossimo, in tutto.

L’etica umana contribuisce infatti alla salvaguardia dell’ambiente. Onestà, produttività, atteggiamento positivo, rispetto, comunicazione e cooperazione, beneficenza, giustizia, ... Sono solo alcuni dei comportamenti etici, da adottare in differenti ambiti della nostra quotidianità. Esiste però, anche, una branca dell’etica legata ai comportamenti corretti per l’ambiente e per la sua salvaguardia. Si chiama etica ambientale. Ed è un comportamento ecologico per il bene comune. Rappresenta un settore dell’etica applicata ovvero della riflessione morale intorno ai problemi posti dagli sviluppi della tecnologia e della struttura economica della società industriale avanzata. Ha iniziato ad affermarsi di recente, agli inizi degli anni ‘70, e si fonda sui rapporti tra uomo e natura: la responsabilità dell’uomo verso l’ambiente in cui vive, il rispetto e l’utilizzo degli animali e del regno vegetale. E prevede pratiche e comportamenti di vario genere, nel rispetto della natura e del Pianeta che abitiamo, come ad esempio azioni per ridurre l’emissione di CO2 e l’impronta ambientale. Ridurre i consumi, i nostri spostamenti in auto, non sprecare energia elettrica, consumare meno carne e pesce, riciclare di più per produrre meno, utilizzare meno carta e meno prodotti di pulizia organica, scegliere prodotti biologici, ottimizzare i sistemi di raffreddamento e riscaldamento, consumare consapevolmente. Tutte piccole azioni per rispettare l’ambiente.

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IMPIANTO TERMO-IDRAULICO: I CONSIGLI DELL’ESPERTO di Mario Gnocchi

IMPIANTI DI ULTIMA GENERAZIONE PER RENDERE LE NOSTRE CASE

PIÙ CONFORTEVOLI, VRF O IBRIDO?

VEDIAMO DI FARE CHIAREZZA SUL CONFORT di Mario Gnocchi

Sono capitato su un blog di un autorevole azienda il cui core business è il riscaldamento, però da qualche tempo si occupa anche di condizionamento, interessante mi dico. È un blog aziendale, ho molta stima di questa realtà industriale ma dopo aver letto un secondo suo articolo, sempre in tema di condizionamento con VRF, ho sentito l’esigenza di chiarire alcuni aspetti tecnici, di evidenziare messaggi forvianti che saltuariamente sento affiorare nel quotidiano fare e disfare. Nel VRF il terminale (ad esempio fancoil) è direttamente collegato all’evaporatore della unità esterna. Nell’impianto Idronico il terminale non è direttamente collegato all’evaporatore ma esiste il fluido intermedio (l’acqua) che unisce i due. L’obiettivo di questo articolo non è screditare l’azienda che mi ha dato questo spunto ma di evidenziare quanto sia importante il marketing anche su tematiche apparentemente esclusive di competenze tecniche; vorrei far capire che quando le aziende con un buon marketing comunicano messaggi tecnicamente corretti, vengono conside-

rate autorevoli nel loro settore. Rispetto agli altri articoli, questo non è prevalentemente tecnico ma è assolutamente concreto. Il messaggio di marketing in questione propone una tecnologia migliore, basando tutto il messaggio su un concetto ovvero che la loro tecnologia “ottiene impianti con il comfort”; nello specifico evidenzia la tecnologia di climatizzazione VRF come migliore della tecnologia IDRONICA in quanto la prima prometterebbe un miglior comfort della seconda. Ci tengo a chiarire in modo fermo e deciso che per onestà intellettuale non tifo per il VRF rispetto all’Idronico e nemmeno viceversa, voglio dire che la mia non è una presa di posizione a favore dell’Idronico o a favore del VRF è una presa di posizione sulle Leggi della Termodinamica, che sono Leggi e non sono come si vorrebbe; mi schiero dalla parte degli impianti progettati grazie alle tecnologie che da sole non potrebbero ottenere il comfort. Nelle prossime righe non andrò a dire che una tecnologia è migliore dell’altra perché non è vero; io andrò a dire che l’equazione: ”il VRF è migliore dell’IDRONI-

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CO perché migliora il comfort è falsa”. Parlare di comfort significa avere chiaro la normativa UNI EN 7730 e la sua comprensione non è come una passeggiata al parco, non voglio qui spiegare la normativa sopra citata ma sicuramente voglio dare qualche flash in modo da chiarire come il comfort non risieda solo nella tecnologia ma nel progetto ovvero nelle scelte e nei dimensionamenti del progettista. Al comfort si arriva per passi successivi: quanto bello e semplice sarebbe se con una sola tecnologia si potesse raggiungere il comfort (e già che ci siamo il risparmio energetico)! Parlare di comfort significa tirare in gioco gli studi di Fanger e soprattutto controllare tutti quei parametri che fanno aumentare il punteggio ad un ambiente con buon comfort, uno ad esempio è la velocità dell’aria che le persone percepiscono in ambiente (ambienti trattati bassa velocità ottengono maggior numero di persone soddisfatte). Mi sto sforzando di non parlare della normativa però hai già capito che al nostro corpo quando è in un ambiente (ambiente confinato), poco gli importa se dentro ai tubi dell’impianto circola gas refrigerante o acqua, lo dico in maniera diversa, al nostro corpo poco gli importa se l’impianto è VRF o Idronico. Soluzione di PDC a gas (GHP) che consente di ottenere impianti VRF ma anche Idronici e anche soluzioni ibride Idroniche e VRF. Per quasi 20 anni ho approfondito molto il tema degli impianti radianti (a pavimento) e per questa tipologia di terminale posso tranquillamente dire che, se ben progettati, possono migliorare il comfort. Penso che il VRF sia una delle tecnologie che si possono scegliere per realizzare gli impianti di condizionamento e riscaldamento, sono impianti eccezionali, così come lo sono gli impianti Idronici, io stesso progetto impianti VRF con molta soddisfazione come anche progetto impianti Idronici con altrettanta soddisfazione; ogni giorno scelgo impianti con una o l’altra tecnologia e sono convinto che sia soprattutto l’attenta scelta dei parametri di funzionamento dei terminali (siano essi ad acqua o a gas refrigerante) e la loro collocazione contestualizzando l’ambiente da trattare a rendere un accettabile comfort (temperatura, umidità ecc. ecc.) sia nel caso VRF che nel caso Idronico. Aggiungo che il VRF oggi ha soluzioni molto interessanti che si prestano ad ottenere impianti Idronici partendo da una tecnolo-

