TERRONITV MAGAZINE#9

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MAGAZINE Il lungo mare p I ù bello d’ I tal I a ( g abr I ele d’annunz I o ) ANNO 1 NUMERO 9 DISTRIBUZIONE GRATUITA ONLINE

L ’e ditoriale

mario Stazione

E pure nel mentre degli anni della legislatura che si insedia e governa noialtri ci si or ganizzano con convegni, riunioni, orga nizziamo quelle manifestazioni atte a farci credere che finalmente ce la fa remo a realizzarla e dentro di noi, i romantici come me, coltivano un sogno che poi puntualmente svani sce nei mesi immediatamente pre cedenti alle elezioni che si terranno.

A bocce ferme. Ogni volta che termina una tornata elettorale mi viene in mente sempre il seguente quesito: come mai neanche questa volta noi meridionalisti non siamo riusciti ad esprimere una lista identitaria univoca che guardi il territorio e porti nel Parlamento (occupante) italiano le nostre istanze?

E lì vedi che questo o quello che era tra i conferenzieri o tra gli organizza tori o tra i promotori di questo o quel partitucolo appoggia o la destra oppure la sinistra italiana o il giacobino politico che si sta rinverginendo.

Questi, ha certamente capito che con i voti nostri può fare i porci comodi suoi e continuare a coprirsi il suo sporco deretano. Domanda: siamo dei creduloni o cosa, il grande Giuffrè dice va strunz. Io voglio ancora pensare che la maggioranza di noi sia in buona fede ma molti, certamente “i capostipiti”, sono dei traditori e applicano il principio del mi salvo io e chi si è visto si è visto…

Bene, sono stanco, siamo stanchi e preciso che essere Meri dionalista non è un credo politico ma una condizione di stato dell’arte che ci vede soccombere, ci vede soffrire, emigrare e ri capitolare in pejus.

Quindi falsi che non siete altro ringraziate iddio che i nostri cari possono mettere ancora il piatto a tavola nonostante la grossa pressione dell’itaglia (vedi il caro bollette, l’imminente recessione etcetera) viene esercitata su di noi in quanto sia mo colonia e questo soprattutto per colpa vostra!

Prima o poi ne darete conto!

MAGAZINE 2

Registrazione n 1 - Marzo 2021 Tribunale di nocera Inferiore

Anno 1 - nuMeRo 9 chIuso Il 20/10/2022

Editore cReATIve MedIA sRl

Direttore Responsabile Mario stanzione

Direttore Editoriale Fernando luisi (Ferdinando l’Insorgente)

Redazione Mimmo Bafurno cinzia Bisogno Giovanni Gallo Giuseppina Iovane daniela l a cava Armando Minichini Mino Paolillo Angelica sarno edoardo vitale

CopertIna Uno scorcio del lungomare Falcomatà di Reggio Calabria, che per Gabriele D’Annunzio era il più bello d’Italia.

SOMMARIO MAGAZINE 3
In
MAGAZINE 4 INSORGENZE I l R e S p IRO de I pA d RI 6 f O c US SU ... p ISA c A ne p ROI b I t O: gue RRA e SA c RI f I c IO 12 LUOG h I DA NON p ERDERE I l te SORO d I SA n genn ARO 15 c URIOSIT à SA n genn ARO , I MIRA c O l I e d I 52 p RO tettORI d I n A p O l I 16 p ERSONAGGI RI cc AR d O pA zz A gl IA 17 OMAGGIO A MIA MAR t I n I 18 RI c ORRENZE O gn I A nn O I l due n O ve M b R e 20 MESTIERI S c OM pARSI l A p R ef I c A : l A d O nn A che p IA nge I tu OI MOR t I 22 LE NE fANDEZZE DEI SAv OIA fene S t R elle, I l c AM p O d I c O ncent RAM ent O de I SAv OIA 24 IL LUSSO c OME p E cc ATOI l A MO d A I n f IAMM e: d I v I et I S untu ARI e pecc At I d I vA n I tà 26 LA f OTO DEL MESE l’ISO l A delle SIR ene MAGAZINE Il lungo mare p I ù bello d’I tal I a (gabrIele d’annunzIo) ANNO 1 NUMERO 9 DISTRIBUZIONE GRATUITA ONLINE

I l re S p I ro de I padr I

fine agosto 2020. Ero partito molto presto da Riardo. Tornavo a Udine con tutta la mia amarezza perché, dopo anni di illusioni, avevo perso ogni speranza di tornare tra le braccia della mia Sirena. Volevo fermarmi a Castelpetroso, in provincia di Isernia, e fare una visita alla Basilica Minore di Maria SS dell’Ad dolorata che all’andata avevo incrocia to e che credevo stessi ripercorrendo al ritorno. I chilometri passavano, ma di Castelpetroso neppure l’ombra di un cartello stradale. Ero quasi sul punto di azionare Google maps per correggere

la rotta, ma qualcosa dentro di me mi spinse a proseguire e seguire l’istinto. Un istinto pagano. La strada, che s’inerpicava chilometro dopo chilometro, disegnava quei pae saggi montani del Molise, di quel San nio Antico.

