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ANNO 1 NUMERO 3 DISTRIBUZIONE GRATUITA ONLINE

Un popolo di poeti

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L’e d i t o r i a l e Mario Stazione

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Eccelenze artigianali grazie a internet… Mozzarella in vendita con piattaforme on line e anno per anno acquisiscono nuovi e tanti clienti. Grazie all’avvento dei “marketplaces on line” attuabili sui vari social e all’ e-commerce con il quale conviviavamo ormai da diverso tempo, si riesce dunque a contrastare la crisi economica e a dare nuovi posti di lavoro con scenari tutt’altro che catastrofici.

Siamo stati ospiti negli uffici di Aversa (CE) dell’azienda “Regina Sofia”, eccellenza dell’Agro Aversano che produce e commercializza la “mozzarella di bufala campana DOP” e abbiamo colloquiato con l’amministratore dottor Giuseppe Benvenuto, orgogliosamente autoctono, dei progetti e di questa bella realtà che si è posta sul mercato globale e sta diventando un fiore all’occhiello di tutta la Regione Campania e presto del Sud. Il giovane imprenditore ci ha illustrato il semplice ma ambizioso progetto aziendale che sta attuando. Ci ha raccontato che un giorno per gioco, a margine di un conviviale incontro con due amici, facenti parte dell’organizzazione di cui stiamo raccontando, nel mangiare proprio il gustoso elemento culinario bianchissimo, nacque l’idea di sviluppare e di attuare un progetto serio e solido, basato sulla bontà del prodotto e sfruttando le linee programmatiche in fatto di vendite delle piattaforme di E-bay e Amazon Prime. In appena cinque anni di vita sono riusciti a raggiungere la copertura totale del Nordest Nazionale e la Toscana. La cosa esilarante è che sono riusciti a vendere con costanza e crescita a macchia di leopardo in Marocco, Canada, Cina e da pochissimo si sono affacciati negli Emirati Arabi avendo addirittura aperto uno showroom (così lo ha proprio chiamato) in una piazza centralissima di Dubai e pare che stia ben funzionando. Il bello di questa vicenda è che gli investimenti per partire nella realizzazione di questa organizzazione sono stati poco meno costosi di una vera e propria start-up. Oggi, erano in tre, sono arrivati già ad annoverare più di cinquanta dipendenti tutti assolutamente del posto che stanno collaborando alla creazione di altri scenari merceologici e nuove prospettive di mercato. Breve cenno di come viene realizzato il prezioso articolo gastronomico : al mattino molto presto, si fanno pervenire il latte appena munto, raccolto dalle varie fattorie presenti sul territorio, élite dell’intera filiera, al sito di stoccaggio e produzione, dopo averlo fatto cuocere, i mastri casari, vera e propria arte da preservare e tramandare di padre in figlio, lo vanno a produrre e renderlo sempre più speciale. Il termine mozzarella deriva dal nome dell›operazione di mozzatura compiuta per separare l›impasto in singoli pezzi. È spesso definita regina della cucina mediterranea, ma anche oro bianco o perla della tavola, in ossequio alle pregiate qualità alimentari e gustative del prodotto. L’elemento caseario parte dallo stabilimento di Aversa, nel bellissimo packaging, addirittura avveniristico, ma, con un tocco ai vecchi fasti nel ricordo dei nostri nonni, garantendone la fragranza, quotidianamente entro le ore otto per farlo arrivare l’indomani nei punti di raccolta e distribuzione, cosicché possa essere preciso e farlo regnare sulla tavola del singolo consumatore finale. Bene: siamo arrivati alla fine di questa nostra avventura e abbiamo capito che il lavoro tradizionale ormai è diventato obsoleto e che forse realmente possiamo essere più ottimisti per il futuro dei nostri giovani del Sud. M A G A Z I N E


SOMMARIO

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STORIA /I SANNITI LA DAMNATIO MEMORIAE

Registrazione n 1 - marzo 2021 Tribunale di Nocera Inferiore

Anno 1 - Numero 3 chiuso il 24/02/2022

STORIA / territorio napoli, questa sconosciuta

12 PERSONAGGI GIUSEPPE MOSCATI, IL MEDICO SANTO 14 LUCANIA/mEMORIA I 600 MORTI DIMENTICATI

Direttore Responsabile Mario Stanzione Direttore Editoriale Fernando Luisi (Ferdinando l’Insorgente)

17 TRINACRIA DA PALERMO A NEW YORK I GIOIELLI DI FEDERICO ii / TRADIZIONI 18 FESTE A NAPOLI IL CARNEVALE SI CHIAMA VINCENZO NON TUTTI SANNO CHE 21 FORSE LA “DIFFERENZIATA” A NAPOLI NEL 1800

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Editore Creative Media Srl

LA GRANDE CANZONE NAPOLETANA ERA DE MAGGIO

24 MITI IL MITO DELLA FATA MORGANA

Redazione Mimmo Bafurno Cinzia Bisogno Immacolata Brignola (Stella Brignola) Giuseppina Iovane Daniela La Cava Mino Paolillo Angelica Sarno Edoardo Vitale IN COPERTINA Una poesia pubblicata su un palo della luce, da un autore anonimo, dimostra quanto sia viva e presente la poesia nel popolo ausonico

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/ CALABRIA 25 ECCELLENZE IL SALUME SPALMABILE

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ANNO 1 NUMERO 3 DISTRIBUZIONE GRATUITA ONLINE

Un popolo di poeti

IPERREALISMO DI UN’ARTISTA

26 arte IPERREALISMO DI UN’ARTISTA FOTO DEL MESE 28 LA NISIDA M A G A Z I N E

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STORIA / I SANNITI

LA DAMNATIO MEMORIAE La cancellazione della memoria storica Sannitica Ferdinando l’Insorgente

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a damnatio memoriae, esercizio giuridico utilizzato ai tempi degli antichi romani, è una locuzione latina che si usa per la cancellazione, non sempre intenzionale, della memoria di periodi storici, persone o ideologie in quanto ritenuti negativi. Questo esercizio è, ovviamente, praticato dai vincitori. Quando un popolo è perdente, anche la sua cultura è perdente, viene cancellato dalla storia. Nei libri scolastici spesso quel popolo e la sua cultura vengono a mala pena citati, spesso presentati negativamente, irrisi, demonizzati.

Qualche volta neanche compaiono nei libri scolastici. E questo è stato, almeno per ora, il destino dei Sanniti e della loro cultura, vittime della damnatio memoriae. I Sanniti, senza paura di essere smentiti, sono stati gli unici a contrastare con efficacia l’egemonia romana nella penisola. Il periodo di massima rilevanza storica dei Sanniti si sviluppa in un arco temporale compreso tra la fine del IV secolo a.C. e il termine delle Guerre Sannitiche, cioè nella prima decade del III secolo a.C. Tra il 500 e il 290 a.C. vi fu l’Epopea Sannitica e durante questo periodo prese forma il modello di governo federale, come unione di più comunità. Ma lo spirito e il profondo senso di libertà di questo popolo continuarono anche dopo.

Affresco di una tomba sannitica rinvenuta a Nola (non Paestum!), già facente parte della collezione del duca Carafa di Noja, oggi nel Museo archeologico nazionale di Napoli (inv. nr. 9363). [Tomba Weege 30]. Mostra il ritorno di guerrieri sanniti dalla battaglia. M A G A Z I N E


Solo dopo le fine delle Guerre Sociali, Roma con le sue legioni portò a termine l’operazione di “risanamento”, con la desertificazione del Sannio e la distruzione di ogni testimonianza della cultura dei Sanniti. La storiografia antica, peraltro scaturita dallo stilus di personaggi non coevi alle vicende descritte come Tito Livio e Tacito, è stata spietata nei confronti dei Sanniti, valorizzati per la loro indole guerriera e il grande spirito di libertà, ma spesso definiti rozzi, ostili e sanguinari. Su questo clichè ha continuato anche la storiografia moderna. Bisognerà attendere un italo-canadese, Edward Togo Salmon e Adriano La Regina, tra la fine degli anni 60 e la fine degli anni 80, per avere una visione super partes e non filoromana. Ma oggi la fase storiografica è molto propizia agli studi, specialmente quelli locali. Questo è valido sia per l’area italica sia per il resto del mondo romano. I progressi dell’archeologia (operazioni di scavi, ricognizioni di superfici, ritrovamento di manufatti e studi sulla loro circolazione) costituiscono il bagaglio degli strumenti degli storici veri. Ovviamente i risultati raggiunti con questi strumenti spesso vanno in contrasto con le generalizzazioni e le affermazioni dogmatiche appartenenti alla vecchia storiografia. Per i Sanniti sta avvenendo proprio questo. Un esempio ci proviene dagli scavi dell’area archeologica di Monte Vairano un territorio montuoso che guarda il massiccio del Matese, a pochi chilometri dal capoluogo molisano di Campobasso, tra i comuni di Busso e Baranello. L’artefice di queste ricerche è il professor Gianfranco De Benedittis, archeologo sannita, e i suoi studenti dell’Università del Molise. Gli scavi archeologici hanno permesso di far riaffiorare un sito risalente al IV secolo a. C. ed ebbe il suo pieno sviluppo fino al VI secolo a.C. Un’area di 50 ettari, circondato da mura. Gli scavi hanno dimostrato due aspetti: l’elevato livello di vita dei Sanniti e la veemenza dell’antagonismo romano nei confronti del Sannio. Infatti, riferendoci a questo secondo aspetto, gli studi dei materiali ritrovati (rovine gettate sul selciato delle strade e nelle cisterne d’acqua volutamente per impedire la viabilità e l’approvvigionamento idrico) hanno datato la

la Damnatio... in metal

Al Buio Il capo era silenzioso Per tutta l’eternità Cancellato dalla memoria Riflettendo i suoi desideri Girovagare per il mondo Per viaggiare da cielo a cielo Per lasciare il segno in tempo Follia immortale Cancellato dalla storia Alla fine Chiuse gli occhi E si diede ai sogni Traduzione del testo del brano musicale Damnatio Memoriae (2013) dei Suidakra, band tedesca death metal con influenze folk metal formatasi a Dusseldorf nel 1994

distruzione dell’abitato intorno all’88 a.C., quando Lucio Cornelio Silla con le sue truppe penetrò, distrusse e desertificò il Sannio, preoccupandosi di cancellare definitivamente il popolo sannita e la sua storia. Le cisterne e le strade scoperte sono però la testimonianza di una civiltà di elevato sviluppo. Il sistema di raccolta delle acque risulta dagli scavi davvero imponente, sia per la capacità delle cisterne, sia per la caratteristica del canale di adduzione, delimitato e protetto da mura robuste poligonali alti due metri e larghi tre metri. La cisterna più grande è profonda tre metri e con una larghezza 7X9 metri. Il dato raccolto sulla viabilità ha permesso di evidenziare come le strade di questo agglomerato fossero di gran lunga più larghe di quelle romane che si possono osservare a Sepino o a Pompei. Risulta sorprendente anche l’importante grado di sviluppo dell’attività commerciale raggiunto dal popolo sannita, in contrasto sui giudizi negativi sul grado di sviluppo dell’economia sannita, espressa sia dalla storiografia antica che moderna. Materiali provenienti da tutto il Mediterraneo (anfore vinarie di Rodi, anfore tunisine e marsigliesi, monete di città che si affacciano sull’Adriatico orientale) ci confermano il livello di civiltà raggiunto dai Sanniti. D’altronde sin dagli studi condotti da Adriano

