La causa dei popoli 10

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la causa dei popoli anno IV/nuova serie

numero 10

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maggio-agosto 2019


la causa dei popoli problemi delle minoranze, dei popoli indigeni e delle nazioni senza stato anno III/nuova serie

numero 10

maggio-agosto 2019

ISSN: 2532-4063

EDITORIALE

Direttore: Alessandro Michelucci Redazione: Katerina Sestakova Novotna, Giovanni Ragni, Marco Stolfo, Maurizio Torretti, Davide Torri Via Trieste 11, 50139 Firenze, 055-485927, 327-0453975 E-mail: popoli-minacciati@ines.org https://issuu.com/lacausadeipopoli

Prigionieri dell'incubo americano Alain de Benoist

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DOSSIER

Direttore responsabile: Riccardo Michelucci Comitato scientifico Valerie Alia Leeds Metropolitan University, José Luis Alonso Marchante storico indipendente, James Anaya University of Arizona, Aureli Argemí CIEMEN, Laurent Aubert Archives internationales de musique populaire, Claus Biegert Nuclear Free Future Award, Guglielmo Cevolin Università di Udine, Duane Champagne UCLA, Naila Clerici Soconas Incomindios, Walker Connor Middlebury College (†), Myrddin ap Dafydd Gwasg Carreg Gwalch, Alain de Benoist Krisis, Zohl dé Ishtar Kapululangu Aboriginal Women's Association, Philip J. Deloria Harvard University, Toyin Falola University of Texas at Austin, Jacques Fusina Università di Corsica Pasquale Paoli, Edward Goldsmith The Ecologist (†), Barbara Glowczewski Collège de France, Ted Robert Gurr Center for International Development and Conflict Management (†), Mahdi Abdul Hadi PASSIA, Debra Harry Indigenous Peoples Council on Biocolonialism, Elina HelanderRenvall University of Lapland, Ruby Hembrom Adivaani, Ursula Hemetek Universität Wien, Alan Heusaff Celtic League (†), Amjad Jaimoukha International Centre for Circassian Studies, Asafa Jalata University of Tennessee, René Kuppe Universität Wien, Robert Lafont Université Paul Valéry (†), Colin Mackerras Griffith University, Luisa Maffi Terralingua, Saleha Mahmood Institute of Muslim Minority Affairs, Jean Malaurie CNRS, David Maybury-Lewis Cultural Survival (†), Matthew McDaniel Akha Heritage Foundation, Antonio Melis Università di Siena (†), Fadila Memisevic Gesellschaft für bedrohte Völker, Garth Nettheim University of New South Wales, Kendal Nezan Institut Kurde, Helena Nyberg Incomindios, Massimo Olmi giornalista (†), Nicholas Ostler Foundation for Endangered Languages, Anna Paini Università di Verona, Alessandro Pelizzon Southern Cross University, Norbert Rouland Universitè d'AixMarseille III, Rudolph Rÿser Center for World Indigenous Studies, Ryūichi Sakamoto compositore, Edmond Simeoni Corsica Diaspora (†), Ruedi Suter Media-Space, Parshuram Tamang Nepal Tamang Ghedung, Colin Tatz Australian Institute of Holocaust and Genocide Studies (†), Victoria TauliCorpuz Tebtebba Foundation, Ned Thomas Literatures Across Frontiers, Inja Trinkuniene Romuva, Fernand de Varennes Murdoch University, Michael van Walt van Praag Kreddha, Joseph Yacoub Université Catholique de Lyon, Antonina Zhelyazkova International Centre for Minority Studies and Intercultural Relations

Alcatraz non è un'isola Alessandro Michelucci

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Nella pancia del mostro Russell Means

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Lo spirito di Alcatraz Intervista a LaNada War Jack

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Meglio morto che rosso James P. Gregory jr.

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Inchiostro rosso Holly Boomer

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Le guerre indiane del ventunesimo secolo Alessandro Michelucci

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Sul trasferimento forzato degli Indiani Andrew Jackson

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Una vita dalla parte degli Indiani Intervista a Naila Clerici

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INTERVENTI Spiragli di luce Antonella Visconti

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Stranieri nella propria terra Giovanna Marconi

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LO SCAFFALE Biblioteca Nuvole di carta Cineteca

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Prigionieri dell'incubo americano Quasi mezzo secolo separa le due grandi rivolte indiane che hanno segnato i nostri tempi, l'occupazione di Alcatraz (1969-1971) e le imponenti proteste di Standing Rock contro la costruzione del gasdotto noto con la sigla DAPL (Dakota Access Pipeline, 2016-2017). Ma per comprendere il senso profondo della resistenza indiana contemporanea bisogna partire dalle origini, cioè dal progetto politico che è alla base degli Stati Uniti. La federazione nordamericana è una delle espressioni più riuscite dell'ideologia universalista. Questa si fonda su una sorta di etnocentrismo mascherato, perché considera universali dei valori particolari – in questo caso, i valori occidentali – e crede che tutte le culture del pianeta debbano conformarsi a questi. Negli ultimi due millenni l'Occidente ha utilizzato tutti i mezzi per imporli. I missionari hanno cercato di convertire il resto del mondo nel nome della "vera fede", i militari nel nome del "progresso" e della "civiltà", gli speculatori nel nome del "libero scambio" e dello "sviluppo". Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo centrale in questo fenomeno. I fondamenti biblico-puritani della loro cultura hanno nutrito un forte isolazionalismo nei confronti del mondo esterno e una logica imperialista (la dottrina del "Destino manifesto") che ha come scopo quello di convertire il resto del mondo all'American way of life. Un modello che viene proposto come il migliore, e in pratica l'unico possibile, un modello che tutti i popoli della terra sarebbero destinati ad abbracciare. Coloro che non lo accettano vengono cancellati o sottomessi. La storia degli Indiani, abitanti originari del Nordamerica, lo dimostra in modo incontestabile. Del resto, la civiltà americana non si è mai fondata sul tempo, ma sullo spazio. Il suo mito fondativo non è l'origine, ma la "frontiera" e l'aspirazione alla "conquista dello spazio". Questa volontà di spostare sempre più lontano la "frontiera" è stato il motore della "conquista del West". La tragedia degli Indiani comincia nel diciassettesimo secolo. La data simbolica che si può fissare è il 1633, anno in cui vengono colpiti da un'epidemia di vaiolo. I puritani rendono grazie a Dio per aver mandato questo flagello. Negli anni seguenti cominciano gli scontri con gli Algonchini, gli Irochesi, i Powhatan. La tattica dei coloni europei è quella di fare leva sui contrasti fra le tribù. Sulla costa orientale i Pequot del Connecticut vengono sbaragliati dai Narragansett, che a loro volta vengono decimati dagli Unca. Le autorità coloniali offrono un premio per ogni cuoio capelluto che riceveranno: è così che nasce la pratica dello scalpo, anche se poi Hollywood ci racconterà che l'hanno inventata gli Indiani. Nel secolo successivo gli Irochesi, i Mohawk, gli Shawnee, gli Uroni e altri popoli vengono battuti in varie guerre. I Delaware vengono decimati con le coperte infette di vaiolo che sono state diffuse su ordine di Simeon Ecuyer, comandante di Fort Pitt. I rapporti con gli Indiani sono regolati da criteri che vengono applicati ovunque. I trattati che vengono conclusi, oltre a essere ricchi di risvolti giuridici estranei alle loro culture, si vanificano presto per l'afflusso massiccio di coloni. Quando gli Indiani capiscono che i bianchi vogliono impadronirsi delle loro terre si ribellano. Quindi vengono massacrati, deportati e infine sterminati. Imbevuti di filosofia illuminista, i discendenti dei Pilgrim Fathers plaudire a queste mattanze: "Noi non abbiamo diritti su queste terre, ma Dio certamente sì, e se lui voluto darle a noi togliendole a un popolo che ne ha fatto cattivo uso, chi può contestare il suo disegno e la sua volontà?". Molte tribù cercano di sfuggire alla furia genocida dei coloni e cominciano una lunga migrazione verso l'ovest, ma invano. All'inizio del diciannovesimo secolo anche i Miami, i Seminole, i Creek e i Fox vengono sterminati. I Cherokee, al contrario, cercano di integrarsi. Fondano delle attività commerciali che entrano in concorrenza con quelle dei coloni. Nel 1830 il Congresso approva il Removal Act, che autorizza l'esercito a deportarli dalla Georgia all'Oklahoma. Su 15000 persone 4000 muoiono strada facendo. Dieci anni dopo, nel 1840, il governo americano si impegna a interrompere questo trasferimento forzato e dichiara il Mississippi "frontiera indiana permanente". Una promessa senza effetti. La scoperta dei giacimenti in California scatena la corsa all'oro. Una miriade di avventurieri si dirige verso ovest. Fra il 1853 e il 1856 vengono firmati 52 trattati, ma pochi mesi dopo i coloni li violeranno 3


tutti. "L'esproprio delle terre indiane – scrive Alexis de Tocqueville – avviene spesso in modo regolare e per così dire perfettamente legale […] I colonialisti spagnoli, nonostante le loro mostruosità, non sono riusciti a sterminare gli Indiani né a privarli completamente dei loro diritti. Gli americani degli Stati Uniti hanno raggiunto entrambi i risultati tranquillamente, legalmente, filantropicamente. Non esiste modo migliore per distruggere gli uomini rispettando le leggi dell'umanità". Il 1862 segna l'inizio delle grandi guerre indiane. Nel sudovest i Navajo vengono deportati verso regioni desertiche. Nel frattempo, grazie ai treni, gli immigrati continuano a affluire verso ovest. Negli stessi anni vengono abbattuti milioni di bisonti per sfamare gli operai che costruiscono le reti ferroviarie. Le tribù colpite dalla carestia reagiscono attaccando i coloni che si stabiliscono sempre più numerosi nei territori occupati. L'esercito reprime queste rivolte con durezza spietata. Nel 1870 i Modoc vengono sterminati. Lo stesso anno il Settimo reggimento della cavalleria trova un accampamento cheyenne nella valle di Washita. Le persone che lo occupano – uomini, donne, bambini – vengono aggredite e massacrate. Qualche anno dopo è la volta dei Kiowa, dei Nasi Forati, dei Comanche. Il generale George Custer, autore del massacro di Washita, viene ucciso dai Sioux il 24 giugno 1876 nella battaglia di Little Big Horn insieme ai suoi 200 soldati. Un altro militare, il generale William Sheridan, pronuncia una frase destinata a diventare famosa: "L’unico indiano buono è un indiano morto". Nel 1876 gli farà eco il presidente Theodore Roosevelt: "Non arrivo a pensare che gli unici indiani buoni siano quelli morti, ma credo che questo valga per nove su dieci, e non vorrei indagare troppo sul decimo". Le parole di Sheridan e di Roosevelt faranno scuola. Cavallo Pazzo, il vincitore di Little Big Horn, viene ucciso nel 1877. L'ultimo atto si svolge alla fine del 1890. A Wounded Knee 300 indiani disarmati vengono sterminati. Con loro spariscono gli ultimi focolai di resistenza. Comincia così l'era delle riserve, dove verranno confinati i sopravvissuti. La cultura cede il passo al folklore. Negli ambienti liberali si dice che la superiorità della Rivoluzione americana su quella francese sta nel fatto che le vittime della prima sono state pochissime. Ma è falso: il Terrore ha fatto 40.000 morti, mentre il genocidio degli Indiani ne ha fatti dieci milioni. Da oltre due secoli gli Indiani del Nordamerica devono confrontarsi quotidianamente con una potenza di dimensioni planetarie. Questa potenza è stata costruita anche cercando di annientarli con i mezzi più disumani, rubando le loro terre, trasformando in carta straccia centinaia di trattati. Non solo, ma il potere economico, politico e mediatico degli Stati Uniti ha sempre impedito che la condizione degli Indiani stimolasse l'attenzione che è stata riservata ai Kurdi, ai Palestinesi, al Tibet. Il fatto che la Turchia continui a negare il genocidio armeno (o per meglio dire, delle minoranze cristiane) suscita una condanna sempre più diffusa, ma nessun governo penserebbe mai di puntare il dito contro gli Stati Uniti per il genocidio degli Indiani. Nonostante tutto questo, gli indigeni nordamericani hanno trovato la forza di resistere. Hanno lottato strenuamente, ma non hanno mai fatto ricorso al terrorismo, non hanno mai organizzato attentati, non si sono mai allineati alle ideologie rivoluzionarie europee né terzomondiste. Oggi, cinqucento anni dopo, sono ancora qui, We are still here, come loro stessi dicono con orgoglio. Dovrebbero bastare queste considerazioni per convincere chiunque che meritano ammirazione e rispetto. Ma soprattutto, che è venuta l'ora di archiviare le logore reliquie del sogno americano e ascoltare la voce di coloro che sono cresciuti nell'incubo americano. Le sue prime vittime, come titola un bel libro curato da Jay David (The American Indian: The First Victim, William Morrow, 1972). Perché il Primo Emendamento della Costituzione statunitense, che viene spesso evocato per lodare la "grande democrazia americana", non difende i diritti politici e religiosi degli Indiani. In compenso, però, prevede una libertà di espressione che non ha mai permesso a Washington di mettere fuori legge il Ku Klux Klan. Un piccolo particolare che i cultori dell'American way of life omettono con impeccabile nonchalance. Alain de Benoist

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Alcatraz non è un'isola Alessandro Michelucci

"Alcatraz non è un'isola... Alcatraz è un'ideale. Significa che puoi dominare il tuo destino e decidere del tuo futuro". Richard Oakes, Mohawk Fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo, per una straordinaria coincidenza storica, numerose regioni del pianeta vengono interessate da avvenimenti epocali: il Maggio francese e le sue diramazioni europee; le guerre del Bangladesh, del Biafra e del Vietnam; l'invasione sovietica di Praga; gli omicidi di Martin Luther King e di Robert Kennedy. L'elenco potrebbe continuare a lungo, ma almeno un'altra questione segna profondamente quegli anni, e quindi non può sparire nell'indistinta categoria degli "altri". Ci riferiamo alle rivendicazioni degli Indiani nordamericani, che dopo un lungo oblio escono dal buio della storia e reclamano dei diritti precisi, primi fra tutti il rispetto dei trattati che hanno concluso con gli eredi dei coloni europei nei secoli scorsi. Se si eccettuano gli Stati Uniti, per l'uomo della strada gli indigeni nordamericani sono sostanzialmente legati al cinema. Come se fossero stati inghiottiti dal grande schermo, qui sono scomparsi nel 1890, anno che ha segnato la fine delle guerre indiane. Nel giro di pochi giorni è stato ucciso Toro Seduto e ha avuto luogo il massacro di Wounded Knee: circa 300 indiani inermi, in gran parte donne e bambini, sono stati massacrati dai cavalleggeri del Settimo Reggimento. Lo stesso reggimento che era stato sconfitto da Cavallo Pazzo nella battaglia di Little Big Horn (25 giugno 1876), dove il generale George Armstrong Custer aveva perso la vita: secondo alcuni storici si trattava quindi di una vendetta. Ma torniamo agli Stati Uniti degli anni Sessanta, ormai saldamente inseriti nella logica della guerra fredda. In questi anni turbolenti il potere ha molti nemici: comunisti, neri, indiani, femministe. Le piazze, in America come in Europa, sono piene di persone che manifestano contro la guerra del Vietnam, nella quale gli Stati Uniti sono coinvolti dal 1955. Gli indigeni nordamericani sono afflitti da gravi problemi sociali ed economici: povertà, disoccupazione, un'alta percentuale di mortalità infantile e suicidi. La politica varata negli anni Cinquanta sotto la presidenza di Dwight Eisenhower (la cosidetta Indian termination policy) si propone di cessare le relazioni fra le tribù e il governo federale per assimilare gli Indiani come individui. A tutto questo cerca di trovare una soluzione Vine Deloria jr., un giovane studioso lakota, che nell'ottobre del 1969 pubblica il libro Custer Died for Your Sins (1969, tr. it. Custer è morto per i vostri peccati, Jaca Book, 1972). Un'opera di grande spessore culturale e umano, destinata a diventare il testo basilare del nuovo attivismo indiano. Questo fenomeno, già in gestazione da vari anni, si materializza in un luogo ben preciso: Alcatraz. L'isola è situata nella baia di San Francisco, a circa due chilometri dalla città. Sede del primo faro costruito sulla costa occidentale, successivamente viene utilizzata come bastione, quindi come sede di una prigione militare. Nel 1934, dopo alcuni ampliamenti, diventa un carcere federale di massima sicurezza. Fuggire da questo edificio, ben sorvegliato e circondato dal mare, sembra impossibile. L'unica evasione è quella che verrà raccontata nel film Fuga da Alcatraz (1979), diretto da Don Siegel e interpretato da Clint Eastwood. Il film, girato sul luogo, si basa sul libro omonimo di John Campbell Bruce e descrive la storia dell'evasione di tre detenuti, Frank Morris e i fratelli John e Clarence Anglin, avvenuta nella notte dell'11 giugno 1962. Nel 1963 il procuratore generale Robert Kennedy ordina che il carcere venga chiuso definitivamente. Per sostituirlo viene costruito il penitenziario di Marion (Illinois). 5