gia ad espansione diretta ed esistono pure soluzioni ibride che sfruttano il VRF in abbinamento al gas metano. Soluzione ibrida VRF e caldaia. Senza scendere in tecnicismi, il terminale Idronico e il terminale VRF raffredda l’aria allo stesso modo; poi l’aria raffredderà l’ambiente per convezione; l’aria che si è raffreddata attraversando la batteria del terminale (Idronico o VRF che sia) a cosa gli importa se la batteria era fredda perché c’era dell’acqua refrigerata (impianto Idronico) o del gas refrigerante (VRF)? All’aria non interessa chi raffredda la batteria del terminale, all’aria interessa che la batteria sia fredda in modo da potersi raffreddare. L’impianto Idronico utilizza acqua come fluido vettore, l’impianto VRF utilizza gas refrigerante come fluido vettore. L’aria attraversa la batteria del terminale (ad esempio il fancoil) e così facendo si raffredda, punto. Ho molto rispetto del marketing, penso che sia determinante per la comunicazione e quando ben fatto è la cosa più stupefacente che ci sia perché riesce a comunicare concetti complessi in modo semplice. Spero che questo articolo possa essere letto e compreso da molti operatori del settore e privati in modo che davanti ad una scelta su quale impianto sia meglio, tenga presente che ogni soluzione ha pregi e difetti (soprattutto il test a livello epidermico dell’utilizzatore) e che la tecnologia scelta (VRF o Idronico che sia) non potrà da sola raggiungere il comfort ma sarà la sua sinergia con altri fattori progettuali a ottenere un ambiente confortevole. Soprattutto spero che questo articolo sia letto anche dalle aziende che del marketing riconoscono l’importanza per avere autorevolezza in un mercato in cui l’aspetto tecnico è preponderante rispetto l’aspetto emozionale.

La nostra missione ci spinge ad agire con ostinazione nel dare soprattutto chiarezza ai nostri clienti. E resta che a prescindere da quale sia la natura del sistema (VRF o Idronico) un generatore termico a combustione in supporto lo suggerisco sempre. Mentre ai fini del risparmio sulle spese di gestione per l’energia questi impianti trovano il massimo riscontro se paralleli ad un impianto fotovoltaico, almeno questo per il confort economico è un dato di fatto!

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RAPPORTO UOMO-NATURA: UN VIAGGIO NELLA LETTERATURA di Martina Campanelli

La dicotomia uomo-natura è stata, fin dagli albori della società, argomento di produzione letteraria.

La descrizione della natura da parte del poeta ha quasi sempre avuto un obiettivo che va al di la della descrizione di spazi ed ambienti che fanno da sfondo alle vicende umane.

L’elemento naturale può divenire espressione dello stato d’animo del personaggio protagonista o dell’autore, può rappresentare un’immagine dell’ordine provvidenziale che governa il mondo o essere manifestazione della fredda legge imperturbabile alla sofferenza e fragilità dell’essere umano.

Nella tradizione classica, attraverso la creazione di un’intricata cosmogonia, le civiltà greche sono le prime a trasformare in Dei gli elementi dell’ambiente: la Terra diventa Gea, il mare Poseidone, il vento Eolo. Nella mitologia greca la Natura è descritta tramite un processo di personificazione secondo cui i vari elementi sono creature divine che interagiscono tra loro e che determinano la varietà degli aspetti naturali e la loro incidenza sulla vita degli uomini. Nel mondo greco chiunque ha piena coscienza che la realtà non è fine a se stessa ma segno di un rapporto con il divino e contenente un messaggio per l’uomo; la natura è mezzo di comunicazione tra uomo e divinità ad esempio l’abbondanza

dei raccolti è premio per la sua fede mentre le carestie punizione per cattive condotte. Per portare un esempio letterario nell’Iliade la pestilenza che si abbatte sugli Achei viene interpretata come punizione di Apollo per l’affronto di Agamennone nei confronti di Crise, uno dei suoi sacerdoti.

Nella Grecia classica Esiodo con il suo poema “Le opere e i giorni” introduce l’idea che l’uomo, con il suo lavoro, l’impegno e la fatica possa trasformare la Natura a suo vantaggio attraverso la coltivazione, per produrre quanto a lui utile. In questo spirito diventano importanti gli astri, personaggi mitologici mutati in stelle o costellazioni che scandiscono il succedersi delle occupazioni agricole secondo le stagioni.

È in questo periodo storico che si afferma il primo rapporto tra individuo e natura con Saffo; se in Omero la natura esiste per intermediazione degli dei che creano cielo e terra, monti e isole, Saffo compie una rivoluzione anche nel rapporto uomo/natura. Potremmo definire Saffo una poetessa sovversiva perché cambia la percezione che l’uomo ha, non solo dell’amore, ma anche della natura.

La natura saffica viene infatti attraversata dallo sguardo umano come un’alterità rispetto all’uomo e non come creazione umana

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né divina, quindi la poetessa si perde nella natura attraverso la contemplazione e riflette in essa i suoi stati di animo di gioia, entusiasmo o malinconia.

Anticipa dunque la lirica moderna, specie leopardiana e romantica, in cui la natura diventa specchio dei sentimenti umani e assume così una dimensione lirica e universale.

Alla tradizione greca deve sicuramente molto quella latina, creatrice con Virgilio del topos del “locus amoenus”, un paradiso naturale dove regnano solamente bellezza ed armonia; il paesaggio virgiliano non si riduce tuttavia mai a sfondo convenzionale ma è espressione di sentimenti soggettivi e di reinterpretazione della natura.

Essa non è concepita diversamente dall’uomo ma ne condivide i sentimenti e le sofferenze: come già avveniva in Lucrezio, la natura subisce un processo di umanizzazione che diverrà poi una costante di tutta la poesia bucolica in genere, da Petrarca a Leopardi. Elemento centrale di tale procedimento è il pathos, che travalica la sfera umana per coinvolgere il mondo degli animali e persino delle piante. Un esempio tipico viene dal passo del libro II dove si parla della potatura delle viti: il buon agricoltore, nel compiere l’operazione, dovrà evitare di toccare le fronde quando la loro età è ancora tenera poi, quando saranno cresciute e avranno abbracciato gli olmi, allora potrà tagliare loro le “braccia” che prima temono il ferro. Alla pianta vengono attribuiti non solo caratteri

fisici umani come le braccia, ma vengono utilizzati anche termini che indicano la crescita e lo stato psicologico tipico dell’uomo (il timore del ferro, del tutto simile a quello che una persona può provare davanti a una spada che minaccia di ucciderlo).