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La Regina ha evidenziato la partecipazione di alcuni membri delle élites sannitiche alle lucrose attività commerciali intraprese nel Mediterraneo orientale dalla seconda metà del II sec a.C. Tutto questo è stato ritrovato sotto due metri di terra e questa città, riportata alla luce, può ancora riservarci sorprese rivoluzionarie che potranno rendere giustizia al grande popolo sannita, ripristinando la verità storica. Nonostante tutto la Damnatio Memoriae continua ancora la sua opera, passando dallo stilo di un tempo alle sottili armi della burocrazia di oggi, che non vuole la lupa capitolina umiliata e incornata dal toro sannita, immagine proposta nel denario sannita in argento del Bellum Sociale. Gli scavi di Monte Vairano del professor Gianfranco De Benedittis, i cui risultati sono stati precedentemente riportati in sintesi, sono consultabili in una preziosa monografia dell’archeologo molisano (Gianfranco De Benedittis, Monte Vairano – Distruzione Oblio Rinascita. Banca Popolare delle Province Molisane, Campobasso 2018). Sulla civiltà dei Sanniti sicuramente lo storico E.T. Salmon rappresenta uno dei riferimenti più importanti. Abile descrittore della civiltà di questo popolo, Salmon si rifà alle documentazioni letterarie degli storiografi antichi e moderni, ma anche alle testimonianze rilasciate dalle ricerche archeologiche conosciute all’epoca della uscita del suo libro “Il Sannio e i Sanniti”. Un popolo, quello Sannita, descritto da Salmon come una popolazione che viveva principalmente di pastorizia, con un’agricoltura sussidiaria, abituata a vivere per “vicus”, con pochi agglomerati urbani di rilievo, abitatori di casali (agglomerati rurali). Dopo le Guerre Sannitiche quel territorio subì una feroce repressione, quindi, un inevitabile trasformazione verso una cultura più urbanizzata. L’opera di Salmon riflette le testimonianze archeologiche conosciute in quel periodo dell’uscita del libro e delle sue riedizioni, per cui i capitoli sull’arte, sull’architettura, sul commercio vengono descritti con livelli di sviluppo non esaltanti. Ecco perché l’esperienza archeologica di Monte Vairano rappresenta un momento essenziale per la riscrittura di questi capitoli. Sul piano filosofico ci viene incontro la testimonianza di Cicerone che nel “Cato maior de

senectute (XII 39-41” racconta, tramite Nearco, dell’incontro tra l’Archita di Taranto, Platone e Caio Ponzio Sannita (si tratterebbe di Erennio), padre del comandante dell’esercito sannita che sconfisse i romani alle Forche Caudine. L’incontro si svolse a Taranto. Probabilmente si discusse dei pregi della vecchiaia e della applicazione di principi filosofici nella definizione di rapporti geometrici. La partecipazione di Erennio a questi momenti culturali fu importante in quanto la sua partecipazione agli insegnamenti della scuola tarantina. I principi pitagorici furono recepiti e riportati nel Sannio. Elementi di cultura tarantina ritrovate a Pietrabbondante ci confermano dei legami esistenti tra le due popolazioni. La produzione sacrale del Sannio avrebbe un’unica origine nella tradizione pitagorica Salmon, nella sua opera è di tutt’altro avviso, non convinto dei buoni livelli della cultura sannitica, ritenendo non attendibili le affermazioni di Nearco sulle doti intellettuali di Erennio. Affermazioni solo in via di principio dello storico Salmon. La natura dell’organizzazione politicocostituzionale dei Sanniti è un altro capitolo meritevole di attenzione. Resta comunque di difficile soluzione per la povertà di documenti

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disponibili. Gli studi consolidati hanno però confermato che i Sanniti erano organizzati nella cosiddetta “lega sannitica” fenomeno federativo di grande importanza sia per l’epoca di realizzazione, sia per la partecipazione di varie popolazioni. Anche per questo argomento l’opera di Salmon rappresenta la formulazione più completa, ma dal 1967 (prima edizione della sua opera già citata) ad oggi il panorama si è notevolmente arricchito grazie alla ricerca archeologica ed epigrafica. Il dibattito sulla questione politico-istituzionale si è infiammato tra la tesi di Salmon di una popolazione confederata in quattro stati (Staatebund), corrispondenti alle quattro tribù sannitiche (Carricini, Pentri, Caudini e Irpini), e quella denominata “nazional unitaria” di La Regina di una nazione Samnium, una “touta” ovviamente con il tempo ridimensionata a cause delle guerre sannitiche. Interessanti gli sviluppi in senso federale (Bundesstaat) sull’esistenza o meno di una “sympoliteia” e cioè l’esistenza di un cittadino federale che è nello stesso tempo cittadino di quello stesso stato membro, rappresentato da semplici città o cantoni. Il dibattito quindi sull’assetto politico istituzionale

dei Sanniti si sviluppa, fondamentalmente, su tre diverse concezioni dello Stato: • Stato Confederale o Staatebund; • Stato Nazional-Unitario o Touta; • Stato Federale o Bundensstate. Secondo la tradizione letteraria, tra il IV e il III secolo a.C., i Sanniti possedevano un’organizzazione federale, dove la questione se fosse una Confederazione o uno Stato Federale resta tuttora aperta. Il modello politico-istituzionale (Federale o Confederale) dei Sanniti rappresenta tuttora un dibattito attuale, per esempio, tra il modello europeo degli Stati-Nazione e quella dell’Europa dei Popoli. Un recente contributo storico e culturale sul mondo dei Sanniti vede ancora protagonista l’archeologo molisano, già citato precedentemente, Gianfranco De Benedittis nelle sua “I Sanniti-Una storia negata”. Un libro dal titolo importante, che lascia già intendere il “taglio” che l’autore ha voluto conferire al suo saggio. Non più una visione romano centrica delle vicende di questo grande popolo italico, ma una serena e, per certi versi, sorprendente presentazione di una civiltà che merita la sua giusta considerazione e non relegata ai margini della storia. De Benedittis è un professore sempre pronto ad assumersi le sue responsabilità scientifiche, mettendo nero su bianco dati scientifici, da lui personalmente messi in luce grazie all’aiuto degli studenti/archeologi dell’Università del Molise Il Sannio e i Sanniti, alla luce di queste considerazioni, frutto di un’attenta rilettura della storiografia classica, di un’archeologia moderna, meritano un posto di rilievo nel dibattito storico senza l’etichetta di perdenti e cancellando la Damnatio Memorie. Ma è anche necessario, nella ricerca archeologica, un cambio di mentalità, abbandonando la visione proprietaria del patrimonio. Musei, monumenti o territori non vanno considerati cosa propria; non servono fili spinati o muri; ben vengano collaborazioni e integrazioni disciplinari; le decisioni non siano unilateralmente su chi può lavorare e chi no (ignorando competenze e qualità, considerando amicizie e convenienze); non si possono dare concessioni degli scavi senza un confronto e una concertazione tra i contendenti; il patrimonio non va gestito con i principi della mercificazione.

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STORIA / TERRITORIO

Napoli, questa sconosciuta

L’amore per la verità non si recinta chiudendo gli occhi sulle molte altre menzogne Edoardo Vitale

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iscussa, controversa, fraintesa. Scandalosa e innocente, estroversa e schiva, Napoli affratella e divide. All’obbiettivo del fotografo consegna le sue esagerazioni: bellezza e degrado. Avvicinarsi al suo segreto non è da tutti: chi ha i neuroni vetrificati dal conformismo non esce dalla palude della banalità. Bisogna saper ascoltare il respiro nascosto delle pietre, risolvere il rebus delle prospettive, ascoltare la musica arcana degli sguardi e delle voci. Traviati dal demone della pigrizia mentale, i più rinunciano all’impresa, i mediocri si adagiano senz’altro nel soffice materasso dello stereotipo e del pregiudizio, contrario o favorevole, e la questione è archiviata senza fare un passo avanti. Altri cercano, giudicano indigesti i luoghi comuni, ma non trovano le chiavi giuste per cominciare a capire. Non li aiuta la schiera insidiosa dei divulgatori “a binario unico”. Quelli che, secondo un contagioso vizio internettiano, forniscono montagne di dati, notizie, aneddoti, spesso poco attendibili, senza, però, tentare una visione d’insieme.

Statua di San Gaetano (1657-60), nella omonima piazza situata sul Decumano maggiore, chiamata anche Spaccanapoli.

Bisogna capirli. Nell’aria rarefatta delle alture, su cui occorre ascendere per decifrare le linee-forza del feno meno Napoli, servono polmoni allenati, abitudine al libero pensiero e impermeabilità alle piogge acide del “pensiero debole” globalizzato. Il guaio è che spesso non ci si limita a sciorinare i dati raccolti, ma si rende il rituale tributo al perbenismo culturale e al “politicamente corretto”, cercando di spingere fuori strada il volenteroso neofita. L’Alfiere, ricorda da 53 anni che l’amore per la verità non si recinta e che non si può attaccare la vulgata sul cosiddetto risorgimento chiudendo gli occhi sulle molte altre menzogne convenzionali confezionate ad arte per perpetuare le ingiustizie del mondo. Proviamo allora ad affrontare il problema Napoli che a sua volta evoca il problema dell’identità, di un individuo come di un popolo muovendo da lontano, per cerchi concentrici, a grandi linee. Si ridurrà, così, il rischio di essere messi fuori strada dalle sirene del partito preso. Intanto, proclamiamo subito che il nostro approccio è fondato sulla tradizione, dinamicamente intesa come visione del mondo e della vita che si trasmette da una generazione all’altra e che determina comportamenti individuali e collettivi regolati da un sistema di norme generalmente condivise, per lo più non scritte. Senza tradizione, in un mondo immerso nel fluire della storia, l’identità diventa evanescente o si smarrisce, come possiamo verificare oggi più che mai, nella misura in cui si realizzano i disegni livellatori del mondialismo materialista e usuraio. Una volta trovato, innanzitutto mediante la tradizione, il suo “posto” nel mondo, l’uomo può esercitare nel modo più pieno e autentico le proprie qualità, sentire la presenza viva di chi è già passato su questa terra, dialogare e confrontarsi con le altre culture con arricchimento reciproco e contribuire a sua volta a far evolvere i comportamenti e i costumi che si innestano sul nucleo profondo del retaggio avìto. Identificare i connotati e i contorni di una determinata tradizione è, però, impresa ardua. Come quando una stella, su cui si concentra lo sguardo, sembra dopo poco essere assorbita dal cielo notturno, così la tradizione, non diversamente dalle grandi categorie della logica e dell’esperienza, come l’amore, l’arte, la religione, per chi si accanisce a circoscriverla, sembra divenire indistinguibile.

