Terronitvmagazine_12

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ANNO 1 NUMERO 12 DISTRIBUZIONE GRATUITA ONLINE
MAGAZINE UNA RIVISTA... CERTOSINA

L ’e ditoriale

Oramai siamo saldamente nel 2023 e nulla sembra cambiato nel panorama delle notizie, con l’appiattimento delle stesse a favore di chi muove le fila, all’inizio fu il Covid poi la guerra in Ucrania e il PNRR, noi preferiamo occuuparci d’altro...

Partiamo dai servizi video, abbiamo ideato nuove rubriche come L’Emigrante, 20 minuti di conversazione con me e un ospite mentre sono in auto e mi reco in Toscana, discorriamo soprattutto sull’attualità toccando argomenti ignorati dall’universo informativo, come i LEP e l’autonomia differenziata; La Storia siamo Noi, con Enrico Fagnano che, pungolato dal nostro Mimmo Bafurno, ci parla di una storia (snocciolando cifre e documenti) che non troverete mai in nessun libro scolastico, Voci dalla Calabria con Daniela LaCava che, ogni settimana ci parla di leggende, aneddoti e personaggi calabri e infine la new entry Alfonso D’Anna con il suo Punto di domanda, che sarà un appuntamento fisso di approfondimento sulle tematiche di grande interesse per il nostro territorio.

A proposito di LEP, i livelli essenziali di prestazione, ponemmo la domanda all’onorevole Vincenzo De Luca, mentre tutti i colleghi presenti erano interessati alla corsa per la segreteria del PD, il quale ci rispose che di questo passo sarà costretto a chiudere i pronto soccorso poiché dei 2 miliardi che riceve dal governo centrale per la sanità, un miliardo e mezzo coprono le spese energetiche, una affermazione del genere avrebbe dovuto essere da prima pagina.

Per quel che riguarda questo numero di TerroniTv magazine, alterniamo la storia, ovviamente non quella pesudo ufficiale ma quella veritiera con le eccellenze del nostro territorio, come la splendida Certosa di San Lorenzo a Padula che, nei secoli, ha ospitato Papi e Regnanti ed era una delle più potenti abazie d’Europa. Parleremo del Mongibeddù o la “Muntagna” come viene definito dai catanesi il vulcano più alto d’Europa. L’eroismo degli abitanti di Amantea che resistettero eroicamente agli assalti delle truppe Napoleoniche. Un ricordo di Mia Martini, di quando emarginata dal crudele mondo dello spettacolo, prima di ritornare di nuovo in auge, cantava alle feste di piazza nei paesi vesuviani e proprio a Somma Vesuviana esiste una piazza dedicata all’usignolo di Bagnara Calabro. E infine una maschera campana poco conosciuta, parente di Pulcinella, si tratta di Alesio, la maschera della città di Sarno. Buona lettura e a presto!

MAGAZINE 2
Mario Stazione

4 INSORGENZE

I p RIMI cen SIM ent I I tA l IA n I (1861-71)

6 f O c US SU

l’A lt RO RISOR g IM entO

12 LUOG h I

l A ce R tOSA d I pA dul A

16 LUOG h I DA v ISITARE

I l MO ng I beddu

19 f ORSE NON TUTTI SANNO ch E

qu A nd O MIA MAR t I n I c A ntAvA

nelle p IA zze ve S uv IA ne

20 MONUMENTI DAL pASSATO

I l p RIMO tunnel del R egn O

22 c ARNE vALE

A le SIO, l A MIS te RI c A MAS che RA dell A c I ttà d I SAR n O

24 GLI ASSEDI NA p OLEONI c I IN c ALABRIA

l’e ROISMO de I c A l A b R e SI e l A b R ecc IA d I

AMA nte A

26 LA f OTO DEL MESE A p IS c ARIA

MAGAZINE

Registrazione n 1 - marzo 2021 Tribunale di nocera Inferiore

Anno 1 - numeRo 12 chIuso Il 19/2/2023

Editore

cReATIve medIA sRl

Direttore Responsabile mario stanzione

Direttore Editoriale

Fernando luisi (Ferdinando l’Insorgente)

Redazione mimmo Bafurno

cinzia Bisogno

Giovanni Gallo

Giuseppina Iovane

daniela l acava

Armando minichini

Antonella musitano

mino Paolillo

Angelica sarno edoardo vitale

IN COPERTINA

l a certosa di san l orenzo, a Padula (sa), la più importante e potente dell’Italia meridionale

SOMMARIO MAGAZINE 3

I PRIMI CENSIMENTI ITALIANI (1861-71)

Ferdinando l’Insorgente

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia sul sito web www.cinquantamila.it fu creata una pagina su “I censimenti, ritratti dell’Italia e degli italiani” , con riferimenti dal primocensimento del 1861 al 2001. Questa pagina oggi non è più consultabile, o meglio non è consultabile con un percorso di semplice navigazione.

Su Internet Archive, www.archive.org , esistono strumenti realizzati alla preservazione dell’esistenza di libri digitali, video, film, canzoni, immagini e interi siti web provenienti da ogni parte del mondo, e di permetterne la consultazione. Lo strumento per vedere vecchie pagine web è Wayback machine, un servizio online gratuito che ci permette di vedere com’erano le pagine di un sito web nel passato. Se presenti, le pagine sono visualizzabili nelle loro vecchie versioni in momenti storici diversi.

Con Wayback machine è possibile così rivedere su www.cinquantamila.it la pagina sui censimenti italiani dal 1861 al 2001, estrapolati dai dati ISTAT e tuttora consultabili su www.istat.it . In particolare, digitando https://www.istat.it/ it/archivio/228440 si accederà ad un prodotto editoriale (vedi figura sottostante) scaricabile in pdf per i vari capitoli. Nel nostro caso basterà cliccare sul capitolo 10 inerente al mercato del lavoro composto da 70 pagine e quella di nostro interesse è la pagina 24. Ma cosa ci dicono questi dati? Basterà leggerli e in particolare quelli relativi ai primi quattro censimenti (1861, 1871,1881 e 1901) per capire che, per quanto riguarda l’Industria, la popolazione attiva occupata nei territori appartenenti all’ex Regno delle Due Sicilie ci riporta numeri interessanti e

copertina del progetto editoriale ISTAT: L’Italia in 150 anni.

INSORGENZE
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La popolazione attiva occupata nell’industria dei primi censimenti italiani - Prima parte

ben diversi dalla narrazione risorgimentalista di un territorio povero e arretrato rispetto alle altre realtà territoriali dello stivale italico.

Il censimento del 1861

Pochi mesi dopo la nascita del Regno d’Italia l’amministrazione del niuovo Stato decise di effettuare il primo censimento generale della popolazione.

Per quanto riguarda l’occupazione lavorativa gli italiani erano occupati soprattutto nel settore agricolo con il 71,9% dei maschi ed il 66,5% delle femmine. Nel settore industriale erano occupati il 13,2% dei maschi ed il 25,3% delle femmine. In altre attività i maschi occupati erano il 15% e le femmine erano l’8,3 %. I dati relativi al settore agricolo vedevano le regioni del Nord con la più alta percentuale di occupati (Val d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte)

I dati del primo censimento vedevano un 18,1% di popolazione attiva occupata nel settore industriale su tutto il territorio nazionale con questa distribuzione relativa all’identificazione regionale attuale:

• Calabrie (28,8%)

• Campania (23,2%)

• Sicilia (23,1%)

• Puglia (23,0%)

• Abruzzo (19,8%)

• Molise (19,8%)

• Lombardia (19,8%)

• Basilicata (19,5%)

• Liguria (18,8%)

• Emilia-Romagna (18,8%)

• Toscana (18,5%)

• Marche (16,6%)

• Veneto (13,7%)

• Sardegna (11,6%)

• Piemonte (11,5%)

• Lazio (11,5%)

• Friuli Venezia-Giulia (11,0%)

• Umbria (10%)

• Trentino-Alto Adige (9,8%)

• Valle d’Aosta (6%)

Il censimento del 1871

Dieci anni dopo il primo censimento, in Italia si ritorna alla conta, con l’aggiunta di due altri territori annessi: Roma e Venezia.

Anche in questo censimento l’occupazione lavorativa attiva era presente soprattutto nel settore agricolo con il 69% dei maschi e il 65,2% delle femmine.