La svolta avviene tutta via con il Cristianesimo; la Natura viene vista in una dimensione nuova, in quanto frutto della creazione divina, concessa per generosità da Dio agli uomini come luogo di vita dopo la caduta conseguente al peccato originale, habitat da cui raccogliere i frutti, ma anche da far prosperare con il lavoro e la fatica personale. Tra i vari elementi della Natura con il Cristianesimo assume una valenza particolarmente forte l’acqua, vista come occasione di purificazione in rapporto al rito del battesimo, con la conseguenza di valorizzare anche i fiumi.

Nei secoli del Medioevo le conoscenze della natura sono scarse e limitate e la sua percezione è piuttosto generica, come possiamo vedere dal Cantico delle creature di San Francesco, in cui la flora è del tutto indeterminata, mentre gli elementi della Natura (il Sole, la Luna, l’acqua) vengono percepiti solo come oggetti della creazione divina.

Il Romanticismo e la natura sono collegati perché gli artisti e i filosofi del periodo romantico hanno sottolineato la gloria e la bellezza della natura e il potere del mondo naturale. Alcuni studiosi di romanticismo ritengono che i romantici trattassero la natura in modo quasi religioso. Le ragioni per lo sviluppo di questo

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forte legame tra natura e romanticismo includono la rivoluzione industriale, che ha portato molte persone a lasciare le aree rurali e vivere in città, separate dal mondo naturale. Inoltre, durante i secoli XVIII e XIX, quando il romanticismo era popolare, vaste aree della natura selvaggia europea e nordamericana erano state addomesticate, così che era diventato generalmente molto più sicuro per le persone viaggiare in queste aree e osservare le loro meraviglie naturali. Molti artisti, scrittori e filosofi romantici credono nel mondo naturale come fonte di emozioni e idee salutari; al contrario, l’emergente mondo urbano e industrializzato è stato spesso descritto come una fonte di emozioni, morali e pensieri malsani.

Il punto nodale della nostra tradizione poetica è indubbiamente rappresentato nell’Ottocento dalla poesia del Leopardi che propone una visione sistematica della Natura, con la sua teoria della Natura matrigna, di derivazione classica, a cui arriva attraverso le varie fasi del suo pessimismo, che da storico ed individuale diventa cosmico (dall’Ultimo canto di Saffo al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).

La ginestra che si trova sul vulcano ed abbellisce questa zona arida è gentile, in opposizione alla minaccia del vulcano; essa rappresenta la pietà verso la sofferenza degli esseri perseguitati dalla natura. Diventa un messaggio di solidarietà per tutti gli uomini che non possono fare altro che allearsi in una catena sociale e costruire una rete di solidarietà e reciproco soccorso. Con questa catena sociale l’uomo potrebbe garantire una società più giusta e può essere confortato dai suoi simili quando la natura si ritorcerà contro di lui, cosa che inevitabilmente accadrà. Il Novecento è inevitabilmente scosso da due conflitti mondiali che stravolgono la concezione stessa di vita, ma anche di natura.

Essa per alcuni è malvagia e noncurante dei suoi figli, per altri invece come Calvino, diventa santuario e luogo di protezione per la resistenza e gli ideali di libertà. Scrive: ”La Natura non è più il romantico repertorio dei simboli del mondo interiore del poeta, è qualcosa che è prima e dopo e dappertutto, che l’uomo non può modificare ma solo cercare di capire, con la scienza o la poesia, e d’esserne all’ altezza”

L’eredità romantica, che si basa sulla partecipazione emotiva allo spettacolo e forme della natura, si confronta all’inizio del nuovo secolo con una lettura disincantata dello scenario ambientale con una crisi che nasce dall’ incapacità di vedere e che corrisponde alla trasformazione del mondo di fronte al soggetto, soprattutto in epoca di intensa industrializzazione. La natura offre ancora, in casi isolati, uno spettacolo da contemplare, un’immagine di vita armoniosa ed operosa, come nel romanzo “Guerra e Pace” di Tolstoj, riprendendo un motivo campestre già celebrato nella classicità.

Lo studio del paesaggio letterario riguarda quindi la codificazione del mondo esterno all’ interno di un quadro culturale, ma anche la percezione che il soggetto ha di sé al suo interno e i rapporti tra questi due elementi, tra io e natura.

Di questo mondo, che è per l’uomo sia uno «spettacolo» da ammirare e da capire sia “spazio teatrale” nel quale presentarci per interpretare il nostro ruolo di attori, secondo l’intuizione di Calderón de la Barca; l’uomo si è interrogato sin dall’inizio del suo trovarsi “dentro” di esso, cercando di capire le leggi che ne regolano i meccanismi, per riuscire, in definitiva, a capire se stesso, come parte del mondo e come artefice principale delle trasformazioni che si operano in esso.

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INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE DEL DIRITTO

INTERNAZIONALE DELL’AMBIENTE di Silvia Mariani

L’introduzione del diritto internazionale dell’ambiente è un fatto relativamente recente.

Soltanto alla fine degli anni ’60 del 1900, invero, sono stati adottati i primi trattati sul tema.

Rilevante, sotto tale profilo, è la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1962 che afferma il principio della sovranità permanente degli Stati sulle proprie risorse naturali ed evidenzia, al contempo, come si stesse rapidamente diffondendo anche il principio della responsabilità internazionale per danni ambientali transfrontalieri.

Un maggiore approfondimento della questione ambientale da parte delle Nazioni Unite prende avvio in occasione del grave incidente della petroliera liberiana Torrey Canion, avvenuto nel 1967.

Qualche anno dopo, infatti, molti Stati (appartenenti all’ONU e non), unitamente a diverse agenzie specializzate e organizzazioni internazionali, partecipano alla Conferenza sull’ambiente umano, tenutasi nel 1972 a Stoccolma, in seno alla quale nasce l’UNEP, ossia la prima struttura internazionale dell’ONU dotata di compe-

tenze ambientali.