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SpaccanApoli

Se, invece, proviamo a girarle attorno, a muovere lo sguardo senza perderla di vista, allora continueremo a vederla brillare e ne riconosceremo i tratti inconfondibili. Ma torniamo alla nostra Napoli e facciamolo cercandola nell’altrove; attraverso qualche elementare domanda. 1. Dov’è che negli infiniti luoghi del mondo, ci sembra di sentire, più o meno in lontananza, l’eco familiare del canto della sirena Partenope? 2. Dov’è che i nostri sensi di napoletani percepiscono una bell’aria di casa? L’interrogativo contiene già un indizio. La casa rimanda, infatti, al concetto di ospitalità. Che ha a che fare solo marginalmente con il comfort. Ci sono posti dove tutto è impeccabile, l’accoglienza, superficialmente intesa, è al massimo delle stelle, addirittura lussuosa, eppure l’animo si sente oppresso dalle convenzioni, non può liberarsi nella beatitudine della familiarità. Ce ne sono invece altri dove la gente è abituata ad aprire la propria casa all’ospite facendosi un punto d’onore di farlo sentire a casa sua. Allora un igloo, una povera capanna nel deserto mongolo o nell’Africa equatoriale, una casa di pescatori nella Terra del Fuoco, per quanto scomodi e disadorni, diventano luoghi magici in cui possono sbocciare amicizie indistruttibili. Là, un napoletano si sente “a casa”. E come lui tutti quelli nelle cui vene circola la tradizione dell’ospitalità. Gli altri, in quegli stessi luoghi, se non hanno una crisi di rigetto, vivono un’esperienza elettrizzante, a volte catartica, proprio per contrasto con la cultura in cui sono cresciuti. Perché l’ospitalità ha a che vedere con i concetti di amicizia, di onore, di fraternità autentica; con la percezione della solidarietà che nasce dalla comune condizione umana, dalla consapevolezza del nostro legame con Madre Natura e quindi con gli altri esseri viventi, dal sentimento della nostra caducità, che rende struggente ogni bellezza. Ci avviciniamo, così, all’essenza della spiritualità umana. Un’essenza dimenticata, o accantonata, in una grossa parte del mondo. Quella dominata dal materialismo economicista.

Questo non vuol dire che anche da noi le ideologie del mondialismo non siano penetrate. Però si scontrano ancora con la coriacea tradizione che rendeva Napoli, secondo Marcello Mastroianni, “la città meno americanizzata d’Europa”. Comunque siamo in buona compagnia. Sono ancora tante le culture fondate sulla tradizione dell’ospitalità, che significa anche gratuità. Si dà il caso, però, che non occorre allontanarsi tanto dal Vesuvio per imbattersi frequentemente in atteggiamenti contrari. L’afflusso di milioni di meridionali non è bastato, ad esempio, a rendere minoritaria la diversa concezione dell’ospitalità che vige in molte zone del

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La stazione Centrale di Napoli, i binari sotterranei prima dello scempio della creazione di Piazza Garibaldi

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Nord Italia. Chi c’è vissuto può testimoniarlo. Salvo eccezioni che vengono riconosciute come tali, l’accoglienza in casa non è, per la maggioranza dei settentrionali, il punto di partenza di una nuova conoscenza, ma il sospirato approdo di una lunga e graduale frequentazione, passata attraverso il filtro di molteplici diffidenze e ritrosìe. Prima di giungere a questo traguardo, quando vi si giunge, vi è una serie di impliciti scostamenti, di prese di distanza, che farebbero sentire in tutta la sua pesantezza la solitudine, se non si trovasse la mano tesa di chi vive la stessa condizione: gli estrosi, i non convenzionali, oppure gli altri “meridionali”, intendendo con questo termine non solo gli abitanti dell’antico Regno delle Due Sicilie o delle zone limitrofe, ma anche gli stranieri che condividono la famosa tradizione di cui si è detto. Questa esperienza, a conferma di quanto affermato da Max Weber nel suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, può essere vissuta in vari paesi del Nord Europa, soprattutto in quelli appartenenti alla cultura anglo-sassone-luterana. Solo apparentemente, e fino a un certo punto, si discostano dalla regola le isole multietniche costituite dai grandi centri di raccolta di studenti, ricercatori, affaristi, ove alligna un miscuglio culturale devitalizzato sottoposto alle regole grossolane e indifferenziate del freddo globalismo internettiano, che invano si cerca di umanizzare con foto, emoticons, decori e facezie consimili. Possiamo dunque dire che Napoli – ferma restando l’approssimazione di questo giudizio – appartiene al vasto schieramento multiculturale distinto da una concezione aperta e immediata dell’ospitalità. È per questo che siamo capaci di stabilire anche al primo contatto rapporti di simpatia, confidenza e amicizia con persone che vivono all’interno degli stessi “confini invisibili”. Greci, spagnoli, portoghesi, latinoamericani ci riconoscono loro affini con istantanea naturalezza. E, per rimanere in Europa, non diversamente accade, anche se a volte si deve scavalcare la fragile barriera di un pregiudizio alimentato dai media, con irlandesi, francesi, russi, polacchi, slovacchi, rumeni, ecc.

Ma l’ospitalità è il distillato di una visione del mondo che pone al vertice della scala dei valori i legami interpersonali fondati sulla forza della solidarietà, che avvicina l’ospite alla condizione di familiare e che, dunque, negherebbe se stessa se non fosse gratuita. La gratuità è l’opposto della concezione mercantilistica della vita diffusa su scala mondiale, nei tempi recenti, soprattutto dall’imperialismo britannico prima, e americano, poi. Anche se questa concezione minaccia sempre di più e costantemente la tradizione del nostro Sud, il motto Il tempo è denaro trova ancora resistenza, nella nostra terra, dove ha sempre imperato l’idea che il tempo è vita. La solidarietà a sua volta scaturisce dal riconoscimento della nostra condizione di figli di Dio e, dunque, di fratelli destinati a compiere il loro viaggio terreno insieme con infiniti altri esseri nel grembo di una natura animata, da rispettare e preservare. Anche questo, a ben vedere, accomuna nel profondo il napoletano a tutti i popoli “dell’ospitalità”. Mentalità e disposizione d’animo e d’intelletto che, per quanto ci riguarda, discendono direttamente dalle antiche civiltà del Mediterraneo, di cui quella ellenica ha lasciato le tracce più illustri e durature. A questo punto porci il problema di ciò che distingue la civiltà della nostra Napoli da quelle che pure fanno parte di questo fronte tradizionale “dell’ospitalità e del rifiuto della tirannia del denaro”, provando a sottolineare le nostre peculiarità. Le ritroviamo soprattutto nel fatto di appartenere all’Europa, ma non l’attuale, deforme Comunità dei banchieri e degli usurai: un’altra Europa, quella che gli ultimi secoli hanno relegato fra i vinti della storia, ma che non è affatto tramontata e custodisce un’eredità spirituale così ricca e preziosa da renderla potenzialmente in grado di trovare le terapie giuste per rimediare alle micidiali follie di un’avida e dissennata modernità senza freni e senza memoria. Un’appartenenza piena e sentita, che fa comprendere quale solenne stupidaggine sia la pretesa giacobina di certi falsi gettonati intellettuali nostrani che Napoli cominci a scimmiottare città svizzere e scandinave. Siamo stati grandi quando eravamo noi stessi. Andare a rimorchio di carri altrui non ci piace, anzi, ci predispone alla resistenza passiva, se non al sabotaggio. Per l’ubicazione nevralgica del suo territorio, in un crocevia di culture, Napoli e il suo Regno hanno rappresentato un formidabile baluardo e avamposto della concezione del mondo risalente all’eredità greco-romana (della quale diedero al mondo interpreti insuperati nella filosofia e nel diritto), all’idea imperiale di un ordine conforme a giustizia, nuovamente vivificata dalle stirpi germaniche, e all’orgogliosa, secolare milizia sotto i vessilli del cattolicesimo. Perché, con buona pace di alcuni pretenziosi esegeti della napoletanità, i quali per pigrizia o per astuzia continuano a propagandare quell’antispagnolismo, che Silvio Vitale, e ormai anche altri, tra cui Aurelio Musi,

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indicano tra i fondamenti ideologici dell’evento denominato risorgimento, la nostra storia non conosce anacronistiche fratture fra “secoli bui” delle cosiddette dominazioni e alba radiosa dell’indipendenza nazionale, che si vorrebbe ascrivere a esclusivo merito della dinastia borbonica. Il secolo d’oro della città che appropriatamente Jean Noël Schifano definisce greco-spagnola, è individuato da Francisco Elías de Tejada in quel ’600 partenopeo che infiammò d’entusiasmo Cervantes e che ancora grida la sua grandezza dalle pietre, dalla gestualità, dalla sonante parlata di Napoli; non Viceregno, ma Regno in un Impero di cui era parte viva e che pur tra mille contraddizioni difese con valore in più continenti; Stato ricondotto a unità contro l’inaudita e disgregante prepotenza dei feudatari erettisi a “reguli”. Popolo che grazie alla saggezza di re Filippo III mantenne la propria lingua, contro l’ispanizzazione forzata proposta da Tommaso Campanella, e che respinse l’Inquisizione di rito spagnolo come offensiva dei propri sentimenti cattolici.

Mi è venuto in mente, mentre os“servavo la sera scendere su Napoli, un brivido di compassione per me stesso, l’idea di cominciare a vivere da vecchio e lacrime e, all’ultimo istante, la sensazione di essere ancora in tempo per salvarmi (Friedrich Nietzsche, autunno 1881)

Portabandiera di un’Europa mediterranea, ma non solo; rivolta al mondo a viso aperto e senza complessi grazie alla sicurezza della sua identità e alla forza della sua impareggiabile vocazione all’accoglienza e alla comprensione delle diversità; fedele continuatrice di un’Europa antica e perenne, dimenticata o diffamata per la sua refrattarietà alle metamorfosi sociali e culturali strumentalmente alimentate da interessi stranieri, e per la sua caustica ironia, che sferza giustamente ogni forma di ipocrisia, di fanatismo e di prosopopea. Indizi significativi di questa Napoli li ritroviamo in un “altrove” più vicino, come le provincie dell’antico Regno continentale, dove l’affabilità e la raffinata civiltà della gente ricordano quella qualità che i viaggiatori solevano associare alla nobile capitale, definita universalmente “Città Gentile”. Una gentilezza che il disincanto delle recenti tragedie hanno velato, ma che persiste e sa soccorrere nei momenti importanti. Visitare le provincie dell’antico Stato, assaporare le ricche sfumature di una cultura che ha i tratti dell’unicità aiuta a comprendere la nostra Napoli. Perché la città di Vico non è mai stata un

municipio (ed è per mortificarla che i Savoia hanno dato questo nome a una delle sue più belle piazze), ma una Capitale, vissuta negli ultimi secoli in simbiosi con le altre parti del Reame, che concorsero a ingrandirla e abbellirla e alle quali offrì una proiezione internazionale, immergendone i contributi ideali in un crogiolo quanto mai ricco e fecondo, in cui l’originale può diventare universale e il bello sublime. Non è concepibile rivalità, fra Napoli e i territori circostanti, perché a Napoli diedero e da Napoli riebbero, in proporzioni non sempre equivalenti, ma con un risultato complessivo comunque mirabile. Molte altre, comunque, sono le stanze nascoste dell’anima di Napoli. Basti pensare alla particolarissima confidenza che i figli di Partenope stabiliscono con la divinità, sfaccettata nelle mille figure di un pantheon cattolico così affine a quello ellenico. Alla familiarità con l’idea della morte, lasciata affiorare con la naturalezza che solo un’ancestrale saggezza può donare. Al culto del paradosso, che avvicinando gli estremi aiuta ad abbracciare il mondo in tutte le sue apparenti contraddizioni. Uno scrigno di gemme taglienti, che danno le vertigini. Noi cominciamo ad aprirlo, limitandoci a suggerire, a grandi linee, le coordinate della dimensione territoriale, storica e ideale entro cui va ricercato il mistero di Napoli. Con cuore e mente liberi, facendo tacere l’ottuso baccano del Pensiero Unico. Non per svelare quel segreto, ché sarebbe impossibile, ma per immergersi in esso traendone la luce e la forza che occorrono per salvare, con la nostra meravigliosa madre dal grande cuore, un sogno universale di armonia e giustizia.

