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Biblioteca

Chris McCabe (a cura di), Poems from the Edge of Extinction: An Anthology of Poetry in Endangered Languages, Cambers, London 2019, pp. 336, £16.99.

L'anno internazionale delle lingue indigene indetto dall'Unesco nel 2019 ha stimolato un interesse editoriale che comunque era già ben visibile da molti anni, data la grave situazione che interessa molti idiomi autoctoni. Buona parte dei libri pubblicati nello scorso anno è costituita da opere accademiche di interesse generale come The Oxford Handbook of Endangered Languages (Oxford University Press, 2019) o relative a contesti regionali come Language Revitalization at Tribal Colleges and Universities: Overviews, Perspectives, and Profiles, 1993-2018 (Tribal College Press, 2019).

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Insolita e adatta a un pubblico più ampio è invece l'antologia Poems from the Edge of Extinction, che propone 50 poesie in lingue indigene e/o minoritarie: assiro, gaelico irlandese, gallese, maori, navajo, sami, yiddish, etc. Ogni poesia appare in lingua originale insieme alla traduzione inglese, il tutto corredato da un commento esaustivo.

Questo omaggio originale alla varietà linguistica del nostro pianeta è curato da Chris McCabe, fondatore dell'Endangered Poetry Project, ideato per raccogliere il patrimonio poetico delle lingue minacciate. L'introduzione di Mandana Seyfeddinipur, direttrice del prezioso Endangered Languages Archive, sottolinea con forza che la difesa di queste lingue deve fare un salto di qualità, portando dati e cifre che confermano questa urgenza.

Fra i poeti, Joy Harjo, Hawad, Jackie Kay, Gearóid Mac Lochlainn, Laura Tohe e Taniel Varoujan. Un'opera che non solo merita la massima attenzione, ma che dovrebbe essere tradotta in italiano, sfruttando l'occasione offerta dal decennio internazionale delle lingue indigene (2022-2032) che l'ONU ha proclamato alla fine del 2019.

Giovanna Marconi

Ray Gamache, Gareth Jones: Evewitness to the Holodomor, Welsh Academic Press, Cardiff 2018, seconda ed., pp. 280, £19.99.

33 "Non abbiamo più pane, né patate. Il bestiame è morto, e anche i cavalli. Le tasse che ci costringono a pagare non ci consentono più di sopravvivere. Ci stanno uccidendo". Nel 1932 il giovane giornalista gallese Gareth Jones cominciò a raccogliere le grida di disperazione dei contadini ucraini ridotti alla fame dalle politiche di collettivizzazione e "dekulakilazzazione" lanciate da Stalin. I suoi resoconti apparvero subito diversi da quelli dei suoi colleghi occidentali: non solo egli fu capace di

documentare le dimensioni della paurosa carestia di quegli anni, ma riuscì per primo a individuarne le cause nelle politiche criminali del regime moscovita.

La tragedia che devastò l’Ucraina dal 1929 al 1933 causando milioni di morti è oggi nota col nome di Holodomor (Olocausto ucraino). In anni recenti è stata dichiarata "crimine contro l'umanità" dal Parlamento europeo, mentre la strenua opposizione della Russia ha finora impedito alle Nazioni Unite di riconoscerlo ufficialmente come genocidio. Gli storici continuano a dividersi sulle cause scatenanti di quella carestia: fu la conseguenza diretta dei piani quinquennali di Stalin che ridussero alla fame i contadini o venne addirittura creata ad arte da Mosca per spazzare via il nazionalismo ucraino? Il dibattito può apparire capzioso, ma qualunque sia la risposta resta il fatto che, secondo le stime più ottimistiche, a morire furono almeno quattro milioni di ucraini, senza considerare altre centinaia di migliaia di morti nel Caucaso e nelle regioni del Volga.