Nel settore industriale erano occupati il 15,2% dei maschi ed il 25,3% delle femmine. In altre attività i maschi occupati erano il 15,8% e le femmine erano l’9,5 %. I dati relativi al settore agricolo confermavano le regioni del Nord con la più alta percentuale di occupati (Val d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte). I dati del secondo censimento vedevano un 19,2% di popolazione attiva occupata nel settore industriale su tutto il territorio nazionale con questa distribuzione relativa all’identificazione regionale attuale:

• Calabrie (29,2%)

• Puglia (23,1%)

• Lombardia (23,1%)

• Campania (22,7%)

• Sicilia (21,4%)

• Toscana (20,6%)

• Liguria (20,5%)

• Abruzzo (16,9%)

• Molise (16,9%)

• Basilicata (19,9%)

• Emilia-Romagna (19,2%)

• Marche (17,3%)

• Veneto (15,7%)

• Piemonte (14,2%)

• Lazio (13,3%)

• Sardegna (12,6%)

• Friuli Venezia-Giulia (12,5%)

• Umbria (11,4%)

• Trentino-Alto Adige (10,9%)

• Valle d’Aosta (8%)

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(Continua)
Timbro di carteggio del polo Siderurgico di Mongiana (calabrie) durante il Regno delle Due Sicilie.

L’ALTRO RISORGIMENTO

Con enrico Fagnano parliamo degli anni dal 1861 al 1914 visto da un’altra ottica e che mai troverete sui libri scolastici

Abbiamo incontrato enrico Fagnano, autore del volume La Storia dell’Italia Unità, autoprodotta con Amazon e con lui ripercorriamo (in più puntate) il percorso storico che portò ad una unificazione della penisola, voluta dall’Inghilterra che era la superpotenza dell’epoca.

Inoltre enrico Fagnano conduce, insieme a mimmo Bafurno, la rubrica La Storia siamo Noi, su Terroni tv, in onda ogni mercoledì

I motivi, che spinsero l’Inghilterra ad appoggiare il Regno di sardegna nella sua azione contro il Regno delle Due Sicilie, furono diversi e non si può dire se ce ne sia stato uno realmente prevalente.

1. Innanzi tutto aveva la necessità di mettere il Piemonte in condizione di restituire alla banca londinese dei Rothschild le ingenti somme, che da questa aveva avuto in prestito.

2. La certezza di poter gestire senza contrasti le risorse minerarie della sicilia, che forniva l’ottanta

Lavoratori nelle miniere di zolfo in Sicilia.

f O c US SU ...
Il ruolo dell’Inghilterra nel processo di unificazione
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per cento della produzione mondiale di zolfo, preziosissimo perché elemento fondamentale della polvere da sparo, utilizzata all’epoca per la preparazione di tutte le munizioni.

3. In previsione dell’apertura del canale di suez (i lavori erano in corso e si sarebbero conclusi nel 1869) l’Inghilterra, però, voleva garantirsi anche il controllo più in generale dell’isola, vista la sua posizione strategica nel cuore del mediterraneo, che si apprestava a diventare il centro delle principali rotte commerciali.

4. Il grande impero intendeva favorire nell’Italia del sud la presenza di uno stato vicino ai propri interessi, essendo più volte entrato in conflitto con il Regno delle Due Sicilie, come era accaduto nel caso della guerra di Crimea, quando Ferdinando II, nonostante le richieste di Londra, non aveva voluto chiudere i suoi porti alle navi russe.

5. L’invasione piemontese del cattolicissimo stato borbonico, infine, era appoggiata anche dal potente capo degli Evangelici, Lord Anthony Shaftesbury, e dagli altri maggiori rappresentanti dei movimenti protestanti d’oltremanica, i quali, insieme ai liberali e alla Massoneria, stavano conducendo un’aspra lotta alla Chiesa di Roma.

La situazione economica in Italia prima dell’unità

Nel 1861 il pil, ovvero il prodotto interno lordo, dell’Italia settentrionale era di 337 lire pro-capite, praticamente pari a quello dell’Italia del sud, che era di 335 lire pro-capite (come ricordano gli economisti Vittorio Daniele e Paolo Malanima ne Il Divario Nord-Sud in Italia,  1860-2011, Rubbettino, 2011). Il dato relativo al Meridione, però, era inferiore al suo reale potenziale poiché penalizzato dalla guerra che si stava combattendo e aveva frenato la produzione, sia nel settore agricolo, sia in quello industriale. Al contrario il dato del nord era maggiorato dal grande sforzo effettuato dall’industria metalmeccanica piemontese per completare la rete ferroviaria dello stato subalpino, che fu portata a circa 850 chilometri e il regno sardo, che era in difficoltà, per fronteggiarla dovette contrarre ulteriori debiti.

Sembra difficile, però, immaginare che gli uomini del suo governo abbiano proceduto ad un’operazione così impegnativa, senza tenere conto del passivo generale e quindi tra loro circolasse l’idea di risolvere il problema attingendo ai fondi nelle casse degli altri stati italiani, come poi in realtà accadde. Il Piemonte, il paese più tassato e indebitato d’Europa, con un

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L’Assedio di Gaeta.

INTERPELLANZA DI C ARA fA AL PARLAMENTO ( ESTRATTO )

francesco proto carafa, duca di Maddaloni, nell’interpellanza che inoltrò il 20 novembre 1861 alla presidenza della camera, ma che non venne autorizzato a leggere pubblicamente nell’assemblea. proto carafa, che era stato oppositore dei Borbone ed esule politico e pertanto non può essere considerato uomo di parte, tra l’altro dice: “Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato, il commercio, serrati i privati opificii per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi per lo annullamento delle tariffe … E frattanto tutto si fa venire dal piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i Dicasteri, e per le pubbliche amministrazioni.

Non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato, che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A mercanti di piemonte dannosi le forniture della milizia, e delle ammini-

disavanzo annuo di cinquanta milioni ed un debito pubblico di 640 milioni, quattro volte superiore a quello dell’intero Regno di Napoli , rovesciò sul nuovo Stato questo enorme carico finanziario.

Si disse che tutta l’Italia aveva obbligo di rimborsare le spese che il piccolo stato subalpino aveva sostenuto per finanziare l’indipendenza nazionale, e non era vero perché il debito pubblico piemontese in massima parte derivava da lavori pubblici, specialmente ferroviari.”

E poi, permetteteci una riflessione, tu costituisci un nuovo stato e continui a farti chiamare Vittorio Emanuele Secondo?

A proposito degli altri stati del centro e del nord Italia, va detto che non avevano un sistema produttivo, se non a livello embrionale, e ciò vale per lo Stato della Chiesa, che venne annesso nel 1870, ma anche per il Lombardo-Veneto. Quest’ultimo veniva considerato dall’impero austro-ungarico, del quale faceva parte, come una sorta di territorio coloniale.Il governo asburgico non favoriva certo lo sviluppo nelle sue province italiane e infatti il processo di crescita in Lombardia cominciò solo dopo l’Unità, mentre in Veneto in un momento ancora successivo.

Nella penisola, quindi, lo stato che aveva la maggiore capacità produttiva era quello borbonico. Era l’unico, infatti, che avesse seriamente avviato un processo di industrializzazione e a partire dal 1840 il progresso fu addirittura vertiginoso, grazie anche all’apporto di capitali stranieri, attirati dalla politica economica di Ferdinando II.

Il primato in Italia (se ne contavano 51, alcuni europei e mondiali, ndr) era assolutamente fuori discussione

strazioni, od almeno delle più lucrose, burocratici del Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffici, gente spesso più corrotta degli antichi burocratici napoletani, e di una ignoranza, e di una ottusità di mente, che non teneasi possibile dalla gente di mezzodì.

Anche a fabbricar le ferrovie si mandano operai piemontesi, ed i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napoletani; a facchini della dogana, a carcerieri vengono uomini di piemonte, e donne piemontesi si prendono a nutrici nell’ospizio dei trovatelli quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole.

Questa è invasione, non unione, non annessione! Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista. Il governo di piemonte vuole trattare le province meridionali come il cortes o il pizarro facevano nel perù e nel Messico.

e a confermarlo ci sono anche i dati del censimento effettuato nel 1861, dai quali si rileva come nel sud in quel momento gli occupati nel settore industriale fossero quasi 1.600.000, più di quelli di tutto il resto della nuova nazione, nella quale complessivamente erano circa 1.400.000. In particolare in Lombardia erano 465.000, in Toscana 266.000 e nell’ex regno sardo appena 377.000, a distanza considerevole dal dato relativo alle vecchie Due Sicilie.