Tra le dichiarazioni di principio della Conferenza di Stoccolma spiccano per importanza, in particolare, il Principio 21 (in base al quale gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse, secondo le proprie politiche ambientali e, allo stesso tempo, il dovere di impedire che le attività svolte sotto il proprio controllo arrechino danni all’ambiente di altri Stati o comunque a spazi non sottoposti alla sovranità di alcuno Stato) e il Principio 23 (secondo cui l’applicazione di standards ambientali non deve necessariamente essere omogenea, ma deve tener conto delle differenze tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo).

Le iniziative e le attività in materia di tutela dell’ambiente sono andate moltiplicandosi dopo la Conferenza di Stoccolma, soprattutto ad opera e per merito dell’UNEP.

Una terza fase di maggiore interesse verso le tematiche ambientali inizia nel 1992 con la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro che si conclude con l’elaborazione di tre documenti: la Dichiarazione di principi su ambiente e sviluppo (c.d. Dichiarazione di Rio), l’Agenda 21 (che contiene un Programma d’azione

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globale) e la Dichiarazione di principi sulle foreste.

Nella Dichiarazione di Rio viene affermato come principale obiettivo quello dello sviluppo sostenibile, già introdotto, in realtà, con il Rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future), attraverso il quale sia possibile soddisfare le esigenze delle generazioni presenti senza compromettere quelle delle generazioni future.

La Dichiarazione di Rio non contiene, a ben vedere, una definizione generale di sviluppo sostenibile, ma elenca una serie di principi volti a precisarne il contenuto, tra cui il principio di equità intergenerazionale, il principio di precauzione e il principio di prevenzione dell’inquinamento transfrontaliero.

Ma con la Conferenza di Rio viene anche consacrato il legame inscindibile tra protezione ambientale e crescita economica, nella acquisita consapevolezza che i due criteri sono imprescindibilmente legati e che, per fare in modo che entrambi possano svilupparsi, è necessario uno sforzo di solidarietà internazionale. Infatti, la Dichiarazione di Rio considera la particolare posizione dei Paesi in via di sviluppo e introduce il principio della responsabilità comune ma differenziata, in considerazione di differenti bisogni, possibilità e obiettivi.

Nell’ambito della Agenda 21 è stata, invece, prevista la creazione

della Commissione per lo sviluppo sostenibile (c.d. CSD), quale organo ausiliario dell’ECOSOL, con l’obiettivo di monitorare e verificare i progressi nell’attuazione dell’Agenda 21 ed elaborare raccomandazioni.

In poco tempo, però, sono emerse difficoltà di numerosi Stati nel rispettare gli impegni di Rio e, perciò, l’Assemblea Generale ha organizzato il “Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile” di Johannesburg, tenutosi nel 2002, al fine di individuare azioni e risultati concreti sul tema.

Infine, un cenno merita la Conferenza di Rio del 2012 (c.d. Conferenza di Rio+20) la quale, pur suscitando interesse e condivisione, non è riuscita a produrre l’effetto di impegnare concretamente gli Stati partecipanti, limitandosi a rinnovare la concentrazione della politica sullo sviluppo sostenibile, cercando comunque di veicolare gli sforzi già fatti dai governi e dall’intera società civile verso obiettivi comuni e nuove sfide da affrontare.

La Conferenza di Rio+20 si è infatti conclusa con un documento di natura principalmente programmatica (“The Future We Want”) che, in ogni caso, rappresenta un serio tentativo di avviare processi internazionali e nazionali su temi considerati cruciali per il futuro del Pianeta.

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IL LATO OSCURO DEL FAST FASHION: EFFIMERO DESIDERIO O REALE BISOGNO? di Michela Viola

Èormai fatto noto come l’industria della moda sia una delle più inquinanti al mondo.

Le principali problematiche legate a questo settore riguardano il consumo di risorse naturali, quali acqua ed energia, oltre alla dipendenza da fattori chimici, utilizzati per lavorare i tessuti dei capi che indossiamo quotidianamente, capi che necessitano infatti di una grande quantità di acqua per essere prodotti e che vengono poi trattati con sostanze chimiche tossiche altamente inquinanti.

Dati alla mano: l’industria tessile immette nell’aria tra il 4% e il 15% di emissioni globali di CO2 ogni anno, e il 75% dei tessuti è composto da materiali derivati dal petrolio (fonte: https://www.repubblica.it/green-and-blue/2023/03/31/news/industria_moda_ sostenibilita_fast_fashion-391150356/).

Il problema ambientale legato al settore della moda, si è aggravato esponenzialmente negli ultimi anni con l’affermarsi del fast fashion, fenomeno che sta diventando sempre più diffuso in tutto il mondo.

FAST FASHION

Fast fashion è un termine inglese utilizzato per indicare quella parte della vendita al dettaglio di abbigliamento che produce vestiti a basso prezzo, ma allo stesso tempo di bassa qualità, con produzione costante e veloce di collezioni sempre nuove, realizzate per soddisfare e rinnovare continuamente la domanda del mercato.

Conseguenza di ciò è un aumento smisurato dell’acquisto di capi di abbigliamento, spesso dettato non da reale necessità ma dal fascino del basso prezzo e dalla voglia di essere in linea con i nuovi trend del momento.

Se quindi da un lato il fast fashion ha portato a una “democratizzazione” della moda, con le ultime tendenze sempre disponibili e alla portata di tutti, dall’altro lato la scarsa qualità dei vestiti che ne “giustifica” il basso prezzo di vendita, incide anche sulla durevolezza del capo, causando grandi sprechi di risorse ed energia e la produzione di grandi quantità di scarti, difficilmente biodegra-

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dabili, e che se non correttamente smaltiti, sono causa di inquinamento ambientale e atmosferico.

DISCARICHE A CIELO APERTO DEL FAST FASHION

Esempio eclatante in tal senso è il deserto di Atacama, in Cile, che non a caso, è stato definito “discarica mondiale del fast fashion”, che raccoglie in sé circa 39mila tonnellate di vestiti. (fonte: https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/11/30/news/ deserto_atacama_discarica_vestiti_fast_fashion-328314029/ ), destinazione finale del breve ciclo di vita di questi capi le cui spese di smaltimento sono troppo alte rispetto alla bassa qualità che ne giustifica gli scarsi costi di produzione.

processi di produzione e cercando di utilizzare materiali sostenibili. Tuttavia, il cambiamento richiede i suoi tempi e ci sono molte aziende che ancora non rispettano i principi di sostenibilità nella produzione dei vestiti.

Emerge sempre più la necessità di definire nuove politiche, norme e strumenti necessari per garantire la salvaguardia dell’ambiente e della salute dei consumatori, pur preservando la competitività dell’industria del settore moda.

