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INTRODUZIONE ED EVOLUZIONE DEL DIRITTO

INTERNAZIONALE DELL’AMBIENTE di Silvia Mariani

L’introduzione del diritto internazionale dell’ambiente è un fatto relativamente recente.

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Soltanto alla fine degli anni ’60 del 1900, invero, sono stati adottati i primi trattati sul tema.

Rilevante, sotto tale profilo, è la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1962 che afferma il principio della sovranità permanente degli Stati sulle proprie risorse naturali ed evidenzia, al contempo, come si stesse rapidamente diffondendo anche il principio della responsabilità internazionale per danni ambientali transfrontalieri.

Un maggiore approfondimento della questione ambientale da parte delle Nazioni Unite prende avvio in occasione del grave incidente della petroliera liberiana Torrey Canion, avvenuto nel 1967.

Qualche anno dopo, infatti, molti Stati (appartenenti all’ONU e non), unitamente a diverse agenzie specializzate e organizzazioni internazionali, partecipano alla Conferenza sull’ambiente umano, tenutasi nel 1972 a Stoccolma, in seno alla quale nasce l’UNEP, ossia la prima struttura internazionale dell’ONU dotata di compe- tenze ambientali.

Tra le dichiarazioni di principio della Conferenza di Stoccolma spiccano per importanza, in particolare, il Principio 21 (in base al quale gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse, secondo le proprie politiche ambientali e, allo stesso tempo, il dovere di impedire che le attività svolte sotto il proprio controllo arrechino danni all’ambiente di altri Stati o comunque a spazi non sottoposti alla sovranità di alcuno Stato) e il Principio 23 (secondo cui l’applicazione di standards ambientali non deve necessariamente essere omogenea, ma deve tener conto delle differenze tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo).

Le iniziative e le attività in materia di tutela dell’ambiente sono andate moltiplicandosi dopo la Conferenza di Stoccolma, soprattutto ad opera e per merito dell’UNEP.

Una terza fase di maggiore interesse verso le tematiche ambientali inizia nel 1992 con la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro che si conclude con l’elaborazione di tre documenti: la Dichiarazione di principi su ambiente e sviluppo (c.d. Dichiarazione di Rio), l’Agenda 21 (che contiene un Programma d’azione globale) e la Dichiarazione di principi sulle foreste.

Nella Dichiarazione di Rio viene affermato come principale obiettivo quello dello sviluppo sostenibile, già introdotto, in realtà, con il Rapporto Brundtland (conosciuto anche come Our Common Future), attraverso il quale sia possibile soddisfare le esigenze delle generazioni presenti senza compromettere quelle delle generazioni future.

La Dichiarazione di Rio non contiene, a ben vedere, una definizione generale di sviluppo sostenibile, ma elenca una serie di principi volti a precisarne il contenuto, tra cui il principio di equità intergenerazionale, il principio di precauzione e il principio di prevenzione dell’inquinamento transfrontaliero.

Ma con la Conferenza di Rio viene anche consacrato il legame inscindibile tra protezione ambientale e crescita economica, nella acquisita consapevolezza che i due criteri sono imprescindibilmente legati e che, per fare in modo che entrambi possano svilupparsi, è necessario uno sforzo di solidarietà internazionale. Infatti, la Dichiarazione di Rio considera la particolare posizione dei Paesi in via di sviluppo e introduce il principio della responsabilità comune ma differenziata, in considerazione di differenti bisogni, possibilità e obiettivi.

Nell’ambito della Agenda 21 è stata, invece, prevista la creazione della Commissione per lo sviluppo sostenibile (c.d. CSD), quale organo ausiliario dell’ECOSOL, con l’obiettivo di monitorare e verificare i progressi nell’attuazione dell’Agenda 21 ed elaborare raccomandazioni.

In poco tempo, però, sono emerse difficoltà di numerosi Stati nel rispettare gli impegni di Rio e, perciò, l’Assemblea Generale ha organizzato il “Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile” di Johannesburg, tenutosi nel 2002, al fine di individuare azioni e risultati concreti sul tema.

Infine, un cenno merita la Conferenza di Rio del 2012 (c.d. Conferenza di Rio+20) la quale, pur suscitando interesse e condivisione, non è riuscita a produrre l’effetto di impegnare concretamente gli Stati partecipanti, limitandosi a rinnovare la concentrazione della politica sullo sviluppo sostenibile, cercando comunque di veicolare gli sforzi già fatti dai governi e dall’intera società civile verso obiettivi comuni e nuove sfide da affrontare.

La Conferenza di Rio+20 si è infatti conclusa con un documento di natura principalmente programmatica (“The Future We Want”) che, in ogni caso, rappresenta un serio tentativo di avviare processi internazionali e nazionali su temi considerati cruciali per il futuro del Pianeta.

IL LATO OSCURO DEL FAST FASHION: EFFIMERO DESIDERIO O REALE BISOGNO? di Michela Viola

Èormai fatto noto come l’industria della moda sia una delle più inquinanti al mondo.

Le principali problematiche legate a questo settore riguardano il consumo di risorse naturali, quali acqua ed energia, oltre alla dipendenza da fattori chimici, utilizzati per lavorare i tessuti dei capi che indossiamo quotidianamente, capi che necessitano infatti di una grande quantità di acqua per essere prodotti e che vengono poi trattati con sostanze chimiche tossiche altamente inquinanti.

Dati alla mano: l’industria tessile immette nell’aria tra il 4% e il 15% di emissioni globali di CO2 ogni anno, e il 75% dei tessuti è composto da materiali derivati dal petrolio (fonte: https://www.repubblica.it/green-and-blue/2023/03/31/news/industria_moda_ sostenibilita_fast_fashion-391150356/).