Questi dati assumono particolare rilievo, se si tiene conto che in quell’anno, come già messo in luce, era oramai estesa a tutti i territori conquistati la guerra, che limitava in maniera significativa l’attività in ogni settore (i notevoli danni provocati dalla ribellione e dalla sua repressione preoccuparono anche i politici inglesi, come vedremo nel capitolo IX, che riscontravano un massiccio calo delle loro esportazioni nell’ex regno, pari addirittura quasi al 50%).

Il Meridione dopo l’unità

L’Unità non fu un’unificazione, ma una vera e propria annessione di altri stati al Regno di Sardegna, che con le vicende di quegli anni allargò i propri confini, incorporando i territori occupati, e piemontesizzò, come si disse all’epoca, il resto della penisola, senza neanche un segno formale di discontinuità, tant’è vero che Vittorio Emanuele II mantenne il suo ordine dinastico, quando invece sarebbe stato primo come re della nuova nazione, e la legislatura, con la quale il 18 febbraio 1861 si inaugurò il Parlamento italiano, venne considerata come la continuazione di quelle subalpine e fu direttamente l’ottava.

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In un contesto del genere fu naturale che gli uomini del governo torinese vedessero il sud come un’opportunità per risolvere i problemi del Paese che amministravano. Il loro stato d’animo si può cogliere da quanto dichiarato in Parlamento il 27 giugno 1861 da Marco Minghetti (bolognese di nascita, poi diventato cittadino dello stato sabaudo), all’epoca ministro dell’interno, il quale nel corso di un suo discorso affermò: “Veggiamo ora le modifiche arrecate dall’annessione delle nuove province.

Quando il Regno di Sardegna si é trasformato in Regno italico, mi sembra che la sua posizione finanziaria sia molto migliorata.”

I politici piemontesi, quindi, videro l’Unità anche come un’opportunità per risolvere il grave problema della disoccupazione nei propri territori e nell’amministrazione meridionale, a partire già dalla prima luogotenenza di Farini, venne inserito un grande numero di sudditi del regno sardo, per far posto ai quali venivano contestualmente rimossi i dipendenti in servizio.

I deputati Giuseppe Massari, Paolo Paternostro e Giuseppe Ricciardi, denunciarono “il malcontento delle popolazioni vittime di prevaricazioni nei dicasteri e di una burocrazia assunta dai pessimi governi della Dittatura e poi delle Luogotenenze, con grave danno finanziario, politico e morale.”

Gli impiegati rimossi, come è ovvio, perdevano i loro compensi e di conseguenza interi nuclei familiari rimanevano senza mezzi di sostentamento, ma in quegli anni molte altre ancora furono le cause di disagio sociale, che produssero tutte contemporaneamente i loro effetti, rendendo la situazione drammatica.

Subito dopo l’Unità, quindi, nel sud un enorme numero di dipendenti pubblici e di militari rimasero senza reddito, abbandonati a se stessi, ma non andarono meglio le cose nel settore privato.

Con l’annessione si era aperto improvvisamente un nuovo mercato per gli industriali piemontesi, che lo videro come una grande opportunità di guadagno e lo sfruttarono con l’appoggio del governo. In realtà in quel momento nel regno sardo gli imprenditori e gli uomini che detenevano il potere erano in più modi collegati e anzi si può dire che si trattava di un unico gruppo di persone con interessi comuni.

Dopo l’Unità, quindi, chi doveva decidere fece in modo che qualunque cosa servisse a Napoli, e in generale nel sud, fosse inviata dal Piemonte e questa situazione venne descritta dal deputato

è evidente che il sud divenne presto un nuovo, grande, mercato per gli imprenditori piemontesi, ma è evidente anche che il regno sardo utilizzò lo stato conquistato per risolvere i propri problemi, primo fra tutti, come abbiamo detto in precedenza, quello della disoccupazione.

La devastazione del sud successiva all’Unità è stata documentata anche da molti autori non vicini al precedente regime. Roberto Savarese (insigne giurista, esule politico e poi deputato nel Parlamento italiano, fratello di Giacomo Savarese, autore del libro  Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1818 al 1860, che nella lettera scritta il 13 luglio 1861 a Giovan Pietro Vieusseux, f scrive Se un branco di collegiali in vacanza veniva a governarci non potea fare maggiori pazzie. La polizia nelle mani dei sindaci . Nelle campagne scorrono i briganti. Questo male non è solo nelle province remote, ma si distende fino alle porte di Napoli. Abbiamo destituito a capriccio per odio di parte, e spesso (cosa vergognosa!) per far posto agli amici … Le nostre istituzioni se ne vanno in fumo. Un mezzo milione di uomini non deve essere condannato a morire d’inedia e a marcire nell’ozio. A questo non è alcuno che pensi. Poco lontano dal luogo ove io dimoro, tra Portici e San Giovanni, è una

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Il Real Opificio di Pietrarsa, fiore all’occhiello dell’industria borbonica, fu declassato dai Savoia.

fonderia bellissima del governo. Vi si fanno macchine, cannoni, proiettili e mille altre cose. Il credereste?

La vogliono vendere (si tratta della fabbrica di Pietrarsa, che non fu venduta, ma venne data in affitto a un privato). Se il governo ha simili stabilimenti in Piemonte, perché non averne anche a Napoli?

Intanto il paese si commuove, che si fa la guerra alle industrie napoletane, e tutto ha da venire di Piemonte e ci trattano come paese conquistato … Molti anni dopo lo storico e politico lucano Giustino Fortunato, in una lettera inviata il 2 settembre 1899 a Pasquale Villari, descrisse in modo sintetico, ma estremamente efficace, quello che era accaduto nell’ex regno in quegli anni, scrivendo: “L’unità d’Italia è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti (Il grande intellettuale era un convinto antiborbonico, certamente non nostalgico del precedente regime, e pertanto le sue dichiarazioni su questo punto si possono ritenere assolutamente imparziali).”

l’economia a senso unico

Nel 1881 il pil del sud Italia era ancora allo stesso livello di quello del nord e che questo era il risultato della resistenza operata dagli imprenditori meridionali, ma anche il frutto della politica portata avanti dal Banco di Napoli.

La grande banca, infatti, dopo l’Unità si rese conto che finanziare le industrie dell’ex regno non era più proficuo, perché non avevano prospettive di sviluppo e anzi spesso erano destinate a essere liquidate. Allora si trasformò in un istituto di credito fondiario e con i capitali che, come abbiamo visto, continuava a

raccogliere, cominciò a finanziare l’attività agricola. I suoi amministratori avevano preso atto della nuova situazione e avevano trovato il modo di fronteggiarla. Si potevano anche costringere i Meridionali a chiudere le imprese, ma era impossibile togliere loro la terra ed era, quindi, su questa che bisognava investire. L’agricoltura del sud trasse enorme beneficio dall’arrivo di nuovi capitali. Le colture più diffuse furono incrementate, anche grazie all’acquisto di macchinari all’avanguardia, e furono incentivate le colture più pregiate.

Per la loro alta qualità i prodotti meridionali conquistarono i mercati internazionali e cominciarono ad essere esportati, in particolare in Francia, che da sola ne assorbiva quasi la metà.

Anche se si era lontani dalla situazione precedente al 1860, le iniziative intraprese comunque garantivano la sopravvivenza a un buon numero di braccianti e infatti l’emigrazione dal sud, che aveva avuto inizio subito dopo l’Unità, non aveva ancora assunto proporzioni drammatiche.

Le cose, però, cambiarono improvvisamente, quando il 14 luglio 1887 Depretis fece approvare dal Parlamento una legge che introduceva pesanti dazi sui prodotti industriali stranieri. Precedute già a partire dal 1877 da analoghe misure di minore portata, le nuove tariffe incidevano per circa il 60% sul valore degli articoli tassati, rendendoli eccessivamente costosi per il mercato interno, e rimasero in vigore fino al primo conflitto mondiale (ma numerosi tributi doganali furono nuovamente istituiti a partire dal 1925). Con la legge del 1887 generalmente si dice che ebbe inizio la guerra commerciale con la Francia, dalla quale proveniva la maggior parte dei beni importati

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e che effettivamente fu il paese più colpito, ma l’obbiettivo di Depretis non era certo di andare ad uno scontro economico (che comunque rischiò di diventare militare) con il potente stato transalpino.