Nella comunità indiana di San Francisco, che conta oltre 20.000 persone, fra i quali molti studenti universitari, si fa strada il progetto di occupare l'isola per denunciare all'opinione pubblica la situazione critica degli Indiani. Dopo due tentativi falliti (1964 e 1969), la mattina del 20 novembre 1969 comincia quello destinato al successo. Circa 80 indiani - studenti, coppie, bambini – raggiungono l'isola con delle imbarcazioni, nonostante la Guardia Costiera cerchi di impedire l'attracco. Nei giorni successivi arrivano molti altri indiani. John Trudell, che poi diventerà famoso come attore e musicista, dà vita a una radio pirata, Radio Free Alcatraz. Gli occupanti rivendicano il territorio sulla base del Trattato di Fort Laramie (1868), che restituisce agli Indiani i territori federali in disuso. Uniti sotto la sigla Indians of All Tribes, i dimostranti rendono noto un documento dove richiedono che il governo federale trasformi l'isola in una riserva fornita di tutte le strutture sanitarie, sociali e culturali necessarie. A questo scopo propongono di acquistarla per una somma simbolica di 24 dollari, "più di quanto fu pagata l'isola di Manhattan". Nelle prime settimane gli occupanti sono galvanizzati da un grande entusiasmo. Tutti hanno un compito preciso, si discute, si canta, si suona e si elabora la linea politica. John Trudell denuncia la politica governativa attraverso la radio. Le donne svolgono un ruolo fondamentale: fra queste spicca la shoshone LaNada Means, studente dell'Università di Berkeley, che poi verrà definita "la vera leader dell'occupazione". Stella Leach gestisce l'infermeria, mentre altre donne si occupano dei bambini. "Alcatraz non è un'isola, è un'idea" afferma Richard Oakes, uno dei capi della rivolta. Questa frase destinata a diventare famosa sintetizza in modo perfetto lo spirito della rivolta e l'obiettivo che questa si prefigge: riaffermare quei diritti che la termination policy ha calpestato. Col passare del tempo, però, la compattezza originaria comincia lentamente a incrinarsi. Il ruolo prevalente di Oakes comincia a essere contestato. All'inizio del 1970 il giovane mohawk perde la figlia dodicenne, che muore in seguito a una caduta. Sconvolti dalla tragedia, Oakes e la moglie decidono di lasciare l'isola. Negli stessi mesi molti studenti abbandonano l'isola per poter frequentare l'università. A rimpiazzarli arrivano degli indiani urbani e numerosi hippies. Nei mesi successivi, quando l'occupazione si è ormai radicata nei media, alcuni attori raggiungono l'isola per portare la propria solidarietà agli occupanti. Primo fra tutti Marlon Brando, che da vari anni sostiene attivamente le iniziative organizzate dagli Indiani per difendere i propri diritti. L'arrivo di Jane Fonda, già molto impegnata contro la guerra del Vietnam, desta comunque molte perplessità, perché si teme che la presenza dell'attrice possa essere spettacolarizzata dai rotocalchi. Del tutto strumentale, invece, la presenza di Anthony Quinn, che vuole semplicemente promuovere il suo nuovo film, Flap!, dove il protagonista è un indiano. Sul manifesto pubblicitario si legge infatti che "Gli indiani hanno già reclamato Alcatraz": se i timori stimolati dall'arrivo di Jane Fonda erano infondati, in questo secondo caso si trasformano in realtà. Nel frattempo il Presidente Nixon ha affidato la gestione della controversia a Leonard Garment, suo consulente personale. La linea ufficiale è chiara: la Casa Bianca rifiuta le richieste degli Indiani. Nel maggio del 1970 il governo federale priva l'ex penitenziario delle forniture essenziali (acqua e luce). Ma in luglio, davanti al Congresso, Nixon annuncia "l'alba di una nuova era, nella quale il futuro degli Indiani verrà determinato da atti indiani e decisioni indiane". Non fa riferimenti diretti ad Alcatraz, ma il suo messaggio è molto chiaro: la termination policy concepita da Eisenhower ha i giorni contati. Nonostante questa apertura importante, Washington continua a rifiutare le richieste degli attivisti che hanno occupato l'isola. L'opinione pubblica, che inizialmente dimostrava una certa simpatia nei loro confronti, cambia atteggiamento quando un incendio danneggia il faro dell'isola, causando seri problemi alla navigazione. Il 10 giugno 1971, infine, un gruppo composto da forze speciali e da agenti dell'FBI costringe i pochi indiani rimasti a lasciare Alcatraz. Tutto questo avviene senza l'uso della violenza e senza spargimento di sangue, secondo le disposizioni di Nixon. In questo modo termina la prima grande rivolta indiana del ventesimo secolo. Quello che a prima vista sembra un fallimento è stato in realtà un successo, perché ha acceso un motore che non si fermerà mai. La rivolta di Alcatraz ha rimosso gli Indiani dal buio della storia e li ha trasformati negli attori consapevoli di una protesta che proseguirà fino ai nostri giorni. I discendenti di Geronimo e Toro Seduto continueranno a fronteggiare la massima potenza mondiale, mossi da una nobiltà interiore che non cederà mai alle sirene della violenza e del terrorismo. 6


Mezzo secolo di resistenza indiana Luglio 1968 Nasce a Minneapolis l'American Indian Movement (AIM). Fra i fondatori, Dennis Banks (Ojibwe), George Mitchell (Ojibwe), Clyde e Vernon Bellecourt (Chippewa). 1969 Viene pubblicato il saggio Custer Died for Your Sins, scritto da Vine Deloria jr. 20 novembre 1969-11 giugno 1971 Occupazione di Alcatraz. Novembre 1972 Circa 500 attivisti indiani raggiungono Washington per presentare ai funzionari del Bureau of Indian Affairs (BIA) un documento che chiede la riforma del BIA e l'istituzione di una commissione governativa che accerti le violazioni dei trattati. Il BIA rifiuta di incontrarli e gli attivisti occupano la sua sede per una settimana. Poco tempo dopo l'FBI inserisce l'AIM nella lista delle "organizzazioni estremiste". 27 febbraio-8 maggio 1973 Nel villaggio di Wounded Knee, situato nella riserva lakota di Pine Ridge (South Dakota), emergono forti contrasti fra i sostenitori dell'AIM e i capi tribali sostenuti dal BIA. Circa 200 attivisti dell'AIM, guidati da Russell Means, occupano il villaggio e annunciano la nascita della Nazione Oglala Sioux rivendicando i confini fissati dal Trattato di Fort Laramie (1868). L'occupazione dura 71 giorni. Gli attivisti si arrendono ma chiedono che il governo apra un'inchiesta sulla gestione della riserva. 1974 Nasce l'International Indian Treaty Council, che promuoverà le istanze indiane a livello mondiale. 6 febbraio 1976 Leonard Peltier viene arrestato e imprigionato con l'accusa di aver partecipato all'omicidio di due agenti dell’FBI. Nel 1977 verrà condannato a due ergastoli, ma rimarrano sempre forti dubbi sulla sua colpevolezza. La sua liberazione verrà richiesta da personalità politiche e culturali di tutto il mondo, come da numerose associazioni e comitati, ma invano. 20-23 settembre 1977 La sede ginevrina dell'ONU ospita la prima conferenza sui popoli indigeni, specificamente dedicata alle Americhe, alla quale partecipano i principali esponenti di tutto il continente. Questo segna l'inizio di un interesse costante da parte delle Nazioni Unite, che a partire dal 1982 ospiteranno a Ginevra un grande convegno annuale con la presenza di associazioni indigene di tutto il mondo. 1978 Nasce l'associazione WARN (Women of All Red Nations), che accusa il governo di aver promosso la sterilizzazione forzata di molte donne indigene. 9 luglio 1981 Esce il primo numero del Lakota Times. 1992 Imponenti manifestazioni popolari contro il cinquecentenario colombiano in tutte le Americhe. A Genova si tengono le controcelebrazioni organizzate dall'associazione Soconas Incomindios. 1992-2001 Gli Apache di San Carlos protestano contro il grande osservatorio che verrà costruito su Mount Graham, territorio sacro, con un forte sostegno delle associazioniste indianiste. 26 giugno 1998 Esce Smoke Signals, il primo film sceneggiato, prodotto, diretto e interpretato da indiani. La storia è tratta da un racconto di Sherman Alexie, autore della sceneggiatura. 21 settembre 2004 Viene inaugurato a Washington il National Museum of the American Indian. 13 settembre 2007 L'ONU approva la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni. Gli Stati Uniti si astengono. 25 settembre 2011 First Nations Experience (FNX), la prima emittente televisiva indiana, comincia le trasmissioni nell'area di Los Angeles. A partire dal 1o novembre 2014 coprirà l'intero territorio federale. Aprile 2016-febbraio 2017 Grandi proteste contro la costruzione del DAPL (Dakota Access Pipeline), un gasdotto che minaccia l'equilibrio ambientale della riserva lakota di Standing Rock (South Dakota). 18 gennaio 2019 Grande marcia dei popoli indigeni a Washington.

Da sinistra: Dennis Banks, Russell Means e Clyde Bellecourt alla sede dell'AIM, Minneapolis, agosto 1971 (foto: Cheryl Walsh Bellville).

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Dopo Alcatraz L'esperienza di Alcatraz si rivela importante anche per le sue ricadute governative. Il 15 dicembre 1970 viene approvata una legge che restituisce ai Taos Pueblo del New Mexico il territorio di 19000 ettari espropriato nel 1906 per costruirci una parte della foresta nazionale di Carson. "Il Congresso degli Stati Uniti restituisce questa terra al suo legittimo proprietario… Nessuna azione potrebbe rendermi più orgoglioso come Presidente degli Stati Uniti" afferma Nixon annunciando l'approvazione della legge. Un anno dopo, il 18 dicembre 1971, è sempre lui che firma l'Alaska Native Claims Settlement Act (ANCSA), l'accordo che segna la fine di un lungo contenzioso con i popoli indigeni dello stato subartico. Nixon resta fedele al programma annunciato due anni prima restituendo l'area attorno a Mount Adams (8,5 ettari) agli Yakima dello stato di Washington, che ne sono stati privati nel 1855 per un errore cartografico. Questo avviene il 20 maggio 1972, poche settimane prima che scoppi lo scandalo Watergate.

Da sinistra: la biografia di Richard Oakes, uno dei capi della rivolta; una delle iniziative organizzate per il cinquantenario; il libro di Adam Fortunate Eagle (Ojibwe), uno degli ideatori dell'occupazione. Bibliografia Blansett K., A Journey to Freedom: Richard Oakes, Alcatraz, and the Red Power Movement, Yale University Press, New Haven (CT) 2018. Fortunate Eagle A., Alcatraz! Alcatraz! The Indian Occupation of 1969-1971, Heyday Books, Berkeley (CA) 1992. Johnson T., Nagel J., Champagne D., American Indian Activism: Alcatraz to the Longest Walk, University of Illinois Press, Urbana-Chicago (IL) 1997. Ly M., "The legacy of the occupation of Alcatraz: Sparking Native American resistance", Mount Royal Undergraduate Humanities Review, II, 2014, pp. 38-46. Smith P. C., Warrior R. A., Like a Hurricane: The Indian Movement from Alcatraz to Wounded Knee, The New Press, New York (NY) 1997. War Jack L., Native Resistance: An Intergenerational Fight for Survival and Life, Donning Company, Brookfield (MO) 2019. Filmografia Alcatraz is not an Island, regia di James M. Fortier, Stati Uniti, 2001, 60'. Taking Alcatraz, regia di John Ferry, Stati Uniti, 2015, 40'.

IN THE WAKE OF RED POWER NEW PERSPECTIVES ON INDIGENOUS INTELLECTUAL AND NARRATIVE TRADITIONS Institute of Advanced Study, University of Warwick (Gran Bretagna), 15-16 maggio 2020 Per informazioni: Dr. Doro Wiese, in_the_wake@outlook.com 8


Nella pancia del mostro Russell Means

Quello che segue è il testo del discorso che Russell Means (1939-2012), figura centrale dell'American Indian Movement, pronunciò il 20 settembre 1977 all'ONU di Ginevra, durante la prima conferenza internazionale che questo organismo dedicò ai problemi dei popoli indigeni. L'iniziativa, che si svolse dal 20 al 22 settembre, segnò una svolta radicale nella politica delle Nazioni Unite, fino ad allora sorde ai problemi indigeni. Siamo venuti qui come un unico popolo per dirvi ancora una volta che da quando le nostre terre sono state invase noi abbiamo mostrato al mondo il rispetto reciproco che ci unisce. E oggi siamo ancora qui, come un solo popolo, per mostrare quel rispetto reciproco. Comunque io parlo a nome di un popolo che vive nella pancia del mostro. Questo mostro si chiama Stati Uniti d'America, e tutti i paesi dell'emisfero occidentale gravitano nella sua orbita. Non vengo a porgere l'altra guancia, perché la mia gente è stanca di porgere l'altra guancia. L'abbiamo fatto per quasi 500 anni, e oggi, a Ginevra, abbiamo per la prima volta la possibilità di far sentire la nostra voce a tutto il mondo. Vogliamo parlare di diritti umani. Il presidente degli Stati Uniti, per farvi capire quanto è razzista, è capace di parlare di diritti umani quando la mia gente è sottoposta a un genocidio, non soltanto negli Stati Uniti, ma in tutto l'emisfero occidentale. Un genocidio pianificato dai governi. Abbiamo portato un'ampia documentazione che lo dimostra. Venticinque anni fa le Nazioni Unite hanno ospitato una conferenza sui diritti umani, e oggi, venticinque anni dopo, non è cambiato niente. Il mondo continua a parlare dell'America latina, del Sudafrica (all'epoca ancora soggetto all'apartheid, ndt), del Mediterraneo, insomma degli stessi problemi di sempre. La differenza è una sola. Venticinque anni fa quelli che venivano chiamati popoli tribali, come ora chiamano noi, i popoli tribali africani si rivolsero alle Nazioni Unite. Sono passati venticinque anni. L'unica cosa che è cambiata da allora è che ora qui ci sono altre tribù, stavolta provenienti dall'emisfero occidentale. E oggi ci rivolgiamo per la prima volta alla comunità internazionale, e continueremo a farlo, perché ci aiuti non soltanto a fermare lo stupro della nostra Madre Terra, ma anche a fermare il genocidio del nostro popolo. Un popolo che ha dei diritti ben precisi fissati dai trattati. I trattati che il Canada e gli Stati Uniti hanno concluso insieme alle nazioni indiane. Gli Stati Uniti sono uno stato criminale e le sue multinazionali condizionano la politica estera di tutto il pianeta. La sola cosa che le muove è la logica del profitto immediato, come possono confermare i Dene, come può confermare il mio popolo (Lakota, ndt), come sanno bene i popoli indigeni dell'America centrale e meridionale. Sappiamo tutti che negli ultimi quattro anni le multinazionali dell'Europa occidentale hanno decuplicato i propri investimenti nell'emisfero occidentale. Abbiamo anche le prove dei legami occulti fra la CIA e le multinazionali che operano in Brasile, Ecuador, Perù, Colombia e Venezuela. Perché ormai tutti sanno che i grandi affari dei prossimi anni li faranno sfruttando queste terre. Voi avrete sentito parlare della nostra spiritualità e del rispetto che abbiamo per ogni forma di vita, perché ci sentiamo strettamente legati, siamo una cosa sola. Bene, lasciate che mi esprima col linguaggio dell'uomo bianco. Anziché chiedervi di rispettare la vita, vi chiediamo di rispettare il capitale. Considerate le risorse naturali un capitale. Non consideratele più come un profitto da ottenere immediatamente, perché se continuerete a vedere i nostri fratelli e la nostra sacra terra come fonti di profitto finirete per consumare tutte le risorse non rinnovabili di questo pianeta. Il petrolio, l'uranio, il carbone e il legname sono una ricchezza. E se le considerate una ricchezza forse potrete pensare al futuro. Perché capirete che questo enorme capitale sta per essere dilapidato dalle multinazionali e dal mostro. 9


Il giorno che gli Indiani entrarono all'ONU Dal 20 al 23 settembre 1977 la sede europea dell'ONU, situata a Ginevra, ospita la prima conferenza internazionale sui popoli indigeni, dedicata alle Americhe. Si tratta di un evento che segna una svolta epocale. Le Nazioni Unite, nate nel 1945, non solo non hanno mai prestato la minima attenzione ai problemi dei popoli indigeni, ma hanno spesso tenuto un comportamento ambiguo che ha favorito i loro oppressori. Basti pensare al suo silenzio acquiescente sull'invasione del Tibet (1950), sulla deportazione degli Inuit canadesi (1953-1960), sul genocidio del Biafra (1967-1970) e sul referendum truccato col quale l'Indonesia si è impadronita di Papua Occidentale (1969). Per i popoli indigeni, quindi, la conferenza di Ginevra segna l'ingresso nella politica internazionale. All'iniziativa partecipano circa 60 popoli provenienti da ogni parte del continente americano. Fra le molte organizzazioni indigene spicca l'International Indian Treaty Council, nato da una costola del celebre American Indian Movement per dare respiro mondiale alle lotte amerindiane. Sono presenti anche alcuni studiosi e un osservatore dell'OLP. La conferenza è la prima tappa di un lungo cammino che dà ai popoli indigeni del pianeta un peso politico insperato. Lo attestano le varie iniziative degli anni successivi: il Gruppo di lavoro sui popoli indigeni, che il 13 settembre 2007 approva la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni; l'anno internazionale dei popoli indigeni (1992); i due decenni dedicati al tema (1995-2004 e 2005-2014); l'anno internazionale delle lingue indigene (2019). Nel 2000 nasce il Forum permanente dell'ONU, composto da 16 membri, otto nominati dai governi e otto scelti dalle organizzazioni indigene. Giovanna Marconi

Da sinistra: il numero speciale della rivista Akwesasne Notes dedicato alla conferenza di Ginevra; le delegazioni amerindiane mentre fanno il loro ingresso nella sede delle Nazioni Unite.

Noi sappiamo che gli Stati Uniti e gli altri paesi dell'emisfero occidentale non possono permettersi di parlare alle nazioni indigene, perché se lo facessero sarebbero costretti ad ammettere che le disprezzano. Io sono venuto qui per parlare anche di un'altra cosa: la nostra liberazione. La liberazione dei popoli indigeni dell'emisfero occidentale e il loro diritto di unirsi alla famiglia delle nazioni. Soltanto ai popoli rossi viene negato il diritto di far parte della comunità internazionale: tutti gli altri, bianchi, neri, bruni e gialli, sono presenti in un modo o nell'altro. Finora non abbiamo mai avuto nessuno che parlasse per noi. Come ha detto qualcuno, "Il potere di un paese si misura con l'oppressione che impone alla sua gente". Bene, noi non siamo più disposti a tollerare questo mostro. Ormai dovremmo aver capito che abbiamo bisogno del sostegno della comunità internazionale. E se lo avremo, forse fra 25 anni aiuteremo altri popoli indigeni a realizzare la liberazione alla quale aspiriamo oggi. Grazie. 10


Sono un indiano d'America, non un nativo americano Rifiuto il termine nativo americano (Native American). È un termine generico usato dal governo per definire i popoli indigeni oppressi dagli Stati Uniti: abitanti delle Samoa americane, Micronesiani, Aleuti, Hawaiiani e quelli detti Eschimesi, che in realtà sono gli Upik e gli Inupiat. E ovviamente gli Indiani d'America. Preferisco indiano d'America (American Indian) perché conosco le sue origini. Il termine indiano viene da due parole spagnole, en dio, che significano letteralmente in Dio. Un'altra cosa che ci distingue è che siamo l'unico gruppo etnico degli Stati Uniti con un chiaro riferimento al continente americano. A una conferenza che si tenne all'ONU nel 1977 abbiamo deciso di usare il termine Indiani d'America. Siamo stati soggiogati come Indiani d'America, colonizzati come Indiani d'America e riconquisteremo la libertà come Indiani d'America. Poi ci chiameremo come vorremo. Non permetterò a nessun governo di decidere come mi chiamo. Oltretutto, chiunque sia nato in America è un "nativo americano". Russell Means

Russell Means parla al Senato degli Stati Uniti (1989) Bibliografia Banks D., Erdoes R., Ojibwa Warrior: Dennis Banks and the Rise of the American Indian Movement, University of Oklahoma Press, Norman (OK) 2005. Means R., Wolf M. J., Where White Men Fear to Tread: The Autobiography of Russell Means, Saint Martin's Griffin, New York (NY) 1996. Stripes J., "A strategy of resistance: The 'actorvism' of Russell Means from Plymouth Rock to the Disney Studios", Wicazo Sa Review, XIV, 1, Spring 1999, pp. 87-101.