Ad un certo punto un finalmente un’in dicazione, un cartello turistico con su scritto: Santuario Italico di Pietrabbon dante! Quante volte avevo sognato questo luo go, quante volte lo avevo visto sui libri o su internet! Per un sannita come me, il pellegrinaggio al Santuario Italico rap presenta una tappa obbligata, almeno una volta, nella propria vita.

INSORGENZE
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Il Santuario Italico di Pietrabbondan te, comune in provincia Isernia, sorge a quasi 1000 mt ed è di grande importan za storica. È la maggiore area sacra, fino ad oggi conosciuta, dei Sanniti. Quel grande popolo italico che rappresentò una spina nel fianco di Roma. Si devono ai Borbone i primi scavi nel XIX seco lo. Il luogo ha avuto funzione di culto religioso, politico e culturale, realizzan dosi dal IV al II secolo a. C. Ci si arriva, dall’ingresso, tramite una ripida discesa e, giunti nel Teatro, lo spettacolo è stu pendo per la bellezza del sito e per il panorama della valle del Trigno che si spalanca agli occhi. L’intero santuario si arricchisce di altri importanti edifici come il Tempio Grande, il Tempio Pic colo, la Domus Publica. Il sito archeolo gico è’ un felice sposalizio tra elemen ti italici, ellenistico campani e latini. Il Santuario Italico di Pietrabbondante è una conferma, qualora ce ne fosse bi sogno, della grandezza del Popolo San nita, vittima della damnatio memoriae e della devastazione del loro territorio

ricevute dai Romani. I Sanniti non era no solo guerrieri montanari come i pen nivendoli dell’epoca, al soldo del potere, amavano definirli.

Giunto nel Teatro decisi di sedermi su uno dei sedili della cavea rimasti intatti. Questi sedili hanno una conformazio ne anatomica dello schienale. I Sanniti avevano pensato al supporto lombare, realizzando il primo progetto ergono mico della seduta. Mai tale raffinatezza fu raggiunta in altre civiltà dell’epoca, caro Tito Livio! Rimasi seduto un’ora. Le mie palpebre si erano chiuse, privan do gli occhi del panorama della Valle del Trigno.

Sul mio volto avvertivo una fresca sen sazione, forse dovuta ad un leggero ven to che si era alzato. Ma non era un solito vento, sembrava un respiro. Le mie fe rite non mi facevano più male, il dolore era solo un lontano ricordo. Avevo re cuperato la forza, la fiducia, la speranza. Quale migliore medicina di un respiro? Era il Respiro dei Padri, dei miei padri sanniti.

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p IS a C ane pro I b I to : guerra e S a C r IFICI o

Nel frattempo, il 16 febbraio 1848, mentre militava in Africa, gli era morta la figlia Carolina. Nel marzo di quello stesso anno riabbraccia Enrichetta che gli dà forza per affrontare i nuovi cimenti e lo segue a Milano. Lì si arruola nell’esercito lombardo e con la sua compagnia ha uno scontro vittorioso con gli austriaci. Rimane ferito, ma la sua donna gli è vicina. Si sposta a Lugano e poi in Piemonte. L’8 marzo del 1849, passando per Livorno, la coppia arriva a Roma per dare una mano al governo repubblicano. Lui da combattente, lei da infermiera (questo e altri dati interessanti si rinvengono nell’introduzione di Giuseppe Galzerano a La Rivoluzione di Carlo Pisacane, a cura di Aldo Romano, Galzerano editore, 2002)

Riflessioni contro corrente in tre puntate su un uomo che contribuì a segnare il destino del Sud

Man mano che la traiettoria di vita di Carlo Pisacane si av vicina al suo sanguinoso epilogo, cresce un sentimento di malinconia e di raccapriccio per una giovane esistenza lanciata verso il sacrificio. Ma anche per le altre vite che, direttamente o indirettamente, saranno travolte da questo slancio.