L’intento del leader della sinistra storica era, in realtà, di eliminare dal territorio nazionale la concorrenza delle industrie straniere per favorire la crescita di quelle italiane. Si trattò, in altre parole, di un provvedimento protezionistico, simile a quelli che a suo tempo erano stati presi dai governi borbonici per consentire all’imprenditoria delle Due Sicilie di consolidarsi.

La risposta non si fece attendere e prontamente la Francia impose dazi egualmente elevati sui prodotti provenienti dalla penisola, vale a dire su quelli agricoli importati dal Meridione, che inviava, come abbiamo detto, quasi la metà del suo fatturato oltralpe.

Subito dopo anche l’Austria, che assorbiva il 17% di questo fatturato, aumentò le sue tariffe, come ovviamente fecero anche gli altri stati, e così tonnellate di frutti della terra, diventati improvvisamente troppo cari per l’estero, rimasero invenduti nei depositi del sud. La conseguenza fu che i loro prezzi crollarono, mentre invece non diminuirono i debiti contratti dalle aziende per l’acquisto dei macchinari e la modernizzazione delle colture.

L’economia del Mezzogiorno, così, nel giro di poco tempo fu messa in ginocchio e nelle sue campagne moltissimi braccianti persero ogni fonte di reddito. Fu solo allora che nell’ex regno cominciò la vera emigrazione, quella che nell’immaginario collettivo viene vista come un esodo, e solo verso la fine degli anni Novanta, quando i provvedimenti del 1887 dispiegarono appieno i loro effetti, il numero degli Italiani che partivano dal vecchio stato borbonico superò il numero di quelli che partivano dal Settentrione (prima che accadesse, quindi, passarono quasi quaranta anni e questo fa comprendere quale sia stata la reale capacità di resistenza del sistema produttivo meridionale, sottoposto fin dal 1860 all’attacco continuo del potere affaristico dell’epoca). Gli abitanti delle Due Sicilie avevano cominciato ad abbandonare il Paese, come abbiamo detto nel capitolo III, subito dopo l’unificazione, ma dapprincipio furono poche migliaia all’anno e dal 1865 poche decine di migliaia, per raggiungere le centinaia di migliaia all’anno solo dopo il 1876.

(Continua)

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enRIcO FAgnAnO è in onda ogni mercoledì su terronitv con la rubrica lA StORIA SIAMO nOI

LA CERTOSA DI PADULA

la certosa di Padula, o di san l orenzo è una certosa situata a Padula, nel Vallo di Diano, in provincia di Salerno. Si tratta della prima certosa ad esser sorta in Campania, estesa su una superficie di 51.500 m², disposti su tre chiostri, un giardino, un cortile ed una chiesa, è uno dei più sontuosi complessi monumentali barocchi del sud Italia, nonché la più grande certosa a livello nazionale e tra le maggiori d’Europa. Dal 1957 ospita il museo archeologico provinciale della Lucania occidentale; nel 1998 è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

I lavori alla certosa iniziarono per volere di Tommaso

II Sanseverino, nel 1306sul sito di un preesistente cenobio e sono proseguiti per circa cinque secoli.

Sanseverino, conte di Marsico e signore del Vallo di Diano, era vicino agli Angioinie per ingraziarsi i reali angioini del Regno di Napol costruì la certosa e la diede ai certosini che erano un ordine religioso francese; ordine fondato nel 1084 da San Brunone, si trovava a Grenoble, e non poteva quindi che essere graditissima al sovrano Angioino la fondazione di una Certosa a Padula, di cui Sanseverino, appunto era un fedelissimo. Nacque così il secondo luogo certosino nel sud Italia, dopo la certosa di Serra San Bruno in Calabria.

La dedica a San Lorenzo della certosa si deve invece alla preesistente chiesa dedicata al santo che insisteva nell’area, appartenente all’ordine benedettino, poi abbattuta a seguito della costruzione della certosa.

L’area in cui il Sanseverino decise di edificare il sito monumentale era sostanzialmente costituita da lotti di terra di sua proprietà. Il punto risultò sin da subito strategico e cruciale, potendo infatti contare dei grandi campi fertili circostanti dove venivano coltivati i frutti della terra (i monaci producevano vino, olio di oliva, frutta ed ortaggi) per il sostentamento dei monaci stessi oltre che per la commercializzazione con l’esterno,

nonché per consentire di avere il controllo delle vie che portavano alle regioni meridionali del Regno di Napoli. L’attività commerciale dei beni primari prodotti nella certosa fu per molti secoli fondamentale in quell’area; infatti, essa era di fatto l’unico centro di raccolta di manodopera.

Caduti i Sanseverino nella metà del Quattrocento con la congiura dei baroni, i loro possedimenti andranno ai monaci certosini di Padula, divenendo così loro stessi anche padroni dei terreni su cui si sviluppava il paese soprastante. Disponendo così di proventi derivanti dalle tasse che i civili pagavano al priore, oltre che delle ricchezze che la certosa aveva accumulato nel corso dei secoli, tramite donazioni, profitti commerciali e quant’altro, la Certosa conobbe il periodo di massimo splendore.

Nel Cinquecento il complesso divenne meta di pellegrinaggi illustri, come Carlo V che vi soggiornò con il

MAGAZINE 12 LUOG h I
Il più vasto complesso monastico dell’Italia Meridionale e uno dei maggiori in Europa per i tesori artistici e la sua architettura.
portone di accesso, all’esterno della certosa.

suo esercito nel 1535 di ritorno dalla battaglia di Tunisi; secondo la tradizione fu in questa occasione che i mo naci prepararono una frittata di mille uova. In questo stesso periodo, dopo il concilio di Trento, vi si aggiunse alla struttura trecentesca il chiostro della Foresteria e la facciata principale nel cortile interno.

Nei secoli successivi, a partire dal 1583, la certosa fu sottoposta a un completo restauro, per iniziativa del priore Damiano Festini e che durarono circa due seco li, che trasformarono una struttura gotica in barocca, determinandone l’attuale predisposizione architettoni ca, di impianto quasi esclusivamente barocco.

Tra il XVI e XVII secolo l’attività produttiva-commer ciale della certosa crebbe e divenne così importante che fu necessario istituire nei territori vicini, dalla bassa provincia di Salerno fino in Basilicata, grancie (che erano delle strutture per la conservazione del grano) e feudi.

Nel 1807, con la dominazione francese nel regno di Napoli, l’ordine certosino fu soppresso ei monaci, c furono costretti a lasciare la Certosa, che divenne caserma.

Essendo francesi, ci furono sparizioni di molte opere d’arte: testi storici in biblioteca, ori, statue, argenti e pitture, in particolar modo dentro la chiesa, la quale fu spogliata del tutto dalle tele seicentesche che possedeva.

Passato il periodo napoleonico, con il ripristino del regno borbonico i certosini rientrarono nel complesso. Spogliati di quasi ogni bene, il peso politico che avevano nell’area circostante e nelle gerarchie dei reali fu certamente minore. Per ridare lustro al complesso furono commissionate in questo periodo alcune pitture in sostituzione di quelle rubate e collocate nel refettorio, di fatto l’unico ambiente artisticamente ripristinato.

Tuttavia, nonostante gli sforzi, i monaci non riuscirono mai più ad assumere il ruolo che avevano ricoperto nei secoli addietro.

Nel 1866, dopo l’unità d’Italia, l’ordine fu nuovamente soppressoe dunque i monaci dovettero lasciare, definitivamente la Certosa, poi dichiarata monumento nazionale venti anni dopo.

Durante le due guerre mondiali della prima metà del Novecento, invece, essendo l’intero complesso un luogo abbandonato e inutilizzato, fu usato come campo di prigionia e di concentramento.