Il problema ambientale legato al settore della moda, si è aggravato esponenzialmente negli ultimi anni con l’affermarsi del fast fashion, fenomeno che sta diventando sempre più diffuso in tutto il mondo.

Fast Fashion

Fast fashion è un termine inglese utilizzato per indicare quella parte della vendita al dettaglio di abbigliamento che produce vestiti a basso prezzo, ma allo stesso tempo di bassa qualità, con produzione costante e veloce di collezioni sempre nuove, realizzate per soddisfare e rinnovare continuamente la domanda del mercato.

Conseguenza di ciò è un aumento smisurato dell’acquisto di capi di abbigliamento, spesso dettato non da reale necessità ma dal fascino del basso prezzo e dalla voglia di essere in linea con i nuovi trend del momento.

Se quindi da un lato il fast fashion ha portato a una “democratizzazione” della moda, con le ultime tendenze sempre disponibili e alla portata di tutti, dall’altro lato la scarsa qualità dei vestiti che ne “giustifica” il basso prezzo di vendita, incide anche sulla durevolezza del capo, causando grandi sprechi di risorse ed energia e la produzione di grandi quantità di scarti, difficilmente biodegra- dabili, e che se non correttamente smaltiti, sono causa di inquinamento ambientale e atmosferico.

Discariche A Cielo Aperto Del Fast Fashion

Esempio eclatante in tal senso è il deserto di Atacama, in Cile, che non a caso, è stato definito “discarica mondiale del fast fashion”, che raccoglie in sé circa 39mila tonnellate di vestiti. (fonte: https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/11/30/news/ deserto_atacama_discarica_vestiti_fast_fashion-328314029/ ), destinazione finale del breve ciclo di vita di questi capi le cui spese di smaltimento sono troppo alte rispetto alla bassa qualità che ne giustifica gli scarsi costi di produzione.

processi di produzione e cercando di utilizzare materiali sostenibili. Tuttavia, il cambiamento richiede i suoi tempi e ci sono molte aziende che ancora non rispettano i principi di sostenibilità nella produzione dei vestiti.

Emerge sempre più la necessità di definire nuove politiche, norme e strumenti necessari per garantire la salvaguardia dell’ambiente e della salute dei consumatori, pur preservando la competitività dell’industria del settore moda.

In un’inchiesta denominata “Trashion” (dall’unione dei termini trash, spazzatura, e fashion, moda), inchiesta realizzata da Wildlight per Changing Markets Foundation, viene lanciato l’allarme sulla dipendenza dell’industria fast fashion da tessuti in plastica a basso costo per la produzione di abiti che non sono pensati per essere riciclati ma secondo la logica di “usa e getta”.

La Convenzione di Basilea del 2019, principale trattato internazionale per la regolamentazione del movimento di rifiuti pericolosi, vieta infatti l’esportazione di rifiuti in plastica, ma non di indumenti realizzati con fibre sintetiche, che di fatto sono plastica a tutti gli effetti.

Secondo Trashion, due sono i punti salienti:

- i marchi dovrebbero essere obbligati a pagare per i rifiuti che producono

- l’abbigliamento deve essere reso sostenibile a partire già dalla fase di progettazione

Altro esempio si trova in Kenya con Dandora, grande discarica tessile localizzata nella periferia di Nairobi, che riceve quotidianamente circa 4mila capi di abbigliamento, o 4mila mitumba, termine keniano traducibile con “abiti morti dell’uomo bianco”.

La Commissione Europea sembra che si stia muovendo in tal senso, considerando l’ipotesi di mettere in atto un sistema di Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) per promuovere la sostenibilità dei tessuti e il trattamento dei rifiuti.

È sempre più necessario che venga applicato il principio del “chi inquina paga”, in modo da rendere i produttori più responsabili sulla gestione e sul costo del trattamento a fine vita dei capi che immettono sul mercato.

Normative a parte, il consumatore è colui che può fare la differenza per porre fine a questi meccanismi.

Come? Acquistando meno e con cognizione di causa!

Se il consumo diminuisce, diminuirà anche la produzione, e di conseguenza anche i rifiuti di scarto.

Oltre a questo, altre best practice sono:

- prestare attenzione alla qualità del tessuto, indice di probabile durevolezza del capo che contribuisce a ridurre l’inquinamento ambientale;

- prediligere tessuti eco-sostenibili, costituiti da fibre tessili ecologiche, come per esempio il cotone biologico;

Tutto questo è il triste risultato di un’industria della moda incentrata prettamente sul profitto, che propone continuamente sul mercato, grazie ad abili operazioni di marketing supportate spesso da influencer, nuove collezioni a prezzi invoglianti pensate per essere comprate e durare poco, ma di scarsa qualità, il cui fine ultimo è quello di soddisfare il desiderio di essere all’ultima moda.

VERSO UNA LEGGE EUROPEA?

L’industria tessile sta cercando di fare passi in avanti per ridurre l’inquinamento, introducendo nuove tecnologie, migliorando i

- riutilizzare, riciclare, riparare: dare una seconda vita ad abiti che non si utilizzano più, anziché cestinarli;

- sostenere produttori eco-sostenibili, acquistando capi prodotti da aziende a basso impatto ambientale.

La chiave sta nella consapevolezza e nella scelta responsabile del consumatore, il cui principio cardine dovrebbe essere quello di realizzare i propri acquisti distinguendo effimero desiderio da reale bisogno.

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