Noi vogliamo riflettere anche sui lati oscuri dell’avventura di Pisacane, senza che ciò faccia venir meno il rispetto e la com prensione: di questo avrebbe bisogno una storia non avvelenata dall’odio. Ma sappiamo che questa regola così elementare non è condivisa da chi divide personaggi antichi e attuali in angeli e demoni, secondo un criterio di convenienza ispirato a finalità non confessabili, non solo politiche.

Nel suo febbrile peregrinare, Pisacane non si rammarica di aver abbandonato gli agi legati all’ambiente familiare, però la dispo nibilità economica e le amicizie influenti della sua famiglia alto locata gli tornano utili molto spesso. Intanto, è il fratello “borbonico” che lo aiuta a tornare in Ita lia. Aiuto discutibile, visto che non gli serve per riprendere la carriera nell’esercito napoletano, come lasciava supporre la sua lettera in cui implorava il perdono di Re Ferdinando II, ma per combattere i suoi ex commilitoni. Un’altra bella spinta nella stessa direzione gli viene dal colonnello francese Mellinet, evi dentemente anch’egli sensibilizzato grazie all’influenza familia re, che lo aiuta a lasciare la Legione Straniera. Infatti il servizio in Algeria, divenuto tranquillo essendo stata stroncata la guer riglia patriottica di Abd-el-Kader, ormai lo annoiava a morte. Nel frattempo, il 16 febbraio 1848, mentre militava in Africa, gli era morta la figlia Carolina. Nel marzo di quello stesso anno riabbraccia Enrichetta che gli dà forza per affrontare i nuovi ci menti e lo segue a Milano. Lì si arruola nell’esercito lombardo e con la sua compagnia ha uno scontro vittorioso con gli austriaci. Rimane ferito, ma la sua donna gli è vicina. Si sposta a Lugano e poi in Piemonte. L’8 marzo del 1849, passando per Livorno, la coppia arriva a Roma per dare una mano al governo repubblica no. Lui da combattente, lei da infermiera.

Il fratello Filippo rischia lo scontro armato con lui quando, a Velletri, come componente della cavalleria napoletana, se lo trova di fronte quale capo di stato maggiore dell’esercito romano comandato dal generale Pietro Roselli. Si trattava di una guerra la cui violenza era accresciuta dall’odio ideologico, dobbiamo dire soprattutto da parte dei “liberali”. Lo stesso Roselli, nelle sue Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri avvenuto il 19 maggio 1849, racconta come alcuni soldati napoletani e siciliani, catturati mentre si ritiravano a Velletri e ormai inermi, furono presi a colpi di baionetta dai repubblicani, i quali, rimproverandoli per non essersi schierati contro “la comune patria”, parecchi ne uccisero e parecchi ne ferirono gravemente. Condotta contraria all’umanità e all’onor militare, che non è escluso abbia colpito anche qualcuno che era stato commilitone di Carlo Pisacane nell’esercito regio.

Così si comportavano i nuovi compagni d’arme dell’ex alfiere di Ferdinando II, re da lui definito “vile tiranno”, di cui però, soltanto un anno e mezzo prima (lettera del 6 novembre 1847), implorava “come Suddito” la “Sovrana Clemenza”.

Va aggiunto che durante la guerra per Roma Carlo Pisacane entra in contrasto con Giuseppe Garibaldi, insofferente alla disciplina organizzativa che egli, come capo di S.M., intendeva imprimere all’armata repubblicana.

Dopo che i francesi hanno rovesciato la Repubblica e riportato a Roma il Papa, è arrestato e poco dopo liberato, grazie, questa volta, all’interessamento della famiglia di Enrichetta. Riprende il suo peregrinare seguendo le vie

Il 28 novembre 1852 nasce sua figlia battezzare. La nascita è nascosta ai Nel 1854 muore il patrigno di Carlo, che gli faceva avere una somma ogni poveramente. Nel 1856 trova lavoro costruire la ferrovia di Mondovì. Sempre fonda il periodico La libera Parola. Insomma, una vita incredibile, sempre tra pericoli, viaggi, incontri straordinari. alcune costanti. Innanzitutto, l’odio regimi conservatori e per i valori della le. Poi la convinzione che qualsiasi to per abbatterli. Rimprovera al generale di aver negato il bombardamento della prio in quanto riconosce che sarebbe ricorrervi.

