14 minute read

Le guerre indiane del ventunesimo secolo Alessandro Michelucci

Le guerre indiane del ventunesimo secolo

Alessandro Michelucci

Advertisement

La storia recente degli Indiani nordamericani è segnata da un paradosso: pur essendo cittadini di un paese che occupa costantemente le prime pagine, l'interesse mediatico nei loro confronti è quasi nullo, con l'ovvia eccezione degli Stati Uniti. L'Europa è piena di giornalisti, intellettuali ed esponenti politici che incensano la federazione nordamericana, mentre (pochi) altri arrivano al massimo a denunciarne certi limiti. Ma per gli uni come per gli altri è come se gli Indiani non esistessero.

Uno sguardo più attento, però, rivela che si tratta di un paradosso apparente, perché in realtà questo disinteresse ha delle motivazioni ben precise. Il complesso intreccio di interessi politici, economici e militari che legano l'Europa agli Stati Uniti ha creato quella sudditanza psicologica che il regista Wim Wenders ha sintetizzato perfettamente in poche parole: "Gli americani ci hanno colonizzato il subconscio" (l'attore Hanns Zischler le pronuncia nel film Nel corso del tempo, 1976). Nel momento in cui il Vecchio Continente e gli Stati Uniti vengono percepiti come parti complementari di un unico complesso politico-militare, economico e culturale, l'Occidente, il silenzio sui problemi che travagliano gli Indiani d'America diventa naturale, se non addirittura obbligatorio. Il fenomeno è radicato così profondamente che non conosce eccezioni neanche quando la politica di Washington nei confronti della questione indiana potrebbe aumentare i meriti del Presidente in carica, come nel caso di Obama, o fornire argomenti polemici incontestabili, come nel caso di Trump.

Una vecchia ruggine Alla fine degli anni Settanta Donald John Trump, poco più che trentenne, è già uno dei maggiori immobiliaristi di New York. Successivamente espande la propria attività ad Atlantic City, dove acquista o costruisce numerosi alberghi e sale da gioco. I suoi primi contrasti con gli Indiani risal-gono ai primi anni Novanta. Trump comincia a temere la concorrenza dei casinò che stanno nascendo in varie riserve grazie all’Indian Gaming Regulatory Act (IGRA), firmato nel 1988 da Ronald Reagan. Nel 1993 il magnate cerca di screditare le tribù che hanno aperto le prime sale da gioco: "Non mi sembrano neanche indiani" afferma davanti al Congresso, sostenendo che certi imprenditori si fingono indiani per poter espandere la propria attività economica nelle riserve. Il contrasto riemerge nel 2000, quando gli Indiani gestiscono ormai il 25% delle sale da gioco attive in tutta la federazione. I Mohawk della riserva di St. Regis annunciano la prossima apertura di un casinò nella regione dei Monti Catskill, situata a nord di New York. Un'intensa campagna mediatica cerca di screditarli dipingendoli come mafiosi e spacciatori di droga. Le inserzioni sono state pagate da un misterioso Institute for Law and Safety, che poi risulta legato a Trump.

Come documenteranno i media americani dopo la sua elezione, sarà grazie a questi precedenti che la profonda ostilità di Trump nei confronti degli Indiani si manifesterà in due modi diversi. Da una parte, utilizzando i poteri presidenziali; dall'altra, con affermazioni e comportamenti legati a momenti particolari. Sarà proprio il vecchio rancore personale che ispirerà la sua azione politica.

21 L'eredità di Andrew Jackson Fra la fine del ventesimo secolo e l'inizio del ventunesimo si affermano in varie parti del mondo alcuni personaggi politici che provengono dal mondo imprenditoriale e finanziario: Silvio Berlusconi in Italia, Thaksin Shinawatra in Thailandia e Rafīq al-Ḥarīrī in Libano, solo per fare qualche esempio. La loro linea politica viene fortemente condizionata dai rapporti che li legano all'ambiente di provenienza. Donald Trump si inserisce a pieno titolo in questo nuovo panorama.

