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Ci siamo... quasi

MAGAZINE
ANNO 2 NUMERO 13 DISTRIBUZIONE GRATUITA ONLINE

L ’e ditoriale

Voglio assolutamente e mi corre l’obbligo, voler portare alla ribalta alcune istanze di gente che non la pensa assolutamente nello stesso modo di chi recita la narrativa dettata dalla propaganda dei media locali e nazionali, sempre più asserviti e appiattiti ai voleri del padrone. Non c’è alcuna volontà losca che ha manovrato le dinamiche del tifo organizzato nel contestare il presidente De Laurentiis. É semplicemente stata una reazione ad una oppressione perpetrata dalla proprietà attraverso l’altissimo costo del biglietto, ricordo a tutti che le curve sono settori popolari, nonché la non concessione di intromettere nei settori di striscioni, bandiere, sciarpe, tamburi e oggetti vari per realizzare le famigerate coreografie e una buona dose di spocchia dell’Aurelione che ci è capitato proprio a noialtri. Ah, ricordo però che il settore ospiti queste restrizioni non le ha avute, ed ecco il patatrac. In primis e sgomberando dal campo ogni dubbio sotto l’aspetto tecnico il Napoli non è pervenuto, ha fatto pena, vergognoso, giocatori spenti e senza cazzimma

Forse sentono il disagio che si vive in città? Boh, su questo non ho certezze e non mi addentro in tal senso. Torniamo al tifo organizzato: oggi costoro vengono apostrofati come delinquenti e addirittura camorristi; ma potrebbe mai essere che queste organizzazioni malavitose così rilevanti possano essere così interessate a tali dinamiche? Cioè per capirci, non gli interessa più il calcio scommesse o operazioni di milioni ma a mere stupidaggini di basso rilievo? Per la cronaca, vi sono state scaramucce, un sedare delle FFOO di un gruppo di due dozzine di tifosi sulle gradinate dell’ex San Paolo che si sono accapigliati e a seguito di ciò v’è stata la longa manus della Giustizia che prontamente ha irrogato sanzioni e condanne. Infatti abbiamo ad oggi ventiquattro “Daspo”, dico ventiquattro su trentamila persone, al netto dei paganti delle due Curve, quindicimila cadauna. E poi l’infuocare la protesta perché si vorrebbe chiudere Piazzale di Palazzo (oggi sabaudamente denominata Piazza del Plebiscito) a seguito dei festeggiamenti dello Scudetto. Ma si può sopportare queste affermazioni avallate addirittura dal Sindaco attuale? Ma veramente fate?

I poteri forti buttano benzina sul fuoco e se non si trova un punto di incontro la vedo dura. Durissima! Potrebbe succedere l’irreparabile e così si arriverebbe all’eresia mondiale di Napoli e tutti noi. Ricordo ai più che lo Stadio ha centinaia di telecamere a circuito chiuso, microfoni e strumenti vari ben controllati delle polizie e poi abbiamo ben visto la forza dello Stato nelle chiusure pandemiche come sia forte con i droni, gli elicotteri e tutti gli strumenti di repressione possibili o era facciata per mettere paura la povera gente? Insomma e concludo, Napoli è dei Napoletani e la sua squadra è uno sfogo sportivo e nulla più, la mia/nostra dignità non vale uno o cento scudetti o mille Champions, quindi non si continui a seminare vento, altrimenti si genera tempesta e quella poi porta danni irreparabili, Si abbia buon senso. Forza Napoli, intesa come identità.

MAGAZINE 2
Sempre
piccolo
di vista
prospettiva. Ebbene, in relazione ai fatti accorsi domenica sera allo Stadio Diego Maradona di Napoli contro il Milan (28ma giornata di Campionato).
mario stazione
qui a scrivere per cercare di far capire dal mio
punto
un’altra

4 ATTUALIT à pe R ché n O n fe S tegg IO quell O che è S tAtO

I l n A p O l I

10 INSORGENZE

I p RIMI cen SIM ent I I tA l IA n I (1881-1901)

13 f ORSE NON TUTTI SANNO ch E pAR tì d A n A p O l I l A p RIMA c RO c I e RA dell’e RA MO de R n A

14 f O c US SU ...

l’A lt RO RISOR g IM entO

18 LEGGENDE n A p O l I e I l SA c RO g RAA l

20 LUOG h I DA v ISITARE l A g AIO l A

22 c ONTRO IN f ORMAZIONE ch I è S tAtO I l pegg IOR e? SI cu RO ne SS un O I l MI gl IOR e

25 STRANO MA .. v ERO

I l te S ch IO c O n le OR ecch I e

26 RITI pAS q UALI

l’A nt I c O RI tO MIS te RI c O de I pA put I A SAR n O

32 p ERSONAGGI S telle d I c A l A b RIA

34 LA f OTO DEL MESE I VAtt I ent I

MAGAZINE

Registrazione N 1 - marzo 2021 Tribunale di Nocera Inferiore

ANNo 2 - NumeRo 13 chIuso Il 19/4/2023

Editore cReATIve medIA sRl

Direttore Responsabile mario stanzione

Direttore Editoriale

Fernando luisi (Ferdinando l’Insorgente)

Redazione mimmo Bafurno

cinzia Bisogno

Giovanni Gallo

Giuseppina Iovane

daniela l acava

Armando minichini

Antonella musitano

mino Paolillo

Angelica sarno edoardo vitale

iN CoPERTiNa

A poche giornate dalla fine si prepara già la festa scudetto, dando un calcio alla scaramanzia

SOMMARIO MAGAZINE 3

hé N o N f E s TE ggio qu E llo C h E è s TaTo il N a P oli

I motivi per i quali lo scudetto del Napoli non mi provoca nessuna emozione

napoli si sta preparando a celebrare, con un certo anticipo, una vittoria che non è ancora arrivata, anche se le probabilità continuano ad essere molto alte. Certo, il fervore popolare, fa sempre piacere, soprattutto quando sfocia nel colore, nella fantasia, nel calore che solo la città partenopea sa esprimere. Ma, andando oltre, ci si chiede se ci sia davvero qualcosa da festeggiare.

Da tempo la frattura tra proprietà e parte della tifoseria è insanabile. L’errore di identificare il dissenso solamente con il tifo organizzato è dettato da superficialità o da cattiva fede.

Da un lato la tendenza, sempre più diffusa in ogni campo, di provare ad etichettare negativamente chi la pensa diversamente. Dall’altro, fa comodo a tanta stampa asservita. Per cui chi contesta lo fa per interesse, non gli danno più ingressi gratuiti. Non gli permettono di spacciare. Detto da chi si svende per qualche invito a conferenze stampa e qualche accredito fa alquanto sorridere. Ma sul ruolo di certa stampa, in tempi non sospetti e in altri frangenti ci eravamo già pronunciati.

Del resto, la brutta abitudine arriva proprio da chi si dice proprietario del Napoli (vedi box dichiarazioni di De Laurentis a Radio Kiss Kiss.

Per cui, se lo contesti, sei drogato, non capisci di calcio. Fai il pezzotto. Ma questo è niente. Nel suo pittoresco accento romano, anche se lo stesso rifiuta questa identificazione, questo signore ebbe a dire: Adesso, origini o meno, come dicevamo, l’accento, se non altro quello, sembra non essere esattamente partenopeo, al signore in questione andrebbero ricordate alcune cose, visto che nessuna stampa ha mai battuto ciglio a seguito di questi insulti. Se non per pregarlo di non andarsene, come se fosse possibile che un mediocre imprenditore possa mai disfarsi della gallina dalle uova d’oro.

Il web del percorso di studi del produttore nato a Roma non dice niente, non si sa se per dimenticanza o per deferenza. Certa è la sua profonda ignoranza storica. Circa la storia di Napoli in particolare. Più antica della stessa Roma, può vantare 3000 anni di storia.

Inutile indugiare sui tanti primati di Napoli, Osservatorio astronomico, Università, Orto botanico, sono sotto gli occhi di tutti, tranne di chi non vuole vedere. Il centro storico patrimonio dell’Unesco.

di C hia R azio N i di d E lau RENT is a R adio kiss kiss

25 gennaio 2012: Ma che cazzo avete vinto a Napoli? Dal 1926 avete vinto due scudetti e una coppa UEfA. c’è gente che ha vinto venti coppe e allora? Sono più di vent’anni che non stavate rivivendo un certo periodo di protagonismo, perché io me ne posso pure andare perché uno poi si rompe pure i coglioni e se ne va. Se io devo stare qua c’è bisogno che tutti quanti ci rendiamo conto e armonizziamo e i tifosi per primi, per i quali ho sempre umilmente detto che lavoro, perché il mio committente è il tifoso, però tutti quanti dobbiamo stare con i piedi per terra. perché qui a Napoli non funziona un cazzo. Non è che dici, sai, che a Napoli funziona tutto e poi c’è anche il calcio. No, a Napoli c’è solo il calcio. E allora ringraziatemi.

15 agosto 2018: Non riesco a capire questa tendenza distruttivo. Ma poi chi sono questi tifosi? Non sono i 40 mln nel mondo, ma qualche malato, drogato che non capisce nulla, facendosi il mercato con gli amici e facendo delle scommesse interne, magari scommettendo a 3, a 5 o a 10 che arriva qualcuno. vendiamo più maglie? No, quello no.

A Napoli c’è il gusto del pezzotto, vogliono spendere i miliardi di euro per compare i giocatori, ma poi si fanno il pezzotto, spingono ai tornelli per entrare in più. Loro contestano De Laurentiis, ma io contesto loro.

ATTUALIT
PERC
à
MAGAZINE 4

Ha dato i natali a personaggi immensi come Giambattista Basile, l’autore de Lo cunto de li cunti, che prima degli stessi fratelli Grimm o di Andersen ha messo per iscritto le fiabe della tradizione popolare e che quindi ha inaugurato il genere, Gaetano Filangieri, che ha ispirato il diritto alla felicità della Dichiarazione di indipendenza statunitense, Giambattista Vico, che con La Scienza Nuova mette l’uomo al centro dell’universo, tanto per citarne alcuni dei meno celebrati.

Come sono da considerare napoletani anche Torquato Tasso, genio della Gerusalemme liberata, e Giordano Bruno, simbolo del libero pensiero. Per non parlare di coloro che a Napoli hanno trovato la loro patria elettiva, da Virgilio a Benedetto Croce, passando per Alessandro Scarlatti e Giuseppe Mercalli.

Napoli è anche la città di grande tradizione canora, che risale al XIII secolo, diventata simbolo della melodia italiana del mondo, a partire da alcuni dei tenori più importanti della storia, in primis l’immenso Enrico Caruso, che ha visto autori come Sergio Bruni, Roberto Murolo, Renato Carosone, Enzo Gragnaniello, Pino Daniele, tanto per citarne qualcuno.

Tra gli interpreti, ricordiamo, inoltre, Mario Abbate, Massimo Ranieri, Nunzio Gallo, Mario Trevi, Consiglia Licciardi, Teresa De Sio, Mario Merola. Non c’è tenore che non abbia cantato in napoletano, Giuseppe Di Stefano, Plácido Domingo, José Carreras, Luciano Pavarotti, ma lo hanno fatto anche icone della musica pop come Claudio Villa, Al Bano, Renato Zero, Mina, Nina Simone, Frank Sinatra, Renzo Arbore.