Il coraggioso lavoro di ricerca sul campo svolto da Jones ha mostrato al mondo una delle pagine più buie della storia europea. La sua vita avventurosa è stata ricostruita dallo statunitense Ray Gamache, docente di giornalismo al King's College della Pennsylvania, nel libro Gareth Jones: Eyewitness to the Holodomor. Consulente del premier britannico David Lloyd George, Jones visitò l'Ucraina in lungo e in largo per documentare le terribili condizioni di vita dei contadini. Le sue corrispondenze dal "granaio d'Europa", pubblicate dai quotidiani inglesi e statunitensi, furono le prime a denunciare il genocidio e si trasformarono in un potente atto d'accusa contro Stalin.

Riccardo Michelucci

Stéphanie S., L'éveil du dragon gallois. D'une assemblée à un parlement pour le pays de Galles (1997-2017), L'Harmattan, Paris 2019, pp. 360, € 37. Martin Johnes, Wales: England's Colony?, Parthian Books, Cardigan 2019, pp. 196, €8.99. Adam Price, Wales: The First and Final Colony. Speeches and Writings 2001-2018, Y Lolfa, Talybont 2018, pp. 216, €9.99.

34 Il referendum che ha sancito l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea ha messo in moto - o nel caso della Scozia, ha modificato – alcuni processi di affermazione identitaria e/o territoriale che meritano molta attenzione, perché possono incidere sul futuro del continente. Trascurarli sarebbe un grave errore. All'interno di questo fenomeno il Galles occupa un posto particolare. A differenza della Scozia e dell'Irlanda del Nord, che godono comunque di una certa attenzione mediatica, la regione sudoccidentale del Regno Unito viene spesso – anche se erroneamente – considerata un'appendice dell'Inghilterra. Questo è dovuto al fatto che il Galles, annesso da Londra nel 1532, entrò a far parte della Gran Bretagna fin dall'inizio, cioè quando fu sancita l'unione della corona inglese con quella scozzese (1707).

Oggi le incognite della Brexit e la possibilità di un nuovo referendum scozzese si riflettono sulla regione costiera disegnando un quadro molto incerto. È in un simile contesto che ha ripreso vigore il separatismo del Plaid Cymru, il principale partito nazionalista, che si inserisce nel solco tracciato dallo Scottish National Party invocando a sua volta un referendum sull'indipendenza. Com'era prevedibile, questo fermento sta stimolando la pubblicazione di vari libri sul tema.

L'opera di Martin Johnes, docente di Storia gallese all'università di Swansea, ripropone il concetto del colonialismo interno, già in voga in numerose rivendicazioni delle minoranze europee a partire dagli anni Sessanta. Pensiamo ad autori come l'occitano Robert Lafont (La révolution régionaliste, Gallimard, 1967 e Décoloniser en France. Les régions face à l'Europe, Gallimard, 1971) e Michael Hechter (Il colonialismo interno. Il conflitto etnico in Gran Bretagna: Scozia, Galles e Irlanda 1536-1966, Rosenberg & Sellier, 1978). Johnes rifiuta qualsiasi vittimismo e sottolinea che Londra non ha mai cercato di soffocare la cultura gallese, diversamente da quello che accaduto in altri paesi europei, primo fra tutti la Francia. Al tempo stesso, ricorda che la grande maggioranza della popolazione gallese ha contribuito con entusiasmo alla costruzione dell'impero britannico.

Anche il libro di Adam Price, attuale segretario del Plaid Cymru, denuncia il colonialismo interno, ma lo fa con toni più apertamente politici. Membro dell'Assemblea gallese dal 2016, primo gay

alla testa di un partito britannico, Price è noto per certe prese di posizione atipiche. Nel 2004, quando Tony Blair sostenne Bush nell'aggressione dell'Iraq, promosse una campagna per l'impeachment del premier britannico. La sua iniziativa fu sostenuta da Alex Salmond, segretario dello Scottish National Party (SNP), che nel 1999 aveva condannato il bombardamento della Serbia. All'epoca entrambi i partiti proponevano l'uscita dalla NATO, ma successivamente il SNP ha optato per la fedeltà atlantica.