Il candidato repubblicano viene eletto presidente degli Stati Uniti il 6 novembre 2016 ed entra in carica il 20 gennaio dell'anno successivo. Le reazioni indiane sono molto negative: "[L'elezione di Donald Trump] rappresenta la minaccia più grande per le relazioni fra gli Indiani e il potere federale.

La vera storia del Thanksgiving Day

Il Thanksgiving Day (Giorno del Ringraziamento) viene associato all'immagine di alcuni coloni europei e di indiani che partecipano allegramente a una festa. In effetti, almeno all'inizio, questo accadde davvero. Tutto cominciò nel 1614, quando un gruppo di esploratori inglesi partì per la Gran Bretagna su una nave piena di indiani patuxet destinati alla schiavitù. Dietro di sé lasciarono un'epidemia di vaiolo che avrebbe decimato quelli che non avevano catturato. Quando i Pellegrini raggiunsero Massachusetts Bay trovarono un solo patuxet, Squanto, che era sopravvissuto alla schiavitù in Gran Bretagna e parlava l'inglese. L'uomo insegnò loro a coltivare il grano e a pescare. Inoltre li aiutò a concludere un trattato di pace con la nazione wampanoag. Un anno dopo gli inglesi organizzarono una festa in onore di Squanto e degli Wampanoag. Ma quando in Gran Bretagna si venne a sapere che esisteva un paradiso terrestre situato oltre l'Atlantico molti puritani iniziarono a emigrare per raggiungerlo. Non trovarono delimitazioni territoriali e pensarono che la terra fosse proprietà pubblica. Divenuti più numerosi in seguito all'arrivo di altri coloni, divisero la terra, fecero schiavi i giovani indiani e uccisero gli altri. I Pequot, che non avevano firmato il trattato di pace negoziato da Squanto, scatenarono una delle guerre più sanguinose fra indiani e bianchi. Nel 1637, vicino a quella che oggi è Groton (Connecticut), circa 700 pequot - uomini, donne e bambini – si erano riuniti per la loro festa annuale. Nella notte, mentre dormivano, furono circondati da alcuni mercenari inglesi e olandesi che li sterminarono. Le donne, che erano rimaste nelle tende con i loro bambini, furono arse vive. Il giorno dopo il governatore della Massachusetts Bay Colony dispose "una giornata di ringraziamento" per festeggiare l’uccisione di 700 persone: uomini, donne e bambini. Esaltati da questa "vittoria", i coloni e i loro alleati indiani attaccarono un villaggio dopo l'altro. Le donne e i ragazzi oltre i 14 anni venivano venduti come schiavi mentre gli altri venivano uccisi. Dai porti del New England partivano navi con migliaia di schiavi. A chi portava degli scalpi indiani venivano pagate taglie generose. Dopo un attacco vittorioso contro i Pequot nell'attuale Stamford (Connecticut), le chiese annunciarono un secondo "giorno di ringraziamento" per festeggiare quella vittoria contro i "selvaggi pagani". Durante i festeggiamenti le teste tagliate degli indiani venivano prese a calci per le strade come palloni da calcio. Neanche i Wampanoag scamparono a questa follia. Il loro capo venne decapitato e la sua testa fu infilata in un palo a Plymouth (Massachusetts), dove rimase in mostra per 24 anni. I massacri si fecero sempre più spietati e ognuno veniva seguito da una festa di ringraziamento. Successivamente George Washington, primo presidente degli Stati Uniti, propose che fosse istituita un'unica festività. Il 3 ottobre 1863, lo stesso giorno in cui scatenò l'esercito contro i Sioux del Minnesota, Abraham Lincoln istituì il Thanksgiving Day, una festa nazionale da tenersi il quarto giovedì di novembre. Tutto questo suona un po' diverso dal quadretto idilliaco degli Indiani e dei coloni che partecipano a una grande festa. Ma dobbiamo conoscere la nostra vera storia se non vogliamo che si ripeta. Il prossimo Giorno del Ringraziamento, quando vi riunirete coi vostri cari per ringraziare Dio di tutto quello che vi ha dato, rivolgete un pensiero a quelle persone che volevano vivere in pace con le loro famiglie e ringraziavano il Creatore per tutti i doni che avevano ricevuto da Lui.