In un’inchiesta denominata “Trashion” (dall’unione dei termini trash, spazzatura, e fashion, moda), inchiesta realizzata da Wildlight per Changing Markets Foundation, viene lanciato l’allarme sulla dipendenza dell’industria fast fashion da tessuti in plastica a basso costo per la produzione di abiti che non sono pensati per essere riciclati ma secondo la logica di “usa e getta”.

La Convenzione di Basilea del 2019, principale trattato internazionale per la regolamentazione del movimento di rifiuti pericolosi, vieta infatti l’esportazione di rifiuti in plastica, ma non di indumenti realizzati con fibre sintetiche, che di fatto sono plastica a tutti gli effetti.

Secondo Trashion, due sono i punti salienti:

- i marchi dovrebbero essere obbligati a pagare per i rifiuti che producono

- l’abbigliamento deve essere reso sostenibile a partire già dalla fase di progettazione

Altro esempio si trova in Kenya con Dandora, grande discarica tessile localizzata nella periferia di Nairobi, che riceve quotidianamente circa 4mila capi di abbigliamento, o 4mila mitumba, termine keniano traducibile con “abiti morti dell’uomo bianco”.

La Commissione Europea sembra che si stia muovendo in tal senso, considerando l’ipotesi di mettere in atto un sistema di Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) per promuovere la sostenibilità dei tessuti e il trattamento dei rifiuti.

È sempre più necessario che venga applicato il principio del “chi inquina paga”, in modo da rendere i produttori più responsabili sulla gestione e sul costo del trattamento a fine vita dei capi che immettono sul mercato.

Normative a parte, il consumatore è colui che può fare la differenza per porre fine a questi meccanismi.

Come? Acquistando meno e con cognizione di causa!

Se il consumo diminuisce, diminuirà anche la produzione, e di conseguenza anche i rifiuti di scarto.

Oltre a questo, altre best practice sono:

- prestare attenzione alla qualità del tessuto, indice di probabile durevolezza del capo che contribuisce a ridurre l’inquinamento ambientale;

- prediligere tessuti eco-sostenibili, costituiti da fibre tessili ecologiche, come per esempio il cotone biologico;

Tutto questo è il triste risultato di un’industria della moda incentrata prettamente sul profitto, che propone continuamente sul mercato, grazie ad abili operazioni di marketing supportate spesso da influencer, nuove collezioni a prezzi invoglianti pensate per essere comprate e durare poco, ma di scarsa qualità, il cui fine ultimo è quello di soddisfare il desiderio di essere all’ultima moda.

VERSO UNA LEGGE EUROPEA?

L’industria tessile sta cercando di fare passi in avanti per ridurre l’inquinamento, introducendo nuove tecnologie, migliorando i

- riutilizzare, riciclare, riparare: dare una seconda vita ad abiti che non si utilizzano più, anziché cestinarli;

- sostenere produttori eco-sostenibili, acquistando capi prodotti da aziende a basso impatto ambientale.

La chiave sta nella consapevolezza e nella scelta responsabile del consumatore, il cui principio cardine dovrebbe essere quello di realizzare i propri acquisti distinguendo effimero desiderio da reale bisogno.

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Discarica di Atacama, Cile fonte: https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/11/30/news/deserto_atacama_discarica_vestiti_fast_fashion-328314029/ Discarica di Dandora, Kenya fonte: https://www.africarivista.it/ambiente-il-vero-costo-dei-vestiti-usati/161159/

IL CARCIOFO: UN PERFETTO MIX TRA SALUTE E GUSTO di Davide Tremante

Icarciofi sono una delle verdure più buone che ci siano (a mio modesto parere la migliore in assoluto) e anche tra le più sane. Inoltre sono un vegetale che possiamo gustare in modo naturale in due diversi periodi dell’anno: tra marzo e giugno e tra ottobre e novembre, avendo così un ventaglio di ricette che si apre a preparazioni fredde, tipiche della stagione estiva ed a piatti caldi che si prestano più ai mesi freddi.

Ma veniamo ai benefici che quest’ortaggio ha da offrire.

Anzitutto sono poveri di calorie (solo 47 kcal per 100g) ma ricchi di sali minerali essenziali e vitamine (B, C e K), inoltre contengono acidi fenolici e sono una fonte naturale di tannini e inulina. Sono anche un’ottima verdura per i bambini grazie alla loro vasta gamma di utilizzi ed alla possibilità di nasconderli.

Molti non sanno che il carciofo è ottimo anche crudo ed in effetti è un ottimo spuntino; di fatti, dopo aver rimosso le foglie più esterne (che non consiglio di mangiare in quanto più coriacee e sporche di quelle interne) andando a staccare le singole foglie noteremo che in fondo alla parte bianca rimane un po’ di polpa attaccata, quest’ultima si presta alla perfezione per essere mangiata davanti ad un bel film per avere uno snack sano e ipocalorico. Inoltre, essendo che dovrete “perdere tempo” tra una foglia e l’altra vi aiuterà a saziarvi prima pur avendo mangiato meno! Una volta finite le foglie rimarrete col cuore del carciofo che potrete mangiare come meglio credete; tenete a mente che anche questo si può mangiare crudo, basterà rimuovere le ultime foglie e la

barbina e tagliarlo in piccoli pezzi. Anche il gambo è commestibile! Se voi lo tagliaste notereste che al suo interno c’è una parte centrale rotonda e più chiara rispetto al resto del gambo che percorre tutto lo stelo nella sua lunghezza, questa parte chiara è la parte buona, la parte esterna invece risulta molto amara.

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RICETTA: RISOTTO CON I CARCIOFI

Ingredienti:

• carciofi: uno a testa più uno

• riso Carnaroli: 80 gr a testa.

• un tuorlo ogni due persone più uno.

• vino bianco q.b.

• pecorino romano q.b.

• brodo vegetale q.b.

• aglio: uno spicchio.

• burro: 10 gr a testa.

• pepe: q.b.

• sale: q.b.