Dal 1957 alcune sale ospitano il museo archeologico provinciale della Lucania occidentale, che raccoglie

una collezione di reperti provenienti dagli scavi delle necropoli di Sala Consilina e di Padula, dalla preistoria all’età ellenistica. Nel 1981 la certosa invece fu affidata alla soprintendenza dei beni architettonici di Salerno e l’anno dopo vide avviare i primi veri lavori di restauro che avevano lo scopo di far divenire la certosa un sito di accoglienza turistica-monumentale. La struttura della certosa, come per tutte le certose d’Italia, richiama l’immagine della graticola sulla quale san Lorenzo fu bruciato vivo.[7] Secondo la regola certosina che predica il lavoro e la contemplazione, nella certosa esistono posti diversi per la loro attuazione: il tranquillo chiostro, la biblioteca con il pavimento ricoperto da mattonelle in ceramica di Vietri sul Mare, la Cappella decorata con preziosi marmi, la grande cucina, le grandi cantine con le enormi botti, le lavanderie ed i campi limitrofi dove venivano coltivati i frutti della terra per il sostentamento dei monaci oltre che per la commercializzazione con l’esterno. La struttura della certosa, come per tutte le certose d’Italia, richiama l’immagine della graticola sulla quale san Lorenzo fu bruciato vivo. Secondo la regola certosina che predica il lavoro e la contemplazione, nella certosa esistono posti diversi per la loro attuazione: il tranquillo chiostro, la biblioteca con il pavimento ricoperto da mattonelle in ceramica di Vietri sul Mare, la Cappella decorata con preziosi marmi, la grande cucina, le grandi cantine con le enormi botti, le lavanderie ed i campi limitrofi dove venivano coltivati i frutti della terra per il sostentamento dei monaci oltre che per la commercializzazione con l’esterno.

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Monumento tombale a Tommaso II Sanseverino

1. cortile

2. Stalle, granai, fabbri, pescherie, lavanderie, spezierie.

3. foresteria antica

4. chiostro della foresteria

5. chiesa

a) Sala del capitolo dei conversi

b) cappelle laterali

c) Sacrestia

6. Sala delle campane

7. Sala del capitolo

8. Sala del Tesoro

9. chiostro del cimitero antico

10. cappella del fondatore

11. Refettorio

a) chiostro del Refettorio

Lo stile architettonico del complesso, sottoposto a circa 500 anni di lavori, è quasi prevalentemente barocco, sono infatti poche le tracce trecentesche superstiti.

La certosa conta circa 350 stanze e, compresi i giardini, occupa una superficie di 51.500 m² (circa 5 campi da calcio) di cui 15.000 impegnati solo dal chiostro grande, il più grande del mondo.

l’ingresso alla certosa avviene dal lato orientale dove, varcata la porta d’ingresso, ci si immette in un ampio cortile a forma rettangolare chiuso a braccia da due corpi di fabbrica.

12. cucina

13. chiostro dei procuratori

14. Scala elicoidale

15. Quarto del priore

a) Museo archeologico provinciale della Lucania occidentale

b) cappella di San Giacomo

c) Loggia

d) chiostro del priore

16. chiostro grande

17. cimitero dei priori

18. celle dei certosini

19. Scalone ellittico

20. Giardino all’italiana

Il cortile era un tempo il punto che più di ogni altro aveva contatto con l’esterno; su questo affacciavano infatti i siti di produzione del complesso: le speziere, le scuderie, ecc.. L’atrio è caratterizzato inoltre lungo la parete destra da una fontana di ignoto autore del Seicento, mentre in prossimità della scala di accesso, invece, ai due lati della facciata ci sono gli accessi ai giardini che circumnavigano il complesso. Fa infine parte delle aggiunte del XVIII secolo la torre degli Armigeri che insiste al vertice alto del cortile, lungo la cinta muraria esterna della certosa.

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LA PIANTA

La facciata principale che dà accesso all’intero monastero risale al Cinquecento,. Risalgono al 1718 le quattro sculture entro altrettante nicchie eseguite da Domenico Antonio Vaccaro e raffiguranti, da sinistra a destra: San Bruno, San Paolo, San Pietro e San Lorenzo. I busti presenti al secondo piano ritraggono invece i quattro evangelisti, la Madonna e Sant’Anna, mentre ancora più in alto, è la scultura della Madonna al centro, con ai lati due putti e poi i busti della Religione e Perseveranza. Probabilmente i lavori settecenteschi alla facciata terminarono nel 1723, data riportata sotto la scritta Felix coefi porta posta ai piedi della scultura della Vergine in alto a tutto alla facciata. Il chiostro risale ai rifacimenti cinquecenteschi come la fontana marmorea centrale, il portico e la loggia. Il piano superiore, i cui ambienti servivano per ospitare le illustri personalità che soggiornavano nella certosa, è interamente affrescato da scene di paesaggio.

Il piano inferiore del chiostro è caratterizzato da sculture in gesso ottocentesche Risale ai primi del cinquecento invece la scultura in pietra della Madonna col Bambino. Si affaccia sul chiostro la torre dell’orologio, mentre altre porte al piano inferiore conducono ad altri ambienti della certosa, come la cappella dei Morti, le ex celle dei monaci e la chiesa.

L’interno della chiesa è a navata unica, con archi ogivali e volte a crociera affrescate da Michele Ragolia nel 1686 con Storie del Vecchio Testamento. Le decorazioni interne sono tipiche del barocco napoletano. I dipinti che ornavano la chiesa, tra i cui autori figurano Luca Giordano, Giacomo Farelli, Francesco Solimena e Paolo De Matteis, furono portati via durante il “decennio francese”, dunque a questo evento si deve il bianco che caratterizza gran parte delle mura del luogo.

All’ingresso è il coro dei conversi, successivamente un muro taglia trasversale il coro separandolo dall’altro dei padri e dalla zona absidale.

Sulla destra si apre la sala del Capitolo dei conversi, dove è esposto il cinquecentesco trono del Priore. L’altare maggiore, a cui hanno lavorato Bartolomeo Ghetti, Antonio Fontana e Giovan Domenico Vinaccia, è di stucco lucido, incrostato di madreperle.

Alle pareti dell’abside ci sono dipinti della metà Ottocento di Salvatore Brancaccio che hanno sostituito quelli trafugati: a destra San Bruno, a sinistra Martirio di San Lorenzo, al centro Madonna col Bambino tra san Bruno e san Lorenzo.

Alle spalle dell’altare maggiore c’è l’accesso alla sacrestia. La sala è rettangolare, con volte a botte; lungo le pareti c’è mobilia del 1686 mentre sull’altare maggiore un ciborio

attribuito a Giacomo Del Duca, che lo avrebbe eseguito su committenza dei certosini di Padula tra il 1572 e 1574. Inviato a Napoli all’inizio dell’Ottocento, è ritornato nel suo luogo di origine solo nel 1988.

Da una porta alla sinistra dell’abside, si giunge alla sala delle campane. Dalla sala tre porte (esclusa quella che conduce alla chiesa) danno accesso ad altrettanti ambienti: alla sala del Capitolo, alla sala del tesoro ed al chiostro del Cimitero antico.

La sala del Tesoro presenta oltre alle decorazioni in stucco tipiche barocche, anch’essa un affresco sulla volta raffigurante la Caduta degli angeli ribelli e mobilia seicentesca che un tempo custodiva il tesoro della certosa, oggi disperso.

Per visitare la certosa di Padula, percorrere la A2 Salerno Reggio Calabria e usciire a Buonabitacolo, informazioni, al sito www.certtosadipadula.org

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LUOG h I DA v

IL MONGIBEDDU

la parola Mongibeddu deriva dalla parola latino-araba Mons Gibel che poi in italiano è diventato Mongibello: In realtà in tutto il mondo il vulcano più alto d’Europa è conosciuto col nome di Etna che deriverebbe dal verbo greco αἴθω àithō, cioè “bruciare”. L’Etna era infatti conosciuto dai Greci

come Αἴτνη (Àitnē) e dai Romani come Aetna, ma è anche conosciuto come A Muntagna.

Le eruzioni regolari della montagna, a volte drammatiche, l’hanno resa un soggetto di grande interesse per la mitologia greca e romana e le credenze popolari che hanno cercato di spiegare il comportamento del vulcano tramite i vari dei e giganti delle leggende romane e greche.

A proposito del dio Eolo, il re dei venti, si diceva che avesse imprigionato i venti sotto le caverne dell’Etna. Secondo Esiodo e il poeta Eschilo, il gigante Tifone fu confinato nell’Etna e fu motivo di eruzioni. Un altro gigante, Encelado, si ribellò contro gli dei, venne sconfitto da Atena e sepolto sotto un enorme cumulo di terra che la dea raccolse dalle coste del continente. Encelado soccombette, si appiattì e divenne l’isola di Sicilia. Si racconta che il suo corpo sia disteso sotto l’isola con la testa e la sua bocca sotto l’Etna che sputa fuoco a ogni grido del gigante. Di Encelado sepolto sotto l’Etna parla pure Virgilio.