Hanno composto in napoletano autori come Lucio Dalla o Domenico Modugno.

Elvis Presley riscrive in inglese brani come ‘O sole mio, che, nella versione It’s Now or Never, diventa il suo singolo più venduto, con 20 milioni di copie in tutto il mondo, o anche Torna a Surriento, che diventa Surrender, o anche Santa Lucia, tanto da venire indicato simpaticamente da qualcuno, come il più grande cantante napoletano di tutti i tempi.

O vogliamo parlare della tradizione teatrale?

Sannazaro, Caracciolo, Scarpetta, Viviani, Petito, i De Filippo, Totò, Taranto, De Simone, Troisi, Ruccello, Russo.

Anche questa lista potrebbe essere infinita, o quasi.

E aggiungiamo uno scenario naturale semplicemente favoloso, una tradizione gastronomica famosa in ogni dove.

E non sono solo vecchie glorie o i fasti di un passato.

Correva il 2015 quando il prestigioso quotidiano inglese The Telegraph incoronò Napoli come la città più bella del mondo.

https://www.telegraph.co.uk/ travel/destinations/europe/italy/ campania/naples/articles/Naples-Passion-and-death-in-Italys-underrated-gem/ Ma anche di eccellenze che l’Italia finge di ignorare, che sono invece celebrate all’estero.

Come la perfetta organizzazione dell’ospedale Cotugno durante il Covid, mentre la tanto decantata sanità del nord faceva segnare la mortalità più alta al mondo, oggetto di un servizio di Sky News.

https://www.youtube.com/watch?v=Mg8w6ELniK4 Oppure ortopedici come Nicola Maffulli, che porta l’ortopedia napoletana in tutto il pianeta.

https://www.expartibus.it/nicola-maffulli-e-leccellente-ortopedia-e-traumatologia-aou-salerno/ Ci fermiamo qui.

Questo non solo per dire che forse, nonostante la forte spinta facciamoschifista, a Napoli ci sono ancora eccellenze, ma, soprattutto per sottolineare al buon don Aurelio come, di fronte a tanta magnificenza, non possa aspirare nemmeno al ruolo di semplice “emissione” di Barbariccia.

ed elli avea del cul fatto trombetta.

dante Alighieri

La Commedia, Inferno, Canto XXI - verso 139

Soprattutto se pensiamo cosa sia il Calcio Napoli nel suo gruppo aziendale, dove il Napoli conta per il 94% del fatturato.

https://www.calcioefinanza.it/2021/05/26/filmauro-bilancio-2020-fatturato-napoli/ Sembra che, contrariamente a quello che il nostro pittoresco cinepanettonaro afferma, sia stata Napoli e il Napoli a donargli qualche frammento di grandezza. Facciamo una riflessione, come semplice esercizio di ragionamento.

La FilmAuro viene fondata nel 1975 da Luigi de Laurentiis, che ne detiene la presidenza fino alla morte,

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assieme al nostro, che all’epoca aveva solo 26 anni. Sotto la guida di Luigi sono prodotti capolavori di Pasquale Festa Campanile, Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli con Alberto Sordi, Amici miei atto II e atto III, Maccheroni, di Ettore Scola, Luna di fiele, di Roman Polanski. Con la nuova guida si ha una sferzata netta verso il cinepanettone. Indubbiamente un salto di qualità. Cinema italiano che cambia? Livello dei consumi culturali che sia abbassa? Chissà. Qualcosa ci sarebbe da dire anche circa il fallimento del Napoli. Su un Verona – Parma di cui si è occupato anche Report, figlia di quella che sembra essere una multiproprietà non dichiarata. Cosa sarebbe successo se il Napoli non fosse retrocesso? Non lo sapremo mai.

Non ci soffermiamo più di tanto nemmeno su quanto sia stato pagato e come il Napoli dopo il fallimento. Ricordiamo solo che l’investimento iniziale relativo all’acquisto del ramo d’azienda è stato finanziato con l’indebitamento bancario con UNICREDIT e grazie ai consistenti flussi di cassa; già dal bilancio 20072008, la voce debiti verso banche reca importo zero.

Invece, l’investimento in capitale di rischio dell’azionariato di SSC Napoli SpA dal mese di agosto 2004 al 30 giugno 2015 è stato di 16,65 milioni, cui si è aggiunto un finanziamento soci infruttifero per 3,9 milioni. Nello stesso periodo i componenti del CdA hanno percepito circa 18,9 milioni di Euro. http://luckmar.blogspot.com/2016/07/linvestimento-di-de-laurentiis-nel.html

Praticamente il Napoli si è comprato da solo, o quasi. Niente male per un pezzo di carta.

Nel 2004 con 37 milioni miei presi un pezzo di carta, tornai da Los Angeles e il Napoli non esisteva, Galliani mi prestò un calciatore, comprammo le magliette dal tabaccaio, facemmo la squadra con tre settimane di ritardo, ci allenammo sui campi dell’Ariston di Paestum.

Aurelio de Laurentiis – 26 maggio 2022

Un pezzo di carta che fa 60.000 spettatori in serie C per un Napoli – Cittadella, polverizzando ogni record della categoria. Un pezzo di carta con milioni di tifosi nel mondo. Un pezzo di carta che rappresenta una capitale millenaria, l’unica metropoli italiana con una sola squadra di calcio. Ma andiamo avanti.

Glissiamo anche sui vaneggiamenti riguardanti le decine di stadi che stavano per essere costruiti un po’ ovunque tra Napoli e provincia e le supercazzole sui cinesi. Oltre ad essere l’unico caso al mondo di presidente che offende tifosi e città, il nostro, ben presto, comincia a far parte di quello che è senza dubbio un disegno teso a cancellare l’identità di Napoli, in ogni settore, calcio compreso. A Napoli non funziona niente.

La pizza? Meglio quella romana. Certo, l’accento è più familiare.

Un altro tassello si aggiunge l’8 novembre 2015, quando vi furono sequestri di bandiere e sciarpe con il simbolo dei Borbone da parte della Polizia erano avvenuti prima di Napoli-Udinese. Anche il 31 gennaio 2016, all’ingresso di quello che era ancora lo stadio San Paolo furono confiscate sciarpe e bandiere con lo stemma del Regno delle Due Sicilie.

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Perché a Venezia si può entrare allo stadio con la bandiera della Repubblica, a Milano con quella del Ducato mentre a Napoli non è possibile far riferimento al proprio glorioso passato? La giustificazione fu che compito dell’amministrazione è quello di garantire l’assenza di ideologie negli stadi, le quali possono turbare il sereno svolgimento dell’evento sportivo. Non aggiungiamo altro.

La situazione precipita ulteriormente quando a de Magistris, che, oltre ogni possibile considerazione politica o amministrativa, ha sempre difeso la città, a volte anche con foga eccessiva, si avvicenda alla guida della metropoli partenopea il buon sindaco Manfredi. Che, con tutte le cose che ci sarebbero da fare a Napoli si fa notare la prima volta per un’ordinanza sui fuochi d’artificio.

Non sono accettabili considerazioni su quanto sia civile o meno come usanza, o le tiritere sui feriti e sui morti, non ci interessa entrare nel merito, sarebbe come guardare il dito di chi indica la luna.

Di contro, l’amministrazione può vantarsi dell’assoluta riuscita dell’operazione, i napoletani, quell’anno, hanno fatto a meno dei tradizionali fuochi. Poi è la

volta dei panni stesi. Sì, quelli che per De Crescenzo erano un atto di amore. Stavolta qualche anima buona fa abortire l’intenzione prima di un altro parto infelice. Il successo precedente poteva bastare. Cosa c’entra con il calcio?

Tutto, se tra presidente e istituzioni si scatena una forsennata corsa alla cancellazione dell’identità di una città.

Il tifo di Napoli è famoso per il suo calore, per le sue coreografie? Impediamogli di portare allo stadio striscioni, tamburi, sciarpe, bandiere.

Che magari sono invogliati a comprare quelle che lo stesso presidente vende all’interno dello stadio. La risposta ufficiale è che basta chiedere l’autorizzazione alla società.

Ci chiediamo in quale stadio al mondo sia necessario fare istanza con tanto di documento di identità per poter portare con sé una bandiera formato A3. In cui si faccia sul serio, a prescindere che sia previsto o meno. Il comitato di cancellazione della memoria rincara di volta in volta la dose.

La statua di D10S fuori dallo stadio? Non era autorizzata, va rimossa!

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Quante città esistono al mondo che vedono la presenza di artisti di strada? Poche, se vogliamo vedere quelle che ne fanno una caratteristica. Parigi. New York. Napoli. Però, da noi, non vanno bene nemmeno quelli, devono usare un’app per prenotare le performance.

A New York non serve nessun permesso per suonare nelle strade, nei parchi, in generale all’aperto. Questo dagli anni 80, quando fu abolito un vecchio regolamento che lo proibiva. Perché se ne capirono i benefici sociali ed economici. Prima o poi ci aspettiamo ordinanze contro il cielo azzurro, contro il sole, contro il mare.

Non andiamo oltre, qualche amministratore illuminato potrebbe prendere veramente spunto. Due scale dipinte di azzurro? L’invito a non deturpare i monumenti. Si sa, i napoletani non sono abituati all’arte, la conoscono solo per vandalizzarla. In tutto il mondo le tifoserie si riversano in strada dopo aver vinto anche la coppa del nonno?

A Napoli festa con le piazze a numero chiuso, ovviamente previa esibizione del pedigree. Qualcuno risponde che non conta il presidente, che le società passano, che per il tifoso conta la maglia. Dimenticando che è stata colonizzata anche quella. Che ormai è solo un po’ di azzurro che si intravede tra gli sponsor, quando non diventa l’ennesima cafonata da commercializzare per San Valentino, o per non si sa cosa. Probabilmente ci daranno dei complottisti.

Fa niente, ci siamo abituati, salvo verificare, a distanza di anni, che avevamo ragione. Ma ci sembra chiaro come i pezzi del puzzle stiano andando al loro posto. I TG che citano Napoli solo per eventi negativi o presunti tali. Da sempre. Tacendo sulle cose positive, apprezzate all’estero ma ignorate in Italia.

Record di turisti, eccellenze, quelle fanno notizia solo al nord. Ma al nord bisogna almeno riconoscere la capacità di difendere la propria terra. Non troviamo nessun accenno di facciamoschifismo. Nella nostra città, invece, qualsiasi imbecille si sente in dovere di prendere le distanze. Da qualsiasi cosa.

Di esprimere la propria vergogna per qualcosa. A parte il fatto che, di solito, a prendere le distanze sono persone che rappresentano qualcosa, persone pubbliche, leader. Con tutto il rispetto, ma chi se ne fotte della presa di posizione del Gennarino Esposito di turno?

Ma si sa, i social hanno dato la parola a schiere di imbecilli, che si sentono in dovere di commentare tutto, di dire la loro su qualsiasi cosa, senza averne nessuna competenza. Ma il discorso è, soprattutto un altro. Ma se davvero prendete distanza, se davvero vi vergognate, se state sui social a lamentarvi della metro, delle strade, della monnezza, del tempo, piove governo ladro, della delinquenza, dell’ignoranza, perché restate ancora a Napoli?

Lo fate perché volete entrare pure voi politica? L’esortazione è sempre quella: jatevenne, nun ce servite!