Procedimento:

Il primo passo, ovviamente è pulire i carciofi, quindi togliamo le foglie più esterne, tagliamo la parte più dura (quando le foglie passano dal colore chiaro a quello scuro), puliamo i gambi e rimuoviamo la parte spugnosa e li tagliamo a fettine. Procediamo quindi col cuocerli in abbondante olio extravergine di oliva con lo spicchio di aglio facendo dorare un po’ con la fiamma alta, una volta che saranno ben dorati abbassate la fiamma (se si attaccano un po’ sul fondo non preoccupatevi, è giusto che lo facciano) e lasciate cuocere con coperchio con un filo di acqua fino a che non saranno morbidi. Rimuoviamo quindi l’aglio e frulliamo buona parte dei carciofi tenendone un po’ da parte per la

decorazione, la salsa ottenuta sarà poi da filtrare con un colino, onde evitare di avere filamenti nel piatto che andrebbero a rovinarne la consistenza. Nel frattempo, portiamo a bollore il brodo vegetale.

Adesso cuociamo il riso nella stessa pentola dei carciofi; lo mettiamo a tostare a secco (quindi niente olio né acqua) a fiamma alta fino a quando vedremo che i chicchi cominciano vagamente a dorarsi, a questo punto aggiungiamo il vino bianco e lasciamo bene evaporare la parte alcolica, una volta scomparsa aggiungiamo un paio di mestoli di brodo a coprire il riso e portiamo a cottura. Una volta arrivati a ¾ della cottura aggiungiamo la nostra salsa filtrata e finiamo di cuocere, nel mentre prepariamo una salsa composta dai tuorli, un po’ di pecorino, sale e pepe (un po’ come se dovessimo preparare la crema per la carbonara).

A cottura ultimata spegniamo il fuoco e facciamo riposare il nostro risotto aggiungendo il burro (molto freddo, possibilmente) ed il pecorino, se avete portato la cottura troppo avanti e vedete che si è asciugato non vi preoccupate, vi basterà aggiungere del brodo caldo (ma non a bollore).

Finiamo con l’impiattamento, riso alla base, crema e carciofi a pezzi a decorare, ultimiamo con un’ultima spolverata di pecorino e pepe.

Buon appetito!

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STRUMENTI NEGOZIALI DI REGOLAZIONE DELLA CRISI DI IMPRESA dell’Avv. Simone Facchinetti

Il nuovo Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (CCII) prevede vari strumenti di regolazione della crisi, i quali possono essere distinti in due macro-categorie:

- strumenti riconducibili alle procedure concorsuali (accordi di ristrutturazione, concordato preventivo, piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, concordato minore, piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore);

- strumenti negoziali ed extraprocessuali (piano attestato di risanamento e convenzione di moratoria).

In questo elaborato, ci concentreremo in particolare sugli strumenti di composizione negoziata ed extra-processuale della crisi di impresa, ovvero il piano attestato di risanamento e la convenzione di moratoria, i quali mirano alla risoluzione della crisi e dunque al suo risanamento in un’ottica di continuità aziendale.

Il piano attestato di risanamento era già sommariamente previsto dall’art. 67, comma 3, lett. d), della vecchia Legge Fallimentare, nell’ambito della disciplina delle esenzioni dalla revocatoria fallimentare. Ora l’istituto è confluito all’interno del nuovo art. 56 CCII, il quale ora offre una disciplina più completa e compiuta.

Da un punto di vista soggettivo, il piano attestato di risanamento può essere predisposto dall’imprenditore commerciale in stato di crisi o di insolvenza, con esclusione dell’imprenditore c.d. minore, non incluso nell’elenco di cui all’art. 25 quater CCII.

Il pianto attestato di risanamento deve includere sia la c.d. diagnosi che la c.d. prognosi della crisi.

Da un lato, dunque, dovrà essere esplicata la situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell’impresa per poi evidenziare le

principali cause della crisi.

Dall’altro, invece, occorrerà individuare le strategie di intervento per la risoluzione della crisi con indicazione delle tempistiche necessarie a riacquistare il riequilibrio della situazione finanziaria, elencando altresì gli eventuali apporti di finanza nuova e l’elenco dei creditori con i quali siano in corso trattative e negoziazioni. Il piano deve essere oggetto di specifica attestazione da parte di un professionista indipendente.

Non è invece richiesto alcun intervento del Tribunale ai fini della sua approvazione in quanto, come già detto, il piano attestato è uno strumento negoziale e dunque stragiudiziale di risoluzione della crisi.

Residua soltanto la possibilità di un controllo giurisdizionale ex post volto a verificare gli effetti del piano, con particolare riferimento all’esenzione dall’azione revocatoria anche ordinaria. A tal riguardo, in particolare, si ricorda come, ai sensi dell’art. 166, comma 3, lett. d) CCII, sia previsto che non siano soggetti all’azione revocatoria gli atti, i pagamenti eseguiti e le garanzie concesse sui beni del debitore posti in essere in esecuzione del piano (purché tali atti e contratti posti in essere del piano). Rispetto alla vecchia disciplina, è inoltre previsto che tale esclusione non operi in caso di dolo o colpa grave dell’attestatore. Nel caso in cui dunque venga avviata un’azione revocatoria, il controllo del Tribunale potrà essere volto tanto alla verifica di una eventuale assoluta ed evidente incapacità del piano di risolvere la crisi, quanto alla verifica della sua fattibilità economica in concreto.

La convenzione di moratoria è anch’essa uno strumento di regolazione negoziale della crisi che, a differenza del piano attestato, può essere stipulata dall’imprenditore anche non commer-

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ciale e dal c.d. imprenditore minore. Tale strumento è stato per la prima volta introdotto all’interno del vecchio art.182-septies, comma 5, L. Fall., poi confluito nell’art.182 octies L. Fall. e ora nel nuovo art. 62 CCII. Nello specifico, la convenzione di moratoria è un accordo tra il debitore ed i suoi creditori (non più limitati, come in passato, alla sola categoria dei creditori bancari o intermediari finanziari) volto a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi ed avente ad oggetto la dilazione dei pagamenti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive o conservative e ogni altra eventuale misura che non comporti rinuncia al credito.

In deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c., la legge espressamente prevede che l’accordo sia efficace anche nei confronti dei creditori non aderenti che appartengono alla medesima categoria. Affinché ciò avvenga, è tuttavia richiesto il rispetto delle condizioni di cui all’art. 62 comma 2 CCII:

- tutti i creditori devono essere stati informati della situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, in modo da essere posti nella condizione di partecipare alle trattative; - i creditori aderenti alla convenzione di moratoria devono rappresentare almeno il 75% dei creditori appartenenti alla medesima categoria (con tale termine intendendosi un gruppo di creditori aventi una posizione giuridica ed economica omogenea);

- ci deve essere una concreta prospettiva che anche i creditori non aderenti, ai quali andranno estesi gli effetti, possano essere soddisfatti in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale;

- la convenzione deve essere accompagnata dall’attestazione di un professionista indipendente in merito alla veridicità dei dati aziendali e all’idoneità della convenzione di risolvere almeno provvisoriamente gli effetti della crisi.