Tornerò sotto forma di fulmine... quindi, se vivrete più di me e vedrete un fulmine che avrà colpito la Casa Bianca, saprete chi è stato. Russell Means

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Lo spirito di Alcatraz Intervista a LaNada War Jack

Negli ultimi mesi del 2019 si sono susseguite varie iniziative che hanno commemorato la rivolta di Alcatraz: concerti, conferenze, presentazioni di libri. Un'opera che merita particolare attenzione è Native Resistance: An Intergenerational Fight for Survival and Life (Donning Company, 2019), firmata da LaNada War Jack. La scrittrice shoshone, che all'epoca aveva 22 anni, svolse un ruolo centrale nell'occupazione dell'ex penitenziario di Alcatraz. Il suo libro non si limita a rievocare quell'atto di protesta, ma ripercorre le lotte indiane che hanno segnato il mezzo secolo successivo. Non a caso LaNada ha preso parte anche alla lunga protesta dei Lakota di Standing Rock, organizzata fra il 2016 e il 2017 per contrastare – per ora con successo – la costruzione di un grande gasdotto (il famigerato Dakota Access Pipeline). In questo modo ha sottolineato la con-tinuità ideale che lega le due proteste – Alcatraz e Standing Rock – tappe centrali di una lotta che continua. Abbiamo incontrato la scrittrice, che ringraziamo per averci concesso l'intervista che segue. Il 2019 ha segnato il cinquantenario dell'occupazione di Alcatraz, dove tu svolgesti un ruolo fondamentale. Come nacque l'idea? Il progetto di occupare Alcatraz si fece strada nella comunità indiana di San Francisco dopo la chiusura del famoso penitenziario, che era avvenuta nel 1963. Un primo tentativo fu fatto il 9 novembre 1969, quando un gruppo di indiani rivendicò l'isola appellandosi a un trattato del 1858, secondo il quale "le proprietà federali dismesse sarebbero tornate agi Indiani se questi le avessero reclamate". Il governo federale non accolse questa rivendicazione. Il 20 novembre, quindi, un gruppo di studenti indiani della California occupò Alcatraz perché era stato infranto l'ennesimo trattato. Quali furono le conseguenze politiche dell'occupazione? Nixon fu il primo e l'ultimo presidente a fare qualcosa di concreto firmando la legge che archiviava la termination policy. Questa politica, varata da Eisenhower negli anni Cinquanta, aveva permesso ai singoli stati di chiudere le riserve e requisirne le terre. Nixon triplicò il contributo federale al Bureau of Indian Affairs e all'Indian Health Service (Servizio sanitario degli Indiani, ndt). Inoltre fece approvare una cinquantina di leggi che migliorarono in modo sostanziale la nostra condizione. Da Alcatraz a Standing Rock: 50 anni di lotte indiane. Quali sono le differenze fra queste due esperienze fondamentali? Molti indiani hanno partecipato a entrambe con lo stesso slancio spirituale e pacifista. La differenza fondamentale è che nel primo caso trovammo un presidente sensibile alle nostre istanze, anche se poi l'amministrazione successiva avrebbe distrutto gran parte di quello che lui aveva costruito. Ma sarebbe bello trovare un altro presidente come lui. Da Alcatraz a oggi, cioè da Nixon a Trump, si sono succeduti nove presidenti. Qual è stato, secondo te, il più sensibile alle istanze indiane? Non ho alcun dubbio: Richard Nixon è stato il primo e l'unico presidente che abbia fatto qualcosa di concreto per noi. Parlando di presidenti non possiamo fare a meno di dire qualcosa su Trump… possiamo dire che è il peggiore? Certo, Donald Trump è sicuramente il peggiore presidente. Non solo per gli Indiani, ma per tutti. È la quintessenza del peggiore americano. La sua politica rappresenta un pericolo mortale per il nostro pianeta. 12


Dopo il libro Native Resistance, quali sono le tue prossime iniziative? Ho intenzione di fare una nuova edizione riveduta e corretta. Vorrei fare anche una versione audio e mi piacerebbe che il libro fosse tradotto in altre lingue… Se mi permetti vorrei aggiungere una cosa molto importante. La nostra lotta non riguarda soltanto i popoli indigeni del Nordamerica, perché si tratta di salvare il pianeta e tutte le forme di vita animali e vegetali. Se queste spariscono significa che presto toccherà anche a noi. Si tratta di una responsabilità precisa che ci riguarda tutti.

Da sinistra: LaNada War Jack (all'epoca LaNada Boyer) sulla copertina di Ramparts (febbraio 1970); il suo nuovo libro, Native Resistance: An Intergenerational Fight for Survival and Life

STANDING ON SACRED GROUND In molte parti del mondo i popoli indigeni lottano per difendere i propri siti sacri. Nella loro resistenza si intrecciano motivazioni ambientali, culturali, religiose ed economiche. Questa serie di quattro documentari, diretta da Christopher McLeod, offre un panorama mondiale che va dagli Stati Uniti all'Australia, dall'Etiopia alle Ande. Narrata dal celebre attore Graham Greene, la serie racconta le lotte di otto comunità che si oppongono alla devastazione ambientale e culturale causata dalla logica mercantile. Un documento essenziale per conoscere le questioni indigene contemporanee. www.sacredland.org

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Meglio morto che rosso James P. Gregory Jr.

A metà del ventesimo secolo gli Stati Uniti e l'URSS erano già saldamente inseriti nella logica della guerra fredda. Per Washington la priorità era quella di unire gli americani nella lotta contro il comunismo, ma il suo appello all'unità era rivolto soltanto ai bianchi delle classi medie e alte. I poveri e le minoranze restavano esclusi da tutto quello che veniva considerato "normale". Tutto ciò che si trovava al di fuori di questa normalità veniva guardato con disprezzo. Questo era il fondamento dei pregiudizi razziali, politici e religiosi che crescevano fino a raggiungere un ruolo centrale. Naturalmente si trattava di un fenomeno che interessava anche gli Indiani. Nel Nevada, in particolare, alcuni dei loro territori vennero utilizzati per gli esperimenti nucleari e per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi. Nel 1951 la Commissione sull'energia atomica individuò la sede degli esperimenti atmosferici in una vasta area desertica situata a 100 km da Las Vegas. Questa terra apparteneva agli Western Shoshone. Il primo esperimento, che fu realizzato il 27 gennaio 1951, segnò l'inizio di una lunga serie che sarebbe durata fino al 23 novembre 1992: un totale di 928 esplosioni nucleari americane e 19 britanniche che avrebbero fatto degli Shoshone la nazione più bombardata del pianeta. Il governo non parlava mai dei danni umani e ambientali. Si preoccupava dei soldati e degli scienziati coinvolti nelle operazioni, ma non della popolazione locale. La Commissione per l'Energia Atomica studiava gli effetti sugli esseri umani inviando delle truppe di terra a 2300 metri dall'epicentro e spostandole ancora più vicino poco dopo l'esplosione. Nel 1957, però, gli effetti della radioattività sui soldati e sulla popolazione locale indussero il governo a optare per gli esperimenti sotterranei, e nel 1962 quelli atmosferici vennero definitivamente abbandonati. Quindi il governo riconobbe gli effetti degli esperimenti, ma si preoccupò soltanto di tenere buoni i cittadini affinché non protestassero. Gli esperimenti durarono 41 anni, durante i quali le terre degli Shoshone vennero progressivamente erose dal Dipartmento della Difesa e da altri organismi federali. Nel 1996, quando finirono, ne avevano conservato soltanto il 10%. La loro sopravvivenza si fece molto difficile, non soltanto a causa dell'ambiente desertico, ma anche per la presenza del materiale radioattivo, lanciato in aria fino a 12 km di quota, poi ricaduto sotto forma di cenere e pulviscolo altamente tossici. Alcuni animali cominciarono a morire in modo insolito, le aree verdi diventarono nere, crebbero i tumori e si manifestarono varie deformità neonatali. Nonostante fosse chiaro che tutto questo derivava dagli esperimenti nucleari, la Commissione per l'Energia Atomica lo negava. Nel 1962 questa cominciò a pubblicare Understanding the Atom, una serie di opuscoli informativi sulle conseguenze degli esperimenti. In questo modo cercava di tranquilizzare l'opinione pubblica. L'opuscolo intitolato The Fallout from Nuclear Tests affermava che "nelle zone lontane dagli esperimenti la gente può aver riportato danni alla salute". Nonostante questa ammissione i danni ambientali e fisici degli Shoshone vennero ignorati. Non solo, ma nell'opuscolo si leggeva anche che "Le persone approvano gli esperimenti perché sanno che il livello delle radiazioni derivate dai test nucleari non costituisce un pericolo". Dopo la fine degli esperimenti gli Shoshone furono costretti a sopportare anche le conseguenze della loro interruzione, dato che il governo aveva bisogno di aree dove immagazzinare le scorie radioattive. A questo scopo individuò una zona della Yucca Mountain, dove oltre agli Shoshone vivevano i Goshute. Le terre di questi ultimi erano quelle più inquinate dalle scorie. Nel dicembre del 1991 David Leroy, direttore dell'ufficio federale che curava i negoziati relativi alle scorie nucleari, propose al National Congress of American Indians un nuovo accordo. Questo consentiva a14


gli Indiani di negoziare direttamente con il Dipartimento dell'Energia le modalità per l'immagazzinamento dei combustibili radioattivi esausti nelle riserve. Il governo voleva utilizzare queste terre perché erano lontane dalla "civiltà", senza preoccuparsi minimamente della popolazione locale. La Commissione dell'Energia Atomica evidenziò il problema in un altro fascicolo della serie Understanding the Atom, intitolato Radioactive Wastes: "Queste scorie generano molto calore per diversi anni. Inoltre, i radioisotopi hanno bisogno di centinaia di anni per scendere a livelli innocui. Per tutto questo tempo devono restare immagazzinati in aree molto lontane da quelle abitate". Per il governo era pacifico che le tribù accogliessero queste scorie altamente radioattive nelle proprie terre: Leroy disse che "la cultura dei nativi americani e la sua saggezza millenaria hanno un legame particolare con la terra, quindi sono le più adatte a questo compito". Sebbene si trattasse di un'idea assurda che venne contestata da molte comunità, la povertà impose a 16 tribù di accogliere la proposta in cambio del denaro offerto dal governo. Prima di accettarla, comunque, i Goshute della Skull Valley (Utah) richiesero un'indagine scientifica per valutarne i vantaggi e le conseguenze. Dopo i risultati concessero la terra al Private Fuel Storage (PFS), un consorzio privato di servizi elettrici. Il Bureau of Indian Affairs contestò la scelta degli Indiani perché in questo modo il governo non avrebbe potuto più ottenere la loro terra. Nonostante la loro piccola vittoria, i Goshute si trovarono davanti a un bivio: vendere la terra al governo o no? La tribù doveva scegliere fra la difesa della propria cultura e il bisogno economico. Purtroppo il governo l'aveva messa con le spalle al muro. La tribù si trovava vicino a uno dei siti nucleari più grandi degli Stati Uniti. "La gente deve rassegnarsi: questa area è già stata scelta come sede dei rifiuti nucleari dal governo fe-derale, dallo Utah e dalle autorità locali", rimarcò un membro della tribù. "Il deposito militare di Tooele (Utah, ndt), situato a 65 km da qui, contiene il 40% del gas nervino dell'intero paese e altri gas tossici. Dugway Proving Ground, una struttura militare dove vengono sperimentate armi chimiche e biologiche, è a soli 25 km. Nel raggio di 40 km ci sono altri quattro siti per materiali era-dioattivi o comunque pericolosi. Insomma, siamo accerchiati". Nonostante fosse circondata da questi pericoli, la tribù cercò di restare sulla propria terra. In seguito a questo venne a trovarsi in una situazione simile a quella degli Shoshone. Nel 1968, al Dugway Proving Ground, fu realizzato un esperimento che si rivelò devastante. Un aereo da caccia scaricò del nervino che investì la valle e un pascolo vicino, uccidendo 6000 pecore in pochi giorni. I militari riunirono le carcasse e le seppellirono nella Skull Valley. Questo danno alle risorse della tribù rimase ignoto e gli Indiani non vennero indennizzati. La decisione di restare nella propria terra si era trasformata in una condanna: "Qui non possiamo fare niente per migliorare le condizioni ambientali. Chi comprerebbe un pomodoro che è stato coltivato in queste condizioni?" disse il capo tribale Leon Bear. I Goshute continuarono la propria battaglia, ma nel 2007 stavano ormai per arrendersi e offrire la propria terra, quando la protesta popolare li costrinse a fare marcia indietro. Nel febbraio del 2009 il Dipartimento del'Energia annunciò l'intenzione di non utilizzare soltanto Yucca Mountain come deposito di scorie nucleari e di cercare altre soluzioni. Un'altra tribù penalizzata dalla logica della guerra fredda è stata la Nazione Navajo, che vive in una riserva situata a cavallo di tre stati sudoccidentali (Arizona, New Mexico e Utah). In questa regione si trovano tuttora 1100 miniere di uranio che sono state attive fra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta. Circa la metà di queste strutture contiene forti quantità di uranio, arsenico e altri metalli. Le miniere hanno avvelenato le sorgenti d'acqua utilizzate dal bestiame e dagli abitanti del luogo che non avevano accesso alle fonti idriche controllate della riserva navajo. Lo stesso si è verificato in tutte le regioni sudoccidentali dove il governo o le aziende private avevano scavato delle miniere durante la guerra fredda. Poi queste sono state abbandonate trascurando i residui pericolosi che erano stati prodotti. La loro posizione remota e la scarsa densità di popolazione ha indotto le autorità a sottovalutare i rischi che avrebbero potuto derivarne. Queste miniere si trovano a poca distanza dalle comunità indigene, ma è stato soltanto nel 1978 che l'Atomic Energy Act (1954) ha cominciato a occuparsi del problema. La nuova normativa, comunque, non è stata applicata a quelle che erano state chiuse negli anni Sessanta, quasi tutte situate in terre indiane. Nel 2015, per appurare la situazione, è stata analizzata l'acqua che scorreva nei pressi della riserva navajo. Uno dei campioni era stato prelevato da una fonte che alcune famiglie 15


utilizzavano negli anni Sessanta e Settanta. Le fonti analizzate contenevano una concentrazione di uranio variante dal doppio al quintuplo dei valori fissati dal governo per l'acqua potabile. Questo significa che negli anni Sessanta e Settanta i membri della tribù avevano ingerito quantità capaci di danneggiare i reni degli esseri umani e causare varie disfunzioni agli animali. Washington non ha mai riconosciuto le proprie responsabilità, ma una tribù è riuscita almeno a guadagnare l'attenzione dell'opinione pubblica. Si tratta degli Havasupai, il "popolo dell'acqua verdazzurra". La loro unica fonte di acqua potabile sorge nella zona del Grand Canyon, non lontano dal sito che ospita i rifiuti di uranio. Gli Havasupai, sostenuti da molte persone venute da altre località, sono riusciti a ottenere una moratoria ventennale dell'attività mineraria.