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PERSONAGGI

GIUSEPPE MOSCATI, IL MEDICO SANTO Angelica Sarno

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edico, professore universitario, fervido cattolico, filantropo, Santo, questi gli aggettivi che vengono, da sempre accostati a Giuseppe Moscati, che è vissuto tra la fine dell’800 e il primo ventennio del 900. Giuseppe Maria Carlo Alfonso Moscati, o Peppino, come verrà chiamato da amici e parenti e come lui stesso, si firmava nelle lettere confidenziali, nasce nel 1880 a Santa Lucia di Serino in provincia di Avellino (che nel Regno delle Due Sicilie era il Principato Ulteriore), settimo di nove figli di Francesco, Magistrato del Regno e Rosa De Luca, dei Marchesi di Roseto. La famiglia si trasferì a Napoli e Giuseppe si iscrisse al ginnasio presso l’Istituto Vittorio Emanuele a piazza Dante, e conseguì, nel 1897, la “licenza liceale d’onore”. A dodici anni l’amore per la medicina quando incominciò ad assistere il fratello Alberto, infortunatosi seriamente per una caduta da cavallo durante il servizio militare e rimasto soggetto ad attacchi di epilessia. Dopo il liceo s’iscrisse, nel 1897, alla Facoltà di Medicina, nell’ottica di considerare l’attività del medico come un missione sacerdotale. Il padre morì alla fine dello stesso anno, colpito da emorragia cerebrale.

Nel 1903 si laureò a pieni voti con una tesi sull’ureogenesi epatica considerata degna di stampa. Dopo pochi mesi si presentò ai concorsi per assistente ordinario e per coadiutore straordinario agli Ospedali Riuniti degli Incurabili, superando entrambe le prove, risultando anzi secondo in quello per assistente ordinario.

Chi ha metta, Chi non ha prenda “ (Giuseppe Moscati) ”

Nell’aprile 1906, il Vesuvio incominciò a eruttare ceneri e lapilli su Torre del Greco mettendo in pericolo un piccolo ospedaletto (succursale degli Ospedali Riuniti, presso cui era coadiutore straordinario), il Moscati si recò sul posto, contribuendo a salvare gli ammalati, dei quali ordinò l’evacuazione, completata poco prima del crollo della struttura; l’intervento tempestivo di Moscati è stato considerato essenziale per evitare una tragedia. Dopo aver superato il concorso di assistente ordinario per la cattedra di Chimica fisiologica, incominciò a svolgere attività di laboratorio e di ricerca scientifica nell’Istituto di Fisiologia dell’ospedale per malattie infettive Domenico Cotugno. Divenne socio aggregato alla Regia Accademia Medico-Chirurgica. Nel 1911, un’epidemia di colera colpì Napoli, e Moscati fu chiamato dall’Ispettorato della Sanità Pubblica, presso il quale presentò una relazione sulle opere necessarie per il risanamento della città, in parte condotte a compimento. Fu inoltre proposto per la libera docenza in Chimica biologica. In quello stesso anno, ancora trentunenne, aveva vinto il concorso come aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti Le spoglie mortali di S. Giuseppe Moscati, presso la Chiesa e gli fu poco dopo conferita la libera del Gesù Nuovo a Napoli.

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docenza in Chimica fisiologica, su proposta di Antonio Cardarelli, e incominciò l’insegnamento di Indagini di laboratorio applicate alla clinica e di chimica applicata alla medicina secondo i programmi del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Fu inviato a Vienna da Gaetano Rummo (allora al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione), per assistere al convegno internazionale di fisiologia, approfittando dell’occasione per visitare anche Budapest; collaborò inoltre, per l’inglese e il tedesco, alla testata “La Riforma Medica”, fondata da Rummo prima come quotidiano, quindi come settimanale e poi come quindicinale. Fu anche direttore dell’Istituto di Anatomia Patologica. Allo scoppio della prima guerra mondiale Moscati presentò domanda di arruolamento volontario, ma la domanda venne respinta poiché era più utile nel prestare soccorso ai soldati feriti di ritorno dal fronte. Venne nominato direttore del reparto militare dal 1915 al 1918. visitando oltre 2 500 soldati (dati ufficiali del Registro dell’Ospedali degli Incurabili). Terminata la guerra fu nominato primario e Moscati inviò al Ministero della Pubblica Istruzione la domanda per essere abilitato per titoli alla libera docenza in Clinica Medica Generale. Giuseppe Moscati si prendeva cura di tutti i suoi pazienti e in particolare aiutava sempre i più poveri con offerte in denaro per le spese delle medicine e degli alimenti, Moscati infatti era solito ogni mattina comprare il latte e donarlo personalmente ai poveri e ai più bisognosi. Quando nel gennaio 1922 venne sperimentata l’insulina per la cura del diabete, Moscati fu tra i primi in Italia a utilizzare quel procedimento terapeutico rivoluzionario. Il pensiero di Moscati era che non dovesse esserci contraddizione o antitesi tra scienza e fede: entrambe dovevano concorrere al bene dell’uomo. Vedeva l’eucaristia come centro della propria vita ed

era fortemente legato al culto della Vergine. Si preparava durante l’anno alle festività della Madonna digiunando nei giorni in cui ciò era richiesto. Inoltre, anche in età giovanile, scelse la castità. La sua concezione del rapporto tra fede e scienza fu peculiare e tipica della sua mentalità di ricercatore e di scienziato. Per lui, proprio perché solo i contenuti della fede sono certi al di là di ogni dubbio, ogni altra conoscenza umana andava continuamente sottoposta a un serrato vaglio critico. Il 12 aprile 1927, martedì della Settimana santa, dopo aver assistito alla Santa Messa e ricevuta l’Eucarestia nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli e dopo aver svolto come di consueto il suo lavoro in ospedale e nel suo studio privato, verso le 15 si sentì male e spirò sulla sua poltrona a causa di un infarto, all’età di 46 anni e 8 mesi. La notizia della sua morte si diffuse rapidamente e alle esequie vi fu una notevole partecipazione popolare. A Moscati, fin da subito gli sono stati attribuiti miracoli di guarigione e il suo culto cresceva di giorno in giorno e ciò fece in modo che dopo tre anni dalla morte, il 16 novembre 1930 i suoi resti furono traslati dal Cimitero di Poggioreale alla Chiesa del Gesù Nuovo, racchiusi in un’urna bronzea, opera dello scultore Amedeo Garufi, motivo per il quale è a questa data che fu posta la sua memoria liturgica. Il pontefice Paolo VI lo proclamò Beato il 16 novembre 1975. Due anni dopo la beatificazione, i resti vennero posti sotto l’altare della cappella della Visitazione, a seguito della ricognizione canonica. Fu proclamato Santo il 25 ottobre 1987 da Giovanni Paolo II, anche se per la “gente” lo era già in vita. Migliaia di devoti, ogni anno, si recano presso la chiesa del Gesù Nuovo a Napoli, per pregare sulla sua tomba e per visitare la ricostruzione del suo salotto e del suo studio così come era al momento della morte, oltre ad oggetti personali e ai tantissimi ex voto donati dai fedeli per la grazia ricevuta. M A G A Z I N E


LUCANIA/MEMORIA

600 MORTI DIMENTICATI A Balvano, 80 anni fa il più grande disastro ferroviario italiano, con oltre 600 morti messo a tacere dagli Anglo-Americani Mimmo Bafurno

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l 3 marzo 1944, in un luogo impervio della Lucania avvenne uno dei più gravi disastri ferroviari del Novecento. Lungo il tratto lucano della linea Napoli-Potenza un treno merci con a bordo tra i 600 e i 700 passeggeri, quasi tutti clandestini, che si recavao in Lucania, per approviggionarsi di qualche derrate alimentare rimase bloccato per ore nel cuore della notte in una delle tante gallerie della tratta, per una lunga serie di concause e negligenz e quando i primi soccorritori arrivarono sul posto si trovarono davanti una scena surreale: centinaia di cadaveri giacevano ovunque, sia ai lati che a bordo del treno, dall’imbocco della “Galleria delle Armi”, subito dopo la stazione di Balvano, fino a circa mezzo chilometro più in fondo. Erano uomini, donne e bambini, soldati e macchinisti. I sopravvissuti furono appena una ventina. Il disastro di Balvano, è il più grave incidente ferroviario mai accaduto in Italia e fra i più gravi al mondo per numero di vittime. Come sempre in questi casi, assistiamo al consueto “balletto sulla cifra dei decessi”, infatti ancora non si ha una stima precisa: fonti più citate parlano di più di 500 passeggeri morti, ma le testimonianze dell’epoca ricordano oltre 600 cadaveri (vedi il box).

