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DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO E ALTRE NEURODIVERSITÀ di Silvia Mariani

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NON È PRO..FUMO

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Idisturbi specifici dell’apprendimento si manifestano nel bambino nei primi anni della formazione scolastica, durante i quali egli presenta progressive difficoltà nell’apprendere le abilità di base, con conseguenti complicazioni in termini di rendimento e di relazioni sociali.

La caratteristica di tali disturbi è – per l’appunto – la “specificità”, in quanto la problematica non intacca il funzionamento intellettivo generale ma interessa un circoscritto campo di abilità indispensabili per l’apprendimento di una singola materia di studio. Nella categoria dei disturbi specifici dell’apprendimento rientrano principalmente la dislessia, la discalculia, la disgrafia e la disortografia.

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Nel primo caso, la difficoltà che incontra il bambino attiene alla lettura, che non è accurata e/o fluente; sotto un profilo tecnico-scientifico, il bambino, in buona sostanza, non riesce a riconoscere le lettere dell’alfabeto, a fissare la corrispondenza fra segni grafici e suoni e ad automatizzare tale processo di conversione. La disortografia riguarda la componente costruttiva della scrittura, incontrando il bambino difficoltà a scrivere in modo corretto da un punto di vista ortografico, in quanto non riesce a tradurre correttamente i suoni in segni grafici né a individuare le regolarità o irregolarità ortografiche e il corretto ordine con cui questi elementi si compongono.

La disgrafia si riferisce, invece, alla difficoltà di realizzazione del segno grafico; il bambino non riesce a scrivere in modo fluido e leggibile.

Infine, la discalculia implica lacune specifiche nelle operazioni con i numeri e con i calcoli e la difficoltà automatizzare alcuni meccanismi a essi inerenti.

Tutte le problematiche di ordine “pratico” che incontrano questi bambini sono, ad oggi, in realtà facilmente risolvibili attraverso percorsi mirati, finalizzati ad accettare tale diversità e a insegnargli una differente modalità di apprendimento, così da consentirgli di poter raggiungere lo stesso risultato mediante nuovi strumenti a loro disposizione.

La vera difficoltà – di ordine “relazionale-sociale” – emerge nel bambino in cui il disturbo dell’apprendimento non viene compreso.

Quando il bambino non ha un elevato rendimento scolastico per un simile deficit, risulta essere molto frustrato, spesso ribelle, con crisi di nervi o di ansia. In realtà, in questi casi sta solo dimostrando di essere molto scontento di sé per non essere in grado di fare meglio.

Soltanto quando quel bambino viene aiutato in un percorso al medesimo totalmente dedicato, riesce, poi, a trovare il suo posto nel mondo.

Del resto, anche essere mancini tempo fa non era accettato e le modalità di correzione (o presuntivamente tali) adottate al riguardo, facevano vivere nel bambino una disabilità inesistente, con l’evidente rischio di minare la sua autostima.

Sotto tale ultimo profilo, però, si deve sottolineare che non è soltanto compito degli insegnanti e dei genitori individuare il problema e cercare di risolverlo per consentire al bambino di crescere con un buon livello di fiducia in se stesso, ma è dovere della società degli adulti accogliere quel bambino diventato grande. Fondamentale in merito a ciò, è l’impegno del mondo del lavoro nella cultura dell’inclusione di ogni genere di diversità, tra le quali non si può più rinunciare a ricomprendere le cc.dd. neurodiversità.

È ormai chiaro, dal punto di vista scientifico, che tra i soggetti neurodiversi rientrano non solo le persone che soffrono dei suddetti disturbi specifici dell’apprendimento, ma anche chi è affetto dalla sindrome di Tourette o dal disturbo da deficit di attenzione e iperattività (adhd) e, più in generale, tutte le persone che si posizionano nel variegato spettro autistico.

E la logica – a volte ossessiva – e l’estrema cura per i dettagli dei soggetti interessati dalle diverse forme di autismo non solo rappresentano valori che devono essere rispettati, ma sono anche degli strumenti redditizi per le aziende che scelgono di mettere in luce la diversa capacità di ragionamento di cui sono dotati. La redditività, poi, non va intesa solo in termini strettamente economici; certo, non investire in un Bill Gates, in uno Steve Jobs o in un Elon Musk (tutte persone nello spettro dell’autismo) o, ancora, in un Einstein (che mostrava chiari segni di dislessia), sarebbe un errore anche finanziariamente parlando, ma il valore aggiunto consisterebbe nel fatto che i manager che imparano a comunica- re con i c.d. neurodiversi riescono ad avere un rapporto migliore anche con tutti gli altri colleghi c.d. neurotipici.

Ciò accade perché parlare con un neurodiverso implica avere un linguaggio più diretto, posto che il medesimo neurodiverso non riuscirebbe a capirne uno differente.

Andrebbero, dunque, rivisti anche i canoni standard legati alla valorizzazione delle cc.dd. soft skills che portano a preferire candidati che si mostrano sicuri di sé (con lo sguardo sempre dritto negli occhi del proprio interlocutore), in quanto inevitabilmente comportano l’esclusione di persone introverse, che non ragionando come neurotipici, finiscono per trovarsi di fronte a un muro insormontabile.

Il rischio è, allora, quello di perdersi tutta la bellezza che è al di fuori della nostra “comfort zone”, che potremmo apprezzare se, invece, tutti noi – prima ancora delle aziende – ci sforzassimo di superare quelle barriere mentali che ci obbligano a misurare le nostre performance fin dalla nascita, senza purtroppo considerare che è tutto ricondotto all’interno di una continua competizione. Se consideriamo lo sforzo immane che bambini e adulti neurodiversi fanno quotidianamente per relazionarsi con soggetti neurotipici e con il loro mondo, dovrebbe essere quasi scontato per questi ultimi imparare a relazionarsi con soggetti neurodiversi e con il loro mondo; ciò consentirebbe ai neurotipici di non perdere l’opportunità di conoscere persone che potrebbero cambiare la loro vita, migliorando – senza fare molto – quella dei neurodiversi.

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