Una volta stipulata la convenzione, gli effetti si producono in automatico, senza la necessità di alcun intervento giurisdizionale. A tal fine, è altresì necessario che la convenzione, unitamente alla relazione del professionista, sia comunicata ai creditori non aderenti mediante lettera raccomandata o pec: da tale comunicazione decorre il termine di 30 giorni entro il quale i creditori non aderenti possono proporre opposizione davanti al Tribunale ex art. 62 comma 5 CCII, il quale decide in camera di consiglio con sentenza reclamabile innanzi alla Corte D’Appello ex art.62 comma 7 CCII.

Il legislatore non ha, tuttavia, previsto un’articolata disciplina del giudizio di opposizione ex art. 62 comma 5 CCII e permangono allo stato forti dubbi in merito al coordinamento di tale istituto con le norme che disciplinano la sospensione e l’esecuzione dell’eventuale procedimento esecutivo.

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A sx: l’Avvocato Simone Facchinetti In basso: lo staff dello Studio Legale Facchinetti

L’IMPORTANZA

DEL MARE E PERCHÉ PRESERVARLO di Leonardo Tiene

L’estate è praticamente alle porte, ancora qualche settimana e potremo goderci al meglio le nostre splendide coste bagnate dai mari caratteristici conosciuti in tutto il mondo e tuttora visitati dai milioni di turisti.

Vale la pena comunque sensibilizzare i nostri lettori su un argomento importantissimo legato all’aspetto dell’estate che di buona norma ci godiamo al mare, ossia l’importanza di questo e di come preservarlo al meglio!

COS’È IL MARE

Il mare è una risorsa per l’uomo e il pianeta fondamentale da sempre: un ambiente pieno di vita, abitato da mammiferi, pesci, molluschi, alghe e molto altro. Ma non solo, le correnti marine sono anche in grado di influenzare il clima, rendendo uniche le zone limitrofe in cibo e natura.

Il mare permette all’uomo di nutrirsi, di lavorare, commerciare e guadagnarsi da vivere. Questo però ha inciso molto sulla vita degli esseri marini e l’intensa attività umana sta mettendo a repentaglio la sopravvivenza delle specie che vivono sottacqua. Uno dei problemi più gravi è la diffusione di plastica nelle acque. Sempre più spesso gli animali marini muoiono dopo aver ingerito pezzi di plastica e questo non può far altro che danneggiare la popolazione marina. L’inquinamento, in generale, ha enormemente danneggiato i fondali marini e continua a ridurre la biodiversità causando l’estinzione di vere e proprie bellezze del mare e dell’oceano come le barriere coralline.

I MOTIVI DELLA SUA IMPORTANZA

Basterebbe la premessa per capirne l’importanza vitale ma vogliamo rendere più chiara la lettura, elencandovi i principali motivi della sua unità per noi e per il pianeta stesso.

• Produce il 70% di ossigeno e assorbe 1/4 dell’anidride carbonica prodotta

• Dà la vita a molte creature marine con una biodiversità incredibile

• Mitiga il clima e assorbe il calore aiutando il mantenimento della temperatura atmosferica

• Batte tutti i record perché ospita dall’animale più piccolo al più grande

• Il mare fornisce lavoro e cibo per sfamarci

COME PRESERVARLO?

Spesso sentiamo dire che la differenza non la fa una sola persona ma la si fa in tanti. Possiamo dire che è sicuramente una cosa vera ma non la verità assoluta, da qualcosa bisogna partire e se ognuno di noi porta cambiamento, saremo di ispirazione per il prossimo, creando un flusso virtuoso che porterebbe alla salvezza dei mari.

• Non braccare animali marini e non raccogliere le conchiglie. Se ne vuoi un ricordo, scatta una foto!

• Dedica un po’ del tuo tempo a pulire le spiagge dai rifiuti.

• Usa poco shampoo e naturale

• Applica la crema solare dopo aver fatto il bagno.

• Fai docce brevi e non dissipare l’acqua.

• Non sprecare il cibo.

• Informati sullo stato marino e sui suoi abitanti.

IL TEMPO STRINGE!

Non c’è più tempo da perdere, ormai in ogni modo la Terra ci fa sapere che non potrà reggere a lungo una situazione di sfruttamento e inquinamento di queste dimensioni.

Secondo la Lista Rossa degli animali a rischio estinzione le prossime specie animali a scomparire saranno la balenottera azzurra, la tartaruga, il cavalluccio marino, lo squalo e molte altre ancora. Le maggiori cause sono l’inquinamento, il commercio illegale, il fenomeno del bracconaggio e il cambiamento climatico.

Serve assolutamente un cambio di rotta netto e deciso, ma che parte sempre da ognuno di noi.

Vuol dire uscire di casa e cambiare il mondo? Beh, non per forza, ma cambiare in meglio le nostre abitudini ci renderà partecipi della salvaguardia della nostra Terra.

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NON È PRO..FUMO

Nei variegati ripiani della virtuale libreria della salute, un posto di rilievo lo merita sicuramente il fumo. Uno scaffale pieno zeppo di teorie, di interessi, di credenze, di certezze e di supposizioni.