Anche sulle cause del disastro non esistono vere e proprie certezze, perché, come per il conteggio delle vittime, il fatto avvenne nel periodo più caotico della Seconda guerra mondiale e non ci fu una vera e propria commissione d’inchiesta, ma il principale indiziato sembra essere il combustibile delle locomotive a vapore (di scarsa qualità), anche se contribuirono altre concause. L’armistizio firmato da Badoglio pochi mesi prima, con la conseguente fuga del re “codardo” quel Vittorio Emanuele Savoia-Carignano che si atteggiava a soldato, ma poteva comandare solo i puffi (visto la sua altezza e lo spessore morale) con tutta la sua famiglia a Brindisi, aveva spaccato la pensiola in due: da un lato, quello che era stato il glorioso Regno delle Due Sicilie, sotto l’influenza, degli Angl-Americani, e dall’altro un regno controllato dai Nazi-Fascisti che erano in rotta e in fuga verso il nord, razziando tutto quello che avevano potuto togliendo alla popolazione, riducendola alla fame. Quindi in questo quadro storico la strage di Balvano, oltre a perdersi fra le cronache belliche provenienti da tutto il mondo, fu immediatamente sottoposto a censura da parte delle forze alleate. Molti documenti redatti nel corso delle indagini vennero fatti sparire. Il resto venne offuscato da testimonianze contraddittorie raccolte peraltro da persone traumatizzate, affamate e poco istruite. Tentiamo, nel nostro piccolo, di capire cosa accadde quella maledetta notte. Il treno 8015 partì da Napoli la mattina del 2 marzo per poi cambiare numero d’identificazione in 8017 a Battipaglia. Era diretto a Potenza e forse destinato alla raccolta di legname per scopi militari. M A G A Z I N E


Sebbene fosse un treno merci, a bordo del convoglio salirono comunque centinaia di persone, alcune delle quali dovettero farlo perché il treno passeggeri diretto a Bari del giorno precedente era stato preso d’assalto e completamente occupato già alla partenza da Napoli. La maggior parte dei passeggeri del treno 8017 era diretta in Basilicata, forse in Puglia, per scambiare utensili e stoffe con il cibo: in quel periodo il baratto era l’unica moneta di scambio. Durante le fermate intermedie, il treno 8017 si riempì di oltre 600 passeggeri clandestini, che trovarono posto all’interno dei vagoni merci, aggrappati ai lati delle carrozze e in ogni altro punto che lo permettesse. Le ferrovie erano amministrate dalle forze alleate con manodopera italiana. Alle stazioni di Salerno e Battipaglia i soldati Alleati cercarono di far scendere i passeggeri sparando in aria con le armi d’ordinanza, ma questi tentativi furo-

I morti allineati sul marciapiede della stazione Balvano.

no di fatto inutili perché chi venne fatto scendere risalì sul treno alla prima occasione buona, qualche metro dopo. Da Battipaglia in poi non ci furono più disordini e il treno proseguì indisturbato verso Potenza. Il sovraffollamento fu però la prima causa del disastro. Il treno 8017 continuò a essere considerato un trasporto merci anche se a bordo c’erano oltre 600 passeggeri, tuttavia nessun dipendente delle ferrovie segnalò

IL BALLETTO SUI DATI DELLE VITTIME

Sul numero delle vittime, ma questa non è una novità, ci sono varie versoni, anche perché molte non vennero riconosciute. I corpi vennero tutti allineati sulla banchina della stazione di Balvano e poi sepolti senza funerali nel cimitero del paesino, in quattro fosse comuni. Gli agenti ferroviari, invece, vennero sepolti a Salerno. Molti dei sopravvissuti riportarono lesioni psichiche e neurologiche permanenti. Fonti diverse hanno riportato bilanci diversi: • 626 vittime secondo il volume Balvano 1944 - Indagine su un disastro rimosso. • 402 persone, di cui 324 uomini e 78 donne sepolti nelle fosse comuni a Balvano. • 427 vittime secondo il processo. • 500 vittime secondo i quotidiani La Stampa, Corriere della Sera e Il Giornale d’Italia. • 509 vittime, di cui 408 uomini e 101 donne, secondo la lapide del cimitero di Balvano e secondo il quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno. • 517 vittime totali, secondo il bilancio ufficiale del verbale del Consiglio dei ministri. • 549 vittime, di cui 472 uomini e 77 donne, secondo il quindicinale potentino Il Gazzettino.

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la presenza di un così alto numero di clandestini a bordo, probabilmente anche perché all’epoca spesso si viaggiava così. La linea ferroviaria Napoli-Potenza era (e lo è ancora oggi) una delle più ostiche e isolate, essendo soprattutto una linea di montagna con forte pendenze. Dal confine tra Campania e Basilicata i binari si inerpicavano tra monti e torrenti attraverso decine di gallerie scavate con pendenze che si avvicinavano ai limiti imposti per la percorrenza. I pericoli di quella linea erano già noti. Nelle frequenti gallerie tra le due regioni gli incidenti per intossicazione da monossido di carbonio erano frequenti, così come in altre zone simili d’Italia. Per questo motivo all’epoca era usanza posizionare dei macchinisti di riserva al termine delle gallerie più lunghe che saltavano sulle locomotive in corsa per governarle al posto di quelli svenuti o storditi. Gli stessi macchinisti sapevano inoltre che, in prossimità delle gallerie, dovevano coprirsi naso e bocca con un panno bagnato per evitare svenimenti. Il treno 8017 fu trainato inizialmente da una locomotiva a vapore di fabbricazione austriaca (che fu data alle Ferrovie Italiane come riparazione per i danni della Prima Guerra Mondiale), alla quale poi venne aggiunta una

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più potente di fabbricazione italiana. Quest’ultima, però, fu aggiunta in testa al treno e non in coda e anche questa scelta che si aggiunse poi alle cause del disastro. Infatti all’epoca, in caso di doppia trazione una dovesse essere posta in testa e l’altra in coda, ciò per evitare l’accumulo di gas velenosi all’interno delle gallerie. Il treno, tuttavia, continuò la sua corsa con due locomotive in testa, le quali, peraltro, presentavano postazioni di guida ai lati opposti per via delle diverse origini di fabbricazione (una italiana, l’altra austriaca). Come se non bastasse, a Battipaglia vennero aggiunti altri vagoni merci che portarono la lunghezza complessiva del treno a oltre 400 metri per un peso che con ogni probabilità superiore ai limiti previsti per quella linea. Infine, ma non ultimo il carbone delle locomotive. dopo lo sbarco degli Alleati e il ritiro delle truppe tedesche, le ferrovie del meridione smisero di usare carbone tedesco proveniente dalla regione della Ruhr, considerato di buona qualità, e iniziarono a servirsi esclusivamente di carbone fornito dalle forze alleate, di provenienza sconosciuta e di bassa qualità, quindi con un’alta presenza di scorie e cenere al suo interno. La scarsa qualità del carbone, oltre a ostruire più facilmente le locomotive, forniva meno potenza e produceva una maggior quantità di gas nocivi, peggiorando quindi i rischi per macchinisti e passeggeri nei tratti in galleria. Dopo circa 16 ore, dopo la mezzanotte, il treno arrivò alla piccola stazione di Balvano, isolata località appena oltre il confine campano e compresa tra due gallerie. Il treno si fermò per quasi un’ora, poiché, essendo la linea ferroviaria a un solo binario, doveva attendere un treno che viaggiava in direzione opposta e, come detto, essendo il treno molto lungo, quasi metà del convoglio era stazionato nella galleria precedente, dove le locomotive avevano lasciato fumi tossici, e, forse, i passeggeri rimasti in galleria iniziarono quindi a intossicarsi già prima che

il treno partisse e percorresse la successiva galleria “Delle Armi” , dove avvenne il disastro. La galleria in questione era lunga oltre un chilometro ed era già nota per essere poco ventilata. Per giunta, essendo sopraggiunto un altro treno in direzione opposta la galleria presentava un ristagno di gas nocivi. Ricevuto l’ordine di partenza, il treno, causa il peso, il tratto in salita e le rotaie scivolose per la rugiaa notturna, inizia la sua marcia, arrancando notevolmente e stenta a prendere velocità, a metà galleria la situazione peggiora, ma i macchinisti delle due locomotive presero decisioni opposte: uno cercò di aumentare la potenza (il treno viaggiava sempre a passo d’uomo) per raggiungere l’uscita al più presto, l’altro invertì il senso di marcia per tornare indietro. Il treno iniziò quindi a slittare sui binari umidi e, secondo le testimonianze, si mosse avanti e indietro per alcuni minuti fino all’intervento del frenatore in coda al treno, che quando avvertì il cambio di marcia in pendenza bloccò le ruote del convoglio come da regolamento. Il treno si bloccò quindi all’interno della galleria lasciando fuori soltanto due vagoni. Macchinisti e fuochisti furono probabilmente i primi a morire asfissiati, tranne uno, che si salvò perché svenne e cadde giù dalla cabina finendo sopra un rigagnolo d’acqua che portava con sé un filo di ossigeno. Chi si salvò aveva il volto con sciarpe o altri indumenti e uscì all’aria aperta, tutti gli altri, restarono all’interno della galleria e morirono intossicati. Alcuni non fecero in tempo a uscire dalla galleria e crollarono ai lati del treno, venendo poi calpestati da altri passeggeri in fuga, altri morirono nel sonno. I pochi che vennero tirarti fuori vivi ma privi di sensi dalla galleria ebbero danni cerebrali permanenti. L’allarme venne dato soltanto alle cinque del mattino e i soccorritori arrivarono sul posto verso le sette. I corpi dei passeggeri vennero disposti in fila lungo i marciapiedi della stazione. I militari proposero di bruciarle i corpi in un campo poco lontano, ma furono fermati da un abitante di Balvano, che donò un pezzzo di terra confinante col cimitero per la sepoltura. Venne quindi scavata una fosse comune sotto la mura di cinta del cimitero dove vennero seppelliti. Le forze alleate imposero la censura e attribuirono il disastro alla scarsa qualità del carbone. Molti morti non vennero mai identificati e solo alcuni famigliari ebbero diritto a un indennizzo negli anni successivi. Soltanto nel dopoguerra ci furono le prime ricostruzioni dettagliate dell’accaduto. A ricordo del disastro di Balvano, esistono soltanto poche lapidi e alcune vie intitolate ai passeggeri del treno nei loro paesi di provenienza. Ma per i potenti sono solo morti di Serie B.

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TRINACRIA

DA PALERMO A NEW YORK

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I GIOIELLI DI FEDERICO II

arà esposto a New York, uno dei gioeilli di Federico II, lo Stupor Mundi come fu definito, che nonostante un lungo periodo “nascosto” in una cassaforte, tornerà a brillare per i fortunati che potranno osservarlo da vicino. Si tratta del quarzo taglio cabochon che adornava la fibula del mantello con cui Federico II venne deposto in un sarcofago di porfido rosso nel 1251, nella Cattedrale di Palermo. La pietra non è mai stata esposta prima e sarà tra i tesori della Mostra Constancia. Donne e potere nella Sicilia mediterranea di Federico II, in programma dal 7 marzo all’ 8 Aprile all’Istituto Italiano di Cultura di New York, per promuovere all’estero l’immagine dell’Italia e la sua cultura umanistica e scientifica e sarà inaugurata a ridosso della Giornata Internazionale della Donna. La mostra newyorkese, visitabile nella sede dell’ Istituto Italiano di Cultura, da un’ottima vista su Park Avenue, affronta due temi: il rapporto tra donne e potere e quello tra spazio italo-europeo e Mediterraneo, rappresentato dal mondo di Federico II, attraverso una raccolta di beni preziosi, oltre che da prestatori privati, grazie all’impegno degli uffici regionali preposti alla tutela e alla valorizzazione dei Beni Culturali. La civiltà di Federico II è straordinaria, ed ha un rilievo fondamentale nello sviluppo della nostra storia non solo politica ma culturale. Non dimentichiamo infatti che l’Italia si è fatta prima con la lingua e la poesia che con le armi, e Dante nel De Vulgari Eloquentia mette i poeti siciliani della corte di Federico II alle origini stesse della lirica “italiana”. Pezzo forte della mostra, il prezioso quarzo e che solo al suo ritorno a Palermo verrà mostrato nella Sala Normanna del nuovo allestimento del Tesoro della Cattedrale. Il sovrano morì nel 1250 in Puglia e, benché scomunicato (perché si rifiutò di prendere parte ad una inutile crociata), fu sepolto nella Cattedrale di Palermo. Nel 1781, il sarcofago fu aperto alla luce delle candele: il corpo di Federico II apparve in ottimo stato, con addosso varie tuniche impreziosite da fibbie, fregi e ricami fra cui il quarzo nella pietra centrale della fibula da mantello.