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Vi fa schifo la sfogliatella, odiate la pizza, siete allergici al mare? Emigrate.

Ma torniamo a noi. Mettiamo su questo bel complotto, l’ennesimo. Anno 2004, per debiti irrilevanti rispetto a quello che capita oggi normalmente e diversamente da altre società che si sono viste gli stessi spalmate in comode rate cinquantennali o che sono state guidate fuori dal guado in maniera molto più soft, il Napoli viene fatto fallire.

Chi era allora il presidente della lega? A quale istituto bancario era legato? Forse quello del famoso prestito al romano? Chissà. Gli insulti alla città.

Napoli ha solo il calcio, e grazie al salvatore della patria, che ha speso i soldi di… del Napoli per comprare un pezzo di carta con annessa milionata di tifosi e con un bacino di utenza tale da garantire diritti milionari. Perché non ha preso, che ne so, la Carditese, che pure in quel periodo era fallita? Ne avevano tanto bisogno anche da quelle parti. E poi via i simboli del passato. Poi un sindaco che non fa più cenno sugli affitti arretrati per lo stadio. Via le bandiere, via le coreografie, via gli striscioni. Se la bandiera la compri dentro lo stadio, naturalmente non hai bisogno di nessuna domanda in carta da bollo. Via i fuochi d’artificio, via i panni stesi, via gli artisti di strada. E non deturpate la città con le bandiere o con la vernice. E tanti colonizzati a scandalizzarsi per qualche scala dipinta. Magari preferiscono una realtà in bianco e nero come chi hanno eletto.

E no, non puoi festeggiare in strada, è cafone. Come sono cafoni i soldi che finiscono nelle tasche sbagliate. Contesti tutto questo? Non sei tifoso. Sei drogato, delinquente. E chi non riesce a capire quando si usano h e accenti che ti chiama ignorante e ti fa la morale. Ma tanto hanno frequentato l’università della strada. A proposito, ritorna il dubbio: il romano, che scuole ha fatto?

l a squadra di chi offende la mia città non è la mia squadra. Lo stadio dove non posso entrare con una bandiera più grande di un francobollo non è il mio stadio, anche se si chiama Maradona. E il paradosso di una tifoseria, quella tanto screditata e bistrattata ma che, intanto, supporta la squadra ovunque, che si può esprimere e può incantare solo in trasferta.

Quasi quasi converrebbe chiedere una deroga per giocare solo fuori casa. Non è mia una maglia di cui viene sfruttato ogni millimetro perché denaro, questo non cafone, vada nelle tasche di chi ha il compenso di CDA più alto d’Italia.

Non partecipo ad una festa che dovrebbe essere popolare ma per la quale devo mettermi in fila; una bella fila di pecore. Non festeggio il terzo scudetto, perché per me non è il terzo del Napoli, che per me è morto nel 2004, ma semplicemente il primo della squadra che è venuta dopo e che non suscita in me nessun senso di appartenenza.

Lo faccio anche per i tifosi di quello che non ha più nulla del Napoli, così c’è un biglietto in più per le piazze.

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INSORGENZE

i PR imi CEN sim ENT i i Talia N i (1881-1901)

ferdinando l’Insorgente

nel precedente articolo abbiamo passato in rassegna i dati dei due primi censimenti: quelli del 1861 e del 1871. Concludiamo, in questo numero, con l’analisi dei censimenti del 1881 e del 1901.

Il censimento del 1881

Per quanto riguarda l’occupazione lavorativa gli italiani erano occupati soprattutto nel settore agricolo con il 66,8% dei maschi ed il 63% delle femmine. Nel settore industriale erano occupati il 17,1% dei maschi ed il 25,6% delle femmine. In altre attività i maschi occupati erano il 16,1% e le femmine erano l’11,4 %.

I dati relativi al settore agricolo vedevano con la più alta percentuale di occupati la Val d’Aosta e l’Abruzzo. In questo terzo censimento le Calabrie conservavano ancora il loro primato, seguite dalla Lombardia

• Calabrie (29,3%)

• Lombardia (27,1%)

• Liguria (23,2%)

• Puglia (22,2%)

• Toscana (21,8%)

• Campania (21,6%)

• Sicilia (19,8%)

• Emilia-Romagna (19,5%)

• Piemonte (16,9%)

• Marche (17,5%)

• Veneto (16,8%)

• Basilicata (16,8%)

• Abruzzo (16,2%)

• Molise (16,2%)

• Lazio (15,5%)

• Friuli Venezia-Giulia (15,1%)

• Sardegna (13,8%)

• Umbria (12,8%)

• Trentino-Alto Adige (12,2%)

• Valle d’Aosta (8%)

Il censimento del 1901

Anche in questo censimento l’occupazione lavorativa attiva era presente soprattutto nel settore agricolo con il 62,1% dei maschi e il 60,9% delle femmine. Nel settore industriale erano occupati il 21,2% dei maschi ed il 24,5% delle femmine. In altre attività i maschi occupati erano il 16,7% e le femmine erano il 14,7 %. I dati relativi al settore agricolo vedevano in Val d’Aosta, Abruzzo e Molise le regioni capofila. In questo quarto censimento le regioni corrispondenti alle ex province del Regno delle Due Sicilie cedono il passo alle regioni del Nord

• Lombardia (31,7%)

• Liguria (28,2%)

• Calabrie (26%)

• Toscana (25,4%)

• Piemonte (22,7%)

• Campania (22,2%)

• Puglia (21,7%)

• Sicilia (21,4%)

• Emilia-Romagna (19,9%)

• Friuli Venezia-Giulia (19,4%)

• Veneto (19,2%)

• Lazio (18,9%)

• Marche (18%)

• Sardegna (16,3%)

• Umbria (15,5%)

• Basilicata (15,5%)

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La popolazione attiva occupata nell’industria dei primi censimenti italiani - Seconda e ultima parte

• Abruzzo (13,7%)

• Molise (13,7%)

• Trentino-Alto Adige (11%)

• Valle d’Aosta (9,8%)

conclusioni

La realtà industriale dei vari stati preunitari non era certamente da paragonare alle altre realtà esistenti in Europa e, specialmente, alla realtà inglese, ma alla vigilia dell’Unità d’Italia il Regno delle Due Sicilie rappresentava di gran lunga il territorio a maggiore vocazione industriale. Basterà innanzitutto pensare alle quattro realtà industriali più rappresentative:

• Il polo siderurgico di Mongiana nelle Calabrie

• Il polo metallurgico di Pietrarsa a Portici

• La cantieristica navale di Castellamare di Stabia

• L’industria tessile disseminata su tutto il territorio (specialmente in Sicilia, Campania e Calabria), con il fiore all’occhiello delle seterie di San Leucio di Caserta.

Se i dati dei censimenti vengono letti con un occhio ai destini delle varie realtà industriali duosiciliane, allora sempre più manifesta sarà la matrice criminale dell’annessione dei nostri territori .

Proviamo ad analizzare i dati dei censimenti con la vicenda delle Reali ferriere ed officine o polo siderurgico di Mongiana, nelle Calabrie. Il Villaggio Siderurgico di Mongiana è stato il primo complesso siderurgico della penisola italiana, che comprendeva oltre alla fonderia, le ferriere di San Bruno, San Carlo, Ferdinandea e Real Principe oggi non più esistenti, che dava lavoro, compreso l’indotto, a circa 2.000 operai. Da molti definita la Ruhr italiana. Al polo siderurgico di Mongiana venivano a fare visita specialisti tedeschi, svizzeri, francesi, inglesi per confrontarsi e discutere le tecniche di produzione in uso nei diversi paesi. La Gran Bretagna, temette sempre le realtà industriali delle Calabrie, soprattutto in base a margini di sviluppo in prospettiva, nonostante il volume generale del settore siderurgico inglese non avesse

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L’opificio di Pietrarsa, (www.clamfer.it)

rivali in tutto il globo. Tra il 1861 e il 1862 acciai e vari prodotti del polo di Mongiana ottennero diversi riconoscimenti all’Esposizione industriale di Firenze ed a quella internazionale di Londra.

Nelle Calabrie, oggi considerate tra le più povere terre d’Europa, c’erano occupazione, sviluppo, prestigio. Con la Malaunità le cose cambiarono. La nuova Italiella Stato gettò alle ortiche l’intero impianto industriale. A niente valse l’accorato appello al Governo italiano da parte del Consiglio comunale di Mongiana. Nel 1874 venne tutto venduto all’asta, sia gli impianti sia i boschi della zona. Le attività industriali si arrestarono definitivamente nel 1881. Quasi duemila operai persero il lavoro. E fino al 1881 le Calabrie erano al primo posto per occupazione inustriale nei censimenti nazionali. Coincidenze?

Voci ufficiali dell’epoca sostennero la tesi in base alla quale il polo di Mongiana venne chiuso in quanto si consideravano ormai antiquati impianti siderurgici nelle zone di montagna.

Un modo come un altro per arrampicarsi sugli specchi. Il polo siderurgico di Mongiana venne condannato a morte solo perché perché lo stereotipo del

Meridione era (ed è) fame, disoccupazione, criminalità, sottosviluppo.

Il dato dei primi quattro censimenti è la prova dell’involuzione dell’occupazione lavorativa in ambito industriale della popolazione duosiciliana.

I primi quattro censimenti italiani sono il documento che testimonia inesorabilmente e senza timore di smentite che l’Unità d’Italia fu guerra di conquista, con ruberia di tecnologie, materiali e forza lavoro. Il tutto a vantaggio dell’industria del Nord Italia e con il depauperamento del territorio del Sud Italia.

Se si leggono i dati dei censimenti (ovviamente i primi quattro) con le sorti delle industrie dell’ex Regno delle Due Sicilie si possono facilmente osservare esempi come quello di Mongiana. È il caso di Pietrarsa, è il caso delle seterie.

Ed a proposito di seterie possiamo concludere questo articolo con il pensiero di Andrea Camilleri. Lo scrittore siciiano spiega così: “Quando fu fatta l’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così”.

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Lo scrittore siciliano Andrea camilleri

Partì da Napoli la prima crociera dell’era moderna

ci sono navi che sono entrate nella leggenda, spesso anche per eventi catastrofici, come il Titanic e l’Andrea Doria. Invece, c’è chi, pur avendo scritto una bella pagina di storia, è rimasto nell’oblio del tempo. Ci riferiamo al piroscafo Francesco I, costruito negli anni trenta del XIX secolo nei cantieri di Castellammare di Stabia (NA) e celebre per essere stato la prima nave da crociera.

Nel 1800, la Marina borbonica era tra le più potenti del Mediterraneo e utilizzava navi a vapore, i piroscafi appunto, sprovvisti di elica, ma che presentavano due grosse ruote in legno sulle fiancate, come i battelli che solcavano i grandi fiumi statunitensi resi famosi dallo scrittore Mark Twain, che partivano da Napoli per ogni parte del mondo.

Nel 1854, una nave borbonica compì la traversata da Napoli a New York in soli 26 giorni, si trattava della Ferdinando I, da cui sono scaturite una serie di imbarcazioni che hanno stabilito primati marittimi strabilianti.

La Francesco I fu progettata per percorrere lunghe tratte come la Palermo – Marsiglia, con scali a Napoli, Civitavecchia, Livorno e Genova. Era dotata di 120 cavalli vapore, un vero record per quei tempi.