La morte che viene dalla terra L'uranio è un elemento chimico tossico e radioattivo (simbolo U, numero atomico 92) di colore bianco argentato. Due dei suoi isotopi (233U e 237U) vengono utilizzati come propellente per i reattori nucleari e per il materiale esplosivo delle armi nucleari. Ancora più radioattivo è l'uranio impoverito (238U). La scoperta dell'elemento viene attribuita al chimico tedesco Martin Heinrich Klaproth (1789). Isolato nel 1841 da Eugene-Melchior Peligot, nel 1870 cominciò a essere utilizzato in Gran Bretagna per la lavorazione del vetro. Alla fine del secolo il fisico francese Henri Becquerel ne accertò la radioattività. Con la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti dettero il via al suo impiego bellico. L'uranio impoverito fu usato per realizzare la bomba che venne lanciata su Hiroshima il 6 agosto 1945, mentre per le altre armi nucleari fu utilizzato il plutonio, che si produce usando l'uranio. L'elemento radioattivo viene assorbito dall'organismo attraverso l'aria, l'acqua e il cibo. In certi casi può derivarne il cancro renale. Chi lavora nelle miniere di uranio è particolarmente esposto al radon, un gas emanato dal radio, presente in natura nell'uranio. Fra gli effetti più frequenti, il cancro polmonare e altre malattie delle vie respiratorie. Giovanna Marconi Queste sono soltanto alcune delle conseguenze della corsa al riarmo che caratterizzò la guerra fredda. Per occultare questo disprezzo della vita umana il governo cominciò a dipingere gli Indiani come bestie selvagge analoghe ai comunisti. La Difesa Civile, il dipartimento governativo addetto alla preparazione di una guerra nucleare, cominciò a diffondere opuscoli, fumetti, film e altri strumenti di propaganda affinché l'opinione pubblica prendesse coscienza di questa "minaccia". Molti di questi documenti raffiguravano un murale che mostrava i momenti più difficili della storia americana. In Operation Survival!, un fumetto del 1957, un gruppo di coloni cerca di resistere all'attacco di alcuni indiani a cavallo. In cima alla pagina si legge: "Dalla notte dei tempi gli uomini hanno sempre dovuto fronteggiare dei pericoli". La didascalia dice: "Coloni che uniscono le forze per respingere l'offensiva degli Indiani". Un'altra pubblicazione ritrae una famiglia seduta in cerchio ad ascoltare la storia americana. Sopra di loro si vede un murale che ne riassume i momenti più difficili. La seconda immagine ritrae un bianco davanti alla sua casa in fiamme mentre spara a un gruppo d'indiani che lo attaccano con asce e frecce: "Per la generazione della tua bisnonna questi indiani armati di asce, coltelli e frecce infuocate erano quello che per noi è la guerra atomica". In entrambi i casi gli Indiani erano equiparati ai comunisti sovietici, oggetto di un odio che veniva insegnato come una materia scolastica. I fumetti diffondevano l'idea che gli Indiani fossero selvaggi nemici del progresso americano. Questo spiega perché la maggior parte della popolazione non provava il minimo interesse per i loro problemi. Qualsiasi rivendicazione espressa dagli Indiani veniva rifiutata: la società americana voleva cancellare tutto quello che minacciasse lo status quo. Questa logica permise al governo di varare la termination policy, che prevedeva la chiusura delle riserve, la fine delle sovvenzioni federali e l'assimilazione. Il caso più emblematico fu quello dei Klamath. Il 13 agosto 1954 il Congresso approvò la legge 587, che disponeva "la fine della supervisione federale sui Klamath dell'Oregon e sui suoi membri". La legge trasformava la proprietà tribale in proprietà personale. Inoltre fissava la creazione di un registro tribale, e "alla mezzanotte dell'entrata in vigore di questa legge il registro sarà chiuso e nessun bambino nato successivamente potrà esserci aggiunto". La legge fu presentata come un mezzo per restituire il potere alla tribù, che in questo modo non sarebbe stata più soggetta al go16


verno. "Siamo convinti che la tribù dei Klamath e i suoi singoli membri siano perfettamente in grado di gestire i propri affari senza l'assistenza federale" disse il Vicesegretario degli Interni Orme Lewis. La realtà era molto diversa. Con la fine della supervisione federale la tribù poteva entrare nel sistema della libera impresa e vendere la propria terra. Ma il fatto che i Klamath non avessero esperienza in questo campo permetteva al governo e alle aziende private di accaparrarsi facilmente le grandi quantità di legname che si trovavano nelle loro riserve. Lo sviluppo delle aree suburbane richiedeva grandi quantità di legname per la costruzione di nuove case. Lo confermano i documenti del Congresso: "…questa legge dovrebbe permetterci di sfruttare il legname della riserva", disse il senatore Watters. Gli Stati Uniti abusarono del proprio potere per sfruttare le risorse di molte riserve. Le tribù interessate dalla nuova legge furono 109. Circa 2.500.000 acri (1.012.000 kmq) vennero privati della protezione federale e 12.000 indiani persero l'affiliazione tribale. Alcune di queste tribù persero il riconoscimento federale, anche se poche vennero completamente disgregate. Nel mezzo secolo della guerra fredda, per contrastare l'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno fatto ricorso alle pratiche più ignobili e aberranti. Gli Indiani sono stati privati delle terre, della propria cultura, sono stati dipinti come esseri subumani, la loro salute è stata duramente compromessa. Gli esperimenti nucleari hanno segnato un progresso tecnologico decisivo per gli Stati Uniti, ma hanno avuto un costo altissimo per gli Indiani. Il governo li ha combattuti come nemici del progresso. Ha avvelenato le loro terre con sostanze radioattive che hanno causato tumori e altre malattie. Le vittime non hanno mai avuto un risarcimento e sono state dimenticate da tutti.

Da sinistra: Protesta navajo (Fonte: Deutsche Welle); il libro con le testimonianze dei minatori navajo. Bibliografia Benally T., Stilwell C. B., Harrison P., Memories Come to Us in the Rain and the Wind: Oral Histories and Photographs of Navajo Uranium Miners and Their Families, Red Sun Press, Jamaica Plain (MA) 1996. https://swuraniumimpacts.org/wp-content/uploads/2016/06/Memories-Come-To-Us.pdf Brugge D., Benally T., Yazzie-Lewis E. (a cura di), The Navajo People and Uranium Mining, University of New Mexico Press, Albuquerque (NM) 2006. Eichstaedt P., If You Poison Us: Uranium and Native Americans, Red Crane Books, Sante Fe (NM) 1994. Pasternak J., Yellow Dirt: A Poisoned Land and the Betrayal of the Navajos, Simon & Schuster, New York (NY) 2011. Filmografia American Outrage, regia di George e Beth Gage, Stati Uniti, 2008. The Return of Navajo Boy, regia di Jeff Spitz, Stati Uniti, 2000. Yellow Fever: The Navajo Uranium Legacy, regia di Sophie Rousmaniere, Stati Uniti, 2013.

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Inchiostro rosso Holy Boomer

In una comunità indiana, se si sente la parola vine, la gente capisce subito che si sta parlando di uno scrittore e non di una vigna (in inglese vine significa vigna, ndt). Basta il nome per capire che si allude a Vine Deloria jr., una delle figure centrali della cultura amerindiana, se non la più importante in assoluto. Deloria non è stato il primo scrittore indiano, ma certamente il più prolifico autore di studi sulle questioni indiane. Le ha affrontate tutte nel modo più coraggioso. Era un guerriero che usava le parole come armi: la sua critica radicale era diretta contro la società americana e contro il governo. I suoi libri hanno avuto larga diffusione, ma gli Indiani non hanno mai avuto bisogno di leggerli per capire che Deloria voleva denunciare i loro problemi e cercare di risolverli. Titoli come Custer Died for Your Sins, God is Red e Behind the Trail of Broken Treaties sono una sfida allo status quo, ma anche un pungolo, perché vogliono spingere gli Indiani a rifiutare di essere studiati, definiti e analizzati dal sistema. Deloria ha sviscerato tutti i problemi che hanno segnato la vita degli indigeni nordamericani, quelli storici come quelli odierni. L'americanizzazione, l'autodeterminazione e l'alienazione culturale sono soltanto alcuni dei temi che ha trattato nei suoi libri e nelle sue conferenze. Per risolvere questi problemi ha proposto quella che si può definire una resistenza basata sulla parola. Deloria ha usato una tecnica letteraria: il suo attivismo si esprimeva nella scrittura e chiedeva che il sistema prestasse ascolto alle rivendicazioni indiane. Per essere più precisi, reclamava il diritto di raccontare una storia degli Indiani diversa da quella ufficiale. Il suo esempio ha ispirato una nuova generazione di scrittori indiani e li ha messi in grado di proseguire sulla strada che aveva tracciato. Deloria era profondamente convinto che lo studio potesse trasformare i giovani in custodi delle proprie tradizioni. Diceva che il ritorno alla vita tradizionale era un cemento comunitario irrinunciabile, ma sottolineava che questo doveva essere accompagnato da "un pensiero chiaro che distinguesse le tradizioni ancora valide dagli stereotipi che vengono attribuiti agli Indiani come membri della società americana" (da Indian Education in America). Deloria ha dimostrato che l'istruzione permette agli Indiani di far valere i propri diritti. I suoi libri hanno dato un quadro completo della cultura indiana, grazie al quale tutti hanno potuto cogliere quella ricchezza e quella profondità che per Deloria sono la base delle civiltà indigene. Nel libro Red Earth, White Lies Deloria si augura che gli anziani trasmettano il proprio bagaglio culturale alle giovani generazioni, così che queste "rispettino, custodiscano e conservino quello che resta della nostra cultura". Deloria ha insegnato agli Indiani che la loro istruzione deve trarre linfa dalla tradizione come dalla cultura americana. Gli Indiani vinceranno la propria sfida al sistema se sapranno essere una parte attiva della storia. Il poco che sapevo di Vine l'avevo appreso frequentando la chiesa della missione episcopale dove sono cresciuta, la stessa che un tempo era guidata da suo padre, Padre Vine Deloria sr., un uomo al quale volevamo tutti molto bene. Molti conoscevano Vine Jr., o Punky, come lo chiamavano. Non lo conoscevano per i suoi libri o per il suo impegno, ma come un giovane che sembrava destinato a seguire le orme del padre. La sua personalità ha lasciato un segno indelebile nella nostra comunità perché lui, che veniva da una piccola città, era diventato una figura di rilievo nazionale. Cominciai a interessarmi a lui perché ero incuriosita dalla differenza fra quello che chiamavano Punky e quello che lui era in realtà. Io non conoscevo Vine, che apparteneva alla generazione di mio padre, ma riuscii ad avere un breve contatto con lui mentre preparavo la mia tesi di laurea. Ricordo che fu gentile e disponibile. Era molto interessato al mio lavoro e mi dette alcuni suggerimenti preziosi. Ascoltava con pazienza e con curiosità quello che veniva dalle giovani geneerazioni. Era una persona splendida, sia come scrittore che come uomo. Questa è l'eredità più grande che ha lasciato alle generazioni future. 18


Il grande filosofo indiano del ventesimo secolo Lakota (Sioux) hunkpapa come Toro Seduto, Vine Vincent Deloria jr. nasce il 26 marzo 1933 a Martin (South Dakota). Figlio di un sacerdote protestante, dopo la scuola dell'obbligo si laurea in legge e in teologia. Negli anni Sessanta si impone come il massimo esponente della rinascita indiana. Dal 1966 al 1967 guida il National Congress of American Indians, il più antico ente federale che rappresenta gli Indiani. Nel 1968, anno topico per le ribellioni sociali del dopoguerra, anche gli Indiani si organizzano per difendere i propri diritti. A Minneapolis nasce l'American Indian Movement (AIM), che si impone come il motore della nuova resistenza indiana grazie a varie azioni dimostrative. Sono gli anni delle prime manifestazioni di grande rilievo: l'occupazione di Alcatraz (1969-1971); la marcia verso Washington nota come Trail of Broken Treaties (Sentiero dei trattati infranti), realizzata nel 1972 per reclamare il rispetto dei trattati; l'occupazione di Wounded Knee (1973), che finisce sanguinosamente con l'intervento dell'esercito. Deloria non prende parte attiva a questi episodi, ma osserva, medita, fornisce spunti di riflessione e di dibattito. Il suo parere gode ormai di grande rispetto. Come i suoi libri: il più famoso, l'unico tradotto in italiano, è Custer Died for Your Sins (tr. it. Custer è morto per i vostri peccati, Jaca Book, Milano 1972, rist. 1994). Pubblicato nel 1969 con il sottotitolo An Indian Manifesto, il libro contiene la più coerente e spietata demolizione dei luoghi comuni che circolano sugli Indiani del Nordamerica. Con logica stringente lo scrittore distrugge uno per uno gli stereotipi veicolati dai film western: "Quanto più cerchiamo di essere noi stessi, tanto più dobbiamo difenderci da ciò che non siamo mai stati". Lo studioso attacca le missioni cristiane, accusandole di aver preparato "ad altri la strada della conquista e dello sfruttamento", e auspica che gli Indiani tornino "alle loro antiche religioni dove e quando fosse possibile". Un altro dato importante è che Deloria inserisce la questione indiana nel contesto della storia americana moderna, mettendo a nudo il vero volto di quella che molti venerano come la massima democrazia mondiale. L'intensa vita culturale e sociale di Vine Deloria è scandita da una lunga serie di opere che analizzano i vari problemi degli Indiani moderni, dalla questione dei trattati (Behind the Trail of Broken Treaties: An Indian Declaration of Independence, Dell, New York 1974) alla critica dei dogmi scientifici (Red Earth, White Lies: Native Americans and the Myth of Scientific Fact (Scribner, New York 1995). Un' altra opera di particolare interesse, che meriterebbe una traduzione italiana, è God is Red: A Native View of Religion (1972, rist. Fulcrum, Golden 2003). L'attaccamento al cristianesimo è un tratto distintivo della sua famiglia: sia il nonno che il padre sono sacerdoti protestanti, e fra i suoi antenati c’è uno dei primi lakota che si sono convertiti al cristianesimo. L'intellettuale, comunque, matura una posizione ben diversa. In God is Red, infatti, riafferma il valore e la vitalità della religiosità indiana, rifiutando il cristianesimo, secondo lui colpevole di aver sostenuto l’imperialismo e la distruzione ambientale. Negli anni Novanta Deloria collabora alla progettazione del National Museum of American Indians, che viene inaugurato a Washington nel settembre 2004. Dal 1990 al 2000 insegna legge all'Università del Colorado, dopodiché si ritira con la moglie Barbara a Golden, una cittadina nei pressi di Denver. Parlando di un intellettuale come lui è praticamente impossibile non dimenticare qualcosa: la quantità di iniziative legate al suo nome è talmente sconfinata che mette a dura prova qualsiasi memoria. Soltanto leggendo i suoi libri, comunque, è possibile cogliere l'essenza profonda di un uomo che ha saputo coniugare il rigore accademico con l'appassionata difesa della causa indiana. Alessandro Michelucci

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Bibliografia Pavlik S., Wildcat D. R. (a cura di), Destroying Dogma: Vine Deloria Jr. and His Influence on American Society, Fulcrum Publishing, Golden (CO) 2006. Scinta S., Foehner K. (a cura di), Spirit and Reason: The Vine Deloria Jr. Reader, Fulcrum Publishing, Golden (CO) 1999. Wilkins D. E., Red Prophet: The Punishing Intellectualism of Vine Deloria, Jr., Fulcrum Publishing, Golden (CO) 2018.

Da sinistra: tre libri dedicati all'opera di Vine Deloria jr.; la copertina dell'LP Custer Died for Your Sins, ispirato al libro omonimo di Deloria, registrato da Floyd Red Crow Westerman. Il disco è ispirato al libro omonimo di Deloria, che non a caso firma le note di copertina.

Philip J. Deloria aderisce al comitato scientifico della rivista Prima e dopo Vine Deloria jr. la sua famiglia ha espresso altre figure di grande rilievo culturale e scientifico. La zia paterna Ella Cara Deloria (nome lakota Anpetu Waste, 1889-1971) è stata un'educatrice, antropologa, linguista e scrittrice. Ha avuto un ruolo fondamentale nel documentare la cultura lakota in anni in cui questa rischiava l'estinzione. Collaborò con Franz Boas, il celebre antropologo tedesco che ci ha lasciato studi pregevoli sulle lingue indigene nordamericane. Philip Joseph Deloria, il maggiore dei tre figli di Vine, ha raccolto l’eredità paterna. Nato nel 1959, ha pubblicato numerosi libri, fra i quali Playing Indian (1999), Indians in Unexpected Places (2004) e Becoming Mary Sully: Toward an American Indian Abstract (2009). Ha insegnato in varie università. Dal 2018 ricopre la prima cattedra di Storia amerindiana alla Harvard University. Recentemente Philip Deloria ha aderito al comitato scientificato della rivista. Lo ringraziamo per questa manifestazione di stima, che ricambiamo sinceramente.

Philip J. Deloria 20


Le guerre indiane del ventunesimo secolo Alessandro Michelucci

La storia recente degli Indiani nordamericani è segnata da un paradosso: pur essendo cittadini di un paese che occupa costantemente le prime pagine, l'interesse mediatico nei loro confronti è quasi nullo, con l'ovvia eccezione degli Stati Uniti. L'Europa è piena di giornalisti, intellettuali ed esponenti politici che incensano la federazione nordamericana, mentre (pochi) altri arrivano al massimo a denunciarne certi limiti. Ma per gli uni come per gli altri è come se gli Indiani non esistessero. Uno sguardo più attento, però, rivela che si tratta di un paradosso apparente, perché in realtà questo disinteresse ha delle motivazioni ben precise. Il complesso intreccio di interessi politici, economici e militari che legano l'Europa agli Stati Uniti ha creato quella sudditanza psicologica che il regista Wim Wenders ha sintetizzato perfettamente in poche parole: "Gli americani ci hanno colonizzato il subconscio" (l'attore Hanns Zischler le pronuncia nel film Nel corso del tempo, 1976). Nel momento in cui il Vecchio Continente e gli Stati Uniti vengono percepiti come parti complementari di un unico complesso politico-militare, economico e culturale, l'Occidente, il silenzio sui problemi che travagliano gli Indiani d'America diventa naturale, se non addirittura obbligatorio. Il fenomeno è radicato così profondamente che non conosce eccezioni neanche quando la politica di Washington nei confronti della questione indiana potrebbe aumentare i meriti del Presidente in carica, come nel caso di Obama, o fornire argomenti polemici incontestabili, come nel caso di Trump. Una vecchia ruggine Alla fine degli anni Settanta Donald John Trump, poco più che trentenne, è già uno dei maggiori immobiliaristi di New York. Successivamente espande la propria attività ad Atlantic City, dove acquista o costruisce numerosi alberghi e sale da gioco. I suoi primi contrasti con gli Indiani risal-gono ai primi anni Novanta. Trump comincia a temere la concorrenza dei casinò che stanno nascendo in varie riserve grazie all’Indian Gaming Regulatory Act (IGRA), firmato nel 1988 da Ronald Reagan. Nel 1993 il magnate cerca di screditare le tribù che hanno aperto le prime sale da gioco: "Non mi sembrano neanche indiani" afferma davanti al Congresso, sostenendo che certi imprenditori si fingono indiani per poter espandere la propria attività economica nelle riserve. Il contrasto riemerge nel 2000, quando gli Indiani gestiscono ormai il 25% delle sale da gioco attive in tutta la federazione. I Mohawk della riserva di St. Regis annunciano la prossima apertura di un casinò nella regione dei Monti Catskill, situata a nord di New York. Un'intensa campagna mediatica cerca di screditarli dipingendoli come mafiosi e spacciatori di droga. Le inserzioni sono state pagate da un misterioso Institute for Law and Safety, che poi risulta legato a Trump. Come documenteranno i media americani dopo la sua elezione, sarà grazie a questi precedenti che la profonda ostilità di Trump nei confronti degli Indiani si manifesterà in due modi diversi. Da una parte, utilizzando i poteri presidenziali; dall'altra, con affermazioni e comportamenti legati a momenti particolari. Sarà proprio il vecchio rancore personale che ispirerà la sua azione politica. L'eredità di Andrew Jackson Fra la fine del ventesimo secolo e l'inizio del ventunesimo si affermano in varie parti del mondo alcuni personaggi politici che provengono dal mondo imprenditoriale e finanziario: Silvio Berlusconi in Italia, Thaksin Shinawatra in Thailandia e Rafīq al-Ḥarīrī in Libano, solo per fare qualche esempio. La loro linea politica viene fortemente condizionata dai rapporti che li legano all'ambiente di provenienza. Donald Trump si inserisce a pieno titolo in questo nuovo panorama. Il candidato repubblicano viene eletto presidente degli Stati Uniti il 6 novembre 2016 ed entra in carica il 20 gennaio dell'anno successivo. Le reazioni indiane sono molto negative: "[L'elezione di Donald Trump] rappresenta la minaccia più grande per le relazioni fra gli Indiani e il potere federale. 21