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FESTE / TRADIZIONI

a Napoli il CARNEVALE si chiama VINCENZO Stella Brignola

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arnevale si chiamava Vincenzo è un prezioso libro scritto da due studiosi di tutto rispetto, in merito ai fenomeni culturali campani, in materia di antichi riti e tradizioni. L’antropologa Annabella Rossi grande esperta di preistoria, collaboratrice di ricerca chiamata direttamente da Ernesto de Martino (che ho già citato) relativamente allo studio dei fenomeni del ‘tarantismo’ ed il celebre partenopeo Roberto De Simone compositore, regista, filologo delle ritualità orali delle festepopolari, etnomusicologo, nonchè eccellente autore di opere musicali e letterarie. Alcuni capitoli del libro sono stati affidati anche a Paolo Apolito, Enzo Bassano, Gilberto Marzano, e il gruppo di ricerche antropologiche dell’Università di Salerno, e le fotografie di Marialba Russo. Insieme, in questo studio pubblicato alla fine degli anni ’70, indagano e illustrano usanze e cerimoniali che sisnocciolano attorno all’argomento del Carnevale con tutti i suoi valori simbolici ed elementifolkloristici, e ai misteri secolari di morte e resurrezione connessi al ciclo invernale con i suoi ritipropiziatori tra sacro e profano. Ed è proprio alla ricorrenza del 17 gennaio, ai fuochi delle pire, tra canti, danze, lamenti, schiamazzi, di cui ho scritto nell’articolo del precedente numero che si

affida l’inizio del periodo del Carnevale napoletano. Il suo termine, invece, è fissato al martedì prima delle Sacre Ceneri, conosciuto come martedì grasso perchè segna la fine della settimana grassa e coincide con l’inizio della Quaresima. Il concetto di grasso è legato concretamente all’abbondanza. Rimpinzarsi di cibo per prepararsi, ben saziati, ai quaranta giorni diastinenza che, secondo i dettami cattolici, devono osservarsi in attesa dell’arrivo della Pasqua. Infatti, la parola carnevale deriva letteralmente dal latino ‘carnem levare’, cioè eliminare la carne. Ma, come tante altre usanze, anche questa ha subito sviluppi e modifiche, nel corso della storia, per via delle influenze culturali, religiose, sociali. Come tanti rituali in cui si sono mescolati elementipagani, sacri, popolari, con modalità e prassi che si sono perpetuate, di cui non si conoscono leprecise origini, sono stati oggetto di analisi approfondite da parte di molti studiosi. Quel che è certo è che richiamano festività molto antiche come le dionisiache greche. In questi riti di purificazione con il fuoco, i festeggiamenti terminavano quando le fiamme siconsumavano e tutti i partecipanti, sfiniti dalla baldoria tornavano a casa. Alcuni conservavano nelletasche un po’ di polvere sabbiosa dei resti bruciati, considerati, nell’immaginario collettivo, comeamuleti portafortuna. Le donne andavano a casa a prendere il ‘braciere’ e tornavano sul luogo per

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riempirlo con questa cenere evocativa e sacra, ed anche di resti dei carboni ardenti che avrebbero scaldato un po’ la casa. Ricordiamo il significato della purificazione del fuoco, che scandiva i ciclidella vita e della natura in cui si susseguivano morte e rinascita, anno (e raccolto) vecchio e nuovo. Il tempo in cui terminava l’inverno e si andava incontro all’estate, in cui si esorcizzava Carnavale se chiammava Vicienzo, il male erichiamava il bene. teneva ‘e ppalle d’oroe ‘o pesce ‘argiento; In molti paesi di provincia è sopravvissuta la tradizione ih! Gioia soja! Echi s’o chiagne s’o pozza antica di festeggiare il chiagnere ‘a ccà a cient’anne; martedì grasso chesegna ih! Gioia soja ! Chillo mò mor’ ‘e collera, la fine del carnevale con mò s’ ‘o portano ‘e prievete, è muorto un vero e proprio funerale. (Nenia funebre recitata durante i La cosiddetta morte di cerimoniali del fuocarazzo di carnevale viene celebrata con tutti i crismi: testamento, Sant’Antonio Abate). estrema unzione, processione l’ennesimo scandalo per torture e abusi sessuali. C’è funebre con la salma e i da dire anche, che quello fu’ proprio un periodo piantiprefici, con tanto di figure mascherate da notaio, buio della ‘reggenza’ sul popolo napoletano, e che in prete e partecipanti alla messa funebre. Solitamente seguito, usanze come la ‘cuccagna’ (che sembra una si tratta di un carrettino sul quale viene esposto un cosa bella ma non lo era affatto) furono abolite. pupazzo con una grande pancia, disteso tra varie Ma quindi, cosa ha a che vedere il carnevale con cibarie come broccoli, carciofi, cavoli e ghirlande di Vincenzo? Esisterebbe un collegamento con duefigure salsicce e salumi vari. Ai lati o di accompagnamento presepiali che non sempre appaiono negli allestimenti. che tra urla, lamenti e frasi oscene ripete una litania: Si tratta di due pastori zi’ Vicienzo ezi’ Pascale, i due « Si sapeva ca tu morivi...». ‘compari’ che impersonificano Carnevale (Vincenzo) Il defunto viene mostrato grasso e brutto e rappresenta e la Morte (Pasquale). Sono soprannominati «i San tutto ciò che di negativo sivuole abbandonare, Giovanni» accomunati alle figura del Battista e insieme all’inverno e all’anno appena trascorso. La dell’Evangelista, uno cheride ed uno che piange. Si processione arriva nellapiazza in cui si consumerà riferiscono anche ai due solstizi d’inverno e d’estate, il il rogo nel quale verrà bruciato il fantoccio. Un rito più corto e il più lungo giorno dell’anno. sacro e profano in cui, appunto, muore il male. Chi vuole ancora assistere a delle vere e proprie Dal libro «Ritratto o modello delle grandezze, delle teatralizzazioni che avvengono per le strade, a letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli» cielo aperto, in mezzo agli spettatori che diventano scritto in versi da Giovan Battista del Tufo nel compartecipi dei fatti che vengono raccontati può 1588 arrivano quelle che sembrano esserele prime recarsi in Irpinia dove ancora sono ancora molto vive informazioni sulle abitudini delle feste mascherate, le tradizioni. Si può scoprire molto sulla metafora del inizialmente privilegio della nobiltànapoletana, ma femminiello, la messa in scena della Zeza, Pulcinella anche moltissimi particolari della vita e le abitudini che è tutt’uno con la figura della vecchia, altre maschere popolari dell’epoca. I suoidocumenti sono stati e personaggi, le danze processionali, le litanie, i carri una fondamentale fonte di studio per tutti coloro Un’infinità di componenti simboliche, psicologiche, che si sono avvicinatiall’antropologia napoletana. esorcizzanti, irriverenti, sacrali, teatrali, grottesche Interessante, seppur ricca di truci particolari, la tra canti e preghiere che fanno del carnevale descrizione del Marchese De Sade nel suo «Viaggio campano un articolato fenomeno culturale che vale in Italia» del 1776 in cui racconta il suo carnevale la pena di approfondire magari gustando un’ottima a Napoli. Ètutto dire, dato che disprezzo e critiche lasagna, regina delle tipicità gastronomiche di questo (che non ha risparmiato neanche agli usi e alle periodo, e concludere con migliaccio, chiacchiere e donnefiorentine e romane) arrivavano da uno che sanguinaccio! in quegli anni fuggiva e sfuggiva dall’accusa per

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Dal libro «Ritratto o modello delle grandezze, delle IL SANGUINACCIO letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli» Il sanguinaccio è un tipico dolce di Carnevale a base scritto in versi da Giovan Battista del Tufo nel di cioccolato fondente adatto per accompagnare le 1588 arrivano quelle che sembrano esserele prime chiacchiere e gli altri dolci fritti di Carnevale. informazioni sulle abitudini delle feste mascherate, è il frutto della cultura contadina, quella del risparmio e inizialmente privilegio della nobiltànapoletana, del riciclo di ogni parte del maiale che viene ammazzato ma anche moltissimi particolari della vita e le poco prima di Carnevale. abitudini popolari dell’epoca. I suoidocumenti Dopo la macellazione il sangue del maiale veniva girato sono stati una fondamentale fonte di studio per con un mestolo di legno, per poi essere messo a cuocere tutti coloro che si sono avvicinatiall’antropologia insieme al mosto d’uva con l’aggiunta, a metà cottura, napoletana. Interessante, seppur ricca di truci di cannella e noci, ottenendo così una crema dolciastra particolari, la descrizione del Marchese De Sade e con un lieve retrogusto croccante e il suo colore era nel suo «Viaggio in Italia» del 1776 in cui racconta simile al cioccolato.. il suo carnevale a Napoli. Ètutto dire, dato che Dal 1992 la vendita e il consumo alimentare del sangue disprezzo e critiche (che non ha risparmiato animale è stata vietata e per questo motivo che ora si reneanche agli usi e alle donnefiorentine e romane) alizza con il cioccolato, pur avendo mantenuto il curioso arrivavano da uno che in quegli anni fuggiva e (e poco invitante) nome. sfuggiva dall’accusa per l’ennesimo scandalo per torture e abusi sessuali. C’è da dire anche, che Ingredienti sanguinaccio per 8 persone quello fu’ proprio un periodo buio della ‘reggenza’ • 800 ml di latte sul popolo napoletano, e che in seguito, usanze • 130 gr di zucchero come la ‘cuccagna’ (che sembra una cosa bella ma • 100 gr di cioccolato fondente non lo era affatto) furono abolite. • 75 gr di cacao in polvere Ma quindi, cosa ha a che vedere il carnevale con • 75 gr di fecola di patate Vincenzo? Esisterebbe un collegamento con • 30 gr di burro duefigure presepiali che non sempre appaiono negli allestimenti. Si tratta di due pastori zi’ Vicienzo • 1 cucchiaino di cannella in polvere ezi’ Pascale, i due ‘compari’ che impersonificano • Tempo Cottura:10 Minuti Carnevale (Vincenzo) e la Morte (Pasquale). Sono 1. Setacciate cacao e fecola insieme e mettetele soprannominati «i San Giovanni» accomunati alle insieme allo zucchero in una pentola a scaldare figura del Battista e dell’Evangelista, uno cheride ed a fuoco basso. Quando lo zucchero avrà iniziato a sciogliersi aggiungete, poco a poco, il latte e uno che piange. Si riferiscono anche ai due solstizi cominciate a mescolare. d’inverno e d’estate, il più corto e il più lungo giorno dell’anno. 2. Continuate a mescolare sin quando il composto non Chi vuole ancora assistere a delle vere e proprie sarà ben amalgamato. Il segreto per ottenere un teatralizzazioni che avvengono per le strade, a perfetto sanguinaccio è quello di cuocere a fuoco basso e mescolare sempre per evitare i grumi. Ci cielo aperto, in mezzo agli spettatori che diventano vorranno circa 10 minuti di cottura. compartecipi dei fatti che vengono raccontati può recarsi in Irpinia dove ancora sono ancora molto 3. Tritate il cioccolato fondente e unitelo nella crema. vive le tradizioni. Si può scoprire molto sulla Unite anche la cannella. metafora del femminiello, la messa in scena della 4. Continuate a mescolare fino a quando il cioccolato Zeza, Pulcinella che è tutt’uno con la figura della fondente non si sarà ben sciolto, a quel punto vecchia, altre maschere e personaggi, le danze aggiungete il burro. processionali, le litanie, i carri . Un’infinità di componenti simboliche, 5. Una volta che si sarà amalgamato anche il burro, togliete il sanguinaccio e mettetelo in un recipiente psicologiche, esorcizzanti, irriverenti, sacrali, basso e largo. Coprite con una pellicola a diretto teatrali, grottesche tra canti e preghiere che fanno contatto con la crema e mettete in frigorifero per del carnevale campano un articolato fenomeno almeno due ore. culturale che vale la pena di approfondire magari gustando un’ottima lasagna, regina delle tipicità 6. Togliete dal frigo e accompagnate le vostre chiacchiere e castagnole con il sanguinaccio. gastronomiche di questo periodo, e concludere con migliaccio, chiacchiere e sanguinaccio!


forse non tutti sanno che...