Svolse egregiamente il proprio compito per circa due anni, quando fu scelta per un viaggio particolare e mai tentato prima, una crociera di circa tre mesi per il mediterraneo tra arte, storia e cultura.

Sia in patria che al di fuori del Regno borbonico, fu impostata una massiccia campagna pubblicitaria per promuovere l’evento e si ricorse anche a mezzi innovativi di comunicazione, come articoli di giornale, cartelloni pubblicitari e réclame sulle fiancate dei mezzi pubblici.

Visto l’alto costo del biglietto, questo fu acquistato dal jet set dell’epoca, in gran parte nobili e principi italiani ed europei, tra cui inglesi, francesi, russi, spagnoli, prussiani, bavaresi, olandesi, ungheresi, svizzeri, svedesi e greci.

Il 16 aprile 1833, salpò da Napoli, con a bordo i sovrani borbonici, per un tour, della durata di tre mesi, con meta Costantinopoli e scali a Taormina, Catania, Siracusa, Malta, Corfù, Patrasso, Delfo, Zante, Atene e Smirne. La traversata fu allietata da giochi, balli e feste sia a bordo, sia durante gli scali.

Si narra che una volta giunti a destinazione il sultano Mahunud II osservasse con un binocolo la nave, affacciato ai propri appartamenti ed esprimesse la propria ammirazione. La Francesco I fece ritorno a Napoli, il 9 agosto dopo 112 giorni di navigazione.

Il viaggio non fu replicato, ma fu buttato il seme che sbocciò oltre un secolo dopo, quando le crociere divennero accessibili a tutti.

L’anno successivo, la Francesco I accompagnò il re Ferdinando II e la sua consorte, Maria Cristina di Savoia, da Napoli a Palermo. Tempo della traversata appena un giorno, come avviene oggi, e al suo arrivo, il sovrano trovò i siciliani ancora intenti nei preparativi per la regia accoglienza.

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l’ alTR o RISORGIMENTO

Con enrico fagnano parliamo degli anni dal 1861 al 1914 visto da un’altra ottica e che mai troverete sui libri scolastici

Abbiamo incontrato enrico Fagnano, autore del volume La Storia dell’Italia Unità, autoprodotta con Amazon e con lui ripercorriamo (in più puntate) il percorso storico che portò ad una unificazione della penisola, voluta dall’Inghilterra che era la superpotenza dell’epoca.

Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1914, cioè fino allo scoppio della prima guerra mondiale, con la quale si interruppero tutti i flussi migratori europei, furono più di 4 milioni i Meridionali che lasciarono le loro terre. Per dare all’imprenditoria del nord la possibilità di crescere, un popolo intero venne abbandonato a se stesso

Nel Paese nato dall’Unità, quindi, c’erano due macroregioni e una di queste veniva sistematicamente favorita ai danni dell’altra e lo Stato italiano profondeva i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali.”

Nitti in  Nord e Sud afferma: “La verità è che l’Italia Meridionale ha dato dal 1860 assai più di ogni parte d’Italia in rapporto alla sua ricchezza; che paga quanto non potrebbe pagare, che lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno.

Tutte le grandi istituzioni dello Stato sono accentrate, per lo meno come l’esercito, nelle zone già più ricche. Per cause molteplici (unione di debiti, vendita di beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che potea essere il nucleo della sua trasformazione economica, è trasmigrata subito al Nord.

Le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori di esso, hanno continuato l’opera di male. Al momento dell’unione l’Italia meridionale avea tutti gli elementi per trasformarsi, possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo.”

Quanto accaduto dopo l’annessione viene efficacemente sintetizzato da Francesco Paolo Rispoli, che nello studio  La Provincia e la città di Napoli scrive:

“Il Mezzogiorno non si accorse delle ferite profonde che aveva ricevuto, né il Governo italiano fece per Napoli tutto quello che questo paese meritava; anzi per 40 anni di seguito lo Stato ha speso a Napoli e nel Mezzogiorno molto meno di quello che ne ritrae sotto forme d’imposte, rendendo assai più esiziali le conseguenze del nostro spietato fiscalismo.”

Le cifre che fotografano la situazione sono impietose e non lasciano adito a dubbi. Dal 1862 fino al 1898, come ricorda Nitti in  Nord e Sud, lo stato spese per lavori pubblici, escluse le linee ferroviarie (per le quali spese più che per tutte le altre opere insieme), in Piemonte 74 milioni, in Liguria 136, in Lombardia 158,

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francesco Saverio Nitti

in Veneto 274, in Emilia 187, nelle Marche 34, in Toscana 127, in Umbria 11, nel Lazio 273, in Abruzzo 56, in Molise 39, in Campania 166, nelle Puglie 42, in Basilicata 55, in Calabria 91, in Sicilia 169 e in Sardegna 90. In sintesi complessivamente furono erogati 1982 milioni e 828 ne andarono alle cinque regioni del nord, 536 alle cinque regioni del centro, compresa la Sardegna, e 618 alle sette del sud, compresi Abruzzo, Molise e Sicilia.

Per quanto riguarda il rapporto tra gli importi riscossi e quelli impiegati, nel periodo tra il 1893 e il 1898 risultò che per ogni abitante lo stato nel nord aveva incassato 39 lire e ne aveva investito circa 40, mentre nel sud aveva incassato quasi 24 lire e ne aveva investito circa 15,5. Sempre in ordine al rapporto tra quanto riscosso e quanto impiegato, l’economista lombardo Rodolfo Benini (come riporta

Salvo Di Matteo nel citato  Quando il Sud fece l’Italia) accertò che tra il 1886 e il 1889 su 100 lire percepite, al nord ne erano state utilizzate 97 e al sud 67. Alle regioni settentrionali, quindi, non solo finiva la maggior parte degli investimenti pubblici in valore assoluto, ma anche in rapporto ai tributi versati e il paradosso era che il Meridione pagava addirittura più imposte rispetto alla reale ricchezza detenuta, come si

rileva sempre dal lavoro di Nitti. Per quanto riguarda la fondiaria, ad esempio, tra il 1894 e il 1898 la media annuale incassata per abitante nel nord era stata di 3,68 lire, quasi pari a quella per abitante nel sud, che era stata di 3,39 lire, nonostante nel primo le terre fossero più produttive, e anche in modo significativo. Questo perché la tassa in sostanza era commisurata all’estensione dei suoli e si calcolava tenendo conto della loro rendita catastale e non del loro rendimento effettivo. Una situazione analoga si riscontrava per l’imposta sui fabbricati, che sempre tra il 1894 e il 1898 era stata pro-capite di 2,89 lire nelle regioni settentrionali e di 2,56 lire in quelle del sud, nonostante le città dell’Alta Italia fossero più ricche e più prospere, e questo sia perché anche tale tributo, come la fondiaria, era legato alla rendita catastale e non al reddito reale degli stabili o al loro valore commerciale, sia perché le case sparse rurali, molto più numerose al nord, ne erano totalmente esentate. Al proposito l’economista piemontese Luigi Einaudi (secondo presidente della nostra Repubblica, il primo eletto) nell’articolo Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche ed iniziative private, pubblicato il 13 novembre 1905 sul Corriere della Sera, affermò: “Forse nella nostra legislazione tributaria non vi è scandalo che

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Il Banco di Napoli

sia lontanamente paragonabile all’incidenza effettiva dell’imposta sui fabbricati nell’Italia meridionale.”

Per quanto riguarda, ancora, la tassa sugli affari, tra il 1892 e il 1897 al nord il gettito pro-capite era stato di 6,34 lire, non molto lontano da quello di 5,34 lire rilevato al sud, nonostante nel primo le transazioni fossero almeno il doppio, oltre che di importi maggiori. Erano, però, anche transazioni che per lo più riguardavano il commercio e si effettuavano in maniera informale, spesso addirittura con un semplice scambio di lettere, evitando di passare per le registrazioni ufficiali e sfuggendo così alle imposte. Alcuni anni prima del lavoro di Nitti, pubblicato nel 1900, le anomalie sulla distribuzione del carico tributario erano già state evidenziate dall’economista laziale Maffeo Pantaleoni, che nell’articolo  Delle regioni d’Italia in ordine alla loro ricchezza ed al loro carico tributario, apparso nel gennaio 1891 sul Giornale degli economisti, aveva scritto: “Mentre l’alta Italia possiede il 48% di ricchezza, essa non sopporta che meno del 40 per cento del carico tributario; mentre l’Italia media possiede soltanto il 25% di ricchezza, essa paga il 28 e un terzo per cento del carico totale; e mentre l’Italia meridionale possiede solo il 27% della ricchezza nazionale, essa paga il 32 e un quarto per cento del carico tributario.” Questi dati furono ribaditi dallo storico e politico pugliese Gaetano Salvemini nell’articolo  Le tre malattie, pubblicato il 25 dicembre 1898 sulla rivista  Educazione Politica (poi in  Scritti sulla Questione meridionale, Einaudi, 1955), nel quale il battagliero intellettuale aggiunse come commento: “Nel dare il Meridione è all’avanguardia, nel ricevere è alla retroguardia.”

Per quanto riguarda la realizzazione delle ferrovie tra il 1862 e il 1898 furono spesi complessivamente 2.240 milioni, dei quali 1.137 andarono all’Alta Italia, 347 alle regioni centrali, 469 al sud e 287 a Sardegna

e Sicilia. A parte lo squilibrio delle cifre destinate alle diverse parti del Paese, bisogna anche dire che il capitale dell’impresa esecutrice dei lavori nel Meridione era interamente settentrionale e settentrionali erano anche i progettisti, i tecnici e addirittura buona parte degli operai (di questo appalto e delle vicende, quasi surreali, che lo hanno riguardato ci occuperemo nel capitolo X). In altre parole, indipendentemente dal luogo nel quale fu impiegato il danaro, il profitto in vario modo prese la strada del nord. Lo stesso meccanismo venne replicato con i lavori per il Risanamento di Napoli, del quale parleremo nel capitolo XI, ma per quanto riguarda le opere pubbliche nell’ex regno borbonico così andavano le cose in tutti i settori.      Solo per la costruzione delle strade l’importo investito nel sud fu superiore a quello investito nel resto della nazione. Infatti su complessivi 718 milioni, 175 ne andarono al nord, 101 alle regioni del centro, 280 alle regioni meridionali, 100 alla Sicilia e 62 alla Sardegna. Si tratta, però, di un’anomalia facile da comprendere. Bisognava fare in modo, infatti, che le merci degli imprenditori settentrionali arrivassero velocemente in tutti i principali centri della penisola.

Il debito morale

Dopo l’annessione, quindi, cominciò un trasferimento di ricchezza verso il nord, che fu massiccio e riguardò tutti i settori. Il governo piemontese, ora a capo dell’intero Paese, dopo aver incamerato il danaro che era nelle casse del Regno delle Due Sicilie, utilizzato per arginare la propria drammatica situazione finanziaria, recuperò altre risorse dalla vendita dei terreni demaniali e dei beni sottratti alla Chiesa (sia i primi, sia i secondi erano quasi esclusivamente nel sud e fruttarono rispettivamente 300 e 620 milioni), ma anche dalla vendita di beni appartenenti allo stato napoletano, che mai nella sua lunga storia aveva avuto bisogno di cedere un solo immobile pubblico o un’azienda per realizzare un profitto. Perfino i depositi bancari personali di Francesco II e degli altri componenti della famiglia reale furono requisiti, violando insieme il diritto alla proprietà privata e i più elementari principi della giustizia.