Susan Bates

The First Thanksgiving, 1621, di Jean Leon Gerome Ferris (circa 1915)

22 Non voglio drammatizzare, ma una cattiva amministrazione federale può cancellare lo status politico e legale delle nazioni indigene", scrive Gyasi Ross su Indian Country Today pochi giorni dopo la vittoria di Trump. Il giornalista non si limita a manifestare i propri timori, ma cerca di delineare una strategia per limitare gli effetti dannosi che prevede. Il nuovo presidente conferma le previsioni di Ross mostrando subito con grande chiarezza la propria ostilità verso gli Indiani.

Il neopresidente è appena arrivato alla Casa Bianca quando ordina che venga attaccato nel suo studio un ritratto di Andrew Jackson, settimo presidente degli Stati Uniti (1829-1837). Raffigurato sulla banconota da 20 dollari, Jackson viene generalmente considerato il presidente che ha attuato la politica più spietata nei confronti degli Indiani. A lui si deve il famigerato Indian Removal Act (1830), in seguito al quale varie tribù vennero deportate in modo che le loro terre potessero essere occupate dai latifondisti degli stati meridionali. Gli Indiani ricordano questa tragedia come Trail of Tears (Sentiero delle lacrime). Poche settimane dopo Trump conferma la propria ammirazione per Jackson visitando la sua casa di Nashville in occasione dell'anniversario della nascita.

23 Una guerra contro l'ambiente Come Trump ha già enunciato durante la campagna elettorale, uno dei cardini della sua azione politica è quello che si riassume nel concetto di energy dominance, cioè l'autosufficienza energetica basata sullo sfruttamento dei combustibili fossili (carbone, gas naturale e petrolio). Questo implica una netta inversione della politica che è stata attuata dall'amministrazione precedente.

Il 1º giugno 2018 gli Stati Uniti si ritirano dagli accordi di Parigi sul riscaldamento climatico firmati da Obama nel 2016 e ratificati nello stesso anno. In agosto, coerente con questa linea, Trump cancella il Clean Power Plan varato dal suo predecessore, che prevedeva una drastica riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030 grazie all'uso crescente di energie rinnovabili. Secondo le nuove norme, ogni Stato potrà fissare le proprie regole e decidere i limiti delle emissioni.

La nuova politica energetica si traduce anche in misure che danneggiano le comunità indigene. Il 24 gennaio 2017, pochi giorni dopo essere entrato in carica, Trump firma gli ordini esecutivi per far riprendere la costruzione di due grandi oleodotti, il Keystone XL e il Dakota Access Pipeline (noto con la sigla DAPL). Entrambi sono stati interrotti in seguito alla moratoria disposta da Obama. Il primo oleodotto comincia in Canada e prosegue negli Stati Uniti, dove interessa il Montana, il North Dakota e il South Dakota. In vari punti tocca alcune riserve indiane o passa a poca distanza da queste. Le comunità coinvolte (Assiniboine, Gros Ventre e Sioux) temono che l'oleodotto possa danneggiare le falde acquifere e i siti sacri. Questi ultimi hanno un ruolo centrale nelle culture indigene. Il DAPL, che interessa invece la riserva sioux di Standing Rock (North Dakota), viene costruito da una compagnia che ha fra gli azionisti lo stesso presidente. Contro il progetto si mobilitano attivisti indigeni, ecologisti, attori e musicisti di tutto il mondo. L'oleodotto entra in funzione il 1º giugno 2017, ma tre anni dopo, il 25 marzo 2020, un tribunale federale blocca la sua attività e ordina una perizia ambientale dell'intero progetto che potrebbe richiedere qualche anno.