La “DIFFERENZIATA” a Napoli nel 1800 M a ggio 1832, Ferdinado II di Borbone firma un decreto che obbligava i cittadini

ad eseguire la raccolta differenziata, con il suddetto decreto si obbligava a mantenere l’igiene sulle strade, per i trasgressori si ebbero anche pene detentive e

Il decreto citava che “Tutt’i possessori, o fittuarj di case, di botteghe, di giardini, di cortili, e di po-

sti fissi, o volanti, avranno l’obbligo di far ispazzare la estensione di strada corrispondente al davanti della rispettiva abitazione, bottega, cortile, e per lo sporto non minore di palmi dieci di stanza dal muro, o dal posto rispettivo e che questo spazzamento dovrà essere eseguito in ciascuna mattina prima dello spuntar del sole, usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondezze al lato delle rispettive abitazioni, e di separarne tutt’i frantumi di cristallo, o di vetro che si troveranno, riponendoli in un cumulo a parte”. Poi aggiungeva che “Dovranno recarsi ne’ locali a Santa Maria in Portico, dove per comodo pubblico trovasi tutto ciò che necessita” ed inoltre il divieto “di gettare dai balconi materiali di qualsiasi natura”. Come si legge nel Regio Decreto n.21, le autorità si ponevano il problema della spazzatura, obbligando la popolazione alla raccolta differenziata, in particolare quella del vetro. Insomma, già allora si faceva un’importante riflessione sul problema dell’accumulo di immondizia, e come evitare di far confluire i rifiuti in un unica discarica. A tal proposito vale la pena ricordare l’ammirazione dello scrittore ed erudito Goethe, quando nel 1787, durante il suo viaggio in Italia, rimase stupito per il riciclo degli alimenti in eccesso che si attuava tra la zona di Napoli e le campagne intorno (l’attuale “Terra dei Fuochi“). Circa duecento anni fa, quindi, una legge borbonica aveva risolto il problema dei rifiuti, che oggi invece sembra essere insormontabile, oltre ad essere diventata una questione che riguarda l’intera nazione.


LA GRANDE CANZONE NAPOLETANA

ERA DE MAGGIO Pina Iovane

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uesta bella poesia di Salvatore Di Giacomo, messa in musica da Mario Costa fu presentata alla Piedigrotta del 1885, è tra le più belle canzoni del repertorio Napoletano, ancora attuale nella forma e nel contenuto. La canzone è un dipinto bucolico, formato da due acquerelli, il primo rappresenta l’addio dei due innamorati, il secondo il loro reincontro dopo un anno o forse anche di più. L’ambiente è un “giardino”, che in napoletano indica un arboreto di specie varie, da frutta e da fiori, fontane, ecc. L’argomento sarà trattato ampiamente nelle Considerazioni. Il testo è scritto con il linguaggio popolare di fine ottocento, per cui occorre una traduzione all’impronta che non ne stravolga il significato, come avviene per una traduzione letteraria. è incredibile la produzione di Salvatore Di Giacomo, per numero di composizioni e per la qualità, sempre alta, nelle poesie, nei testi per canzoni, nelle novelle, nelle opere teatrali, nei lavori di critica letteraria e negli scritti storici, in cui dimostra che la sua patria resta Napoli, durante tutti i regimi in cui ha vissuto e non ha mai ceduto alle lusinghe della storiografia ufficiale, come De Santis, ecc. Se questo scritto sarà gradito, avrò reso omaggio ad un grande napoletano, la cui opera dovrebbe essere divulgata, merita di essere conosciuta, per rinverdire la cultura antica della Campania ed evitarne la scomparsa, come cerca di fare la politica di questo periodo storico. Il poeta descrive il mondo dei quartieri storici di Napoli, la ripresa del vivere quotidiano dopo la bufera risorgimentale, uguale a prima, ma senza un Re presente e garante dei bisogni e della legalità, bensì con l’imposizione di cultura e lingua estranee alla mentalità napoletana. La canzone richiama altre poesie di Salvatore Di Giacomo, come Lariulà, A testa Aruta (da non confondere con l’omonima cantata da Alberto Berri), scritte con lo stile del Rispetto, che descrivono un partico-

lare del vivere quotidiano della Città di Napoli, un modo d’agire del popolo, le sensazioni percepite da chi vive la città, le credenze popolari sulle piante, sulla vita e la morte, sull’esistenza di altre dimensioni oltre la propria. Analiziamo brevemente il testo. Era de maggio… la poesia si svolge a fine maggio, periodo in cui a Napoli maturano le ciliegie e contemporaneamente fioriscono le rose e le piante officinali (erve addirose). L’ambiente è lu ciardino (‘o ciardino), parola che non ha il significato italiano di “giardino”, in Osco napoletano indica un frutteto misto di agrumi vari, ciliegi, gelsi rossi (ceveze annevate) o altra frutta “indigena”, frammisti ad ortaglie e fiori vari, con pergolati e anche una fontana. Erano numerosi nella città vecchia, al centro degli isolati molto vasti e ne esistevano ancora a fine Novecento, ricordo quelli che si intravedevano dagli androni dei palazzi di Via Foria o Via Costantinopoli o Via S.Antonio Abate. Occupavano gli spazi tra i palazzi che delimitavano gli isolati, erano veri polmoni verdi in una città con poco verde nelle strade. I protagonisti sono due annammurati (in italiano, fidanzati), di venti anni. Il giovane deve “andare fora”, lontano, per lavoro e purtroppo dal 1885 nulla è cambiato, infatti ha fatto ritorno solo 1%. Fresca era l’aria fa capire che è un pomeriggio di metà maggio, quando nelle vie limitrofe, tra i caseggiati, l’aria è calda,o anche afosa, mentre nel cortile interno, ancor più nel giardino, è fresca e dà all’anima una sensazione di pace, racchiusa dal Di Giacomo in quelle tre parole La canzona doce... è la canzone melodica, sussurrata e venata di malinconia, tipica della poesia (e canzone) napoletana, quando esprime le sensazioni che dà l’aria di Napoli. La canzone a doje voce corrisponde al “Rispetto” della metrica italiana, un dialogo, di solito tra due innamorati, su un tema specifico, in questo caso la partenza. La ragazza canta chisà quanno turnarraje, chissà quando e se tornerai, se avrò notizie da te, un detto popolare citava “l’acqua salata (attraversare il mare) fa dimenticare la casa”. Per capire l’ansia della M A G A Z I N E


urato, all’amante rimasto fedele, dall’amante che ha “tradito” l’amore, per qualsiasi motivo, anche senza amare un altro. L’innamorato, visto l’indifferenza dell’amata, conclude turnato io só’ Mia cara, son ritornato, come promesso, come ritorna il Maggio e l’amore, ma rispetto la tua scelta, fa’ de me chello che vuó’! agisci come il tuo cuore desidera, che t’importa di me! è la resa dell’innamorato, come nelle ballate dei trovatori, ricorda il finale di “Voce ‘e notte” ed anche altre composizioni dello stesso Di Giacomo, ed è una costante della vera poesia.

IL TESTO Era de maggio e te cadéano ‘nzino, a schiocche a schiocche, li ccerase rosse. Fresca era ll’aria...e tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe... ragazza, occorre ricordare che, a fine ottocento, quando le notizie, al contrario di oggi, di persone lontane giungevano con difficoltà e anche dopo venti giorni. Per spedire una lettera occorreva rivolgersi ad uno scrivano, di scarpettiana memoria, il costo totale era “oneroso”. Ma il giovane è ottimista, sicuro di sé, canta: si stu sciore torna a maggio, pure a maggio io stóngo ccá... come le rose rifioriranno nel giardino a maggio, anch’io a maggio ritornerò. Ma Il giovanotto non conosce la vita, non sa che non si può ipotecare il futuro, la ragazza invece è più realistica, evidentemente ha visto tante partenze senza un ritorno, nel quartiere conosce molte “vedove bianche” (cioè mogli di quei marittimi o emigranti che per mesi non davano notizie) suicide in fondo alla cisterna di un palazzo, per un amore svanito, come le rose alla fine di maggio, nella nebbia del tempo. L’innamorato ritorna nel giardino a maggio, non si precisa l’anno, è sicuro che nulla è cambiato, E só’ turnato invita la giovane a riprendere la canzone cantata nell’altro maggio, Mo, comm’a na vota, cantammo ‘nzieme lu mutivo antico, letteralmente “vecchia canzone”, ma il vero significato è “una canzone già cantata, non importa quando, o anche una canzone conosciuta da anni”. Le ricorda di essersi innamorato di lei presso la fontana del giardino e che il suo cuore sanguina, per una ferita d’amore, come la fontana continua sempre a buttare l’acqua Ll’acqua, llá dinto, nun se sécca maje, e ferita d’ammore nun se sana... come l’acqua scorre sempre nella fontana, così la ferita d’amore non si rimargina mai. La ferita d’amore, nella poesia dei trovatori, è il dolore proc-

Era de maggio, io no, nun mme ne scordo, na canzone cantávamo a doje voce... Cchiù tiempo passa e cchiù mme n’allicordo, fresca era ll’aria e la canzona doce... E diceva: “Core, core! core mio, luntano vaje, tu mme lasse, io conto ll’ore... chisà quanno turnarraje!” Rispunnev’io: “Turnarraggio quanno tornano li rrose... si stu sciore torna a maggio, pure a maggio io stóngo ccá... Si stu sciore torna a maggio, pure a maggio io stóngo ccá.” E só’ turnato e mo, comm’a na vota, cantammo ‘nzieme lu mutivo antico; passa lu tiempo e lu munno s’avota, ma ‘ammore vero no, nun vota vico... De te, bellezza mia, mme ‘nnammuraje, si t’allicuorde, ‘nnanz’a la funtana: Ll’acqua, llá dinto, nun se sécca maje, e ferita d’ammore nun se sana... Nun se sana: ca sanata, si se fosse, gioja mia, ‘mmiez’a st’aria ‘mbarzamata, a guardarte io nun starría ! E te dico: “Core, core! core mio, turnato io só’... Torna maggio e torna ‘ammore: fa’ de me chello che vuó’!