Un’altra costante in una immensa che si irradia potenze imperialistiche liberale, Londra quiete Genova Malta; dall’ospitale centri italiani di esuli e congiurati, e Civitavecchia. Algeria, nella mezzo a “molti abbondano gli Un imponente nazionale, in si nazionalisti solidarietà che lunga le proprie nasce dall’avversione contro l’ordine non si riconosce tivo e che mostruosità da Anzi, va sottolineato che quando nella ricerca della libertà e dell’indipendenza contro le potenze capitalistiche e liberali, quel tempo non esitano a schierarsi caso appunto di Carlo Pisacane che fra i mercenari della Légion Étrangère indipendentisti guidati da Abd-el-Kader, padre della patria algerina. Analoga resto, aveva fatto in Sud America strenuo difensore degli interessi britannici.

Il fratello Filippo rischia lo scontro armato con lui quando, a Vel letri, come componente della cavalleria napoletana, se lo trova di fronte quale capo di stato maggiore dell’esercito romano coman dato dal generale Pietro Roselli. Si trattava di una guerra la cui

violenza era accresciuta dall’odio ideologico, dobbiamo dire soprattutto da parte dei “li berali”. Lo stesso Roselli, nelle sue Memorie relative alla spedizione e combattimento di Velletri avvenuto il 19 maggio 1849, raccon ta come alcuni soldati napoletani e sicilia ni, catturati mentre si ritiravano a Velletri e ormai inermi, furono presi a colpi di ba ionetta dai repubblicani, i quali, rimprove randoli per non essersi schierati contro “la comune patria”, parecchi ne uccisero e pa recchi ne ferirono gravemente. Condotta contraria all’umanità e all’onor militare, che non è escluso abbia colpito anche qualcuno che era stato commilitone di Carlo Pisacane nell’esercito regio. Così si comportavano i nuovi compagni d’arme dell’ex alfiere di Ferdinando II, re da lui definito “vile tiranno”, di cui però, soltanto un anno e mezzo prima (lettera del 6 novembre 1847), implorava “come suddito” la “sovrana clemenza”.

Questi legami si concretizzano in tura organizzativa, che con efficacia alloggi, denaro, passaporti falsi, armi. giugno 1856 a Giuseppe Fanelli, colui

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esuli cilentani.

Va aggiunto che durante la guerra per Roma Carlo Pisacane entra in contrasto con Giuseppe Garibal di, insofferente alla disciplina organizzativa che egli, come capo di S.M., intendeva imprimere all’armata repubblicana.

Dopo che i francesi hanno rovesciato la Repubblica e riportato a Roma il Papa, è arrestato e poco dopo li berato, grazie, questa volta, all’interessamento della famiglia di enrichetta Riprende il suo peregrinare seguendo le vie dell’esilio dei rivoluzionari: Marsiglia (viaggiando insieme col liberale cilentano Antonio Galotti), Ginevra e Svizze ra (via Germania e Prussia), Londra. In Inghilterra è accolto come eroe. Segue Genova, ove alloggia in una casa di collina dotata di ricca biblioteca, fa ginnastica e irrobustisce le sue convinzioni socialiste. Lì incon tra altri esuli cilentani. Il 28 novembre 1852 nasce sua figlia Silvia, che non fa battezzare. La nascita è nasco sta ai parenti della madre. nel 1854 muore il patrigno di carlo, generale Ta rallo, che gli faceva avere una somma ogni mese Vive quindi poveramente. Nel 1856 trova lavoro col laborando a costruire la ferrovia di Mondovì. Sempre in quell’anno fonda il periodico La libera Parola. Insomma, una vita incredibile, sempre in movimen to, tra pericoli, viaggi, incontri straordinari. In cui vi sono alcune costanti. Innanzitutto, l’odio e il disprez zo per i regimi conservatori e per i valori della società tradizionale. Poi la convinzione che qualsiasi mezzo vada adoperato per abbatterli. Rimprovera al generale francese Oudinot di aver negato il bombardamento della città di Roma, proprio in quanto riconosce che sarebbe stato suo diritto ricorrervi.

Bakunin il pensiero rivoluzionario di Pisacane, questi dice chiaramente che “non sarebbe difficile trovar danaro” per una spedizione nel Napoletano, a condizione di spiegarne bene l’utilizzo a chi lo può fornire. Infatti, aggiungiamo noi, chi dispone di ingenti somme di denaro le elargisce soltanto quando è sufficientemente sicuro che vengano impiegate per un obiettivo a lui vantaggioso.