Negli ultimi anni, stimolato anche dalla crescita del separatismo scozzese, il Plaid Cymru ha riproposto apertamente la linea indipendentista originaria che aveva accantonato per lungo tempo. Contrariamente ai casi più noti – Catalogna e Scozia – il Galles non è una regione ricca. Quindi il separatismo gallese contraddice la tesi secondo la quale sarebbero soltanto certe regioni prospere ad auspicare l'indipendenza. Un altro obiettivo è la creazione di stretti legami economici e culturali con le altre aree celtiche, in particolare con Scozia e Irlanda. Questi e altri temi emergono chiaramente dal libro, che raccoglie interventi di vario tipo datati fra il 2001 e il 2018.

Diverse ma complementari, le tre opere forniscono un ampio bagaglio di cognizioni storiche, politiche ed economiche utili per valutare un aspetto trascurato della Brexit e una questione che sta acquistando un certo rilievo. Se l'europeismo non deve restare una formula vuota, abbiamo il dovere di conoscere quello che bolle in pentola.

Alessandro Michelucci

Karola Fings, Sinti e Rom. Storia di una minoranza, Il Mulino, Bologna 2018, pp.128, €12.

Gli Zingari, o per meglio dire Sinti e Rom, costituiscono la minoranza europea più numerosa, ma nonostante questo la loro storia è poco nota. La loro convivenza coi membri delle società dominanti è sempre stata condizionata da stereotipi che hanno legittimato politiche discriminatorie. Il volume di Karola Fings offre uno sguardo d'insieme sui processi storico-sociali, le pratiche di esclusione e i giudizi che hanno caratterizzato i membri di questa comunità transnazionale.

Diviso in quattro sezioni, il libro analizza anzitutto le peculiarità culturali della comunità zingara, dando risalto alle difficoltà e ai pregiudizi che l'hanno accompagnata nel corso della storia. Il secondo capitolo propone un excursus storico: emigrati dall'India verso occidente nel quarto-quinto secolo, gli Zingari si trovano inseriti in un contesto sociale ostile. Il capitolo successivo si sofferma sul Porrajmos, il genocidio compiuto dal regime nazista, narrando il dramma che li ha colpiti in quegli anni. L'ultimo capitolo si concentra sulla storia degli ultimi settant'anni, sottolineando che la tragedia degli anni 30-40 non è stata ancora riconosciuta pienamente.

Un limite del libro consiste nel fatto che l'analisi si focalizza principalmente sulla Germania, fatto non sorprendente, essendo il paese di origine dell'autrice. Sarebbe stato necessario dedicare più spazio alle condizioni delle minoranze zingare paesi dell'Europa centrale e orientale, visto il loro peso demografico all'interno di tali società. Un secondo aspetto da sviluppare con maggiore attenzione è l'effetto che le normative europee hanno avuto sulla condizione della minoranza, in particolar modo nei paesi che hanno aderito all'Unione Europea nel 2004 e nel 2007.

Marco Torresin

Ramy Balawi, Alessandra Ravizza, Il maestro di Gaza, Aut Aut, Palermo 2018, pp. 224, € 15.

35 La testimonianza del maestro Ramy Balawi, così ben raccolta da Alessandra Ravizza, arriva dritto al cuore, al cuore di quella prigione a cielo aperto che è Gaza. La narrazione ci porta tra le atroci sofferenze imposte a un popolo che vive in costante stato di assedio. Ricco di umanità, il libro trasporta il lettore fra la gente di Gaza. Ramy è uno di loro. Nato un anno dopo la prima Intifada, l'autore si trova a essere spettatore innocente e inconsapevole, ma poi capisce cosa significa vivere in una città occupata e prende piena coscienza della situazione che condiziona il suo futuro. Grazie

all'attenta ricerca delle fonti Alessandra Ravizza inserisce la narrazione di Ramy nel suo contesto culturale e politico, tenendo conto del dibattito più recente sulla questione palestinese.