Un altro caso importante è quello che riguarda il Bears Ears National Monument, un'area protetta situata nello Utah sudorientale. Istituita da Obama alla fine del 2016, quest'area di 1.350.000 acri (5400 kmq) riveste un grande significato per molti popoli indigeni dell'area, fra i quali Navajo, Pueblo e Ute, e include siti archeologici di grande valore. Nell'aprile 2017, in seguito alla pressione repubblicana, Trump dispone che venga riesaminata la posizione di 27 monumenti nazionali, incluso il Bears Ears. Secondo le valutazioni dei tecnici, questa area deve essere ridotta dell'85%. La protesta indiana, guidata dall'avvocato navajo Ethel Branch, si dimostra purtroppo inutile: alla fine del 2017 l'area viene effettivamente ridotta a 202.000 acri (817 kmq). Fra le riserve indiane che si oppongono alla riduzione del Bears Ears spiccano quelle navajo e ute della contea di San Juan (Utah), dove l'amministrazione locale è egemonizzata da una maggioranza bianca.

La Nazione Navajo, in particolare, muove un'azione legale che contesta la formazione di questa maggioranza, appellandosi al Voting Rights Act del 1965. Nell'autunno del 2018 vengono indette nuove elezioni, in seguito alle quali la maggioranza passa agli Indiani, che ovviamente si schierano per la difesa del Bears Ears Monument. All'inizio del 2020 la Nazione Navajo continua la propria battaglia, ma stavolta si concentra sull'imminente censimento federale. Il suo obiettivo è quello di raggiungere un peso numerico che le permetta di incidere positivamente sulla questione.

Nello stesso periodo Donald Trump conferma che la sua linea politica si basa sul più totale disprezzo dei popoli indigeni e delle loro credenze religiose. In febbraio cominciano le esplosioni che distruggono una parte dell'Organ Pipe Cactus National Monument, situato nel deserto di Sonora, nell'Arizona meridionale. Lo scopo è quello di permettere la costruzione del muro per arginare il flusso di emigrati messicani. Si tratta di una misura che il magnate ha già annunciato durante la

campagna presidenziale. L'area in questione, monumento nazionale, è una riserva della biosfera protetta dall'UNESCO. Ma soprattutto, ospita numerosi luoghi di sepoltura sacri per la nazione tohono o'odham. Ancora una volta l'aggressione delle culture indigene e quella dell'ambiente procedono di pari passo. La notizia viene liquidata con qualche articolo sui quotidiani, ma nel resto del mondo nessuna voce si leva contro un simile scempio. Cerchiamo di immaginare cosa sarebbe successo se fossero state distrutte nello stesso modo le tombe di un cimitero ebraico o armeno.