Le maglie di questa rete che attraversa i confini di tutti gli stati si infittisce per la sovrapposizione di un’altra rete, pure importante ed efficace, quella della solidarietà familiare e di ceto (nobiltà e ricca borghesia). Gli entourages di Carlo ed Enrichetta riescono a contattare ambasciatori, funzionari, ufficiali napoletani e stranieri, e a far pervenire ai loro protetti risorse economiche, anche se non sempre con la necessaria continuità. In ogni caso, il fatto che aiutarli significasse spesso oggettivamente facilitare azioni aggressive e violente nei confronti del Regno delle Due Sicilie e potenzialmente rischiosissime anche per i diretti interessati non sembra sia stato un problema per nessuno, a cominciare dall’amato fratello, Filippo, personalmente rimasto fedele alla monarchia.

Intanto, si va consolidando in lui la convinzione che per realizzare il “risorgimento italiano” non ci si debba affidare a prìncipi o a partiti, dovendosi piuttosto ottenere l’appoggio di tutta la nazione. Un’eventuale vittoria di Luciano Murat renderebbe il Regno delle Due Sicilie “una provincia della Francia”. Mentre se la spada della liberazione d’Italia fosse brandita da Vittorio Emanuele di Savoia si cadrebbe in “una nuova catastrofe”: «Il volgo accetta il linguaggio dei fatti, e non ragiona sull’avvenire: vedendo cacciato il Bomba, proclamata una nuova dinastia, si sottometterà molto più volentieri a chi gli promette immediata tranquillità, che a noi che dichiariamo guerra all’Austria» (lettera a Fanelli del 15 settembre 1856). Invece, partendo dal territorio più vasto, quindi dal regno del Sud, occorre che un gruppo di patrioti, anche esiguo, infligga un colpo terribile alla monarchia borbonica, mediante una spedizione che infonda nelle popolazioni il coraggio di rovesciare la tirannia di Ferdinando II.

Un’altra costante è l’inserimento in una immensa rete di solidarietà, che si irradia dalle capitali delle potenze imperialistiche di matrice liberale, Londra e Parigi, alle irrequiete Genova e Marsiglia, a Mal ta; dall’ospitale Svizzera, ai centri italiani di transi to e partenza di esuli e congiurati, come Livorno e Civitavecchia. Addirittura in Algeria, nella Legione Straniera, in mezzo a “molti spostati turbolenti”, ab bondano gli esuli politici. Un imponente movimento internazionale, in cui i anche i più accesi nazionalisti sono legati da una solidarietà che trascende di gran lunga le proprie identità, in quanto nasce dall’avver sione irriducibile contro l’ordine tradizionale. Cui non si riconosce alcun aspetto positivo e che è visto come una mostruosità da abbattere.

si fa nulla. Sarà coerente quattro anni dopo, quando l’appoggio se lo assicurerà ben prima di salpare

Il cambio di regime nelle Due Sicilie non agita ri di chi lavora nelle campagne o nelle fabbriche, ma tuisce un appetibile obiettivo nelle stanze meno segrete dei rati liberali e nelle zose sale del potere talista e imperialista.

Quindi di questa giura era stato informato il primo ministro tannico, che dimostra vederla di buon Si confermano cienza della rete bionica coerenza l’appoggio alla contro le comunità da sottomettere.

ultime. È il caso appunto di Carlo Pisacane che in Al geria si arruola fra i mercenari della Légion Étrangère per combattere gli indipendentisti guidati da Abdel-Kader, considerato il padre della patria algerina. Analoga scelta di campo, del resto, aveva fatto in Sud America Giuseppe Garibaldi; strenuo difensore degli interessi britannici.

Questi legami si concretizzano in una formidabile struttura organizzativa, che con efficacia e rapidità procura alloggi, denaro, passaporti falsi, armi.

Pisacane ormai è lanciato come la locomotiva Guccini e Mazzini lo sprona, mentre gli esuli cilentani Genova lo sconsigliano. Secondo il liberale moderato Mazziotti, l’impresa fu “una follia commessa contro parere di tutti e all’insaputa di tutti; ma è stata una nima follia” (lettera di Mazziotti a Francesco De del 26 luglio 1857). Precisa Carmine Pinto che Mazzini Pisacane ebbero contro il parere di tutti i nazionalisti cali, come Garibaldi, Bertani, Saffi, Medici, degli meridionali più influenti, come Cosenz, Conforti, Musolino, e dei liberali in carcere nel Sud, come Spaventa o Settembrini. Tutti consideravano folle un tentativo genere, la cui disorganizzazione era evidente.

In una lettera del giugno 1856 a Giuseppe Fanelli, co lui che fa conoscere a Bakunin il pensiero rivoluzio nario di Pisacane, questi dice chiaramente che “non sarebbe difficile trovar danaro” per una spedizione nel Napoletano, a condizione di spiegarne bene l’uti lizzo a chi lo può fornire. Infatti, aggiungiamo noi, chi dispone di ingenti somme di denaro le elargisce sol tanto quando è sufficientemente sicuro che vengano impiegate per un obiettivo a lui vantaggioso.