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ISITARE
Il vulcano più alto e più mitizzato d’Europa, in perenne attività richiama visitatori da tutto il mondo per la sua bellezza
Il ciclope polifemo.

Su Efesto o Vulcano, dio del fuoco e della metallurgia e fabbro degli dei, venne detto di aver avuto la sua fucina sotto l’Etna e di aver domato il demone del fuoco Adranos e di averlo guidato fuori dalla montagna, mentre i Ciclopi vi tenevano un’officina di forgiatura nella quale producevano le saette usate come armi da Zeus. Si supponeva che il “mondo dei morti” greco, il Tartaro, fosse situato sotto l’Etna. Si racconta che Empedocle, un importante filosofo presocratico e uomo politico greco del V secolo a.C., si gettò nel cratere del vulcano per scoprire il segreto della sua attività eruttiva. Il suo corpo sarebbe stato in seguito restituito dal mare al largo della costa siciliana, anche se in realtà sembra che sia morto in Grecia.

Perfino Re Artù è stato accostato all’Etna, infatti risiederebbe, secondo la leggenda, in un castello sull’Etna, il cui celato ingresso sarebbe una delle tante e misteriose grotte che la costellano. Il mitico re dei Britanni appare anche in una leggenda, quella del cavallo del vescovo, narrata da Gervasio di Tilbury.

Secondo una leggenda inglese l’anima della regina Elisabetta I d’Inghilterra risiederebbe nell’Etna, a causa di un patto che lei avrebbe fatto col diavolo in cambio del suo aiuto per governare il regno.

Il territorio del vulcano presenta aspetti molto differenti per morfologia e tipologia in funzione dell’altitudine. Coltivato fino ai 1 000 metri dal livello del mare e fortemente urbanizzato sui versanti est e sud si presenta selvaggio e brullo sul lato occidentale dove predominano le “sciare”, specie nel versante nord. Poco urbanizzato, ma di aspetto più dolce, il versante nord con il predominio dei boschi al di sopra di Linguaglossa. Il versante est è dominato dall’aspetto inquietante della Valle del Bove sui margini della quale si inerpicano fitti boschi.

Il circondario ha caratteristiche che ne rendono le terre ottime per produzioni agricole, grazie alla particolare fertilità dei detriti vulcanici. La zona abitata e coltivata giunge quasi ai 1 000 m s.l.m. mentre le zone boschive arrivano fino ai 1 500 metri. Ampie parti delle sue pendici sono comprese nell’omonimo parco naturale. Il versante sud del vulcano è percorso dalla strada provinciale SP92 che si arrampica sulla montagna fino a quasi 2 000 m di quota, generando circa 20 km di tornanti.

L’infrastruttura non permette di raggiungere la cima in auto ma, raggiunta la stazione turistica attorno alla Funivia dell’Etna, continua poi il suo percorso per altri 20 km circa in direzione di Zafferana Etnea.

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Una spettacolare eruzione dell’Etna, resa ancora più suggestiva dal paesaggio notturno.

In inverno è presente la neve che, alle quote più elevate, resiste fin quasi all’estate. Le aree turistiche da dove si può partire per le escursioni in cima al vulcano sono raggiungibili agevolmente dai versanti sud e nord-est in cui si trovano anche le due stazioni sciistiche del vulcano (Etna sud e Etna nord). Da quella sud, dallo storico Rifugio Sapienza nel territorio di Nicolosi è possibile ammirare il golfo di Catania e la valle del Simeto. Dalle piste di Piano Provenzana a nord, in territorio di Linguaglossa, sono visibili Taormina e le coste della Calabria.

Lungo i tremils metri del vulcno laa temperatura subisce una differenza anche di quindici gradi, toccando in inverno temperature sotto lo zero.

L’Etna è un vulcano attivo. A differenza dello Stromboli, che è in perenne attività, e del Vesuvio, che alterna periodi di quiescenza a periodi di attività parossistica, esso appare sempre sovrastato da un pennacchio di fumo. A periodi abbastanza ravvicinati entra in eruzione (eruzione esplosiva) incominciando in genere con un periodo di degassamento ed emissione di sabbia vulcanica a cui fa seguito un’emissione di lava abbastanza fluida all’origine.

Talvolta vi sono dei periodi di attività stromboliana che attirano visitatori d’ogni parte del mondo per via della loro spettacolarità. Negli ultimi anni l’area sommitale dell’Etna è cambiata, si trasforma continuamente. Oggi presente cinque crateri in continua attività (Cratere di Sud-est, Nuovo Cratere di Sudest, Bocca Nuova, Voragine, Cratere di Nord-est). Il Cratere considerato il ‘’più giovane’’ è il Nuovo Cratere di Sud-Est (2007) che negli ultimi tredici anni di attività ha avuto parecchie eruzioni e parossismi (attività vulcanica attuale 2021 - in corso caratterizzata da esplosioni e attività stromboliana (VEI 1)

che si verifica in modo ordinario con la presenza di cenere vulcanica che si propaga nel territorio).

L’Etna è un vulcano attivo. A differenza dello Stromboli, che è in perenne attività, e del Vesuvio, che alterna periodi di quiescenza a periodi di attività parossistica, esso appare sempre sovrastato da un pennacchio di fumo. A periodi abbastanza ravvicinati entra in eruzione (eruzione esplosiva) incominciando in genere con un periodo di degassamento ed emissione di sabbia vulcanica a cui fa seguito un’emissione di lava abbastanza fluida all’origine. T alvolta vi sono dei periodi di attività stromboliana che attirano visitatori d’ogni parte del mondo per via della loro spettacolarità. Negli ultimi anni l’area sommitale dell’Etna è cambiata, si trasforma continuamente. Oggi presente cinque crateri in continua attività (Cratere di Sud-est, Nuovo Cratere di Sudest, Bocca Nuova, Voragine, Cratere di Nord-est). Il Cratere considerato il ‘’più giovane’’ è il Nuovo Cratere di Sud-Est (2007) che negli ultimi tredici anni di attività ha avuto parecchie eruzioni e parossismi (attività vulcanica attuale 2021 - in corso caratterizzata da esplosioni e attività stromboliana (VEI 1) che si verifica in modo ordinario con la presenza di cenere vulcanica che si propaga nel territorio).

Si praticano molti sport sull’Etna, quello principe è l’escursionismo e sono davvero in tanti ad inerpicarsi lungo i pendii, a volte, in maniera avventata, anche quando è in corsa un’eruzione. Anche gli sport sciistici sono particolarmente apprezzati, soprattutto in alta quota.Il Giro d’Italia ha fatto più volte tappa sull’Etna e si è sempre assistito a tappe spettacolari.

Il 21 giugno 2013, la XXXVII sessione del Comitato UNESCO ha inserito l’Etna nell’elenco dei beni costituenti il Patrimonio dell’umanità.

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tappa del giro d’Italia con arrivo sull’etna

Quando Mia Martini cantava nelle piazze vesuviane

èstato scritto tutto e il contrario di tutto su domenica Adriana Rita (dettà Mimì) berté, meglio conosciuta col nome di Mia Martini, dall’allontanamento dalle scene, alle maldicenze sul suo conto, al ritorno trionfalistico al festival di Sanremo nel 1989 con Almeno tu nell’Universo (scritta dal compianto Bruno Lauzi), alla mancata vittoria dell’Eurofestival del 1992 perché l’Italia rifiutò di organizzare l’edizione dell’anno successivo.

Oggi vogliamo parlarvi di quando Mimì si esibiva nelle piazze dei paesi vesuviani e lo facciamo con ciro castaldo, ideatore, organizzatore, presentatore e direttore artistico del Mia Martini festival che si tiene ogni anno a Somma vesuviana, nonché presidente dell’Associazione “L’Universo di Mimì” e autore del libro Martini Cocktail

“Sul finire degli anni Ottanta, Mia Martini, era seguita da due manager di Sant’Anastasia che le organizzavano serate nei paesi vesuviani, tra Sant’Anastasia, piazzola di Nola, Somma vesuviana e San Sebastiano al vesuvio, ovviamente erano concerti “alla buona”, ma che la voce di Mimì rendevano unici ed emozionanti.