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MITI

Il mito della FATA MORGANA Daniela La Cava

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sistono fenomeni climatici che per molto tempo hanno alimentato il mito e la storia, tra questi, uno dei più suggestivi è sicuramente il fenomeno della “Fata Morgana”, un miraggio che i popoli antichi avevano attribuito ad un incantesimo prodotto dalla mitica sovrana celtica, sorella di re Artù. Secondo la leggenda, la regina di Gore, nell’estremo tentativo di salvare il fratello dalle mortali ferite provocate in battaglia, trasportò il suo corpo alle pendici del monte Etna in Sicilia. La fata, rimase talmente estasiata dalla bellezza e dal calore di quell’isola che decise di creare in quel luogo la sua dimora. L’isola però non presentava delle difese naturali contro gli invasori e per rendere sicure le spiagge dai facili approdi, ordì un sortilegio per trarre in inganno i condottieri bramosi di conquista, impedendo loro di attraversare le mitiche acque dello Stretto! Più volte dal profondo delle acque la nobile fata, nata dalle gelide acque del nord, emerse in tutta la sua folgorante bellezza sulla riva opposta della costa dove, sulla spiaggia di Reggio Calabria, re e condottieri si preparavano ad attraversare lo Stretto alla conquista della Sicilia. Tutte le volte, la maga, benigna e sorridente offriva in dono ai pretendenti la terra ambita e, affinché l’inganno fosse credibile, rendeva visibile la costa vicinissima alla riva tanto da poterla vedere riflessa ai loro piedi. Così i conquistatori in sella ai loro destrieri, pregustando già la vitto-

ria, si tuffavano impavidi nelle acque che riflettevano la città, ma già pochi istanti dopo, ormai al largo, la visione svaniva insieme alla speranza di raggiungere la riva. Molti perirono tra le acque dello stretto finché il re normanno Ruggero d’Altavilla, nel tentativo di liberare l’isola dall’invasione musulmana, affrontò con ardore cristiano, il sortilegio uscendone vittorioso. Il sovrano, fermo sulla sponda calabra di fronte lo Stretto di Messina, meditava sulla cacciata degli invasori pagani, quando d’improvviso, dal profondo delle acque, emerse in tutta la sua folgorante bellezza, una giovane donna più simile ad una dea che ad una creatura mortale. Come sempre la fata Morgana, sorrideva dolce e benigna, mentre offriva al condottiero la prova della vittoria, battendo il suo scettro sulle acque e producendo la proiezione dell’immagine della città al di là del mare, così vicina da poter distinguere perfettamente persone, case e elementi naturali. Il re però, non cedette alla promessa di una facile conquista e preferì attendere l’avanzata senza l’aiuto di pratiche magiche, un esplicito riferimento alla superiorità delle virtù cristiane ormai radicate anche nella letteratura di origine celtica. Ma come spiega la scienza questo incredibile fenomeno ottico? La Fata Morgana è una sorta di miraggio che si verifica in circostanze ambientali eccezionali, come la diversa temperatura tra il suolo e linea di orizzonte, la limpidezza dell’aria e le alte temperature estive. M A G A Z I N E

Tutti questi elementi sono la chiave di volta che permettono una rifrazione ottica così straordinaria da riuscire a vedere non solo la città di Messina sospesa sull’acqua ma anche il suo riflesso costeggiare la riva della di Reggio Calabria, in una percezione visiva così nitida da distinguere perfettamente auto, edifici e persone. Nel delicato passaggio dal paganesimo al cristianesimo, della magia e del potere femminile identificate nella fata Morgana, non rimane che un pallido riflesso della grandezza trascorsa, la potenza di un’epoca in cui dei, maghi e superstizione dominano le menti e le azioni umane. In questa cornice storica arricchita di tradizioni nordiche introdotte dall’invasione normanna, il sortilegio attribuito alla regina celtica non smette di affascinare e di alimentare quelle atmosfere leggendarie che intrecciano le leggende delle terre del Nord alle atmosfere mediterranee intrise di mito, magia e cristianità.


eccellenze / CALABRIA

IL SALUME SPALMABILE

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a nduja è uno dei più famosi, tra i prodotti alimentari tipici calabresi. La nduja (attenzione: nduja, non nduia!) è un salame morbido, spalmabile, piccantissimo. Il nome deriva dal francese “andouille”, che vuol dire “salsiccia”. Non è tuttavia una salsiccia, per quanto possa assomigliarci. La nduja è fatta con carne di maiale, un po’ di grasso, e molto peperoncino piccante, per chi non ama molto il piccante è possibile una versione con “poco piccante”. Il colore tendente al rosso, merito del peperoncino, e la sua consistenza non è dura nemmeno dopo la stagionatura diventa dura. Naturalmente proprio grazie al peperoncino che è un vaso dilatatore, viene considerata afrodisiaca. Originariamente la ‘nduja era un alimento povero, e veniva infatti preparato usando le parti meno nobili del maiale come interiora, trippa e polmoni. Al giorno d’oggi, invece, vengono destinate alla produzione della nduja le parti migliori del maiale, che vengono impastate con sale e peperoncino. Il tutto viene poi insaccato in budello naturale e viene poi leggermente affumicato prima di essere stagionato per alcuni mesi. Anche la qualità del peperoncino ha la sua importanza per ottenere un risultato tanto caratteristico e quando si parla di prodotti calabresi, il dubbio non può sussistere. In Calabria, infatti, il peperoncino non è solo un ingrediente, ma è molto di più: è tradizione, cultura, storia. Nella nduja il peperoncino non viene certo lesinato, tanto che chi non è abituato a gusti tanto piccanti potrebbe avere un approccio difficile alla nduja (come anche ad altri prodotti calabresi, tipicamente piccanti). Per i meno tolleranti, scaldate la nduja in un pentolino mischiandola a ricotta, che ammorbidirà il piccante della nduja. Spalmate poi il composto su fette di pane, meglio se un po’ tostate su una piastra o una griglia. Può essere inoltre usata, anche per condire pasta, pizze, oltre a tutto quello che la vostra fantasia vi suggerisce. Vi proponiamo la seguente ricetta.

PENNE ALLA NDUJA

Ingredienti per 4 persone: 500gr di penne, 1 peperone giallo di piccole dimensioni (o 1/2 se grande), 1 cipolla rossa di Tropea, 1 bicchiere di vino bianco, 5oo gr di pelati, un pizzico di zucchero, 250gr di nduja, pecorino, olio evo, sale. Preparazione: Scaldare in una padella l’olio, e saltare un po’ il peperone tagliato a pezzetti e la cipolla tritata. Aggiungere la nduja, mischiare velocemente il tutto, aggiungere il vino bianco e lasciare sfumare. Unite il pomodoro, riducendolo grossolanamente a pezzetti, aggiungere lo zucchero, abbassare la fiamma, e lasciare cuocere, mescolando di tanto in tanto, per un quarto d’ora. Cuocere nel frattempo le penne, e scolarle al dente. Versare le penne nella padella del sugo e saltare un po’, unendo il pecorino.

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IperRealismo di un’artista L’iper realismo è un genere di pittura e scultura, i cui artisti si servono di tecniche fotografiche e di una meccanica di riproduzione della realtà per costruire l’llusionismo delle proprie tele e sculture, infatti i quadri di questi artisti, sembrano delle foto. In questo numero ci occupiamo di un’artista Salerniata, Cinzia Bisogno, a presentarcela è la critica d’arte Antonella Nigro. L’opera di Cinzia Bisogno si focalizza sul ritratto che ama interpretare attraverso un’elaborazione accurata del disegno e della tecnica ad olio. L’artista vive intimamente la lettura del soggetto e, con estrema cura, lo sceglie e lo studia, perché esso la rappresenterà sotto molteplici aspetti. Le opere posseggono un indiscusso e potente pathos e un vivo lirismo, le sue splendide modelle divengono spunto per l’approfondimento della figura femminile analizzata nella sua complessità e nella sua grazia. Cinzia concentra la sua attenzione sull’interpretazione psicologica del ritratto che vuole rappresentare la profondità dei sentimenti, del sentire e dei desideri. Nella sua arte lo sguardo diventa bacio, trascende parola ed azione, trafigge ed innamora, in ogni sua declinazione: se acceso da tenero abbandono, se adombrato da dolce mestizia, se illuminato da passione e malìa. Cinzia si rispecchia nella sua opera, vigorosa e dolce, decisa e bella, ha compagna di viaggio, personale ed artistico, la sfida e il confronto costante, consapevole che la fiamma dell’ “immersus emergo” le si addice perfettamente. M A G A Z I N E


Cinzia nasce a Salerno nell’ottobre del ‘74, ma vive per anni a Capaccio Paestum.Fin da piccola, grazie a suo padre, appassionato e collezionista d’arte, cresce in un ambiente artistico mostrando precocemente una spiccata predisposizione al disegno ed ai colori. Sarà proprio suo padre, ad iniziarla all’apprendimento dell’uso dei colori, regalandole a 9 anni il primo cavalletto ed i primi colori ad olio e diventando il suo primo maestro. All’età di 15 anni però, per motivi personali, ripone tutto da parte, accantonando la sua passione per anni. Solo nel 2014, quando Padre Adam Wójcikowski del Getsemani di Paestum, le commissiona 6 pannelli in legno da dipingere per il suo Santuario, e contemporaneamente, un’associazione sportiva del comune di Capaccio Paestum, le commissiona un ritratto per un premio sportivo, Cinzia riprende in mano matite e pennelli. Inizia la svolta, che la riavvicina ad un mondo solo apparentemente messo da parte, ma che le è sempre appartenuto.Dedicandosi quindi ad una ricerca artistica più matura e consapevole, decide di approfondire la tecnica dei chiaroscuri che derivano dall’utilizzo della grafite e del carboncino. Attraverso lo studio del disegno in grafite, approda alla ritrattistica iperrealista, prediligendo nei suoi lavori figure umane dalle forti espressioni e dalla grande comunicatività. Nel 2017 si avvicina alla ritrattistica ad olio, attraverso lo studio della pittura, realizza i suoi primi dipinti, figure femminili dal forte impatto emotivo. Oltre a mostre personali, ha partecipato a numerose esposizioni in Italia e all’estero, aggiudicandosi premi e riconoscimenti per i suoi lavori. Vincitrice nel 2016 e nel 2017 di “Arte Salerno”. Contatti: Instagram: inziabisognoartwork www.cinziabisogno.com M A G A Z I N E

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la foto del mese

Nisida 28

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L’isola che non c’è 29

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