Mazzini è ovviamente coinvolto e altrettanto il comitato insurrezionale napoletano, di cui è parte l’amico Giuseppe Fanelli. La rete sovversiva comincia a sprizzare scintille nell’asse Londra, Genova, Napoli, Malta (lettera del 16 aprile 1856 a Fanelli). Garibaldi, in un primo tempo d’accordo sulla necessità di una spedizione, si tira indietro. Per lui, senza l’appoggio del governo piemontese non

Anzi, va sottolineato che quando vi sono popoli che nella ricerca della libertà e dell’indipendenza si batto no contro le potenze capitalistiche e liberali, i sovver sivi di quel tempo non esitano a schierarsi con queste

Le maglie di questa rete che attraversa i confini di tut ti gli stati si infittisce per la sovrapposizione di un’al tra rete, pure importante ed efficace, quella della soli darietà familiare e di ceto (nobiltà e ricca borghesia). Gli entourages di Carlo ed Enrichetta riescono a con tattare ambasciatori, funzionari, ufficiali napoletani e stranieri, e a far pervenire ai loro protetti risorse economiche, anche se non sempre con la necessaria continuità. In ogni caso, il fatto che aiutarli significas se spesso oggettivamente facilitare azioni aggressive e violente nei confronti del Regno delle Due Sicilie e

Come luogo dello sbarco pensa in un primo Palinuro, poi sceglie Sapri. Di là ci si dirigerà ad per formare “massa”. Il rivoluzionario Pisacane tesoro dell’esperienza del cardinale Ruffo nella riconquista antifrancese del 1799. Il suo desiderio è che si lino tutti gli appartenenti alla polizia e al “partito Stila un Proclama per l’esercito, promettendo ai oltre a “uno splendido avvenire”, “un’agiata ed esistenza” e l’elezione degli ufficiali da parte della Il 4 giugno 1857 si riuniscono a Genova Giuseppe Mazzini, Carlo Pisacane, Agostino Castelli, Giovanni Nicotera di Sambiase (Lametia Terme), pare entrato consiglio di Cavour (!), Giambattista Falcone (Cosenza), i tarantini Vincenzo Carbonelli e Mignogna, Rosolino Pilo di Palermo e il napoletano Enrico Cosenz. Si decide di partire il 10 perché i “postali” per Cagliari e Tunisi della Rubattino partono da ogni mese il 10 e il 25.

MAGAZINE 7 10 L’ALFIERE LUGLIO AGOSTO
Carlo Pisacane compiace del fatto Lord Palmerston tisce il non intervento inglese nel caso instaurazione a di un governo repubblicano (lettera a del 24 marzo

potenzialmente rischiosissime anche per i diretti interessati non sembra sia stato un problema per nessuno, a cominciare dall’amato fratello, Filip po, personalmente rimasto fedele alla monarchia.

Pisacane infatti ha già contattato la Rubattino, favorito dal fatto che a Napoli ne era rappresentante Carlo Di Lorenzo, padre della sua amata. Si raggiunge un accordo nel senso che a Pisacane sarà consegnato il piroscafo Cagliari, completo di macchinisti inglesi, a condizione che la società di navigazione non ne risulti compromessa. Si pongono le basi per la commedia che si consumerà a bordo del natante, stucchevole precedente di quella, analoga, che si replicherà nel maggio 1860 sul Piemonte e sul Lombardo.

do la sua partecipazione e il suo sostegno finanziario alla rivoluzione liberale.

Intanto, si va consolidando in lui la convinzione che per realizzare il “ri sorgimento italiano” non ci si debba affidare a prìncipi o a partiti, doven dosi piuttosto ottenere l’appoggio di tutta la nazione. Un’eventuale vittoria di Luciano Murat renderebbe il Regno delle Due Sicilie “una provincia della Francia”. Mentre se la spada della libe razione d’Italia fosse brandita da Vitto rio Emanuele di Savoia si cadrebbe in “una nuova catastrofe”: «Il volgo accetta il linguaggio dei fatti, e non ragiona sull’avvenire: vedendo cacciato il Bomba, proclamata una nuova dinastia, si sottomet terà molto più volentieri a chi gli promette immediata tranquillità, che a noi che dichiariamo guerra all’Au stria» (lettera a Fanelli del 15 settembre 1856). Invece, partendo dal territorio più vasto, quindi dal regno del Sud, occorre che un gruppo di patrioti, an che esiguo, infligga un colpo terribile alla monarchia borbonica, mediante una spedizione che infonda nel le popolazioni il coraggio di rovesciare la tirannia di Ferdinando II.