Ulteriori vantaggi, poi, furono assicurati all’economia subalpina nel 1866, quando la legge sul corso forzoso garantì alla Banca Nazionale nel Regno d’Italia, il maggiore istituto torinese, un forte incremento della propria liquidità, permettendo il trasferimento a suo favore di argento proveniente dal Banco di Napoli. Quanto detto sinora sarebbe già sufficiente per comprendere i motivi del divario nella crescita delle due parti del Paese dopo l’unificazione.

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L’agricoltura, mantenne a galla l’economia del Sud post unitario grazie alla politica economica del Banco di Napoli

Si trattava, però, solo dell’inizio. Il Meridione, infatti, dopo aver consentito con le proprie risorse lo sviluppo, e in molti casi addirittura la nascita, delle imprese settentrionali, divenne anche, come abbiamo visto nel capitolo V, il loro grande mercato.

Ogni cosa di cui lo stato aveva bisogno, persino la più insignificante, si faceva venire da aziende piemontesi, o comunque del nord, alle quali erano affidate tutte le forniture nella pubblica amministrazione. Anche le commesse furono per la maggior parte assegnate a industrie dell’Alta Italia, determinando in breve la chiusura di quelle meridionali, come accadde per l’acciaieria di Mongiana e per l’arsenale di Napoli, oppure un loro sostanziale ridimensionamento, come accadde per l’opificio di Pietrarsa e per il cantiere navale di Castellammare.

Non diversamente andarono le cose nel campo dei lavori pubblici, nel finanziamento dei quali, come detto nel capitolo VII, il Settentrione era decisamente privilegiato, mentre al sud restava solo un’oppressione fiscale mai conosciuta prima e addirittura sproporzionata rispetto alla sua reale ricchezza.

A questo punto era già moltissimo quello che i popoli delle Due Sicilie avevano dato, eppure il peggio doveva ancora arrivare. Grazie alla politica finanziaria del Banco di Napoli, infatti, il Mezzogiorno aveva convertito la propria economia e aveva abbandonato la produzione industriale, concentrandosi su quella agricola. In questo modo aveva assorbito l’impatto del nuovo mercato unico nella penisola e allo stesso tempo si era ritagliato un ruolo specifico al suo interno.

Nel 1881, infatti, il suo pil era ancora grosso modo equivalente a quello del nord, mentre il numero dei suoi emigranti era ancora inferiore a quelli del Settentrione. Già prima dell’Unità i Piemontesi, i Liguri, i Lombardi e i Veneti più disagiati, come abbiamo

visto nel capitolo III, avevano cominciato ad abbandonare la loro Terra e fino al 1860 si ritiene siano stati tra i 200.000 e i 300.000, anche se non esistono dati ufficiali per l’epoca. In seguito all’annessione cominciarono a lasciare il Paese anche cittadini del regno napoletano, ma per quasi quaranta anni i Settentrionali che espatriavano furono più numerosi e i Meridionali li superarono solo verso la fine dell’Ottocento, dopodiché il loro divenne un vero e proprio esodo biblico.

Questo accadde a causa delle tariffe protezionistiche, come detto nel capitolo VII, deliberate nel 1887, in conseguenza delle quali non vi fu più la concorrenza industriale straniera sul territorio nazionale, ma allo stesso tempo l’agricoltura del sud perse la maggior parte dei mercati esteri. Ridotti a quel punto senza più risorse, a molti cittadini delle regioni danneggiate non rimase altra via che andare a cercare altrove un modo per sopravvivere. In circa venti anni a cominciare dall’ultimo decennio del secolo in più di 4.000.000 partirono (dei quali quasi 1.000.000 dalla Campania e addirittura più di 1.100.000 dalla Sicilia), in particolare verso l’America del Nord, fino a quando nel 1914 lo scoppio del conflitto mondiale non interruppe ogni flusso.

Gli imprenditori terrieri del Mezzogiorno erano danneggiati dalle tariffe protezionistiche, non solo perché i loro prodotti, a causa delle ritorsioni doganali degli altri stati, non potevano essere venduti all’estero, ma anche perché erano costretti ad acquistare i macchinari ai prezzi imposti dalle fabbriche del nord, più alti di quelli che sarebbero stati praticati dalla concorrenza straniera. (Continua)

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Il Real Opificio di Pietrarsa, fiore all’occhiello dell’industria borbonica, fu declassato dai Savoia. enRIcO fAgnAnO è in onda ogni mercoledì su terronitv con la rubrica lA StORIA SIAMO nOI

NaPoli E il saCRo gRaal

la leggenda del Graal è antica quanto il Cristianesimo e nei secoli molti lo hanno cercato senza mai trovarlo, si tratterebbe, per i pochi che non lo sanno, l mitico calice con il quale Gesù celebrò l’Ultima Cena e nel quale Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo dopo la sua crocifissione. Uno di questi fu Alfonso d’Aragona, Re di Napoli

Più volte, Alfonso aveva dichiarato più volte di essere entrato in possesso. La leggenda vuole che quel mistico oggetto, che tanta passione ha acceso nei secoli, sarebbe stato donato dai monaci del convento di San Juan de la Pena alla corona aragonese.

Alfonso lo avrebbe lasciato in pegno alla cattedrale, in cambio di un maxi-finanziamento per la sua campagna napoletana. E in quella cattedrale il Graal si troverebbe tuttora, all’interno della Cappella del Sacro Calice.

Oltre al Graal, Alfonso fu per tutta la sua vita ossessionato dai racconti della Tavola Rotonda. In realtà dietro questa sua ossessione vi sarebbero stati anche intenti politici e propagandistici, poiché Alfonso non fu mai particolarmente amato dai suoi sudditi.

Quindi l’interesse per i cavaliere della tavola rotonda il sovrano aragonese mise in atto una vera e propria campagna di autopromozione retorica costruendo, di sé, un’immagine idealizzata. E allora ecco le fastose cerimonie pubbliche (balli, ri-

cevimenti, funerali); ecco il celebre Arco di Trionfo posto all’ingresso di Castel Nuovo, raffigurante l’ingresso trionfale di Alfonso d’Aragona a Napoli, avvenuto nel 1442: Alfonso è portato in trionfo come un imperatore romano, circondato da paggi e vittorie alate, putti e cornucopie, notabili e dignitari, nonché da bande di musicanti. Ed ecco la leggenda del seggio periglioso, che ci riporta dritti nel cuore del mito. Per capire meglio questi simboli, dobbiamo fare un passo indietro: alla leggenda del Graal. La sua storia venne messa per iscritto per la prima volta alla fine del XII secolo nel poema Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, di Chrétien de Troyes, ma non aveva niente a che vedere con Cristo: era solo un “graal”, cioè il nome comune che in francese antico indicava la ciotola in cui si servivano le vivande. Soltanto qualche anno dopo, in un poema di Robert de Boron, diventò il “Sacro Graal”, il calice dell’Ultima Cena usato da San Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue di Gesù crocifisso. Nel castello ci sono richiami ai cavalieri della Tavola Rotonda

Re Alfonso era un uomo di cultura, amante dei classici e dei poemi cavallereschi, ma perché Alfonso avrebbe disseminato il Castello di simboli legati al calice?

Alfonso d’Aragona si sentiva un novello Galahad e volle ricreare nel Castello una simbolica analogia fra il cavaliere e se stesso, celebrando il diritto di governare il Regno di Napoli come Galahad aveva acquistato il diritto di sedersi sulla tredicesima sedia alla corte di re Artù.

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Il rapporto tra Alfonso d’Aragona, Napoli e il Graal e gli indizi presenti nel maschio Angioino

E infatti il «seggio periglioso», rappresentato come un trono con al centro una fiamma, è raffigurato nelle insegne del sovrano, sulle volte, sui pavimenti e nell’arco trionfale all’ingresso del Maschio Angioino. Praticamente ovunque. «A Napoli, Alfonso indossò anche un’armatura decorata con questo simbolo-talismano. Senza contare che alla base del Balcone del Trionfo, da cui il sovrano si affacciava sul cortile del castello, è scolpita una giara, l’emblema dell’Ordine della Giara, fondato dal padre di Alfonso, Ferdinando il Giusto: era sì una delle onorificenze più importanti del regno, ma anche una coppa». Che Forte ipotizza potesse rappresentare, appunto, il Sacro Graal. Un trono in fiamme e uno stupefacente balcone che, rovesciato, assume le sembianze di un grande calice . Ma c’è un’altra misteriosa immagine che, nelle giornate più lunghe dell’anno, durante il solstizio d’estate,

compare nella Sala dei Baroni, l’antica Sala del Trono, luogo di intrighi e congiure: un libro aperto, colpito dai raggi del sole. Raggi che penetrano dal finestrone più grande della stanza, sul lato ovest del cortile, «creando sul muro opposto - spiega Forte - una sagoma ben definita, che ricorda la forma di un libro aperto e sale fino al centro della parete». Qual è il significato di questa immagine? Davvero siamo in presenza di un messaggio cifrato lasciato da re Alfonso? Gli appassionati della leggenda del Graal ne sono convinti. Così come sono convinti che l’antico Chastiau continui a nascondere segreti.

Al Maschio Angioino. Al solstizio d’estate appare… Dall’Ultima Cena ai cavalieri di re Artù, ancora oggi la storia continua ad affascinarci. I cavalieri medioevali non ne sarebbero stupiti: sapevano bene che la ricerca del Graal non ha mai fine…

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LUOG

LA GAIOLA

L’isolotto del golfo di Napoli che causa sventura e morte a chi lo possiede, ora è un’aria marina protetta

Aa pochi metri dalla costa di Posillipo, in uno dei paesaggi più belli e suggestivi del mondo, troviamo una piccola isola che in origine faceva sicuramente parte del promontorio e dal quale fu separata in epoca romana per volere di Lucullo (famoso per i suoi pranzi).

Nei secoli l’isola ha cambiato diverse volte uso di destinazione, da sito produttivo romano a bastione di difesa del golfo, fino ad essere collegata alla terraferma tramite una teleferica. Oggi ospita un’area marina protetta.

Stiamo parlando dell’isola della Gaiola.

Nella lingua napoletana col termine Gaiola si intende una piccola gabbia che ospita gli uccelli, anche se secondo alcuni il nome deriverebbe dal latino cavea, piccola grotta, che poi in volgare è diventato caviola, tale toponimo sarebbe dovuto alla conformazione del terreno e alle grotte presenti su tutta la costa di Posillipo.

Secondo altri il termine sarebbe stato coniato, sempre per la sua conformazione, nel Medio Evo e deriva da “goletta” una piccola barca piatta

Quest’isola ha una triste fama, quella di portare “iella” un “triangolo delle Bermuda” partenopeo.

In passato, infatti, molte barche si sono schiantate contro l’isola tra cui, nel 1916, il sommergibile Giacinto Pullino e questo tragico evento costò la vita a

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h I DA v ISITARE

Nazario sauro, a cui è stato dedicato molte vie e piazze in ogni angolo del Paese.