Forse anche di supponenze. Scientificamente il fumo è la dispersione di particelle solide in gas. Se poi sono cariche di calore, nell’incontrare una parete fredda, diventano nera e collosa fuliggine. Ecco allora che il nostro pensiero si stacca improvvisamente dalla razionale cognizione scientifica, per riparare in quella più struggente, legata all’immagine di quel camino che, oltre a rappresentare le sensazioni del calore ed i piaceri del sapore, ci risveglia adolescenziali ricordi che precipitano negli anni dell’infanzia, quando quella corvina parete fuligginosa testimoniava mirabilmente l’arrivo della Befana. Il termine fumo ci proietta quindi in variegati e tangibili contesti sociali, palcoscenico inconsapevole della nostra quotidianità. C’è quello lapilloso dei vulcani, quello inquinante delle ciminiere industriali, l’altro etereo del vapore acqueo, quello benzinoso della marmitta catalitica, e persino quello inutile delle parole vuote. È dimostrato però che, nel pronunciare la parola fumo, non puoi fare a meno di pensare al tabacco. Ed allora la parola si avvolge di un valore semantico, dove l’aspetto fonetico è più sostanza che suono. Non si chiede ad una persona se consuma sigari o siga-

DETTO TRA NOI... di Sergio Grifoni

rette, ma solo se fuma. I primi a utilizzare fogliame di tabacco, sembrerebbero essere stati i sacerdoti Maya e i loro colleghi Atzechi, intorno all’anno mille A.C. Lo pigiavano in artigianali pipe ricavate dalle pietre, e lo soffiavano in direzione del sole, verso i punti cardinali. Per loro era il modo ed il mezzo più immediato per arrivare a comunicare con le divinità. Non a caso la parola “pipa” deriva dal verbo pipare, che significa pigolare o spifferare. Soffia oggi, soffia domani, iniziarono a capire che un po’ di quel fumo potevano indirizzarlo anche verso loro stessi. Soddisfatti i riti religiosi e quelli legati alla magia, provarono allora a tritare il tabacco, avvolgendolo poi nelle foglie di mais, per ricavarne primitive sigarette.

La successiva scoperta dell’America, accelerò sicuramente il processo di produzione e manipolazione di questo prodotto dalla mistica essenza. Iniziarono i Colombiani a prenderci gusto, per passare poi agli indigeni Caraibici, e concentrarsi successivamente sul prestante territorio della Virgina, con il suo clima ideale e terreno confacente. La successiva colonizzazione spagnola, intorno al XVII secolo, favorì il trasporto di questa pianta sconosciuta verso i lidi europei. E così, fra zoccoli di toro, sangria e paella, iniziarono a spuntare le prime foglioline dall’ enigmatico ed inebriante aroma legnoso. Quando poi Cristoforo Colombo incontrò gli indiani dell’America Centrale, scoprì che le foglie di tabacco,

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oltre che ad essere fumate, potevano essere utilizzate anche come medicamento, per far scomparire i morsi della fame, alleviare i sintomi del dolore e placare i sensi della fatica. Non bastavano però a mitigare quelli di colpa.

Nell’America meridionale non erano di meno, e gli involucri ripieni di tabacco arrivavano ad una gigantesca dimensione, tanto da occupare l’intera apertura della bocca. Insieme al sigaro, bruciarono però anche l’originalità, visto che lo chiamarono: tabaco Nemmeno nella parte settentrionale scherzavano più di tanto, affidandosi questa volta ai mitici calumet della pace, dove pigiavano con forza scaglie del magico fogliame che conservavano in piccoli sacchetti da trasporto, ben nascosti all’interno di giberne o tasconi strategici. Quelle foglie essiccate incominciarono quindi a diventare preziose, tanto da essere barattate come merce di scambio e persino utilizzate come moneta circolante.

E non si dica che allora non si bruciavano le risorse!

Oltre al fiuto degli affari, si incominciò a praticare anche quello del tabacco, attraverso il più comprensibile sistema dello sniffamento.

A far conoscere questo uso olfattivo, ci pensò nel 1561 Caterina de’ Medici che, ricevuta una consistente quantità del prodotto da parte di Jean Nicot (da qui il termine nicotina), pensò bene di divulgarla tra tutti i nobili d’Europa. Per lei era fortemente terapeutico, visto che riusciva a placare la quotidiana emicrania del figlio. La panacea marrone, ben presto portò alla dipendenza, tanto che Papa Urbano VIII minacciò di scomunica tutti coloro che usavano il tabacco da fiuto. Anche lo Zar Michele, a metà del seicento, con spirito meno clericale, impose di tagliare il naso ai consumatori incalliti.

Non presero provvedimenti solo in Francia, perché il primo consumatore era proprio il re Luigi XIII, e ad un re si poteva tagliare la testa, ma guai a tagliargli il naso. Il fiutare il tabacco aiutava così a distinguere la gente di alta classe sociale dalle classi più basse, che invece lo fumavano.

Il suo fiuto si è rivestito anche di santità, quando un frate prodigioso, convinto di non commettere assolutamente peccato, inco-

minciò ad usarlo. Veniva da Pietralcina e si chiamava padre Pio. In Italia fu la Toscana ad ospitare le prime piantagioni e a confezionare i primi sigari di “trinciato” che, proprio dal nome della regione, venivano chiamati Toscanelli, ed erano alla portata di mano nelle bettole e nelle osterie, ammucchiati fra fiaschi di Chianti e tozzetti all’anice.

Oltre ad essere fumato e fiutato, il tabacco può essere anche mangiato.

Il primo a pensarci fu un famoso chef italiano, David Scabin, che un giorno, nel suo ristorante, servì a dei commensali una scatola affumicatrice da usare per dare un gradevole retrogusto di sigaro a porzioni di pesce. ome un religioso turibolo diffonde aloni profumati di incenso, quella scatola bucherellata condizionava il sapore lacustre di tranci e molluschi.

Funziona anche con il cioccolato, magari accompagnato da un sorso di invecchiato rum e uno stomaco disposto all’accoglienza. Fumarlo però è altra cosa.

Anche se la sua combustione, abbinata a quella di materiale accessorio, è fortemente deleteria per la salute.

Basti pensare che, in una semplice sigaretta, troviamo: Formaldeide, Acetone, Benzene, Catrame, Nicotina, Arsenico, Cadmio, Cromo, Cianuro di idrogeno, Ossido d’azoto, Ammoniaca, Dibenzacritina, Polonio 210, Uretano, Toluene e Metanolo.

Chi più ne ha, più ne metta!

La dipendenza da sigarette, sigari, pipe e tutti i prodotti a base di tabacco provoca ogni anno più di 8 milioni di morti in tutto il mondo. La percentuale nel nostro Paese è ragguardevole, con più di 93.000 decessi annui per malattie legate al consumo di tabacco.

Si ricorre a estremi excamotage attraverso l’uso della pipa, la non inalazione diretta, fino alla moderna sigaretta elettronica. Tutti sistemi per dribblare la dipendenza, la mancanza di volontà, la debolezza della mente a confronto con il vizio.

Detto fra noi, “pasturare” fra le labbra una rigida Marlboro o un aromatico sigaro cubano, crea una sensazione di forte piacere. Sì, è vero, ma è anche vero che non potrà mai essere pro..fumo.

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