“Impadronitisi” del vapore, secondo un copione su cui sorvoliamo per non offendere l’intelligenza dei lettori, i sovversivi saranno raggiunti in alto mare da Rosolino Pilo con una goletta carica di armi; quindi andranno a Ponza dove libereranno i carcerati e li porteranno con sé a Sapri per dare inizio alla rivolta.

Accade però che la barca di Pilo finisce in una tempesta e l’equipaggio è costretto a gettare le armi a mare. La partenza è rimandata.

Carlo Pisacane, allora, con audacia (era un condannato per diserzione) si imbarca su un “postale” di linea e da Genova raggiunge Napoli, da cui è assente da oltre un decennio. Deve avvisare il comitato partenopeo del rinvio dell’impresa. Incontra Fanelli e gli altri e, dopo un momento di avvilimento, riprende entusiasmo. La spedizione partirà, secondo il calendario della Rubattino, nella nuova data del 25 giugno!

Da Genova, informa Fanelli che “il materiale” è stato “rimpiazzato”. Gli manda poi una lettera di istruzioni, che però arriverà a Napoli in ritardo. Scrive il suo Testamento politico e lo consegna alla giornalista inglese Jessie White. Il mazziniano Adriano Lemmi, denominato il “banchiere del risorgimento”, gli consegna ventiduemila lire. Come riferisce il Galzerano, «mille sterline sono raccolte a Londra da Emily Hawkes, diciassettemila franchi da Mazzini e a Genova furono raccolti altri milleduecento franchi da Casimiro De Lieto e da altri. Di denaro ne verrà consumato molto: quasi in ogni lettera a Fanelli si fa riferimento ad ingenti somme che gli vengono spedite.» La figura di De Lieto è emblematica: apparteneva a una famiglia di commercianti liberali e filofrancesi; fuggito a Londra dopo il fallimento dei moti del 1821, vi rimase oltre dieci anni; nel 1847 fu promotore di una rivolta in Calabria; condannato a morte e poi, su richiesta della moglie (figlia di un ricco commerciante genovese), graziato dal re Ferdinando II. Con l’amnistia concessa dallo stesso “tiranno”, nel gennaio 1848, riacquistò la libertà, mostrando la sua riconoscenza col partecipare attivamente alla sanguinosa giornata del 15 maggio 1848. Continuò da Reggio a ordire sommosse, finché non decise di emigrare, prima in Toscana, poi a Genova, sempre garanten-

Mazzini è ovviamente coinvolto e altrettanto il co mitato insurrezionale napoletano, di cui è parte l’a mico Giuseppe Fanelli. La rete sovversiva comincia a sprizzare scintille nell’asse Londra, Genova, Napoli, Malta (lettera del 16 aprile 1856 a Fanelli). Garibaldi, in un primo tempo d’accordo sulla necessità di una spedizione, si tira indietro. Per lui, senza l’appoggio del governo piemontese non si fa nulla. Sarà coerente quattro anni dopo, quando quell’appoggio se lo assi curerà ben prima di salpare da Quarto. Il cambio di regime nelle Due Sicilie non agita i pen sieri di chi lavora nelle campagne o nelle fabbriche, ma costituisce un appetibile obiettivo nelle stanze più o meno segrete dei congiurati liberali e nelle sfarzose sale del potere capitalista e imperialista.

Carlo Pisacane si compiace del fatto che Lord Palmer ston garantisce il non intervento inglese nel caso di in staurazione a Napoli di un governo repubblicano (lettera a Fanelli del 24 marzo 1857). Quindi di questa congiura era stato informato il primo ministro britannico, che di mostra di vederla di buon occhio! Si confermano l’effi cienza della rete e l’albionica coerenza nell’appoggio alla pirateria contro le comunità da sottomettere.

Pisacane ormai è lanciato come la locomotiva di Guccini e Mazzini lo sprona, mentre gli esuli cilentani a Genova lo sconsigliano. Secondo il li berale moderato Mazziotti, l’impresa fu “una follia commessa contro il pa rere di tutti e all’insaputa di tutti; ma è stata una magnanima follia” (lettera di Mazziotti a Francesco De Siervo del 26 luglio 1857).