La vera storia del Thanksgiving Day Il Thanksgiving Day (Giorno del Ringraziamento) viene associato all'immagine di alcuni coloni europei e di indiani che partecipano allegramente a una festa. In effetti, almeno all'inizio, questo accadde davvero. Tutto cominciò nel 1614, quando un gruppo di esploratori inglesi partì per la Gran Bretagna su una nave piena di indiani patuxet destinati alla schiavitù. Dietro di sé lasciarono un'epidemia di vaiolo che avrebbe decimato quelli che non avevano catturato. Quando i Pellegrini raggiunsero Massachusetts Bay trovarono un solo patuxet, Squanto, che era sopravvissuto alla schiavitù in Gran Bretagna e parlava l'inglese. L'uomo insegnò loro a coltivare il grano e a pescare. Inoltre li aiutò a concludere un trattato di pace con la nazione wampanoag. Un anno dopo gli inglesi organizzarono una festa in onore di Squanto e degli Wampanoag. Ma quando in Gran Bretagna si venne a sapere che esisteva un paradiso terrestre situato oltre l'Atlantico molti puritani iniziarono a emigrare per raggiungerlo. Non trovarono delimitazioni territoriali e pensarono che la terra fosse proprietà pubblica. Divenuti più numerosi in seguito all'arrivo di altri coloni, divisero la terra, fecero schiavi i giovani indiani e uccisero gli altri. I Pequot, che non avevano firmato il trattato di pace negoziato da Squanto, scatenarono una delle guerre più sanguinose fra indiani e bianchi. Nel 1637, vicino a quella che oggi è Groton (Connecticut), circa 700 pequot - uomini, donne e bambini – si erano riuniti per la loro festa annuale. Nella notte, mentre dormivano, furono circondati da alcuni mercenari inglesi e olandesi che li sterminarono. Le donne, che erano rimaste nelle tende con i loro bambini, furono arse vive. Il giorno dopo il governatore della Massachusetts Bay Colony dispose "una giornata di ringraziamento" per festeggiare l’uccisione di 700 persone: uomini, donne e bambini. Esaltati da questa "vittoria", i coloni e i loro alleati indiani attaccarono un villaggio dopo l'altro. Le donne e i ragazzi oltre i 14 anni venivano venduti come schiavi mentre gli altri venivano uccisi. Dai porti del New England partivano navi con migliaia di schiavi. A chi portava degli scalpi indiani venivano pagate taglie generose. Dopo un attacco vittorioso contro i Pequot nell'attuale Stamford (Connecticut), le chiese annunciarono un secondo "giorno di ringraziamento" per festeggiare quella vittoria contro i "selvaggi pagani". Durante i festeggiamenti le teste tagliate degli indiani venivano prese a calci per le strade come palloni da calcio. Neanche i Wampanoag scamparono a questa follia. Il loro capo venne decapitato e la sua testa fu infilata in un palo a Plymouth (Massachusetts), dove rimase in mostra per 24 anni. I massacri si fecero sempre più spietati e ognuno veniva seguito da una festa di ringraziamento. Successivamente George Washington, primo presidente degli Stati Uniti, propose che fosse istituita un'unica festività. Il 3 ottobre 1863, lo stesso giorno in cui scatenò l'esercito contro i Sioux del Minnesota, Abraham Lincoln istituì il Thanksgiving Day, una festa nazionale da tenersi il quarto giovedì di novembre. Tutto questo suona un po' diverso dal quadretto idilliaco degli Indiani e dei coloni che partecipano a una grande festa. Ma dobbiamo conoscere la nostra vera storia se non vogliamo che si ripeta. Il prossimo Giorno del Ringraziamento, quando vi riunirete coi vostri cari per ringraziare Dio di tutto quello che vi ha dato, rivolgete un pensiero a quelle persone che volevano vivere in pace con le loro famiglie e ringraziavano il Creatore per tutti i doni che avevano ricevuto da Lui. Susan Bates

The First Thanksgiving, 1621, di Jean Leon Gerome Ferris (circa 1915)

Non voglio drammatizzare, ma una cattiva amministrazione federale può cancellare lo status politico e legale delle nazioni indigene", scrive Gyasi Ross su Indian Country Today pochi giorni dopo la vittoria di Trump. Il giornalista non si limita a manifestare i propri timori, ma cerca di delineare una strategia per limitare gli effetti dannosi che prevede. Il nuovo presidente conferma le previsioni di Ross mostrando subito con grande chiarezza la propria ostilità verso gli Indiani. 22


Il neopresidente è appena arrivato alla Casa Bianca quando ordina che venga attaccato nel suo studio un ritratto di Andrew Jackson, settimo presidente degli Stati Uniti (1829-1837). Raffigurato sulla banconota da 20 dollari, Jackson viene generalmente considerato il presidente che ha attuato la politica più spietata nei confronti degli Indiani. A lui si deve il famigerato Indian Removal Act (1830), in seguito al quale varie tribù vennero deportate in modo che le loro terre potessero essere occupate dai latifondisti degli stati meridionali. Gli Indiani ricordano questa tragedia come Trail of Tears (Sentiero delle lacrime). Poche settimane dopo Trump conferma la propria ammirazione per Jackson visitando la sua casa di Nashville in occasione dell'anniversario della nascita. Una guerra contro l'ambiente Come Trump ha già enunciato durante la campagna elettorale, uno dei cardini della sua azione politica è quello che si riassume nel concetto di energy dominance, cioè l'autosufficienza energetica basata sullo sfruttamento dei combustibili fossili (carbone, gas naturale e petrolio). Questo implica una netta inversione della politica che è stata attuata dall'amministrazione precedente. Il 1º giugno 2018 gli Stati Uniti si ritirano dagli accordi di Parigi sul riscaldamento climatico firmati da Obama nel 2016 e ratificati nello stesso anno. In agosto, coerente con questa linea, Trump cancella il Clean Power Plan varato dal suo predecessore, che prevedeva una drastica riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030 grazie all'uso crescente di energie rinnovabili. Secondo le nuove norme, ogni Stato potrà fissare le proprie regole e decidere i limiti delle emissioni. La nuova politica energetica si traduce anche in misure che danneggiano le comunità indigene. Il 24 gennaio 2017, pochi giorni dopo essere entrato in carica, Trump firma gli ordini esecutivi per far riprendere la costruzione di due grandi oleodotti, il Keystone XL e il Dakota Access Pipeline (noto con la sigla DAPL). Entrambi sono stati interrotti in seguito alla moratoria disposta da Obama. Il primo oleodotto comincia in Canada e prosegue negli Stati Uniti, dove interessa il Montana, il North Dakota e il South Dakota. In vari punti tocca alcune riserve indiane o passa a poca distanza da queste. Le comunità coinvolte (Assiniboine, Gros Ventre e Sioux) temono che l'oleodotto possa danneggiare le falde acquifere e i siti sacri. Questi ultimi hanno un ruolo centrale nelle culture indigene. Il DAPL, che interessa invece la riserva sioux di Standing Rock (North Dakota), viene costruito da una compagnia che ha fra gli azionisti lo stesso presidente. Contro il progetto si mobilitano attivisti indigeni, ecologisti, attori e musicisti di tutto il mondo. L'oleodotto entra in funzione il 1º giugno 2017, ma tre anni dopo, il 25 marzo 2020, un tribunale federale blocca la sua attività e ordina una perizia ambientale dell'intero progetto che potrebbe richiedere qualche anno. Un altro caso importante è quello che riguarda il Bears Ears National Monument, un'area protetta situata nello Utah sudorientale. Istituita da Obama alla fine del 2016, quest'area di 1.350.000 acri (5400 kmq) riveste un grande significato per molti popoli indigeni dell'area, fra i quali Navajo, Pueblo e Ute, e include siti archeologici di grande valore. Nell'aprile 2017, in seguito alla pressione repubblicana, Trump dispone che venga riesaminata la posizione di 27 monumenti nazionali, incluso il Bears Ears. Secondo le valutazioni dei tecnici, questa area deve essere ridotta dell'85%. La protesta indiana, guidata dall'avvocato navajo Ethel Branch, si dimostra purtroppo inutile: alla fine del 2017 l'area viene effettivamente ridotta a 202.000 acri (817 kmq). Fra le riserve indiane che si oppongono alla riduzione del Bears Ears spiccano quelle navajo e ute della contea di San Juan (Utah), dove l'amministrazione locale è egemonizzata da una maggioranza bianca. La Nazione Navajo, in particolare, muove un'azione legale che contesta la formazione di questa maggioranza, appellandosi al Voting Rights Act del 1965. Nell'autunno del 2018 vengono indette nuove elezioni, in seguito alle quali la maggioranza passa agli Indiani, che ovviamente si schierano per la difesa del Bears Ears Monument. All'inizio del 2020 la Nazione Navajo continua la propria battaglia, ma stavolta si concentra sull'imminente censimento federale. Il suo obiettivo è quello di raggiungere un peso numerico che le permetta di incidere positivamente sulla questione. Nello stesso periodo Donald Trump conferma che la sua linea politica si basa sul più totale disprezzo dei popoli indigeni e delle loro credenze religiose. In febbraio cominciano le esplosioni che distruggono una parte dell'Organ Pipe Cactus National Monument, situato nel deserto di Sonora, nell'Arizona meridionale. Lo scopo è quello di permettere la costruzione del muro per arginare il flusso di emigrati messicani. Si tratta di una misura che il magnate ha già annunciato durante la 23


campagna presidenziale. L'area in questione, monumento nazionale, è una riserva della biosfera protetta dall'UNESCO. Ma soprattutto, ospita numerosi luoghi di sepoltura sacri per la nazione tohono o'odham. Ancora una volta l'aggressione delle culture indigene e quella dell'ambiente procedono di pari passo. La notizia viene liquidata con qualche articolo sui quotidiani, ma nel resto del mondo nessuna voce si leva contro un simile scempio. Cerchiamo di immaginare cosa sarebbe successo se fossero state distrutte nello stesso modo le tombe di un cimitero ebraico o armeno.

La questione indiana da Nixon a Obama La storia dei rapporti fra i governi statunitensi e gli Indiani è una lunga sequela di inganni e di promesse tradite. Questo non significa che tutti i successori di George Washington abbiano trattato la questione indiana nello stesso modo. I media statunitensi hanno sempre dedicato un certo spazio al tema, mentre in Europa, nonostante l'attenzione quasi maniacale per quello che accade negli Stati Uniti, il tema ha sempre ricevuto un'attenzione molto scarsa. Nell'ultimo mezzo secolo sono stati nove gli uomini che si sono avvicendati alla massima carica federale, da Richard Nixon (1969-1974) all'attuale Donald Trump. Gli anni di Nixon (1969-1974) segnano una decisa inversione di rotta: viene abbandonata la termination policy varata da Eisenhower nel 1953, che prevedeva la chiusura delle riserve, la fine delle sovvenzioni federali e l'assimilazione. L'amministrazione Nixon approva numerose leggi che migliorano la condizione degli Indiani in campo educativo, politico e territoriale. La breve gestione di Gerald Ford (1974-1977) estende il diritto di voto, non solo per gli Indiani, ma anche per ispanici e asiatici. Già attento ai diritti degli Indiani quando era il vice di Nixon, Ford difende alcuni luoghi sacri, molto prima che la materia sia regolata dal Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA), che sarà approvato dall'amministrazione Bush nel 1990. Jimmy Carter (1977-1981) appare scarsamente interessato ai problemi delle minoranze indigene: non ha un consulente che si occupa della materia, non le nomina nei suoi discorsi né nella sua autobiografia, Keeping Faith (1982). Ma firma alcune leggi importanti, fra le quali l’American Indian Religious Freedom Act, relativo alla libertà religiosa, e l'Indian Child Welfare Act, che dispone misure precise sull'assistenza dell'infanzia. Poco prima che scada il suo mandato firma un accordo che riconosce i diritti territoriali dei Passamaquoddy e dei Penobscot, compromesi dal mancato rispetto di un trattato. L'amministrazione guidata da Ronald Reagan (1981-1989) indebolisce l’autonomia indiana. I pesanti tagli alla spesa pubblica penalizzano le tribù dipendenti dalle sovvenzioni federali. Per bilanciare tali svantaggi Reagan emana la legge (1988) che consente l'apertura di sale da gioco gestite da indiani. George Washington Bush (1989-1993) afferma che i problemi degli Indiani sono competenza dei singoli stati: una posizione in contrasto con la Costituzione, che assegna un ruolo prevalente alla legge federale. Questo genera vari contenziosi, dato che molte tribù rifiutano di osservare le leggi statali. Durante i due mandati consecutivi di Bill Clinton (1993-2001) vengono approvate diverse leggi migliorative in vari campi, come il coordinamento con i governi tribali, il potenziamento delle strutture universitarie e la tutela dei siti sacri. I rapporti con le tribù rimangono abbastanza amichevoli. Ma a partire dal 1994, quando i repubblicani ottengono il controllo delle due camere, il Congresso assume un atteggiamento ostile. Questo viene confermato dall'azione della Corte Suprema, che in molte controversie fra stati e tribù si schiera nettamente a favore dei primi. Certe conquiste risalenti agli anni di Nixon, la cosidetta era dell’autodeterminazione, sembrano messe in discussione. George W. Bush, anche lui due volte presidente (2001-2009) prosegue su questa linea negativa. La sua attenzione per la questione indiana è minima, con la sola eccezione di due ordini esecutivi che riguardano il campo educativo. Il primo incrementa il sostegno alle università e ai collegi tribali. Il secondo cerca di aiutare gli studenti a usufruire dei vantaggi del No Child Left Behing Act, ideato per garantire uguali opportunità agli studenti svantaggiati (poveri, appartenenti a minoranze, etc.). Fortemente controverso, sarà sostituito da un decreto simile nel 2015. Nel 2006 il Congresso approva un atto relativo ai programmi di immersione linguistica per salvare le lingue indigene dall’estinzione. Al contrario, la sintonia fra Barack Obama (2009-2017) e gli Indiani si manifesta fin dall'inizio. Il Tribal Law and Order Act (2010) rafforza i poteri delle corti tribali. Michelle Obama elabora un programma per migliorare la qualità del cibo nelle riserve e per combattere l'obesità infantile. Vengono potenziate le opportunità formative. Fra il 2015 e il 2016 Obama fissa una moratoria sulla costruzione di due grandi oleodotti (DAPL e Keystone), contestati dagli indiani per motivi religiosi e ambientali. Si impegna a limitare gli effetti dei mutamenti climatici. Molti indiani lo ritengono il migliore fra i successori di Washington. Alessandro Michelucci 24


Sul trasferimento forzato degli Indiani Andrew Jackson, Discorso al Congresso, 6 dicembre 1830

Sono felice di annunciare al Congresso che la politica benevola perseguita dal governo per la rimozione forzata degli Indiani sta per ottenere gli effetti auspicati. Due importanti tribù hanno accettato gli accordi definiti all'ultima seduta del Congresso e abbiamo buoni motivi per credere che il loro esempio indurrà le altre tribù ad accettare gli stessi vantaggi. Questa misura avrà effetti positivi per gli Stati Uniti, per i singoli stati e per gli stessi Indiani. I vantaggi economici che ne otterremo sono quelli meno importanti. Questa misura eliminerà tutti i motivi di contrasto fra le autorità statali e federali sul problema degli Indiani. Consentirà a una popolazione numerosa e civilizzata di occupare vasti territori che ora sono occupati da pochi cacciatori selvaggi. Permettendo ai bianchi di occupare tutte le terre situate fra il Tennessee e la Louisiana rafforzerà notevolmente la frontiera sudoccidentale e permetterà agli stati adiacenti di respingere autonomamente gli attacchi futuri. Libererà l'intero Mississippi e l'Alabama occidentale dalla presenza indiana e permetterà a questi stati di divenire velocemente più ricchi, più popolosi e più forti. Eviterà che gli Indiani restino a diretto contatto con le zone abitante da bianchi, li sottrarrà al potere degli stati e consentirà loro di perseguire la felicità con le loro istituzioni primitive. Ritarderà il declino che li sta decimando e forse fara sì che, sotto la protezione del governo, abbandonino le loro usanze selvagge e diventino una comunità di cristiani civilizzati. Chi potrebbe preferire un paese coperto di foreste e abitato da poche migliaia di selvaggi alla nostra bella repubblica, fatta di città, villaggi e fattorie, arricchita dal progresso artistico e industriale, occupata da 12 milioni di persone felici, libere, civili e cristiane? Questa misura governativa è la semplice prosecuzione di un processo già in atto. Le tribù che occupavano il territorio degli odierni stati orientali sono state annientate o sono scomparse lentamente per fare spazio ai bianchi. Le grandi masse che avanzano verso ovest portano con sé la civiltà. Adesso noi vogliamo acquisire le terre occupate dagli uomini rossi con uno scambio equo e trasferirli in una terra dove possano sopravvivere, e magari vivere per sempre. Certo, per loro sarà doloroso lasciare le terre dove sono sepolti gli antenati, ma non è lo stesso che hanno fatto i nostri avi o che stanno facendo i nostri figli? Anche i nostri padri hanno lasciato tutto quello che avevano caro per cercare miglior fortuna in una terra sconosciuta. Ogni anno migliaia dei nostri bambini lasciano la terra natale per regioni lontane. Forse che l'intera umanità piange per questi giovani cuori che si separano da tutto quello che hanno? No di certo. Anzi, è fonte di gioia sapere che il nostro paese offre alla sua giovane popolazione gli strumenti per sviluppare nel modo migliore le proprie potenzialità fisiche, mentali ed economiche. Queste persone affrontano viaggi lunghi e rischiosi, comprano le terre che occupano e lavorano duramente per sopravvivere. Vi sembra davvero crudele un governo che offre all'indiano un territorio nuovo ed esteso, paga le spese del suo trasferimento, lo sostiene per un anno in questa nuova dimora, quando lui, per motivi che non dipendono da noi, non accetta di buon grado tutto questo? Quanti bianchi accetterebbero la stessa proposta! Se questa opportunità fosse offerta a loro, la accoglierebbero certamente con gioia e riconoscenza. Forse che un selvaggio nomade è più attaccato alla propria terra del cristiano civilizzato e stanziale? Forse che per lui è più doloroso abbandonare la terra degli avi? L'atteggiamento del governo nei confronti dell'uomo rosso non è soltanto liberale, ma generoso. Lui non è disposto a sottomettersi alle nostre leggi e a mescolarsi con la nostra gente. Per dargli un'alternativa e per salvarlo dall'estinzione, quindi, il governo federale gli offre gentilmente una nuova casa ed è disposto a pagare le spese dell'intera operazione.