Sul finire del 1800 e con la vendita dei terreni demaniali borbonici, l’isola fu acquistata da Luigi de Negri che vi costruì una villa che è visibile ancora oggi, tuttavia i suoi affari andarono in malora ed egli fu costretto a vendere la villa e l’isola. Uno dei proprietari più celebri della tenuta fu lo scrittore britannico Norman Douglas, autore della Terra delle Sirene. Nel 1910 passò alla proprietà della famiglia del senatore Paratore, anche se questi non abitò mai sull’isola.

Coi successivi proprietari si consolida ancora di più la fama di “isola maledetta” che con la sua bellezza nasconde “sorte funesta”, soprattutto morte, prematura o violenta, dei suoi proprietari e dei familiari prossimi.

Negli anni venti del XX secolo lo svizzero Hans Braun fu trovato morto e avvolto in un tappeto dopo poco tempo la moglie annegò in mare.

La villa passò così al tedesco Otto Grunback, che morì d’infarto mentre soggiornava nella villa. Stessa sorte toccò all’industriale farmaceutico Maurice-Yves Sandoz che morì suicida in un manicomio in Svizzera.

Il successivo proprietario, un industriale tedesco dell’acciaio, il barone Paul Karl Langheim, finì sul lastrico a causa delle feste che continuamente orga-

nizzava e a cui partecipavano dei “ragazzi” dietro lauto pagamento.

Infine, l’isola è appartenuta a Gianni Agnelli, ricordiamo che la moglie Marella era Napoletana, che subì la morte di molti familiari; mentre l’americano  Jean Paul Getty, vide il nipote rapito dalla ‘Ndrangheta e, successivamente, Gianpasquale Grappone, che rimase coinvolto nel fallimento della sua società di assicurazioni Lloyd Centauro nel 1978.

L’isola fu messa all’asta, le fu acquistata dalla Regione Campania e dal 2002 ospita l’Area Marina Protetta “Parco Sommerso di Gaiola” prende il nome dai due isolotti che sorgono a pochi metri di distanza dalla costa di Posillipo, nel settore nord occidentale del Golfo di Napoli.

Con una superficie di appena 41,6 ettari, si estende dal pittoresco Borgo di Marechiaro alla suggestiva Baia di Trentaremi racchiudendo verso il largo parte del grande banco roccioso della Cavallara.

Il Parco Sommerso di Gaiola oggi è un importante sito di Ricerca, formazione, divulgazione scientifica ed educazione ambientale per la riscoperta e valorizzazione del patrimonio naturalistico e culturale del Golfo di Napoli. E sembra sia terminata la nomea di isola jellata.

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Chi è sTaTo il PEggioRE?

siCuRo NEssuNo il miglioRE

puer fortuna sono stati solo quattro, anzi tre e mezzo, in ottantacinque anni ma hanno causato danni enormi, che al confronto l’invasione delle cavallette, le pestilenze, o la sostituzione della carta igienica con la carta vetrata sembra nulla; ci riferiamo ai quattro regnanti italiani, di casa savoia (il minuscolo è voluto) che dal 1861 al 1946 hanno giocato a fare i re, ma che non avevano né la struttura, né tantomeno l’acume per farlo, l’unica peculiarità è stata quella di sollazzare i loro ammennicoli lasciando alcuni figli illegittimi per la penisola.

Premessa: questi personaggi non appartenevano al ramo principale di casa Savoia, ma al ramo cadetto, ai Carignano, infatti il primo della stirpe fu Carlo Al-

berto che successe a Carlo Felice, morto senza erede. Partiamo in ordine cronologico da vittorio emanuele II, definito dalla stampa di regime, il padre della patria, mai notizia fu falsa. Innanzitutto non cambiò mai nome, non si capisce come il primo re di un neonato Stato possa chiamarsi Secondo e non primo, poi lui considerò i territori meridionali e della Chiesa come una conquista (senza mai dichiarare guerra) grazie ai favori dell’Inghilterra che regalò l’Italia ai Savoia (definiti montanari e cafoni) in cambio del saldo del debito piemontese verso la banca inglese Rotschild.

Molti credono che vittorio emanuele non fosse il re originale, poiché a 4 anni rimase coinvolto in un incendio divampato nella sua camera, mentre soggiornava a Firenze, la balia si prodigò per salvare il principino tanto da riportare ustioni che le furono

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c ONTRO IN f ORMAZIONE
Li hanno chiamati, galantuomo, soldato, padre della patria, ma erano solo 4 montanari che si credevano dei sovrani

mortali, il materasso era mezzo bruciato ma dopo pochi giorni il bimbo fu visto illeso aggirarsi per il palazzo, mentre un macellaio, Gaetano Tiburzi, denunciò la scomparsa del figlio, e pochi mesi dopo il macellaio si arricchì improvvisamente tanto da acquistare un palazzo dove aprì una nuova macelleria. Comunque la somiglianza tra Vittorio Emanuele e il padre, Carlo Alberto, era la stessa che intercorre tra Gabriel Garko ed Alvaro Vitali.

Clamorose, poi, le batoste prese durante le cosiddette guerre d’indipendenza, specialmente nella seconda quando alleatosi con la Francia contro l’Austria, fu da quest’ultima umiliato, tanto che la Lombardia fu ceduta dall’Austria alla Francia e Napoleone III pretese, in cambio, Nizza e la Savoia (luogo d’origine della famiglia) e il “sollazzamento” della cugina di Cavour, virginia di castiglione, che si sacrificò per amor di Patria.

ittorio Emanuele parlava il piemontese e a stento il francese, celebre la sua frase all’arrivo a Roma… “finalmente suma…” ma la storiografia savoiarda, quella che ci fanno ancora credere che noi siamo brutti, sporchi e cattivi e loro i buoni sammaritani lo descrivono diversamente, è stato anche chiamato il Re Galantuomo, come se ingravidare le donne del popolo sia da

galantuomini, a proposito si vocifera che il primo figlio di Eduardo Scarpetta, Domenico, fosse di Vittorio Emanuele II (fonte www.eduardoscarpetta.it). Inoltre fu responsabile degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi del beneventano rasi al suolo e i suoi abitanti trucidati e della deportazione di migliaia di meridionali nel lager di Fenestrelle… e di tutto questo stiamo ancora aspettando le scuse del “pagliaccio ballerin-televisivo” che ora si atteggia a “pagliaccio-calciofilo”.Passiamo a Umberto I, di lui possiamo dire che era talmente amato dal popolo che attentarono alla sua vita ben tre volte. La prima volta, nel 1878 a Napoli ad opera dal “lucano” Giovanni Passannanti, che era armato di un coltellino, quindi non avrebbe mai potuto ucciderlo, anche qui la stampa “saboiarda” ci ha ricamato sopra, esaltando il gesto del primo ministro Cairoli o la magnanimità del Re “erotomane” che commutò la condanna a morte all’ergastolo in una cella che era alta e larga come la cuccia di cane, per il povero Passannanti sarebbe stato meglio la morte, inoltre il paese natale, Salvia fu costretto a cambiare nome in Savoia di Lucania. La seconda volta che tentarono di eliminarlo (era molto amato dal popolo) fu nel 1897 dal “toscano” Acciarito, anche lui armato di coltello, e anche

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stavolta l’attentato fallì. La terza volta fu la volta buona, grazie al “pratese” Gaetano Bresci (Toscana batte Lucania 2 a 1) che riuscì ad ammazzarlo, nel 1900 a Monza dopo che il re si era sollazzato con una delle sue amanti, con alcuni colpi di pistola (però la città di Prato non ha mutato nome in Savoia di Toscana).

Eppure sembra strano questo odio verso Umberto, in fondo lui amava molto il popolo italiano tanto che a Milano, durante alcune proteste operaie, diede pieni poteri al generale Bava Beccaris di sparare anche sulla folla per reprimere la rivolta, come si fa a non amare questa personcina?

E passiamo al peggiore di tutti, vittorio emanuele III, in carica per 46 anni, era di bassissima statura (non solo morale) ma amava definirsi il re soldato… l’avrei voluto vedere in una caserma come soldato semplice, sarebbe stato lo zimbello dei commilitoni. Vittorio era alto appena 153 cm (coi tacchi), e per anni è stata l‘altezza minima per poter servire la patria, la madre Margherita, per assicurare una discendenza un po’ più alta organizzò il matrimonio di Vittorino

con la “giunonica” Elena del Montenegro, che lo sovrastava in altezza e in “grossezza” e sembra che durante gli amplessi Vittorio ricorresse alle cartine geografiche per centrare l’obiettivo.

vittorio e manuele è stato, soprattutto, responsabile di milioni di morti , e non ha mai concluso una guerra con l’alleato di partenza. Ha sulla coscienza 650 mila morti e 450 mila mutilati della prima guerra mondiale. Fu complice del fascismo , non fermando la marcia su Roma ma offrendo a Mussolini il governo, firmò le leggi razziali , trascinò l’Italia nella seconda guerra mondiale, scappò da Roma lasciando la città in mano ai tedeschi , poi all’alba del referendum si dimise lasciando il regno al figlio Umberto II. Ma la sorte dei Savoia era segnata, gli Stati Uniti temevano che potessero appoggiare il comunismo dopo il fascismo e favorì (e meno male) la vittoria della Repubblica.

Di Umberto II cosa possiamo dire? Nulla tranne che aveva una moglie intelligente e liberale, maria Jose che intrattenne rapporti stretti con la segreteria vaticana e con il cardinale Montini, il futuro Papa Paolo VI. Subito dopo l’esito del referendum partì per un esilio dorato in Portogallo e non rimise piede in Italia (anche perché la Costituzione vietava ai discendenti maschi di casa savoia di mettere piede in Italia).

In conclusione vogliamo citare un fenomeno, il migliore di tutti i savoia, colui che, negli anni Ottanta, al largo della Corsica, mirò ad un canotto e sparò ad un tedesco e ultimamente durante un soggiorno nelle patrie galere (in Lucania), decise, pur essendo solo nella cella, di dormire sul letto superiore del letto a castello, e durante la notte… splash, si spiaccicò a terra, immaginate se costui avesse regnato…. Cosa ci siamo persi.

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le orecchie non essendo ossa, si decompongono e il teschio non le conserva ma a Napoli abbiamo il teschio con le orecchie, si trova nella chiesa di Santa Luciella, in via S. Biagio dei Librai o spaccanapoli come viene comunemente chiamata e dove il teschio è considerato un oggetto di culto popolare e un mediatore per l’aldilà.

L’identità della persona a cui appartiene il teschio con le orecchie è ignota, e sembra sia una vittima della peste del 1600, che provocò oltre ventimila morti. Il teschio con le orecchie ed è una anima pezzentella, culto diffusissimo a Napoli, cioè le cui ossa vengono dimenticate nelle fosse comuni. Adottando un teschio, i credenti possono lenire il dolore dell’anima del defunto e ricevere in cambio la grazia.

questo teschio, in particolare, è considerato un potente intermediario capace di fare ascoltare le proprie preghiere nell’aldilà, in quanto avendo le orecchie, può ascoltare le preghiere dei devoti e “velocizzare” le grazie.

Il teschio è esposto nei sotterranei della chiesa di Santa Luciella, per visitarlo è necessaria la prenotazione obbligatoria, costo del biglietto quattro euro devoluti per la raccolta fondi.