La questione indiana da Nixon a Obama

La storia dei rapporti fra i governi statunitensi e gli Indiani è una lunga sequela di inganni e di promesse tradite. Questo non significa che tutti i successori di George Washington abbiano trattato la questione indiana nello stesso modo. I media statunitensi hanno sempre dedicato un certo spazio al tema, mentre in Europa, nonostante l'attenzione quasi maniacale per quello che accade negli Stati Uniti, il tema ha sempre ricevuto un'attenzione molto scarsa. Nell'ultimo mezzo secolo sono stati nove gli uomini che si sono avvicendati alla massima carica federale, da Richard Nixon (1969-1974) all'attuale Donald Trump. Gli anni di Nixon (1969-1974) segnano una decisa inversione di rotta: viene abbandonata la termination policy varata da Eisenhower nel 1953, che prevedeva la chiusura delle riserve, la fine delle sovvenzioni federali e l'assimilazione. L'amministrazione Nixon approva numerose leggi che migliorano la condizione degli Indiani in campo educativo, politico e territoriale. La breve gestione di Gerald Ford (1974-1977) estende il diritto di voto, non solo per gli Indiani, ma anche per ispanici e asiatici. Già attento ai diritti degli Indiani quando era il vice di Nixon, Ford difende alcuni luoghi sacri, molto prima che la materia sia regolata dal Native American Graves Protection and Repatriation Act (NAGPRA), che sarà approvato dall'amministrazione Bush nel 1990. Jimmy Carter (1977-1981) appare scarsamente interessato ai problemi delle minoranze indigene: non ha un consulente che si occupa della materia, non le nomina nei suoi discorsi né nella sua autobiografia, Keeping Faith (1982). Ma firma alcune leggi importanti, fra le quali l’American Indian Religious Freedom Act, relativo alla libertà religiosa, e l'Indian Child Welfare Act, che dispone misure precise sull'assistenza dell'infanzia. Poco prima che scada il suo mandato firma un accordo che riconosce i diritti territoriali dei Passamaquoddy e dei Penobscot, compromesi dal mancato rispetto di un trattato. L'amministrazione guidata da Ronald Reagan (1981-1989) indebolisce l’autonomia indiana. I pesanti tagli alla spesa pubblica penalizzano le tribù dipendenti dalle sovvenzioni federali. Per bilanciare tali svantaggi Reagan emana la legge (1988) che consente l'apertura di sale da gioco gestite da indiani. George Washington Bush (1989-1993) afferma che i problemi degli Indiani sono competenza dei singoli stati: una posizione in contrasto con la Costituzione, che assegna un ruolo prevalente alla legge federale. Questo genera vari contenziosi, dato che molte tribù rifiutano di osservare le leggi statali. Durante i due mandati consecutivi di Bill Clinton (1993-2001) vengono approvate diverse leggi migliorative in vari campi, come il coordinamento con i governi tribali, il potenziamento delle strutture universitarie e la tutela dei siti sacri. I rapporti con le tribù rimangono abbastanza amichevoli. Ma a partire dal 1994, quando i repubblicani ottengono il controllo delle due camere, il Congresso assume un atteggiamento ostile. Questo viene confermato dall'azione della Corte Suprema, che in molte controversie fra stati e tribù si schiera nettamente a favore dei primi. Certe conquiste risalenti agli anni di Nixon, la cosidetta era dell’autodeterminazione, sembrano messe in discussione. George W. Bush, anche lui due volte presidente (2001-2009) prosegue su questa linea negativa. La sua attenzione per la questione indiana è minima, con la sola eccezione di due ordini esecutivi che riguardano il campo educativo. Il primo incrementa il sostegno alle università e ai collegi tribali. Il secondo cerca di aiutare gli studenti a usufruire dei vantaggi del No Child Left Behing Act, ideato per garantire uguali opportunità agli studenti svantaggiati (poveri, appartenenti a minoranze, etc.). Fortemente controverso, sarà sostituito da un decreto simile nel 2015. Nel 2006 il Congresso approva un atto relativo ai programmi di immersione linguistica per salvare le lingue indigene dall’estinzione. Al contrario, la sintonia fra Barack Obama (2009-2017) e gli Indiani si manifesta fin dall'inizio. Il Tribal Law and Order Act (2010) rafforza i poteri delle corti tribali. Michelle Obama elabora un programma per migliorare la qualità del cibo nelle riserve e per combattere l'obesità infantile. Vengono potenziate le opportunità formative. Fra il 2015 e il 2016 Obama fissa una moratoria sulla costruzione di due grandi oleodotti (DAPL e Keystone), contestati dagli indiani per motivi religiosi e ambientali. Si impegna a limitare gli effetti dei mutamenti climatici. Molti indiani lo ritengono il migliore fra i successori di Washington.