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Una vita dalla parte degli Indiani Intervista a Naila Clerici

In Italia i problemi politici e culturali degli Indiani nordamericani non hanno mai mosso grandi folle. Attorno a questi temi, però, è cresciuto un mondo associazionistico vivace che copre l'intera penisola. Dietro al fenomeno c'è l'impegno di molti studiosi, giornalisti, comuni cittadini. Grazie a loro vengono realizzate conferenze, concerti, mostre, pubblicazioni e ona fitta rete di contatti con scrittori e attivisti indiani. Molte di queste associazioni sono riunite in un coordinamento nazionale, Il cerchio, attivo dal 1992. Fra coloro che si sono impegnati maggiormente per gli Indiani spicca Naila Clerici, già docente all'Università di Genova, che ha saputo conciliare l'impegno accademico con quello militante, fondando e animando l'associazione Soconas Incomindios. Naila Clerici è anche la direttrice di Tepee, la più importante rivista italiana dedicata all'America indigena. L'intervista che segue è un omaggio sincero a questa grande studiosa, amica e collaboratrice di lunga data, che ha dedicato la propria vita alle culture indigene del Nordamerica. Come e quando è nato il tuo interesse per gli Indiani del Nordamerica? Come per molti della mia generazione: già da bambina leggevo libri e fumetti e andavo al cinema con mio padre. A dieci anni mi fu regalato il libro Il mondo degli Indiani d’America di Oliver La Farge. Poi, all'università, dove avevo imparato tutto su Shakespeare e sul teatro elisabettiano, il corso monografico di letteratura inglese e angloamericana propose il rito hako dei Pawnee. Non potevo credere che le mie piacevoli letture sui nativi americani divenissero anche oggetto di studio. "Giocare agli indiani" divenne così una cosa seria e passai agli studi letterari, antropologici ed etnostorici. Uno strano e coltissimo professore, Elémire Zolla, mi suggerì di andare a Londra per preparare la mia tesi, relativa alla documentazione letteraria sulla Danza del Sole. Erano i tempi di Un uomo chiamato cavallo, il primo film che utilizzava la lingua lakota e mostrava la durezza di certi riti: mi sentivo quasi una contemporanea di George Catlin, il pittore statunitense che ha dedicato la propria carriera artistica agli Indiani d'America. Cosa significavano quei rituali per gli indiani delle Pianure? Alla biblioteca del British Museum scoprii il piacere sottile della ricerca, quasi come se dovessi dipanare una detective story, il profumo della carta, il gusto di immergersi in un altro mondo e in un altro tempo grazie a vecchie foto e diari dell'Ottocento… Due anni dopo, all'archivio storico dell'Università dell'Oklahoma, cercai le ragioni storiche della Danza degli Spiriti. Così iniziò il mio percorso di ricerca e di conoscenza, la mia lunga "strada rossa". Hai visitato alcune riserve indiane: che impressione ti hanno fatto? Ho visitato molte riserve in Canada e negli Stati Uniti e ho vissuto quasi due anni in Oklahoma, che un tempo fu territorio indiano. Ci sono riserve che appaiono come i villaggi dei loro vicini non indiani, altre davvero malandate, dove la povertà e il degrado sono evidenti. Ovunque si incontrano belle persone: gli indiani hanno uno spiccato senso di humour e danno molto valore all'ospitalità e ai rapporti personali. Insieme ad altri studiosi europei hai fatto parte della redazione della prestigiosa European Review of Native American Studies, che purtroppo ha cessato le pubblicazioni da vari anni. Avete mai pensato di rilanciarla? Io continuo a frequentare l'American Indian Workshop, il convegno annuale di questo gruppo informale di studiosi che si tiene ogni anno in una città europea. Si è parlato spesso della rivista, ma nessuno se l'è sentita di occuparsene come faceva Christian Feest. A me piacerebbe farlo, ma la rivista italiana, Tepee, mi prende già molto tempo. 26


Qual è l'iniziativa di cui vai più orgogliosa? La nostra associazione è stata molto attiva, con conferenze, mostre, concerti… Sicuramente ricordo con orgoglio il convegno organizzato a Genova nel 1992, a 500 anni dalla "scoperta". Tra le ultime iniziative, quelle organizzate in Svizzera nel 2019 con l'associazione degli insegnanti di Storia per riflettere sul genocidio degli Indiani d'America in occasione del Giorno della Memoria. Anche la mostra fotografica Passi sulla Terra: Riflessioni sull'ecosistema, ancora itinerante, ci ha dato molta soddisfazione e ci ha permesso di coinvolgere altre associazioni sul tema delle terre indigene. Parlami meglio delle controcelebrazioni del 1992. Nel 1992 ci fu una forte presa di coscienza, sia in Europa che nelle Americhe, grazie alla quale i popoli indigeni delle Americhe furono oggetto di un'attenzione mondiale: Cinquecento anni bastano era il motto che circolava allora. Ci fu un grande impegno da parte degli stessi indigeni e molto fermento nelle associazioni, così come nel mondo della scuola, ma le iniziative non ebbero un forte impatto informativo e culturale. Quelli che sfruttarono il momento furono altri: gli editori, i produttori cinematografici, le televisioni, alcuni assessorati alla cultura, ma con scelte più spettacolari che informative e didattiche. A Genova noi di Soconas Incomindios organizzammo l'ottavo raduno delle associazioni indianiste europee, ospitammo molti delegati indigeni e pubblicammo gli atti del convegno. Com’è nata la tua cattedra universitaria? Continua anche dopo che sei andata in pensione o no? Nell'ultima riforma il mio raggruppamento prevedeva, oltre a Storia americana, anche Storia delle Popolazioni Indigene d'America, e io ho preferito scegliere l'insegnamento più vicino alle mie competenze. Quando sono andata in pensione, purtroppo, l'Università di Genova ha fatto molti tagli e non ha capito il valore, anche simbolico, di mantenere questa cattedra nella città di Colombo. Quali sono i progetti della tua associazione? Il motto di Soconas Incomindios è "solidarietà vuol dire anche conoscenza". Vogliamo continuare con le nostre attività e con la nostra rivista: capire culture diverse aiuta anche a vivere meglio nella propria. Vorrei organizzare una rassegna di film, magari con una mostra.

Opere come autrice Con Alessandra Clavarino, Dice Nonna Luna... Espressioni poetiche degli Indiani d’America, Assessorato all'Istruzione della Provincia di Genova, Genova 1985. Indiani d’America tra tradizione e impegno sociale, Assessorato alle Attività Culturali, Genova 1985. Con gli occhi della memoria. La realtà attuale degli Indiani d’America attraverso i loro manifesti, Il Punto, Torino 1986. Opere come curatrice e autrice Le orme del tasso / The Badger Tracks. Poetry by Lance Henson, Soconas Incomindios, Torino 1989. Victorian Brand, Indian Brand. The White Shadow on the Native Image, Il Segnalibro, Torino 1993. 8° Meeting ‘92. Documenti per una “autostoria” del cinquecentenario, Soconas Incomindios, Torino 1997. Racconti erotici degli indiani canadesi, L’Angolo Manzoni-Sooconas Incomindios, Torino 2003. L’arte della tessitura tra i Nativi Americani, Amici della Scuola Leumann-Soconas Incomindios, Torino 2005. Eshi Uapataman Nukum. Come sento la vita, nonna, Soconas Incomindios, Torino 2008. Sfumature di rosso. Gli Indiani d’America tra storia e attualità, Soconas Incomindios, Torino 2010. Al museo per conoscere le culture delle popolazioni indigene americane, Soconas Incomindios, Torino 2015. Passi sulla terra. Riflessioni sull’ecosistema, Soconas Incomindios, Torino 2019.

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Spiragli di luce Antonella Visconti

Chi parla delle minoranze e dei popoli indigeni rischia di concentrarsi sulle notizie negative, che purtroppo sono prevalenti, disegnando l'immagine di comunità umane senza speranza, quando non addirittura condannate all'estinzione fisica. Il compito primario di chi tratta questi temi rimane quello di denunciare le tante ingiustizie che questi popoli devono subire, ma al tempo stesso bisogna prendere atto dei progressi che portano qualche spiraglio luminoso nel buio. Per questo ci sembra necessario sottolineare i principali eventi positivi che hanno segnato le vite di questi popoli nel 2019. Naturalmente si tratta di una ricognizione incompleta, ma crediamo che basti a dare un panorama di un fenomeno che trascende l'attualità.

3 gennaio Sharice Davids (Ho-Chunk) e Deb Haaland (Pueblo), entrambe democratiche, sono le prime donne indiane del Congresso statunitense.

15 febbraio Il Parlamento di Tokyo riconosce gli Ainu dichiarandoli ufficialmente "un popolo indigeno con una propria lingua, una propria religione e una propria cultura". Il riconoscimento si richiama all'articolo 14 della Costituzione, secondo il quale "tutti sono uguali davanti alla legge", e impone al governo e alle amministrazioni locali a varare leggi che promuovano la cultura ainu. Il riconoscimento ufficiale viene accolto da commenti difformi, perfino fra le associazioni indigene. In ogni caso permetterà agli Ainu di continuare le proprie battaglie in modo più incisivo.

29 aprile Il Premio Goldman, uno dei massimi riconoscimenti ecologisti, viene conferito fra gli altri a Jacqueline Evans, maori delle isole Cook, e all'attivista mapuche Alberto Curamil. La prima ha indotto il governo locale ad approvare alcune leggi per la difesa della biodiversità marina. Il secondo ha impedito la costruzione di due centrali idroelettriche che avrebbero sottratto una grande quantità di acqua ai Mapuche e distrutto un intero ecosistema.

11 maggio Lo scultore cherokee Jimmie Durham riceve il Leone d'Oro alla carriera della Biennale Arte di Venezia. L'artista, già ben noto in Europa, è stato uno dei promotori della prima conferenza internazionale dell'ONU sui popoli indigeni (Ginevra, 20-22 settembre 1977).

29 maggio Ken Wyatt è il primo aborigeno australiano che viene nominato Ministro degli Affari Aborigeni.

19 giugno Joy Harjo, scrittrice-musicista muskogee (creek), viene proclamata consulente letteraria ufficiale degli Stati Uniti (poet US laureate). È la prima volta che un indiano del Nordamerica riceve questo titolo.

25 settembre Davi Kopenawa, l'esponente più autorevole degli Yanomami (Amazzonia brasiliana), riceve il Liveli28


hood Award, noto anche come "Nobel alternativo", uno dei principali premi per coloro che si impegnano nella difesa dell'ambiente.

10 ottobre Dopo un lungo contenzioso il Ministero dell'Energia ecuadoriano accoglie la richiesta di due popoli indigeni, i Kichwa e i Sapara, imponendo alla compagnia cinese Andes Petroleum di cessare le escavazioni nei loro territori.

15 ottobre Roxana Quispe Collantes è l'autrice della prima tesi in quechua, che discute alla Universidad de San Marcos di Lima. Il suo studio si concentra sulla poesia quechua.

16-20 ottobre Alla 71esima Fiera del libro di Francoforte, dove il paese ospite è la Norvegia, viene dedicato ampio spazio anche alla letteratura sami (lappone). Questa novità importante si inserisce nella politica editoriale dei paesi nordici, che si stanno impegnando per promuovere la traduzione dei propri autori. È auspicabile che anche la letteratura sami, ancora sostanzialmente ignota in molti paesi europei, benefici di questa strategia editoriale. La prossima edizione della fiera (14-18 ottobre 2020), dove il paese ospite sarà il Canada, includerà alcune iniziative dedicate alle letterature indigene del paese nordamericano.

24 ottobre Il Premio Sakharov per i diritti umani, ideato dal Parlamento europeo, viene conferito all'economista uiguro Ilham Tohti. Perseguitato dal regime cinese, che lo tiene in carcere con l'accusa infondata di "separatismo", Tohti non può ritirare il premio, che viene consegnato alla figlia Jewher.

25 ottobre Il parco nazionale Uluru-Kata Tjuṯa, situato nel deserto australiano, viene ufficialmente chiuso al turismo e restituito agli Anangu, il popolo aborigeno che abita la zona da millenni. Il sito include Uluru, il celebre monolite meglio noto come Ayers Rock, sacro agli Anangu. Il luogo è diventato meta di un turismo selvaggio, con campeggi, picnic e scorribande che hanno generato un accumulo di rifiuti dal forte impatto ecologico. Nel 1983 il premier laburista Robert Hawke aveva promesso che avrebbe restituito la proprietà di Uluru agli Anangu, ma due anni dopo il governo australiano ha imposto che i turisti potessero continuare scalalo per 99 anni. Nel 2013, però, la comunità aborigena locale ha deciso unilateralmente che lo sfruttamento turistico del sito cessasse per sempre.

27 ottobre Wes Studi riceve l'Oscar alla carriera. Primo attore indiano a ottenere questo riconoscimento, l'artista cherokee è ben noto per film come Geronimo, L'ultimo dei Mohicani e Avatar. Studi è impegnato da molti anni nella difesa delle lingue indiane: ha scritto una grammatica cherokee, ha insegnato la propria lingua e sostiene l'Indigenous Languages Institute di Santa Fe.

10-12 dicembre Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace nel 1991 e de facto capo del governo birmano, si trova alla Corte internazionale dell'Aia per difenderlo dalle accuse del governo gambiano, che imputa a Yangoon il genocidio dei Rohingya. Negli ultimi anni molti Premi Nobel per la pace hanno preso posizione contro di lei per lo stesso motivo.

18 dicembre L'ONU proclama il Decennio internazionale delle lingue indigene (2022-2032). 29


Dall'alto: Wes Studi riceve l'Oscar alla carriera; manifesto per la liberazione di Ilham Tohti; la chiusura definitiva del parco nazionale Uluru-Kata Tjuta; Roxana Quispe sulla copertina di Domingo, supplemento culturale del quotidiano peruviano La repĂşblica; Aung San Suu Kiy depone alla Corte internazionale dell'Aia per difendersi dall'accusa di genocidio.

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Stranieri nella propria terra Giovanna Marconi

La Cina odierna è molto diversa da quella maoista che riscuoteva ampi consensi e dure condanne nella seconda metà del secolo scorso. L'adesione all'economia di mercato ha trasformato il paese asiatico in un colosso economico di dimensioni planetarie. La necessità di convivere con questo nuovo attore ha ridotto al minimo l'attenzione per le sue violazioni dei diritti individuali e collettivi, che restano comunque la norma. Un caso esemplare è quello degli Uiguri, una minoranza turcomanna di religione islamica che conta circa 11.000.000 di persone e si concentra prevalentemente nello Xinjang. Situata nel nordovest del paese, questa è la maggiore divisione amministrativa della Cina (1.660.000 kmq, tre volte la Francia). Secondo le ultime stime, gli Uiguri costituiscono il 46% dei 24.000.000 che vivono nella regione, seguiti a ruota dagli Han (i cinesi propriamente detti), che toccano il 40%. Altre minoranze uigure vivono nel resto della Cina e nei paesi vicini (Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan), per un totale di circa 1.500.000. Due secoli di resistenza La dinastia Ming invase la terra degli Uiguri nel 1759, ma si scontrò con una strenua resistenza che durò oltre un secolo. Gli invasori furono cacciati, ma pochi anni dopo riguadagnarono il territorio e lo ribattezzarono Xinjiang, che significa appunto "territorio riconquistato". Nel 1884 la regione fu annessa ufficialmente. Ma le ribellioni continuarono, fino a quando gli Uiguri riuscirono a formare una propria repubblica, il Turkestan Orientale. Questo nome verrà utilizzato fino ai nostri giorni per esprimere l'aspirazione all'indipendenza. Ma il nuovo stato ebbe vita breve e la regione tornò sotto il dominio cinese. Nel 1955, in seguito al nuovo assetto del paese voluto da Mao Zedong, lo Xinjiang venne dotato di un'autonomia formale. Da allora gli Uiguri non hanno mai smesso di lottare: alcuni per una vera autonomia, altri per l'indipendenza. La questione uigura all'inizio del ventunesimo secolo La minoranza islamica è tuttora oggetto di una repressione feroce. La questione viene analizzata in modo dettagliato da Sean Roberts nel libro The War on the Uyghurs: China's Internal Campaign against a Muslim Minority (Princeton University Press, 2020). Negli ultimi anni gli Uiguri hanno guadagnato una certa visibilità mediatica, ma purtroppo la loro causa stenta a trovare un concreto sostegno internazionale. I motivi sono tanti, ma tre meritano particolare attenzione. Il primo è di natura economica: come si diceva sopra, il fatto che la Cina sia diventata un partner commerciale molto appetibile riduce al minimo la possibilità che qualsiasi governo si schieri apertamente dalla parte degli Uiguri. Tanto è vero che anche la questione tibetana, un tempo oggetto di molta attenzione, non genera più le prese di posizione che erano abituali fino a pochi anni fa. Il secondo motivo è di natura religiosa: il fatto che gli Uiguri siano in larga prevalenza musulmani si scontra con la crescente islamofobia, alimentando ulteriormente la possibilità di etichettarli come "terroristi" e "separatisti". Il terzo motivo è di natura politica. La guerra al terrorismo lanciata dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001 è stata velocemente sottoscritta da molti paesi, inclusa la Cina, per poter inasprire la repressione delle minoranze e dei dissidenti in genere. Pechino ha potuto così varare misure più repressive nei confronti dei popoli tibetani, dei Mongoli e degli Uiguri. Per quanto riguarda in particolare questi ultimi, nel novembre del 2019 il New York Times ha pubblicato una parte dei cosiddetti Xinjiang Papers, un documento segreto dove il governo cinese espone un piano di detenzione di massa della minoranza uigura. Questo conferma i rapporti di molte ONG, che denunciano da 31