STRANO MA... v ERO i
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l TE s C hio C o N l E o RECC hi E

l’aNTiCo RiTo misTERiCo dEi PaPuTi a saRNo

Mariagrazia buonaiuto

pasqua è appena trascorsa e i riti Pasquali sono affascinanti anche perché un mix di fede, tradizione e superstizione. Oggi vogliamo parlarvi del rito dei Paputi, che si tiene nella città di Sarno, in provincia di Salerno. Abbiamo chiesto nuovamente aiuto al prof. orazio Ferrara che gentilmente ha risposto alle nostre domande.

Professor Ferrara, nella sua produzione letteraria, lei ha dedicato alcuni libri ai Paputi, protagonisti del venerdì santo sarnese. È solo una tradizione della città di sarno o sono presenti in altre città?

Ho dedicato diversi studi ai Paputi sarnesi perché fin dalla prima infanzia i loro riti, e soprattutto i loro canti, hanno colpito la mia immaginazione e il mio cuore. Ricordo di averli visti, da piccolo, la prima

volta al quartiere “Carresi”, dove allora abitavo. Il cuore mi batteva forte tra un timore reverenziale (perché incappucciati) e una curiosità mista ad ammirazione. Per le letture favolistiche che allora ascoltavo, li identificai immediatamente, per il loro cappuccio a punta, a degli unicorni fantastici.

Le processioni di incappucciati nel Venerdì Santo non sono molte in Campania. Famose, e magnifiche a vedersi, sono quelle notturne che si svolgono nella vicina Sorrento e un po’ in tutta la penisola sorrentino-amalfitana. A Meta di Sorrento c’è la particolarità poi della presenza femminile tra gli incappucciati. Anche nella contigua cittadina di Striano abbiamo una processione di incappucciati, che si riduce però ad una sola Croce o Confraternita.

Quelle della città di Sarno sono del tutto peculiari: il viaggio circolare e di ascesa dei Paputi per le strade cittadine, il vasto repertorio di canti d’impianto

RITI pAS q UALI
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settecentesco (con qualcuno di essi tardo medievale), il linguaggio esoterico dei colori dei cingoli che distinguono le varie Confraternite, il numero canonico, anch’esso dalla valenza esoterica, delle Confraternite partecipanti.

c osa significa il termine “paputo” e cosa rappresenta?

La parola paputo è davvero enigmatica e, ad uno studio attento, sembra rivelare risvolti arcanamente esoterici e assai antichi, la qual cosa sarebbe plausibile con il nostro misterico rito delle Croci il Venerdì Santo, in cui il paputo la figura chiave. Già nel Cinquecento il termine dialettale di paputo nel Napoletano stava a significare essere diabolico, malvagio, orco, demonio. E paputo, sempre quale essere fantastico, cattivo e che incute spavento lo ritroviamo poi anche negli scritti di Giambattista Basile. Anche nella lingua spagnola arcaica esisteva il termine paputo e il suo significato era univoco, esso era sinonimo di “diablo” (diavolo), tant’è che poi passò ad indicare tout court l’aiutante del boia e il boia stesso. Quindi un essere crudele per eccellenza che esercitava il più infame dei mestieri. Degli evidenti relitti cultuali degli Spagnoli, che s’intravedono nei rituali delle nostre Croci, è appena il caso di accennare, un

retaggio che risale al tempo della loro dominazione sul Napoletano. Le processioni degli incappucciati della Semana Santa nelle diverse città di Spagna non sono poi troppo dissimili da quelle dei Paputi per le strade di Sarno.

Nel documentato e ricco “Lessico italiano-napoletano - Con elementi di grammatica e metrica” degli studiosi Antonio Altamura e Francesco d’Ascoli troviamo infine la conferma che paputo corrisponde a diavolo, demonio.

La contraddizione di chiamare paputi, quindi essere malvagi, demoniaci, i fratielli penitenti delle Croci è solo apparente. Il paputo, all’inizio della sua vestizione con cappa e cappuccio, è un peccatore, quindi si trova ancora nella sua dimensione infera, demoniaca. Ed è per riscattare la colpa anche dei suoi peccati che il Cristo viene crocifisso. Il paputo è quindi ad un tempo carnefice e fedele del Salvatore, nell’eterna e ambigua ambivalenza del bene e del male insita nell’animo di ogni essere umano. Anche lui deve salire il suo Golgota, da qui il viaggio penitenziale circolare e di ascesa per le strade cittadine, anche lui deve crocifiggere e farsi crocifiggere per riscattarsi. Rappresenta il sacro monte del dolore da ascendere per il neofita di ogni setta iniziatica, cosa che, per numerosi indizi,

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sembra sia stata all’origine, in tempi remoti, della fondazione delle Confraternite sarnesi.

Quante sono a sarno le c onfraternite dei paputi, il loro numero ha un significato?

A Sarno il numero delle Confraternite dei paputi è variato nel corso dei secoli, ma si è conservato sempre in un canonico numero dispari. D’altronde anche i Sepolcri da visitare nello Struscio del giovedì Santo devono essere rigorosamente dispari, se no, secondo la tradizione popolare, porta male.

All’inizio erano tre: le venerate Confraternite di San Giovanni Battista e di Santa Maria Maddalena, ambedue appoggiate a chiese del “burgo de fora”, attuali via San Giovanni e via Abignente, e di San Bernardino della chiesa di San Francesco d’Assisi sita nel “burgo” vero e proprio, che andava dall’attuale via De Liguori a piazza

unicipio. Il sacrale numero tre rimanda alla Santissima Trinità, e ciò sembra indicare il carattere iniziatico e misteriosofico di queste Confraternite, come confermato d’altronde dai particolari vestiti indossati dai fratielli, quali la lunga cappa e il cappuccio conico, quest’ultimo dal chiaro sapore iniziatico suggerendo una immagine magica e soprannaturale.

Nel XVI secolo, con l’aumentare della popolazione sarnese, si ha la costituzione di solo altre due nuove confraternite, ambedue dette del Santissimo Sacramento, una in Episcopio e l’altra in San Matteo, in modo da ottenere così il complessivo numero di cinque. Infatti anche questo numero è sacralizzato in molti riti cristiani, basti per tutti ricordare le cinque piaghe del Cristo della Via Crucis oggetto di speciale venerazione per tutto il Medioevo. Infine nei secoli XVII e XVIII si ha il definitivo consolidamento delle confraternite sarnesi nel canonico numero di sette con l’istituzione delle ultime due, quella di San Sebastiano chiamata anche di Gesù e Maria e quella della Morte ovvero del Monte dei Morti. Nel frattempo quella antichissima di San Bernardino si è trasformata nella Confraternita della Santissima Concezione di San Bernardino ovvero dell’Immacolata Concezione, appoggiandosi alla omonima chiesa sorta a Capodorto, l’odierna piazzetta Michelangelo Capua.

Anche il sette è un numero sacrale. Sette sono le parole pronunciate da Gesù Cristo morente sulla croce, come sette sono le stazioni dolorose nelle tre ore di Maria Desolata. Ma ancora: il sette corrisponde ai sette gradi della perfezione, alle sette sfere o gradi celesti, ai sette rami dell’albero cosmico, infine sette sono i giorni della Creazione e della settimana. Ciò a conferma di una sacralità, forse maggiore, anche del sette, sulla scia di quanto già detto per i numeri tre e cinque, tutti numeri questi ricorrenti con frequenza nella simbologia e nei riti della Pasqua

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cristiana e quindi con una loro valenza senz’altro esoterica.

In tempi recenti, dimentichi ormai del tutto di regole e consuetudini che si perdevano nella notte dei tempi, non ci si è più attenuti ai numeri canonici di un tempo e quindi le Croci sono diventate anche di numero… pari.

Quali sono i colori del cordone e degli abiti delle c onfraternite?

Il colore delle cappe indossate dai fratielli di tutte le confraternite sarnesi è il bianco, nell’antichità colore allegorico della morte e della rinascita allo stesso tempo e pertanto colore degli iniziati per antonomasia, in particolare di quelli collegati agli antichi misteri dei riti agrari pagani della cultura arcaica del Mediterraneo.

Più tardi vi sarà una eccezione, rappresentata dall’adozione di cappe rosse da parte della Croce di San Matteo, privilegio questo che, a partire da una certa data, sottolinea la supremazia di quella Collegiata su tutte le altre chiese, perfino sul Duomo di Episcopio.

Fin dall’inizio si pose il problema del riconoscimento tra le varie confraternite dei paputi bianchi, che una volta incappucciati erano del tutto simili e non permettevano l’identificazione della Croce con l’originario quartiere cittadino. La cosa fu risolta con l’adozione, da parte di ciascuna di esse, di un diverso colore del cordone penitenziale stretto intorno alla vita dei fratielli

La Croce del Santissimo Sacramento del Duomo o di Episcopio porta la veste bianca con frangia dello stesso colore e cordone rosso.

La Croce di San Teodoro o della Maddalena veste bianca con frangia dello stesso colore e cordone bordeaux.

La Croce del Santissimo Sacramento di Terravecchia o di San Matteo veste rossa e cordone rosso.

La Croce di San Francesco porta veste dal colore del saio francescano, con cordone di canapa al naturale.

La Croce delle Tre Corone o del Monte dei Morti veste bianca con frangia bianca su fascia rossa e cordone nero. Nel passato, da questa confraternita, è stato usato in alcuni anni anche il cordone di colore viola.

La Croce dell’Immacolata veste bianca con frangia bianca e cordone celeste.

La Croce di San Sebastiano, anticamente detta di “Gesù e Maria”, porta veste bianca con frangia bianca su fondo rosso e cordone bianco. Qualcuno ricorda per il passato l’uso anche del cordone rosso.

La Croce di Sant’Alfonso o dei Carresi veste bianca con frangia bianca e cordone viola.

La Croce di Sant’Alfredo veste bianca con frangia bianca e cordone bianco.

ci parli dell’incontro tra le croci e i relativi canti. Diceva il buon don silvio Ruocco, grande e appassionato storico delle memorie cittadine, che l’incontro delle Croci era il

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momento clou del Venerdì Santo. Questo incontro è il momento in cui, durante il loro peregrinare, due diverse confraternite di paputi s’incontrano e quindi è d’obbligo il canto di saluto dell’o crux, o crux ave, cui seguivano vari canti, con i quali i rispettivi cori facevano a gara per superarsi. I canti che maggiormente risuonavano negli incontri erano Ecco la bella Croce, Ti saluto Croce Santa, Già condannato è il Figlio, Stava Maria dolente, Ai tuoi piedi.

Per il passato l’incontro tra due Croci comportava una notevole lunga attesa per chi seguiva la processione, tanto da far coniare il detto popolare “s’hann’ ‘ncontrat’ ‘e croce”, proverbio che viene argutamente citato ancora oggi da qualche

anziano, allorquando due gruppi di persone s’incontrano e cominciano a scambiarsi convenevoli a non finire, da qui l’ingombro della sede stradale che non permette a chi segue di passare agevolmente. Lo stesso detto viene appioppato dalla saggezza popolare all’incontro casuale di due donne, generalmente note per la loro loquacità, le quali cominciano fittamente a tessere, senza dar segni di stanchezza e quindi di smettere, i mai non troppo vituperati ‘nciuci. mito, fede, spirito identitario, quale dei tre termini identifica meglio i paputi.