Il maestro di Gaza, nel suo ruolo di educatore, sente di dover seminare il cambiamento nel cuore dei ragazzi, di trasmettere valori di umanità e tolleranza per promuovere la convivenza pacifica tra i popoli e le persone. Portavoce di un futuro di pace in una realtà che tende a generare l'odio, il protagonista cerca di tracciare un sentiero dove la tolleranza, l'amore e la pace possano affermarsi come strumenti per costruire un futuro diverso. "L'insegnamento è un atto di resistenza, è il seme del cambiamento per le nuove generazioni", scrive il maestro gazawi, convinto che questi valori rappresentino la salvezza per chi ha perso tutto ed è costretto a inventarsi un futuro per sopravvivere, anche se si tratta di un futuro immaginario.

Marisa Cestelli

Yang Haiying, Genocide on the Mongolian Steppe: First-Hand Accounts of Genocide in Southern Mongolia during the Chinese Cultural Revolution, Volume I, Xlibris, Bloomington (IN) 2017, pp. 232, $19.99.

Il crescente peso economico della Cina ha ridotto al minimo le voci che contestano le atrocità compiute da Pechino contro le minoranze e contro gli stessi cinesi. Del Tibet si parla ormai pochissimo, mentre gli Uiguri, che pur emergono ogni tanto nella cronaca, sono penalizzati dall'islamofobia in quanto musulmani. Una tragedia umana che invece resta avvolta dal buio più fitto è quella della minoranza mongola, circa 4.000.000 di persone stanziate nella cosiddetta Mongolia Interna, annessa dalla Cina nel 1947. Allo scarso materiale bibliografico sulla questione si è aggiunto un volume che ripercorre in modo chiaro e preciso una storia dimenticata, per non dire completamente ignota.

Lo stesso autore è un esponente della minoranza in questione, ma vive da molti anni in Giappone, dove lavora come docente universitario. Il libro, pubblicato originariamento in questo paese, è stato tradotto da Eghebatu Togochog, fondatore e direttore del Southern Mongolian Human Rights Information Center. Il contributo di questo attivista infaticabile sottolinea la posizione schierata dell'autore. La persecuzione fisica e culturale, la negazione dei diritti elementari e il lavoro forzato, aggravati dal freddo del disinteresse mondiale, replicano il triste copione che segna la vita di tanti popoli. Parlare di genocidio può essere esagerato, ma comprensibile, dato che il titolo cerca di scuotere l'apatia dominante.

Ai tempi della guerra fredda, seppur con toni e finalità discutibili, la logica repressiva delle dittature comuniste veniva condannata apertamente. Oggi quell'attenzione è un ricordo remoto, ma il libro ci ricorda che poco o nulla è cambiato per chi vive (e muore) sotto il tallone di Pechino.

Giovanna Marconi

Conor Foley (a cura di), In Spite of You: Bolsonaro and the New Brazilian Renaissance, OR Books, New York (NY) 2019, pp. 180, $17.

36 L'autore di questo libro, Visiting Professor alla Pontificia Università di Rio de Janeiro, è un profondo conoscitore della realtà brasiliana, come aveva dimostrato il precedente Protecting Brazilians against Torture (2013). Il nuovo contesto sociale determinato dall'elezione di Jair Bolsonaro non poteva quindi lasciarlo indifferente. Il libro fotografa il panorama composito delle forze sociali, politiche e culturali che si oppongono alla pericolosa svolta autoritaria del nuovo presidente.