tempo l'esistenza di "campi di rieducazione" dove sono internati almeno 1.500.000 uiguri. Recentemente la grave condizione della minoranza ha ricevuto un segnale d'attenzione importante. Il 24 ottobre 2019 il Premio Sakharov per i diritti umani, ideato dal Parlamento europeo, è stato conferito all'economista uiguro Ilham Tohti. Perseguitato dal regime comunista, che lo tiene in carcere con l'accusa infondata di "separatismo", Tohti non ha potuto ritirare il premio, che è stato consegnato alla figlia Jewher. Fratelli turcomanni Il mondo culturale turcomanno comprende circa 170 milioni di persone e si compone di molti popoli, in larga prevalenza musulmani sunniti. Oltre ai Turchi, che costituiscono circa un terzo, include fra gli altri azeri, hazara, tartari e appunto uiguri. La Turchia, che per ovvi motivi occupa un ruolo dominante, ha promosso il Consiglio di cooperazione dei paesi turcofoni, al quale aderiscono Azerbaigian, Kazakhstan e Kirghizistan. Inoltre segue con attenzione le minoranze turcofone dei paesi europei, come quella stanziata in Bulgaria e i Gagausi della Moldavia. In teoria, quindi, anche la grave condizione degli Uiguri dovrebbe essere oggetto di interessene per Ankara. In effetti era stato così per lungo tempo, ma col passare degli anni l'atteggiamento del governo turco nei loro confronti ha subito un mutamento radicale. Nel 2009, quando la minoranza turcomanna organizzò grandi proteste contro la repressione del potere centrale, Erdogan non esitò a parlare di "genocidio" ed esortò Pechino a "risolvere il problema dei diritti umani e punire i colpevoli". Questa presa di posizione venne accolta con fastidio e determinò un momentaneo raffreddamento dei rapporti fra i due paesi. Il presidente turco usò parole meno forti nel 2015, ma ribadì che il problema "dei nostri fratelli dello Xinjang" restava oggetto di attenzione costante. Nel 2019 l'atteggiamento di Erdogan ha subito una svolta netta. In luglio, durante una visita a Pechino, il presidente turco ha evitato qualsiasi riferimento alla repressione degli Uiguri, ancora detenuti in grande quantità con l'accusa di "terrorismo" e "separatismo". Non solo, ma ha detto che i due paesi avevano "la stessa visione del futuro". Le associazioni uigure, prima fra tutte il World Uyghur Congress, hanno criticato duramente il consolidamento dell'intesa sino-turca. Questo cambiamento è dovuto all'intensificarsi dei rapporti commerciali fra Turchia e Cina. Nel 2000 il volume totale di affari superava di poco il miliardo di dollari, mentre nel 2009 sfiorava gli 11 miliardi e nel 2017 i 27. Oggi Pechino è il primo partner commerciale di Ankara per le importazioni. Ben diverso l'esempio di solidarietà proveniente dal mondo del calcio. Nel dicembre dello scorso anno Mesut Özil, centrocampista turco-tedesco dell'Arsenal, ha condannato su Twitter e su Instagram le misure repressive che Pechino adotta contro gli Uiguri: "(In Cina) si brucia il Corano, si chiudono le moschee e le scuole religiose, gli studiosi di teologia sono stati uccisi ad uno ad uno. Nonostante tutto questo, gli altri musulmani non dicono niente". Evidentemente il calciatore si riferiva all'atteggiamento tiepido della comunità islamica internazionale, che in genere ha sempre evitato di schierarsi dalla parte degli Uiguri. La dirigenza della squadra londinese ha preso le distanze da Özil dichiarando che le parole del calciatore riflettevano soltanto le sue opinioni personali. Ben più dura, ovviamente, è stata la reazione cinese: l'emittente pubblica CCTV non ha trasmesso la partita Arsenal-Manchester City del 15 dicembre 2019. Il comportamento del calciatore, comunque, non deve essere considerato un caso isolato, dato che imponenti manifestazioni di solidarietà con gli Uiguri si sono tenute più volte a Istanbul. Bibliografia Kadeer R., Cavenius A., La guerriera gentile. Una donna in lotta contro il regime cinese, Corbaccio, Milano 2009. Paoluzi M. L., Nazionalismo e Islam. Lo Xinjiang tra tensioni etniche e problemi economico-politici, Aracne, Roma 2011. Rogers R. A., The Struggles for Human Rights in Xinjiang, The Other Press, Petaling Jaya 2019.

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Biblioteca

Chris McCabe (a cura di), Poems from the Edge of Extinction: An Anthology of Poetry in Endangered Languages, Cambers, London 2019, pp. 336, £16.99. L'anno internazionale delle lingue indigene indetto dall'Unesco nel 2019 ha stimolato un interesse editoriale che comunque era già ben visibile da molti anni, data la grave situazione che interessa molti idiomi autoctoni. Buona parte dei libri pubblicati nello scorso anno è costituita da opere accademiche di interesse generale come The Oxford Handbook of Endangered Languages (Oxford University Press, 2019) o relative a contesti regionali come Language Revitalization at Tribal Colleges and Universities: Overviews, Perspectives, and Profiles, 1993-2018 (Tribal College Press, 2019). Insolita e adatta a un pubblico più ampio è invece l'antologia Poems from the Edge of Extinction, che propone 50 poesie in lingue indigene e/o minoritarie: assiro, gaelico irlandese, gallese, maori, navajo, sami, yiddish, etc. Ogni poesia appare in lingua originale insieme alla traduzione inglese, il tutto corredato da un commento esaustivo. Questo omaggio originale alla varietà linguistica del nostro pianeta è curato da Chris McCabe, fondatore dell'Endangered Poetry Project, ideato per raccogliere il patrimonio poetico delle lingue minacciate. L'introduzione di Mandana Seyfeddinipur, direttrice del prezioso Endangered Languages Archive, sottolinea con forza che la difesa di queste lingue deve fare un salto di qualità, portando dati e cifre che confermano questa urgenza. Fra i poeti, Joy Harjo, Hawad, Jackie Kay, Gearóid Mac Lochlainn, Laura Tohe e Taniel Varoujan. Un'opera che non solo merita la massima attenzione, ma che dovrebbe essere tradotta in italiano, sfruttando l'occasione offerta dal decennio internazionale delle lingue indigene (2022-2032) che l'ONU ha proclamato alla fine del 2019. Giovanna Marconi

Ray Gamache, Gareth Jones: Evewitness to the Holodomor, Welsh Academic Press, Cardiff 2018, seconda ed., pp. 280, £19.99. "Non abbiamo più pane, né patate. Il bestiame è morto, e anche i cavalli. Le tasse che ci costringono a pagare non ci consentono più di sopravvivere. Ci stanno uccidendo". Nel 1932 il giovane giornalista gallese Gareth Jones cominciò a raccogliere le grida di disperazione dei contadini ucraini ridotti alla fame dalle politiche di collettivizzazione e "dekulakilazzazione" lanciate da Stalin. I suoi resoconti apparvero subito diversi da quelli dei suoi colleghi occidentali: non solo egli fu capace di 33


documentare le dimensioni della paurosa carestia di quegli anni, ma riuscì per primo a individuarne le cause nelle politiche criminali del regime moscovita. La tragedia che devastò l’Ucraina dal 1929 al 1933 causando milioni di morti è oggi nota col nome di Holodomor (Olocausto ucraino). In anni recenti è stata dichiarata "crimine contro l'umanità" dal Parlamento europeo, mentre la strenua opposizione della Russia ha finora impedito alle Nazioni Unite di riconoscerlo ufficialmente come genocidio. Gli storici continuano a dividersi sulle cause scatenanti di quella carestia: fu la conseguenza diretta dei piani quinquennali di Stalin che ridussero alla fame i contadini o venne addirittura creata ad arte da Mosca per spazzare via il nazionalismo ucraino? Il dibattito può apparire capzioso, ma qualunque sia la risposta resta il fatto che, secondo le stime più ottimistiche, a morire furono almeno quattro milioni di ucraini, senza considerare altre centinaia di migliaia di morti nel Caucaso e nelle regioni del Volga. Il coraggioso lavoro di ricerca sul campo svolto da Jones ha mostrato al mondo una delle pagine più buie della storia europea. La sua vita avventurosa è stata ricostruita dallo statunitense Ray Gamache, docente di giornalismo al King's College della Pennsylvania, nel libro Gareth Jones: Eyewitness to the Holodomor. Consulente del premier britannico David Lloyd George, Jones visitò l'Ucraina in lungo e in largo per documentare le terribili condizioni di vita dei contadini. Le sue corrispondenze dal "granaio d'Europa", pubblicate dai quotidiani inglesi e statunitensi, furono le prime a denunciare il genocidio e si trasformarono in un potente atto d'accusa contro Stalin. Riccardo Michelucci

Stéphanie S., L'éveil du dragon gallois. D'une assemblée à un parlement pour le pays de Galles (1997-2017), L'Harmattan, Paris 2019, pp. 360, € 37. Martin Johnes, Wales: England's Colony?, Parthian Books, Cardigan 2019, pp. 196, €8.99. Adam Price, Wales: The First and Final Colony. Speeches and Writings 2001-2018, Y Lolfa, Talybont 2018, pp. 216, €9.99. Il referendum che ha sancito l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea ha messo in moto - o nel caso della Scozia, ha modificato – alcuni processi di affermazione identitaria e/o territoriale che meritano molta attenzione, perché possono incidere sul futuro del continente. Trascurarli sarebbe un grave errore. All'interno di questo fenomeno il Galles occupa un posto particolare. A differenza della Scozia e dell'Irlanda del Nord, che godono comunque di una certa attenzione mediatica, la regione sudoccidentale del Regno Unito viene spesso – anche se erroneamente – considerata un'appendice dell'Inghilterra. Questo è dovuto al fatto che il Galles, annesso da Londra nel 1532, entrò a far parte della Gran Bretagna fin dall'inizio, cioè quando fu sancita l'unione della corona inglese con quella scozzese (1707). Oggi le incognite della Brexit e la possibilità di un nuovo referendum scozzese si riflettono sulla regione costiera disegnando un quadro molto incerto. È in un simile contesto che ha ripreso vigore il separatismo del Plaid Cymru, il principale partito nazionalista, che si inserisce nel solco tracciato dallo Scottish National Party invocando a sua volta un referendum sull'indipendenza. Com'era prevedibile, questo fermento sta stimolando la pubblicazione di vari libri sul tema. L'opera di Martin Johnes, docente di Storia gallese all'università di Swansea, ripropone il concetto del colonialismo interno, già in voga in numerose rivendicazioni delle minoranze europee a partire dagli anni Sessanta. Pensiamo ad autori come l'occitano Robert Lafont (La révolution régionaliste, Gallimard, 1967 e Décoloniser en France. Les régions face à l'Europe, Gallimard, 1971) e Michael Hechter (Il colonialismo interno. Il conflitto etnico in Gran Bretagna: Scozia, Galles e Irlanda 1536-1966, Rosenberg & Sellier, 1978). Johnes rifiuta qualsiasi vittimismo e sottolinea che Londra non ha mai cercato di soffocare la cultura gallese, diversamente da quello che accaduto in altri paesi europei, primo fra tutti la Francia. Al tempo stesso, ricorda che la grande maggioranza della popolazione gallese ha contribuito con entusiasmo alla costruzione dell'impero britannico. Anche il libro di Adam Price, attuale segretario del Plaid Cymru, denuncia il colonialismo interno, ma lo fa con toni più apertamente politici. Membro dell'Assemblea gallese dal 2016, primo gay 34


alla testa di un partito britannico, Price è noto per certe prese di posizione atipiche. Nel 2004, quando Tony Blair sostenne Bush nell'aggressione dell'Iraq, promosse una campagna per l'impeachment del premier britannico. La sua iniziativa fu sostenuta da Alex Salmond, segretario dello Scottish National Party (SNP), che nel 1999 aveva condannato il bombardamento della Serbia. All'epoca entrambi i partiti proponevano l'uscita dalla NATO, ma successivamente il SNP ha optato per la fedeltà atlantica. Negli ultimi anni, stimolato anche dalla crescita del separatismo scozzese, il Plaid Cymru ha riproposto apertamente la linea indipendentista originaria che aveva accantonato per lungo tempo. Contrariamente ai casi più noti – Catalogna e Scozia – il Galles non è una regione ricca. Quindi il separatismo gallese contraddice la tesi secondo la quale sarebbero soltanto certe regioni prospere ad auspicare l'indipendenza. Un altro obiettivo è la creazione di stretti legami economici e culturali con le altre aree celtiche, in particolare con Scozia e Irlanda. Questi e altri temi emergono chiaramente dal libro, che raccoglie interventi di vario tipo datati fra il 2001 e il 2018. Diverse ma complementari, le tre opere forniscono un ampio bagaglio di cognizioni storiche, politiche ed economiche utili per valutare un aspetto trascurato della Brexit e una questione che sta acquistando un certo rilievo. Se l'europeismo non deve restare una formula vuota, abbiamo il dovere di conoscere quello che bolle in pentola. Alessandro Michelucci

Karola Fings, Sinti e Rom. Storia di una minoranza, Il Mulino, Bologna 2018, pp.128, €12. Gli Zingari, o per meglio dire Sinti e Rom, costituiscono la minoranza europea più numerosa, ma nonostante questo la loro storia è poco nota. La loro convivenza coi membri delle società dominanti è sempre stata condizionata da stereotipi che hanno legittimato politiche discriminatorie. Il volume di Karola Fings offre uno sguardo d'insieme sui processi storico-sociali, le pratiche di esclusione e i giudizi che hanno caratterizzato i membri di questa comunità transnazionale. Diviso in quattro sezioni, il libro analizza anzitutto le peculiarità culturali della comunità zingara, dando risalto alle difficoltà e ai pregiudizi che l'hanno accompagnata nel corso della storia. Il secondo capitolo propone un excursus storico: emigrati dall'India verso occidente nel quarto-quinto secolo, gli Zingari si trovano inseriti in un contesto sociale ostile. Il capitolo successivo si sofferma sul Porrajmos, il genocidio compiuto dal regime nazista, narrando il dramma che li ha colpiti in quegli anni. L'ultimo capitolo si concentra sulla storia degli ultimi settant'anni, sottolineando che la tragedia degli anni 30-40 non è stata ancora riconosciuta pienamente. Un limite del libro consiste nel fatto che l'analisi si focalizza principalmente sulla Germania, fatto non sorprendente, essendo il paese di origine dell'autrice. Sarebbe stato necessario dedicare più spazio alle condizioni delle minoranze zingare paesi dell'Europa centrale e orientale, visto il loro peso demografico all'interno di tali società. Un secondo aspetto da sviluppare con maggiore attenzione è l'effetto che le normative europee hanno avuto sulla condizione della minoranza, in particolar modo nei paesi che hanno aderito all'Unione Europea nel 2004 e nel 2007. Marco Torresin

Ramy Balawi, Alessandra Ravizza, Il maestro di Gaza, Aut Aut, Palermo 2018, pp. 224, € 15. La testimonianza del maestro Ramy Balawi, così ben raccolta da Alessandra Ravizza, arriva dritto al cuore, al cuore di quella prigione a cielo aperto che è Gaza. La narrazione ci porta tra le atroci sofferenze imposte a un popolo che vive in costante stato di assedio. Ricco di umanità, il libro trasporta il lettore fra la gente di Gaza. Ramy è uno di loro. Nato un anno dopo la prima Intifada, l'autore si trova a essere spettatore innocente e inconsapevole, ma poi capisce cosa significa vivere in una città occupata e prende piena coscienza della situazione che condiziona il suo futuro. Grazie 35


all'attenta ricerca delle fonti Alessandra Ravizza inserisce la narrazione di Ramy nel suo contesto culturale e politico, tenendo conto del dibattito più recente sulla questione palestinese. Il maestro di Gaza, nel suo ruolo di educatore, sente di dover seminare il cambiamento nel cuore dei ragazzi, di trasmettere valori di umanità e tolleranza per promuovere la convivenza pacifica tra i popoli e le persone. Portavoce di un futuro di pace in una realtà che tende a generare l'odio, il protagonista cerca di tracciare un sentiero dove la tolleranza, l'amore e la pace possano affermarsi come strumenti per costruire un futuro diverso. "L'insegnamento è un atto di resistenza, è il seme del cambiamento per le nuove generazioni", scrive il maestro gazawi, convinto che questi valori rappresentino la salvezza per chi ha perso tutto ed è costretto a inventarsi un futuro per sopravvivere, anche se si tratta di un futuro immaginario. Marisa Cestelli

Yang Haiying, Genocide on the Mongolian Steppe: First-Hand Accounts of Genocide in Southern Mongolia during the Chinese Cultural Revolution, Volume I, Xlibris, Bloomington (IN) 2017, pp. 232, $19.99. Il crescente peso economico della Cina ha ridotto al minimo le voci che contestano le atrocità compiute da Pechino contro le minoranze e contro gli stessi cinesi. Del Tibet si parla ormai pochissimo, mentre gli Uiguri, che pur emergono ogni tanto nella cronaca, sono penalizzati dall'islamofobia in quanto musulmani. Una tragedia umana che invece resta avvolta dal buio più fitto è quella della minoranza mongola, circa 4.000.000 di persone stanziate nella cosiddetta Mongolia Interna, annessa dalla Cina nel 1947. Allo scarso materiale bibliografico sulla questione si è aggiunto un volume che ripercorre in modo chiaro e preciso una storia dimenticata, per non dire completamente ignota. Lo stesso autore è un esponente della minoranza in questione, ma vive da molti anni in Giappone, dove lavora come docente universitario. Il libro, pubblicato originariamento in questo paese, è stato tradotto da Eghebatu Togochog, fondatore e direttore del Southern Mongolian Human Rights Information Center. Il contributo di questo attivista infaticabile sottolinea la posizione schierata dell'autore. La persecuzione fisica e culturale, la negazione dei diritti elementari e il lavoro forzato, aggravati dal freddo del disinteresse mondiale, replicano il triste copione che segna la vita di tanti popoli. Parlare di genocidio può essere esagerato, ma comprensibile, dato che il titolo cerca di scuotere l'apatia dominante. Ai tempi della guerra fredda, seppur con toni e finalità discutibili, la logica repressiva delle dittature comuniste veniva condannata apertamente. Oggi quell'attenzione è un ricordo remoto, ma il libro ci ricorda che poco o nulla è cambiato per chi vive (e muore) sotto il tallone di Pechino. Giovanna Marconi

Conor Foley (a cura di), In Spite of You: Bolsonaro and the New Brazilian Renaissance, OR Books, New York (NY) 2019, pp. 180, $17. L'autore di questo libro, Visiting Professor alla Pontificia Università di Rio de Janeiro, è un profondo conoscitore della realtà brasiliana, come aveva dimostrato il precedente Protecting Brazilians against Torture (2013). Il nuovo contesto sociale determinato dall'elezione di Jair Bolsonaro non poteva quindi lasciarlo indifferente. Il libro fotografa il panorama composito delle forze sociali, politiche e culturali che si oppongono alla pericolosa svolta autoritaria del nuovo presidente. La necessità di fare muro contro Bolsonaro ha indotto i suoi oppositori a imbarcare personaggi ampiamente screditati come gli ex presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff, che hanno ben poco da offrire alla "nuova resistenza" evocata nel sottotitolo, ma davanti a un pericolo così grave era inevitabile. Questo spiega perché entrambi compaiono fra gi autori del volume. Resta da vedere se questo insieme variegato saprà coagularsi in un movimento moderno e vitale, oppure se 36


si incaglierà nelle secche di una sinistra vecchia e incapace di offrire un'alternativa concreta. Non sarebbe la prima volta. Antonella Visconti