Tutti e tre i termini impastano e danno linfa vitale in egual misura a quel magico viluppo che sono i riti dei Paputi a Sarno nel giorno del Venerdì Santo. Personalmente ritengo quella del mito la cifra migliore per gustare in pieno il fascino misterioso di quei riti.

Al riguardo, permettimi un’autocitazione, che spero i tuoi lettori perdoneranno benevolmente, mi riferisco a quello che scrissi, nell’ormai lontano 1994, nella prefazione al mio libro sui

Paputi:

A compimento di una promessa. Sì, questo libro nasce dal mantenere fede ad una promessa, che si perde nell’azzurro di tanti anni fa. Una di quelle promesse più difficili da mantenere, perché fatte con se stesso. Ecco perché doveva essere scritto questo libro del viaggio nel mito, nel nostro mito, il più antico e bello dei miti sarnesi, quello dei Paputi delle Croci.

Esso è anche un invito a sognare. Perché sognare non sempre è una fuga, a volte è ritrovare se stessi o quella parte di noi passata indenne tra il fango delle trincee di ogni giorno.

Certo sognare l’azzurro di un mito, nel nostro tempo così grettamente utilitaristico, può sembrare pura follia. Ma “bisognerà viaggiare negli occhi dei folli - cantava Federico Garcia Lorca - perché venga la luce smisurata”. Splendida verità scolpita, una volta per tutte, dai versi del grande poeta spagnolo. È necessario pertanto, almeno una volta, viaggiare negli occhi dei folli e dei sognatori per gustare l’essenza della vita, che è poi il mito più grande. Non sempre, infatti, due più due fa quattro, fortunatamente. A compimento di una promessa.

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quando ho ad interessarmi dei praticamente da sempre, ne ho conosciuti molti. mi sono fermato a parlare loro.

Per anni due fratelli, i Cerrato, residenti a Milano, partivano in auto da quest’ultima la sera antecedente il venerdì santo per giungere a Sarno solo qualche ora prima che uscisse la Croce di San Sebastiano, a cui partecipavano come elementi del

risiedevano lontano da Sarno, ma ritornavano puntualmente per l’occasione ogni anno.

Gli Spacagno intesi ‘e Ciculera, mazz’ ‘e cerimonia delle Croci nell’arco di più generazioni.

Ringraziamo il professor Ferrara per la sua disponibilità e la sua lectio, e vi invitiamo a Sarno, nel centro storico, alle prime luci dell’alba per assistere al passaggio dei Paputi per le strade cittadine.

Ascoltarne racconti ed aneddoti sulle del buon andato significava immergersi nel passato di una favolistica tempo. ricordarli memoria città, ma tanti, troppi. solo Michele Benisatto, detto Gianitto, era la fina del coro Croce della Maddalena. I suoi assoli la vincevano sulla voce fina di ogni altra Croce. Guidava il coro solamente con il movimento degli occhi.

Per anni due fratelli, i Cerrato, residenti a Milano, partivano in auto da quest’ultima la sera antecedente il Venerdì Santo per giungere a Sarno solo qualche ora prima che uscisse la Croce di San Sebastiano, a cui partecipavano come elementi del coro.

E poiché le tradizioni non devono morire, l’Istituto Comprensivo Episcopio – Sarno, ed in particolare la classe quarta del plesso di Foce, ha effettuato una lezione a tema sui Paputi e la maestra, Maria Grazia Buonaiuto, ci ha gentilmente inviato un disegno eseguito da un suo alunno. Complimenti a tutti i ragazzi e al corpo docente.

E che la tradizione si rinnovi sempre!

Ringraziamo il professor Ferrara per la sua disponibilità e la sua lectio, e poiché le tradizioni non devono morire, l’Istituto Comprensivo Episcopio-Sarno, in particolare la classe quarta del plesso di Foce, ha effettuato una lezione a tema sui Paputi e siamo lieti di pubblicare il disegno di Marco Ruggiero, alunno della classe IV.

ci sono personaggi sarnesi che hanno legato indissolubilmente a questa manifestazione?

Filomena ‘e Cazzagniello, per via che aveva sposato un Buonaiuto di questo ramo, “guardiana” del Sepolcro di Sant’Anna ‘a latte ‘e sotto, ovvero via Laudisio.

perfetta nel cerimoniale di ricevere la Croce di turno davanti al suo sepolcro.

Da quando ho iniziato ad interessarmi dei Paputi (praticamente da sempre), ne ho conosciuti molti di questi personaggi. Spesso mi sono fermato a parlare con loro, ed ascoltare i loro racconti e aneddoti sulle

Croci del buon tempo andato significava immergersi nel passato di una Sarno favolistica senza tempo. Vorrei ricordarli alla memoria della città, ma sono tanti, troppi. Ne cito solo alcuni.

fratelli della famiglia Mancuso, per qualche decennio, hanno aperto la Croce di Sebastiano con la croce grande e i due lampioncini. Due di essi risiedevano dalla città, ma ritornavano puntualmente per l’occasione ogni anno.

Spacagno intesi ‘e Ciculera, mazz’ ‘e cerimonia delle Croci nell’arco di più generazioni.

Michele Benisatto detto ‘o Gianitto era la voce fina del coro della Croce della Maddalena. I suoi assoli la vincevano sulla voce fina di ogni altra Croce. Guidava il suo coro solamente con il movimento degli occhi.

Filomena ‘e Cazzagniello, per via che aveva sposato un Buonaiuto di questo ramo. era la “guardiana” del Sepolcro di Sant’Anna ‘a latte ‘e sotto ovvero via Laudisio. Era perfetta nel cerimoniale di ricevere la Croce di turno davanti al suo sepolcro.

Tre fratelli della famiglia Mancuso, per qualche decennio, hanno aperto la Croce di San Sebastiano con la croce grande e i due lampioncini. Due di essi

I Paputi di Sarno – Disegno alunno classe IV, IC Episcopio – Sarno, plesso Foce

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s TE ll E di C ala BR ia

daniela la cava

dai tempi della Magna Grecia molti calabresi hanno fatto onore alla loro terra, da Pitagora a Tommaso Campanella, da Bernardino Telesio a Mattia Preti, da Francesco Cilea a Umberto Boccioni; questa carrellata di uomini e donne di valore, prosegue anche oggi con calabresi che dal Nobel ai trionfi sportivi, dal palco di Sanremo alla passerella di una sfilata, hanno dato lustro alla nostra regione.

Il primo nome che emerge in questo universo multiforme è associato allo sport, aspetto culturale che più di altri rappresenta il nostro modus vivendi perché, diciamoci la verità, se gli antichi romani vivevano a Panem et circenses, noi eredi del popolo latino, abbiamo radicata nel nostro DNA una cultura calcistica come pochi paesi al mondo!

È lo sport per eccellenza! Una disputa fino all’ultimo secondo senza esclusione di colpi dove i calciatori sono considerati moderni gladiatori che si confrontano sull’erba di uno stadio anziché la sabbia di un’arena, arma-

p ERSONAGGI
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Le eccellenze calabre dallo sport alla moda, dallo spettacolo alla medicina al Nobel per la medicina

ti solo di un pallone ma capaci di scatenare forti emozioni negli spettatori, esattamente come accadeva ai nostri antenati che affluivano negli anfiteatri.

Tra tutti i grandi campioni non può mancare un’eccellenza calabrese conosciuta come Gennaro Gattuso, soprannominato Ringhio per la tenacia che ha sempre dimostrato in campo! Giovanissima promessa del calcio esordisce nella serie A all’età di 17 anni, raggiungendo il trionfo nel 2006 in Germania, quando gli azzurri conquistano il titolo di Campioni del Mondo!

Il calcio però non è l’unica manifestazione sportiva che ha visto sul podio un astro nascente dello sport: nel 1987 in occasione dei Campionati del Mondo di Atletica Leggera di Roma, Francesco Panetta un “Ragazzo di Calabria”, dal titolo di un film a lui dedicato, conquista la medaglia d’oro gareggiando nei 3000 siepi! Uno dei tanti trionfi che caratterizzerà la sua carriera e lo porterà a sfiorare più volte l’Oro olimpico! Ma come nascono le Olimpiadi? La loro origine affonda nel mito: si narra che l’eroe Eracle, Ercole per i latini, istituì nella città di Olimpia dei Sacri Giochi in onore del padre Zeus, incoronando i vincitori delle varie discipline con corone realizzate intrecciando rametti del sacro bosco di ulivi. Successivamente ai vincitori gli antichi greci dedicarono anche una statua in bronzo, un grande onore che veniva destinato solo alle divinità e agli eroi! Ancora oggi come allora, ogni 4 anni atleti di tutto il mondo si confrontano per una vittoria che sembra non aver mai perso la sua aura divina.

I grandi traguardi raggiunti non si limitano a conquiste sportive ma si estendono ad ambiti differenti come quelli medici che inspiegabilmente sono meno conosciuti. Molti infatti ricordano il dott. Renato dulbecco solo per aver affiancato Fabio Fazio al Festival di San Remo, ma nel 1975 il medico calabrese, compagno di studi di Rita Levi Montalcini, fu insignito del premio Nobel per la medicina grazie alle sue ricerche sul genoma umano che hanno dato

un grande contributo alla ricerca delle cure tumorali. Un genio della medicina che con passione ha contribuito al bene dell’umanità.

A volte però capita che successo e fama diventino una pericolosa insidia, misteriosa o cruenta, che ha privato il mondo di due grandi personaggi amati e pieni di un talento raro. l a voce più melodiosa della calabria, che ha incantato intere platee, ipnotizzate da quel fascino mediterraneo che racchiudeva la forza e la fragilità di una grande terra che spazia tra montagne selvagge e paradisiache spiagge. Una vita spezzata in circostanze ancora da chiarire. Il ricordo di mia martini, o mimì per tutti coloro che la conoscevano, però rimarrà sempre impresso nella mente e nei cuori di tutti gli italiani.

Differente e più cruento, sarà il finale che calerà prematuramente il sipario su un grande uomo: una tragedia inaspettata, quella che colpì Gianni versace, che non può essere compresa e forse neppure spiegata. La sua storia è molto conosciuta ma nel raccontarla si rivede ancora il sorriso di Gianni e la sua passione per il mondo della moda per cui ha osato gli accostamenti più audaci fino a imporre il suo stile nelle passerelle di tutto il mondo.

La sua passione inizia da piccolo quando, nella sartoria dalla madre giocava con i ritagli di stoffa; un passo alla volta da quel piccolo mondo nel centro storico di Reggio Calabria, fatto di pizzi, seta e frivolezza di stoffa inizia la sua avventura che lo condurrà a diventare un’icona mondiale della moda!

Sapete da dove nasce il suo brand? Il logo della medusa è ispirato ad un reperto situato nelle terme romane, un sito archeologico a poca distanza dalla sua abitazione (oggi trafugato), un’immagine che incarna la grandezza della Magna Grecia, un brand della moda internazionale che ancora oggi troneggia sull’Olimpo della moda!

Grazie a tutti gli uomini e le donne che, anche all’apice del trionfo, sono sempre stati fieri delle loro radici: Siamo orgogliosi di Voi!

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i VaTTiENTi

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rito pasquale con uomini che si flagellano per manifestare la propria fede in Cristo

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L’antico
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