La necessità di fare muro contro Bolsonaro ha indotto i suoi oppositori a imbarcare personaggi ampiamente screditati come gli ex presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff, che hanno ben poco da offrire alla "nuova resistenza" evocata nel sottotitolo, ma davanti a un pericolo così grave era inevitabile. Questo spiega perché entrambi compaiono fra gi autori del volume. Resta da vedere se questo insieme variegato saprà coagularsi in un movimento moderno e vitale, oppure se

Antonella Visconti

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e Australasia, Meltemi, Roma 2019, pp. 428, € 24,00.

Per coloro che leggono regolarmente libri sulle questioni indigene pubblicati all'estero (soprattutto nei paesi anglofoni) il volume di Pegoraro non costituisce una novità, ma lo è certamente nel contesto dell'editoria italiana. L'opera, acutamente introdotta da Franco Cardini, si concentra sui genocidi coloniali avvenuti nei quattro paesi anglofoni extraeuropei: Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Tutti stati che, seppure a livelli diversi, vengono considerati modelli di democrazia. L'autore delinea chiaramente il contesto storico, politico e culturale nel quale si sviluppò lo sterminio degli Aborigeni australiani, degli Indiani nordamericani e di altri popoli autoctoni.

Lo studioso ricompone un fenomeno complesso che va ben oltre l'aggressione fisica diretta, disegnando un mosaico spaventoso dove si intrecciano l'assimilazione coatta, lo sradicamento linguistico e religioso, la sterilizzazione forzata, la violenza fisica, psicologica e sessuale. L'intento dichiarato dell'autore è quello di restituire dignità alle vittime dimenticate, respingendo con solide argomentazioni il revisionismo storico e il suo tentativo di cancellare i crimini più efferati dell'Occidente. Un revisionismo, duole dirlo, che non viene mai denunciato al pari di altri.

Un'opera così ampia e articolata, ovviamente, impone qualche appunto. Il linguaggio appare influenzato dall'inglese: questo non incide sulla comprensibilità, ma contiene numerosi termini che possono suonare anomali all'orecchio italiano. Quello che lascia molto perplessi, invece, è l'incluasio-ne dei Maori fra i popoli colpiti dal genocidio. Lo stesso autore ne sembra cosciente, tanto è vero che sottolinea la scarsità di testi accademici sul tema. Si tratta comunque di piccole imperfezioni che non tolgono niente al merito di una ricognizione tanto ampia, mai pubblicata prima d'ora nel nostro paese. È auspicabile che il libro non resti una luminosa eccezione, ma che stimoli ulteriori studi italiani sul tema, riducendo la distanza che separa la nostra editoria da quella straniera.

Alessandro Michelucci

Adolphus P. Elkin, Gli aborigeni australiani, Iduna, Sesto S. Giovanni (Milano) 2018, pp. 359, €24.

Adolphus Peter Elkin (1891-1079), presbitero e antropologo australiano, è stato il primo a studiare la cultura degli Aborigeni, ricca di implicazioni rituali e religiose. Il suo approccio funzionalista ha avuto grande influenza sull'antropologia contemporanea. Questo libro, finora inedito in Italia, "non avrebbe potuto essere scritto senza tener conto delle campagne di ricerca da me compiute a varie riprese nei Kimberleys (1927-28), nelle regioni meridionali e centrali del continente", scrive l'autore nella prefazione alla prima edizione. Il volume raccoglie le relazioni di alcune conferenze organizzate dall'Università di Sydney a partire dal 1933.

Il testo presenta approfonditamente l'intero universo artistico, culturale, sociale e religioso degli indigeni. Sottolinea acutamente che la loro società "dal contatto con la nostra ha ricevuto una scossa pressochè fatale". La politica razzista che ha segnato la storia australiana ha tentato di soffocare l'identità aborigena con l'assimilazione forzata, il furto e la distruzione dei territori ancestrali, la coercizione culturale e religiosa. Tutto questo ha avuto conseguenze culturali gravissime.