Una data su tutte da ricordare, il 12 settembre 1987, la location è il ristorante il capriccio di San Sebastiano al vesuvio, dove durante una serata, Mia Martini incontra un giovane artista partenopeo, Enzo Gragnaniello che rimane letteralmente folgorato da Mimì le chiese di incidere un brano che lui aveva appena composto, Donna Mia Martini cercò di dissuaderlo, affermando che lei non era più una cantante ufficiale e, che lui essendo giovane e di belle speranze si sarebbe bruciato se avesse affidato una canzone a lei, ma Gragnaniello non si arrese e la sua costanza fu premiata quando i due si incontrarono ai Quartieri Spagnoli, dove abitava Gragnaniello e Mimì accettò di incidere Donna. Questo brano era molto amato da Mimì, tanto che lo inserì come seconda traccia nel disco di Almeno tu nell’Universo. Altra curiosità, in quel periodo Mimì alloggiava a Bacoli nel residence “villa palma”, vicino alla spiaggia Miniscola. chi ha avuto la fortuna di assistere ai concerti di Mia Martini porterà dentro di se una emozione unica che solo la sua voce sapeva trasmettere e grazie alla nostra associazione “L’Universo di Mimì”, la piazza di Somma vesuviana dove Mimì si chiam Piazza Mia Martini, con la seguente motivazione: “In queste terre acclamata da un pubblico affettuoso preparò il suo rientro sulle scene. A questi luoghi consacrò il suo canto d’amore e di libertà.

f ORSE NON TUTTI SANNO ch E ...
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MONUMENTI DAL pASSATO

IL PRIMO TUNNEL DEL REGNO

La galleria ferroviaria di “Passo dell’Orco” la prima del Regno delle Due Sicilie, fu inauguarato due volte

tutti sanno che la prima linea ferroviaria italiana fu realizzata nel Regno delle Due Sicilie per collegare Napoli a Portici. L’inaugurazione avvenne il 3 ottobre 1839 alla presenza del re Ferdinando II che aveva voluto la ferrovia. Alle ore 12 in punto il treno reale, lasciò la stazione di Napoli e in circa 10 minuti raggiunse Portici. Fu subito grande festa per questa “innovazione” voluta dal sovrano che non c’era in nessuna altra città e stato italiano.

Ora vi parliamo del orimo tutnnel ferroviario costruito nel regno Borbonico e della sua curiosa storia. è

lunga appena 442 metri, è a semplice binario ed è chiusa al traffico ferroviario da qualche anno, eppure è la prima galleria ferroviaria del Regno delle Due Sicilie e una delle prime ad essere costruite in Italia. Dopo il 3 novembre 1839, Ferdinando II, capendo le potenzialità della strada ferrata aveva avviato un progetto di costruzione di nuove linee, anche se non doveva gravare sul bilancio dello Stato, e furono affidate a imprese private. Infatti era in atto il prolungamento da Portici a Nocera, una linea che congiungesse Napoli e Caserta con Roma e un’altra che collegasse i porti di Napoli e Brindisi seguendo il percorso, Cancello-Sarno (polo industriale dell’epoca)-Mercato San Severino-Avellino-Ariano Irpino-Bari.

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Il progetto dell’opera fu affidato all’ingegnere Melisurgo che pensò di bypassare le colline tra l’agro sarnese-nocerino e la valle dell’Irno con un tunnel ferroviario che perforasse la collina di Paterno (tra i comuni di Sarno e Castel San Giorgio) e che seguisse il percorso dell’acquedotto augusteo (che da Serino portava l’acqua a Capo Miseno). Siamo nel 1846, e qualora fosse stato costruito, sarebbe stato il primo tunnel ferroviario italiano. Tuttavia Melisurgo incontrò notevoli difficoltà e fu sollevato dall’incarico da Ferdinando II in persona.

Si decise, quindi, di cambiare percorso e di perforare la collina dell’Orco. Il nome bizzarro fa riferimento al condottiero cartaginese Annibale Barca, che, durante la seconda guerra punica, valicando la collina raggiunse Nuceria-Alfaterna e la rase al suolo, essendo questa l’unica delle città Osco-Sannite ad essere fedele a Roma. Naturalmente a guerra finita i Nocerini furono ricompensati ampiamente sia per lo status dei cittadini sia per la possibilità di battere moneta propria. Ritorniamo alla strada ferrata, essendo la collina molto friabile da un punto di vista geologico, la galleria fu realizzata in solo venti mesi e con mano d’opera locale, infatti le opere murarie e i due portali (esistenti ancora oggi) furono realizzati dagli scappellini di

Lanzara i cui discendenti sono stati impiegati per la realizzazione della diga di Assuan in Egitto.

Sui portali di ingresso del tunnel vi erano apposte due lapidi commemorative che sono conservate a Napoli nella certosa di San Martino, ora vi sono due finestre murate. La galleria fu costruita in previsione della costruzione di un secondo binario e presenta al centro, un pozzo di aerazione che sbuca sulla collina sovrastante e l’ampio sentiero selciato a fianco dei binari ha fatto sì che fino a poco tempo fa il tunnel venisse percorso dalle moto che da Sarno si dovevano recare a Mercato San Severino, accorciando di molto i tempi di percorrenza.

Questo tunnel, durante i bombardamenti alleati del 1943 ospitava le famiglie della zona e sono state incise numerose croci (forse in segno di preghiera o per qualche decesso) che hanno trovato un riparo sicuro. Altro primato del tunnel dell’orco è la doppia inaugurazione, la prima il 31 Maggio 1858 (vedi foto), alla presenza del vescovo di Nocera e del ministro delle finanze borbonico, per l’occasione il tunnel fu illuminato da dei lumini e i carri venivano spinti a mano.

L’inaugurazione ufficiale, quella con il passaggio del primo treno avvenne il 17 febbraio 1861 alla presenza di esponenti di casa Savoia.

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Inaugurazione del tunnel ferroviario alla presenza di personalità civili e religiose.

La misterica maschera della città di Sarno

Mariagrazia Buonaiuto

Si avvicina Carnevale e abbiamo deciso di parlarvi di una maschera popolare che a molti non dirà nulla ma che è una delle tre maschere “riconosciute” della Campania e non appartiene a nessuna città ma a un paesino dell’Agro Sarnese-Nocerino, quella zona che gli antichi romani chiamavano Campania Felix. Stiamo parlando della maschera di Alesio e per farlo ci rivolgiamo ad uno dei massimi esperti, il prof. orazio Ferrara che gentilmente ha risposto alle nostre domande.

Alesio è la maschera di Sarno, ci puoi raccontare la sua storia?

Dal punto di vista della festa del Carnevale la città di Sarno deve considerarsi fortunata in quanto ha una propria peculiare originale maschera, che è appunto quella di Alesio. Infatti la genesi e quindi la paternità delle grandi maschere italiane, quali Arlecchino, Brighella, Pantalone, Colombina, Pulcinella, etc., è di norma appannaggio delle aree metropolitane o di importanti città. Quindi sono rare le cittadine

di provincia che possono rivendicarne una tutta loro. In Campania, dove regna sovrana la grande maschera tragicomica napoletana di Pulcinella, vi sono solo altre due maschere e ambedue originarie di centri minori: a Nola frate Braciola ovvero don Luca Scarola e a Sarno il nostro Alesio dalla faccia gialla e blu. La sarnese maschera di Alesio furoreggiò nei Carnevali dell’omonima cittadina sul finire dell’Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento, come informava lo storico Silvio Ruocco in un suo articolo sul prestigioso quindicinale “Il Carattere”, precisamente nel numero dell’8 marzo dell’anno 1926. Nello stesso articolo il Ruocco dava anche una gustosa descrizione della maschera. Successivamente Alesio dalla faccia gialla e blu cadde nel dimenticatoio, salvo poi ad essere riscoperto alla fine degli anni Settanta del Novecento. Da allora il Carnevale Sarnese ruota tutto intorno a questa maschera. Il carro allegorico che la rappresenta (annualmente in modo diverso, ma sempre nei colori canonici giallo e blu) apre ogni anno la sfilata di tutti gli altri carri.

La riscoperta della maschera fu dovuta in parte anche al sottoscritto, che all’epoca la descrisse in diversi articoli su vari periodici locali e non. Infine nel 2010, per sollecitazione dell’Associazione Carnevale Sarnese, presidente pro-tempore Carmine Buonaiuto, pubblicai un libro sull’argomento dal titolo “Alesio la maschera di Sarno e tiempe bell’ ‘e na vota”, che ebbe una larga diffusione. Ultimamente una studentessa universitaria mi ha contattato in quanto intenderebbe fare la sua tesi sulla maschera. Quindi auguri ad Alesio dalla faccia gialla e blu per mille anni ancora.