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e Australasia, Meltemi, Roma 2019, pp. 428, € 24,00. Per coloro che leggono regolarmente libri sulle questioni indigene pubblicati all'estero (soprattutto nei paesi anglofoni) il volume di Pegoraro non costituisce una novità, ma lo è certamente nel contesto dell'editoria italiana. L'opera, acutamente introdotta da Franco Cardini, si concentra sui genocidi coloniali avvenuti nei quattro paesi anglofoni extraeuropei: Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Tutti stati che, seppure a livelli diversi, vengono considerati modelli di democrazia. L'autore delinea chiaramente il contesto storico, politico e culturale nel quale si sviluppò lo sterminio degli Aborigeni australiani, degli Indiani nordamericani e di altri popoli autoctoni. Lo studioso ricompone un fenomeno complesso che va ben oltre l'aggressione fisica diretta, disegnando un mosaico spaventoso dove si intrecciano l'assimilazione coatta, lo sradicamento linguistico e religioso, la sterilizzazione forzata, la violenza fisica, psicologica e sessuale. L'intento dichiarato dell'autore è quello di restituire dignità alle vittime dimenticate, respingendo con solide argomentazioni il revisionismo storico e il suo tentativo di cancellare i crimini più efferati dell'Occidente. Un revisionismo, duole dirlo, che non viene mai denunciato al pari di altri. Un'opera così ampia e articolata, ovviamente, impone qualche appunto. Il linguaggio appare influenzato dall'inglese: questo non incide sulla comprensibilità, ma contiene numerosi termini che possono suonare anomali all'orecchio italiano. Quello che lascia molto perplessi, invece, è l'incluasio-ne dei Maori fra i popoli colpiti dal genocidio. Lo stesso autore ne sembra cosciente, tanto è vero che sottolinea la scarsità di testi accademici sul tema. Si tratta comunque di piccole imperfezioni che non tolgono niente al merito di una ricognizione tanto ampia, mai pubblicata prima d'ora nel nostro paese. È auspicabile che il libro non resti una luminosa eccezione, ma che stimoli ulteriori studi italiani sul tema, riducendo la distanza che separa la nostra editoria da quella straniera. Alessandro Michelucci Adolphus P. Elkin, Gli aborigeni australiani, Iduna, Sesto S. Giovanni (Milano) 2018, pp. 359, €24. Adolphus Peter Elkin (1891-1079), presbitero e antropologo australiano, è stato il primo a studiare la cultura degli Aborigeni, ricca di implicazioni rituali e religiose. Il suo approccio funzionalista ha avuto grande influenza sull'antropologia contemporanea. Questo libro, finora inedito in Italia, "non avrebbe potuto essere scritto senza tener conto delle campagne di ricerca da me compiute a varie riprese nei Kimberleys (1927-28), nelle regioni meridionali e centrali del continente", scrive l'autore nella prefazione alla prima edizione. Il volume raccoglie le relazioni di alcune conferenze organizzate dall'Università di Sydney a partire dal 1933. Il testo presenta approfonditamente l'intero universo artistico, culturale, sociale e religioso degli indigeni. Sottolinea acutamente che la loro società "dal contatto con la nostra ha ricevuto una scossa pressochè fatale". La politica razzista che ha segnato la storia australiana ha tentato di soffocare l'identità aborigena con l'assimilazione forzata, il furto e la distruzione dei territori ancestrali, la coercizione culturale e religiosa. Tutto questo ha avuto conseguenze culturali gravissime. Una volta, un vecchio indigeno chiese a Elkin perché volesse sapere tante cose sui loro costumi. L'antropologo rispose di essere mosso dal fatto che i bianchi non li comprendevano. Il vecchio pensò, poi disse: "Questo è bene; ma siete venuto troppo tardi". Maurizio Torretti 37


Claire Coleman, Terra Nullius, Hachette Australia, Sydney (NSW) 2017, pp. 294, AU$ 22.99. Claire Coleman, The Old Lie, Hachette Australia, Sydney (NSW) 2019, pp. 342, AU$ 32.99. Nel romanzo Terra Nullius, che segna l'esordio di Claire Coleman, l'autrice guida il lettore in un insolito viaggio attraverso le sofferenze degli Aborigeni australiani, che spesso si sentono prigionieri nella propria terra. La scrittrice noongar narra l'invasione dell'Australia da parte di forze militari imponenti e i loro scontri con gli indigeni, inducendo il lettore a schierarsi dalla parte dei secondi. Ma l'abile uso della fantascienza si trasforma in metafora politica solo quando l'autrice, con un'abile mossa che ricorda il racconto di Frederick Brown Sentry (tr. it. Sentinella, 1954), muta radicalmente la prospettiva del lettore e gli permette di identificarsi pienamente con gli indigeni. Il secondo romanzo, The Old Lie, si muove su un terreno più epico, con alcune scene apparentemente eterogenee sullo sfondo di un conflitto galattico dove le forze umane sono state involontariamente coinvolte. Nel romanzo si intreccia una ricca varietà di temi, molti dei quali legati alle tragedie che hanno colpito gli Aborigeni. Dagli esperimenti nucleari degli anni Cinquanta al dramma delle stolen generations (bambini rubati), dalla lunga lotta per ottenere la cittadinanza australiana al maltrattamento dei rifugiati. Alla fine tutti questi fili si riannodano dando al lettore un quadro esauriente delle esperienze aborigene. L'uso della fantascienza come lente per osservare e descrivere una comunità contemporanea con accenti politici evidenti è piuttosto nuovo nella letteratura aborigena, e in questo caso specifico si rivela molto efficace. Alessandro Pelizzon

Penne rosse del ventunesimo secolo La rivista World Literature Today, fondata nel 1927 Roy Temple House (1878-1963) col nome di Books Abroad, è una delle più stimolanti pubblicazioni letterarie statunitensi. Ogni numero offre un panorama mondiale che spazia dalla poesia alla prosa, dalla saggistica alle recensioni, includendo temi insoliti e autori poco noti. Sulla copertina del numero uscito nello scorso autunno (93) compare Joy Harjo, la scrittrice-musicista muskogee (creek) che nel giugno scorso è stata eletta consulente letteraria ufficiale degli Stati Uniti. Il riconoscimento non era mai stato conferito a un autore indiano. Il fascicolo contiene un dossier sul tema "After Alcatraz: 50 years of literary activism", curato da Allison Hedge Coke. Vari autori propongono un panorama esaustivo della letteratura politicamente impegnata che gli Indiani del Nordamerica hanno espresso dagli anni Settanta ai nostri giorni. Il riferimento ad Alcatraz è particolarmente opportuno: alla fine del 2019 è caduto il cinquantenario dell'occupazione dell'isola, che fu la prima inizitiva di grande rilievo mediatico organizzata dagli indigeni nordamericani. Al di fuori del dossier, ma comunque legata allo stesso contesto culturale, spicca un'intervista a Tommy Orange, finalista all'ultimo Premio Pulitzer con il romanzo There There, tradotto in italiano col titolo Non qui, non altrove (Frassinelli, 2018). Il giovane scrittore cheyenne-arapaho si inserisce a pieno titolo nella tradizione letteraria che vanta autori come Sherman Alexie, Navarre Scott Momaday, Leslie Marmon Silko e la suddetta Joy Harjo. Completano il numero articoli su temi vari e numerose recensioni. La rivista, diretta da Daniel Simon, aveva già dedicato attenzione agli autori indigeni contemporanei. Fra gli altri, alla scrittrice maori Patricia Grace (maggio 2009), ai nuovi autori nordamericani (maggio 2017) e alla mapuche Liliana Ancalao (gennaio 2018). Alessandro Michelucci 38


Nuvole di carta

Bepi Vigna (soggetto), Buong (disegni), 100 anni. La storia del Cagliari Calcio a fumetti, S.O.So.R., Cagliari 2019, pp. 48, € 22. Il 2020 segna il centenario del Cagliari, la squadra rossoblu del capoluogo sardo, che in passato ha vissuto qualche momento di gloria. Bepi Vigna, soggettista ben noto ai cultori della nona arte, fra l'altro creatore di Nathan Never, celebra questa ricorrenza con un albo dedicato alla squadra della sua città. I disegni di Buong sono in perfetta sintonia col tema. Antonella Visconti

Frédéric Bertocchini (soggetto), AA. VV. (disegni), Guide de la Corse en bandes dessinées, Petit à Petit, Rouen 2019, pp. 192, € 18,86. Già noto per numerosi lavori sulla Corsica, Bertocchini dedica alla sua isola questa originale guida a fumetti. Un lavoro insolito e stimolante che va oltre il consueto manuale turistico, rinnovando una formula editoriale piuttosto datata. Realizzata da vari disegnatori, la guida conferma la versatilità della nona arte e la sua capacità di tracciare strade nuove. Giovanna Marconi

Jean Malaurie (soggetto), Makyo (soggetto), Frédéric Bihel (disegni), Malaurie, l'appel de Thulé, Delcourt, Paris 2019, pp. 121, € 19,99. Jean Malaurie è il massimo eskimologo vivente. Da oltre 70 anni si occupa dei popoli artici con conferenze, libri, riviste, spedizioni, etc. Nonostante l'età avanzata, ha ancora voglia di esplorare nuovi canali espressivi. Così è nato Malaurie, l'appel de Thulé, il primo albo che lo vede impegnato nella nona arte. Lo studioso ha curato il soggetto con Pierre Fournier, meglio noto come Makyo. L'albo rievoca la prima spedizione artica di Malaurie e sottolinea che lo studioso non si è mai limitato allo studio etnografico, ma si è schierato apertamente in difesa degli Inuit. Il suo iter viene divulgato anche col fumetto, permettendogli di raggiungere un pubblico che non lo conosce ancora. Alessandro Michelucci 39


Cineteca

Bruno Manser - Die Stimme des Regenwaldes, regia di Niklaus Hilber, Svizzera, 2019, 142'. Bruno Manser (1954-2000?) è rinato grazie al film Bruno Manser - Die Stimme des Regenwaldes (Bruno Manser, la voce della foresta), dedicato all'indimenticabile ecologista svizzero che ha dedicato la vita alla difesa dei popoli indigeni della foresta pluviale. Manser è scomparso nel 2000 nel Borneo, dove si era recato in incognito per trovare ancora una volta la sua seconda famiglia, i Penan. Con loro aveva vissuto sei anni, condividendo la vita quotidiana e le lotte contro la deforestazione. Per questo il governo malese lo aveva dichiarato "nemico dello stato" e gli aveva dato la caccia come se fosse un criminale. Tornato in Svizzera, era ormai diventato uno degli ambientalisti più famosi e più sinceri per il suo impegno ambientalista e indigenista. Il film, interpretato da Sven Schelker, mostra in modo incisivo alcuni episodi salienti di questa lotta. Girato nel Borneo con attori indigeni non professionisti e impreziosito dalla bella colonna sonora di Gabriel Yared, il lungometraggio fornisce un ritratto realista della cultura penan e del suo legame profondo con la natura. Al tempo stesso, però, vediamo gli alberi secolari che cadono e la distruzione che avanza. Per questo è anche un film didattico, ma non si tratta di un caso: il produttore Valentin Greuter e il regista Niklaus Hilber hanno impiegato dieci anni per raggiungere questo equilibrio. In sostanza, è un lavoro interessante per tutti coloro che vedono nella difesa dell'ambiente il presupposto per la conservazione della specie umana. Ruedi Suter

Words from a Bear, regia di Jeffrey Palmer, Stati Uniti, 2019, 84'. Lo scrittore kiowa Navarre Scott Momaday (Lawton, 1934) è il primo indiano nordamericano premiato col Pulitzer, il massimo riconoscimento letterario statunitense, che gli fu conferito nel 1969 per il romanzo House Made of Dawn, più volte pubblicato in italiano col titolo Casa fatta di alba (l'edizione più recente è quella di Guanda, 1995). A Momaday è dedicato il documentario Words from a Bear, diretto da Jeffrey Palmer, che coglie l'essenza del suo universo letterario. Arricchito da un ampio corredo fotografico e paesaggistico, il film raccoglie le interviste di molte persone che hanno incrociato con lui il proprio percorso artistico e professionale: le scrittrici indiane Rita Askew e Joy Harjo; Richard West, fondatore e direttore del National Museum of the American Indian; gli attori Robert Redford e Jeff Bridges, etc. La parabola umana e artistica di Momaday viene ricomposta in modo esaustivo, mettendo in luce anche gli aspetti meno conosciuti della sua personalità. Il risultato è un viaggio spirituale nell'America dei grandi spazi, dove il silenzio della natura si incontra con una gamma infinita di sensazioni e di 40


pensieri. Il documentario è stato presentato nel 2019 al Sundance Film Festival, la celebre rassegna di cinema indipendente diretta da Robert Redford, che riserva ampio spazio alle culture indigene. Antonella Visconti Merata: How Mum Decolonised the Screen, regia di Heperi Mita, Nuova Zelanda, 2018, 95'. In tempi piuttosto recenti i popoli indigeni si sono affermati nel cinema, ma più come attori che come registi. Ancora più raramente si è trattato di donne. Una delle eccezioni più significative è quella di Merata Mita, che è stata la prima maori a scrivere e dirigere un film. La donna aveva collaborato strettamente col Sundance Film Festival, che lo ricorda con un premio intitolato a lei. Il documentario diretto dal figlio della regista è un lavoro intenso ma non retorico. Non è solo un omaggio, ma anche un invito a ricordare il prezioso contributo politico e culturale che alcuni registi indigeni hanno dato alla seconda arte, superando pregiudizi che sembravano insormontabili. Antonella Visconti

Omaggio al ribelle catalano La rivista Enderrock ha publicato un numero speciale che ripercorre la lunga carriera artistica di Lluis Llach, il più celebre esponente della Nova cançó catalana insieme a Joan Manuel Serrat. Negli anni della dittatura franchista Llach compone numerose canzoni apertamente schierate contro il potere. L'uso costante della lingua catalana, proibita dal regime, sottolinea ulteriormente la sua ribellione. Insignito del Premio Tenco nel 1979, dotato di una versatilità straordinaria, noto in tutto il mondo, Llach si è ritirato dalle scene nel 2007. Ma non è rimasto inattivo: alcuni anni dopo ha iniziato a scrivere romanzi. Uno di questi è stato tradotto in italiano col titolo Le donne della Principal (Marsilio, 2016). Il numero speciale di Enderrock è un omaggio sincero a questo grande musicista, fiero della propria identità catalana e al tempo stesso universale.

Gli autori di questo numero Holly Boomer Ha ricoperto vari ruoli accademici. Attualmente fa parte del direttivo dell'Oglala Lakota College di Kyle (South Dakota). Il testo che compare in questo numero è tratto dalla sua tesi, Writing Red: Vine Deloria, Jr. and Contemporary American Indian Fiction (2000). James P. Gregory, jr. Laureato in Storia alla University of Central Oklahoma. Ha curato il libro The Story of One Marine: The World War I Letters and Photos of Pvt. Thomas L. Stewart (Hellgate Press, 2017). Russell Means Attivista, attore e scrittore lakota, figura centrale dell'American Indian Movement. Alessandro Pelizzon Autore di Laws of the Land: Traditional Land Protocols, Native Title and Legal Pluralism in the Illawarra (Lambert Academic Publishing, 2012), tratto dalla tesi di laurea. Senior Lecturer alla Southern Cross University di Lismore (Australia), è tra i fondatori della Global Alliance for the Rights of Nature. Ruedi Suter Giornalista svizzero specializzato in questioni indigene. Ha scritto Bruno Manser: Die Stimme des Waldes (Zygtlogge, 2005). Degli altri autori è stata data notizia nei numeri precedenti. 41


Dalla lotta contro l'apartheid alla difesa di tutte le minoranze

MINORITY RIGHTS GROUP 1969-2019

In questi anni, come abbiamo già visto nei numeri scorsi, le principali associazioni europee nate per difendere le minoranze e i popoli indigeni festeggiano mezzo secolo di attività. Dopo l'IWGIA e la Gesellschaft für bedrohte Völker, entrambe fondate nel 1968, il 2019 ha segnato il centenario del Minority Rights Group. L'autorevole organizzazione britannica è stata fondata nel 1969 da David Astor (nella foto sopra), all'epoca proprietario e direttore del quotidiano londinese The Observer. Il giornalista inglese, già impegnato da vari anni contro l'apartheid, sentì che era giunto il momento di creare una struttura che difendesse tutte le minoranze del pianeta. Erano anni bui: oltre al regime razzista sudafricano, erano in vigore la dittatura militare brasiliana e regimi analoghi in Grecia, Nicaragua e Paraguay; la Spagna era sotto Franco; nove paesi europei erano oppressi dalle dittature comuniste; in Asia erano al potere dittatori filoamericani spietati come lo Shah di Persia e il filippino Ferdinando Marcos. Nel frattempo, però, le minoranze e i popoli indigeni cominciavano a dotarsi di strutture internazionali. Animato da una profonda sete di giustizia, David Astor riuscì a riunire attorno a se un certo numero di persone: nacque così il Minority Rights Group. Negli anni successivi la struttura si è consolidata guadagnando un ampio credito internazionale. Fra le sue tante iniziative spicca una mole considerevoli di pubblicazioni sulle minoranze di tutto il mondo scritte dai maggiori esperti. Parlando del Minority Rights Group non possiamo dimenticare un amico, il giornalista romano Massimo Olmi, che rappresentò il Minority Rights in Italia e fu uno dei primi sostenitori della nostra associazione. Fra i suoi numerosi libri ricordiamo Italiani dimezzati. Le minoranze etnico-linguistiche non protette (Edizioni Dehoniane, 1986) e Italia insolita e sconosciuta. Curiosità, storia, tradizioni delle realtà meno note del nostro paese e dei gruppi etnici che da secoli vi hanno conservato un'identità diversa (Newton Compton, 1991). Nel 2016, quando la nostra rivista ha ripreso le pubblicazioni, il sito del Minority Rights Group ha ospitato il primo numero, riconoscendo così la perfetta sintonia fra le proprie idee e le nostre.

www.minorityrights.org 42


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