Una volta, un vecchio indigeno chiese a Elkin perché volesse sapere tante cose sui loro costumi. L'antropologo rispose di essere mosso dal fatto che i bianchi non li comprendevano. Il vecchio pensò, poi disse: "Questo è bene; ma siete venuto troppo tardi".

Nel romanzo Terra Nullius, che segna l'esordio di Claire Coleman, l'autrice guida il lettore in un insolito viaggio attraverso le sofferenze degli Aborigeni australiani, che spesso si sentono prigionieri nella propria terra. La scrittrice noongar narra l'invasione dell'Australia da parte di forze militari imponenti e i loro scontri con gli indigeni, inducendo il lettore a schierarsi dalla parte dei secondi. Ma l'abile uso della fantascienza si trasforma in metafora politica solo quando l'autrice, con un'abile mossa che ricorda il racconto di Frederick Brown Sentry (tr. it. Sentinella, 1954), muta radicalmente la prospettiva del lettore e gli permette di identificarsi pienamente con gli indigeni.

Il secondo romanzo, The Old Lie, si muove su un terreno più epico, con alcune scene apparentemente eterogenee sullo sfondo di un conflitto galattico dove le forze umane sono state involontariamente coinvolte. Nel romanzo si intreccia una ricca varietà di temi, molti dei quali legati alle tragedie che hanno colpito gli Aborigeni. Dagli esperimenti nucleari degli anni Cinquanta al dramma delle stolen generations (bambini rubati), dalla lunga lotta per ottenere la cittadinanza australiana al maltrattamento dei rifugiati. Alla fine tutti questi fili si riannodano dando al lettore un quadro esauriente delle esperienze aborigene. L'uso della fantascienza come lente per osservare e descrivere una comunità contemporanea con accenti politici evidenti è piuttosto nuovo nella letteratura aborigena, e in questo caso specifico si rivela molto efficace.

Alessandro Pelizzon

Penne rosse del ventunesimo secolo

La rivista World Literature Today, fondata nel 1927 Roy Temple House (1878-1963) col nome di Books Abroad, è una delle più stimolanti pubblicazioni letterarie statunitensi. Ogni numero offre un panorama mondiale che spazia dalla poesia alla prosa, dalla saggistica alle recensioni, includendo temi insoliti e autori poco noti. Sulla copertina del numero uscito nello scorso autunno (93) compare Joy Harjo, la scrittrice-musicista muskogee (creek) che nel giugno scorso è stata eletta consulente letteraria ufficiale degli Stati Uniti. Il riconoscimento non era mai stato conferito a un autore indiano. Il fascicolo contiene un dossier sul tema "After Alcatraz: 50 years of literary activism", curato da Allison Hedge Coke. Vari autori propongono un panorama esaustivo della letteratura politicamente impegnata che gli Indiani del Nordamerica hanno espresso dagli anni Settanta ai nostri giorni. Il riferimento ad Alcatraz è particolarmente opportuno: alla fine del 2019 è caduto il cinquantenario dell'occupazione dell'isola, che fu la prima inizitiva di grande rilievo mediatico organizzata dagli indigeni nordamericani. Al di fuori del dossier, ma comunque legata allo stesso contesto culturale, spicca un'intervista a Tommy Orange, finalista all'ultimo Premio Pulitzer con il romanzo There There, tradotto in italiano col titolo Non qui, non altrove (Frassinelli, 2018). Il giovane scrittore cheyenne-arapaho si inserisce a pieno titolo nella tradizione letteraria che vanta autori come Sherman Alexie, Navarre Scott Momaday, Leslie Marmon Silko e la suddetta Joy Harjo. Completano il numero articoli su temi vari e numerose recensioni. La rivista, diretta da Daniel Simon, aveva già dedicato attenzione agli autori indigeni contemporanei. Fra gli altri, alla scrittrice maori Patricia Grace (maggio 2009), ai nuovi autori nordamericani (maggio 2017) e alla mapuche Liliana Ancalao (gennaio 2018).

Alessandro Michelucci