Somiglia vagamente a Pulcinella anche se ha la faccia gialla e blu... hanno un significato questi colori?

Pulcinella e Alesio indossano ambedue un largo camicione bianco, ma già il copricapo si differenzia, non nel colore che resta bianco, ma nella forma: lungo

c ARNE vALE ALE
SIO
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coppolone per Pulcinella, corto “cuppulicchio” per Alesio. Ma è nel viso che i due si differenziano. Pulcinella ha una maschera nera che si sovrappone a larga parte del viso. In Alesio il viso stesso diventa maschera, in quanto simmetricamente diviso, dalla fronte al mento, in due colori, da una parte il giallo dall’altra il blu.

A suo tempo scrissi che Alesio è in un certo qual modo il superamento di Pulcinella per via di quella sua maschera surreale e metafisica, che rimanda all’alienazione tipica del mondo moderno. Lo rivelano quei due colori, che non riflettono altro che la doppia natura dell’essere umano: celeste ed infera. Sole, calore e vita ci dice il giallo; acqua, freddo e morte ci risponde l’azzurro cupo. Eterna ambivalenza di sempre, tra disperazione e speranza, tra vita e morte.

A cosa si riferisce il vaso con le polpette?

Alesio è anche maschera dissacratrice per il suo tempo, in quanto, con gesto sacrilego per la turba dei lazzari perennamene affamati, porta sempre in mano un vaso da notte ricolmo nientemeno che di... saporiti maccheroni. è l’estrema beffa che la parte metafisica di Alesio fa alla sua rimanente parte umana. Parliamo un po’del testamento di Alesio e del suo significato allegorico.

Alesio, che sa di dover morire proprio nel giorno più allegro dell’anno, quello del Carnevale (più contraddizione di così!), nello scrivere il suo testamento lo riempie di significati riposti alludendo alla vita dolce-amara di ogni essere umano. Infatti scrive in pre-

messa: pecché chesta è ‘a vita nosta, na vota si rire e na vota se chiagne (perché questa è la vita nostra, una volta si ride e una volta si piange).

Poi rivela e prende in giro i difetti di tutti i componenti della comunità umana in cui è vissuto fino ad allora. Solo quando non si ha più niente da perdere, può cadere la maschera dell’ipocrisia, che quotidianamente indossiamo, e dire finalmente quello che si ha nel cuore ovvero la verità.

Ce n’è pure per i parenti e i santi. Sentiamo: Alli parente mieie ca song’ pegge ri cannibali nun lasse niente. Ma chi s’addà squaglià stu poc’ ‘e ‘nzogna? Chille poc’ sordarielli ca m’aggio stipati, me servono pe’ pavà quarche santo. Senza sante nun se va ‘nparaviso e Sante Mangione nascette mill’anne primma ‘i Cristo (Ai parenti miei che sono peggiori dei cannibali non lascio niente. Ma chi se lo deve squagliare questo poco di sugna? Quei pochi soldi che ho conservato, mi servono per pagare qualche santo: Senza santi non si va in paradiso e Santo Mangione nacque mille anni prima di Cristo).

Oggigiorno sembra che Carnevale abbia ceduto il passo ad Halloween... perché?

è vero solo in parte, d’altronde non dobbiamo avere timore delle contaminazioni, a patto però che non si recidano mai le nostre radici e, nel caso specifico, non si lascino morire le tradizioni delle nostre antiche e belle e fascinose maschere carnevalesche, che hanno ancora qualcosa da dire anche alle nuove generazioni dei giorni nostri.

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Orazio ferrara (a sinistra), in compagnia del regista Abel ferrara. copertina del libro di Orazio ferrara dedicato ad Alesio

L’EROISMO DEI CALAbRESI E LA bRECCIA DI AMANTEA

daniela la cava

tra le pagine di storia che riempiono volumi riposti nell’archivio della memoria si apre un capitolo che molti hanno lasciato per troppo tempo avvolto nell’oblio; un frammento della lunga storia della Calabria che racconta la resistenza eroica di un popolo, abbandonato al suo destino, e di un re fuggito per viltà e incapacità di regnare su uno stato considerato così importante da rientrare nel disegno espansionistico di Napoleone Bonaparte, divenuto da poco tempo imperatore dei francesi.

Pochi lo sanno ma all’inizio del 1800 i territori del sud, appartenenti al regno di Napoli, furono testimoni attivi di battaglie cruenti che, ancora oggi riecheggiano nella memoria delle città devastate degli assedi come Crotone, Mileto e soprattutto Amantea la cui strenua resistenza fu sottovalutata dall’esercito Napoleonico.

Era il 1805 l’anno in cui Gran Bretagna, Prussia, Impero russo, Impero asburgico e il regno di Svezia firmarono un trattato chiamato Terza

Coalizione in cui si impegnavano ad arrestare il potere crescente dell’imperatore di Francia, e neo re d’Italia, Napoleone Bonaparte. Il sud Italia, a quel tempo chiamato Regno di Napoli e di Sicilia, era dominato dai Borboni,

una dinastia di origine francese. Il re, Ferdinando IV di Borbone, inizialmente scelse di non aderire a questo patto d’intesa tra potenze europee, stipulando un pacifico accordo con la Francia e garantendo agli alleati lo stato di neutralità. Ferdinando però non rimase a lungo fedele al patto e, poco tempo dopo, suggellò una segreta alleanza con gli stati appartenenti alla terza coalizione.

Di fronte all’evidente rifiuto da parte del regno di Napoli di tenere fede all’accordo, Napoleone dichiara, nel 1806, la fine del regno borbonico sostituendolo con il Regno Napoleonico di Napoli, incoronando re del nuovo stato il fratello Giuseppe Bonaparte.

Vari furono i motivi che spinsero i cittadini calabresi alla lotta contro lo straniero, tra questi il rifiuto agli obblighi imposti dal governo napoleonico che prevedevano anche l’arruolamento dei ragazzi e degli uomini dei territori conquistati.

Per un’economia labile basata sulla produttività delle risorse locali, l’allontanamento obbligato dell’unica forza lavoro basata sull’attività agricola, avrebbe collassato l’equilibrio economico già instabile del regno, una difficoltà che i calabresi non potevano fronteggiare.

Ebbe così inizio una difesa eroica che mise a dura prova l’esercito più temuto d’Europa.

GLI ASSEDI NA p OLEONI c I IN c ALABRIA
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Un pugno di miseri calabresi si schiera contro le truppe più agguerrite d’Europa sostiene gli attacchi con fermezza” come scrisse lo storico Francesco MacDonald, testimone dell’assedio napoleonico più cruento avvenuto in Calabria.

Tra 1806 e il 1807 l’esercito francese impiegò ogni risorsa per la conquista di Amantea, ma alla fine non rimase altro modo, per porre fine alla resistenza, che aprire una breccia. Non fu facile per gli assedianti scavare sull’aspro terreno roccioso che costeggiava una fortezza impenetrabile che, nonostante le difficoltà estreme, gli amanteani riuscirono a difendere fino all’inevitabile assedio, in cui i francesi riuscirono ad abbattere le mura grazie all’esplosione di una mina.

In seguito alla breccia, Amantea crolla stremata dalla guerra, dalla mancanza di rifornimenti e dalle malattie, mentre il re Ferdinando, incurante della condizione dei suoi

sudditi, dimora felicemente in Sicilia protetto dagli alleati. L’eroismo della popolazione non passerà inosservato ma rimarrà impresso nella memoria del luogo tra gli echi di guerra e i sussurri di pace, voci che hanno attraversato il tempo senza mai trovare riposo.

Oggi Amantea è una riconosciuta località turistica e balneare, una cittadina che emerge dalla roccia per affacciarsi nel limpido mare Tirreno tra i sabbiosi lidi che ogni estate attraggono folle di turisti.

Camminando tra i vicoli del borgo antico, che affiancano i resti delle antiche mura, spicca la suggestiva targa viaria che dà il nome alla via, creata in occasione del bicentenario dell’assedio napoleonico, come una testimone immobile di un popolo orgoglioso delle proprie radici, disposto a perdere la vita per vivere libero e non prigioniero nella propria terra.

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A PISCARIA

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Il pittoresco mercato di Catania

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