La rete, che pullula di ricchissimi notabili, ha deciso che vale la pena di investire un po’ delle sue immense risorse in questa spedizione che, per quanto azzardata, potrà quanto meno costituire una prova generale del prossimo assalto e nel caso di malaugurato fallimento, infoltire il pantheon degli eroi della rivoluzione.

Lo spazio di un articolo non consente di ripercorrere nei dettagli la spedizione di Sapri. Mi limito ai fatti salienti e a qualche considerazione.

Il 25 giugno, al tramonto, l’imbarco di Genova è gremito. Tutti fingono di non conoscersi, ma fino a un certo punto, perché, “sfidando la polizia”, ma non certo i pericoli dell’impresa, è venuto a salutare i partenti un tale Giuseppe Mazzini. Enrichetta, da parte sua, doveva rimanere a Genova per essere utile nei moti che vi si prevedevano imminenti. Sorvolo, come preannunciato, sulla messinscena del dirottamento, accompagnato da una “nobile” dichiarazione con cui si scagiona l’equipaggio da ogni colpa. I protagonisti presenti sul vascello sono in tutto 25, di cui sette genovesi, tre anconetani, un orvietano, ecc.

Il piroscafo issa la bandiera rossa, segnale non di rivoluzione, ma di avaria alle macchine; altri - forse incoraggiati dalla poesia di Mercantini - dicono il tricolore, ma sarebbe stato stupido attirare l’attenzione. Poco plausibile - ma in ogni caso altamente significativo - quello che dichiara il console inglese a Napoli, ossia che fino a Ponza il piroscafo battè bandiera inglese. Nemmeno stavolta Rosolino Pilo riesce a portargli le armi, ma niente paura: nella stiva del Cagliari - che combinazione! - ce n’è un grosso carico.

Sbarcati a Ponza, i quattro che vanno ad aiutare la nave in avaria, fra cui il Comandante di porto, vengono presi in ostaggio. Pisacane allora sbarca, assale il posto di guardia e libera i detenuti. Per occupare la torre ove alloggiavano le truppe e le famiglie degli ufficiali, i suoi uomini uccidono un giovane tenente, Cesare Balsamo, che, facendo fino in fondo il suo dovere, si oppone agli invasori con la sciabola sguainata. A noi il compito di trarlo per sempre dall’anonimato in cui la storiografia liberale lo ha relegato, e segnalarlo all’amorevole ricordo della nostra gente.

La stragrande maggioranza dei detenuti liberati erano delinquenti comuni.

Ernesto Maria Pisacane, discendente di Carlo e grande conoscitore delle vicende del suo avo, ha affermato che la liberazione dei detenuti comuni fu un errore. Io ritengo che si colleghi a una strategia comune a tutte le rivoluzioni senza popolo. In mancanza di sostegno popolare - o meglio, avendo tra i propri sostenitori quasi esclusivamente nobili imborghesiti, possidenti, notabili, con l’ag-

Precisa Carmine Pinto che Mazzini e Pisacane ebbero contro il parere di tutti i nazionalisti radicali, come Garibaldi, Bertani, Saffi, Medici, degli esuli me ridionali più influenti, come Cosenz, Conforti, Crispi e Musolino, e dei libe rali in carcere nel Sud, come Spaventa o Settembrini. Tutti consideravano folle un tentativo del genere, la cui disorganizzazione era evidente. Come luogo dello sbarco pensa in un primo tempo a Palinuro, poi sceglie Sapri. Di là ci si dirigerà ad Au letta, per formare “massa”. Il rivoluzionario Pisacane sa fare tesoro dell’esperienza del cardinale Ruffo nella riconquista antifrancese del 1799. Il suo desiderio è che si pugnalino tutti gli appartenenti alla polizia e al “partito regio”. Stila un Proclama per l’esercito, pro mettendo ai militari, oltre a “uno splendido avveni re”, “un’agiata ed onorata esistenza” e l’elezione degli ufficiali da parte della truppa. Il 4 giugno 1857 si riuniscono a Genova Giuseppe Mazzini, Carlo Pisacane, Agostino Castelli, Giovanni Nicotera di Sambiase (Lametia Terme), pare entrato su consiglio di Cavour, Giambattista Falcone di Acri (Cosenza), i tarantini Vincenzo Carbonelli e Nicola Mignogna, Rosolino Pilo di Palermo e il napoletano Enrico Cosenz. Si decide di partire il 10 perché i “po stali” per Cagliari e Tunisi della Rubattino partono da Genova ogni mese il 10 e il 25. Pisacane infatti ha già contattato la Rubattino, favorito dal fatto che a Napoli ne era rappresentante Carlo Di Lorenzo, padre della sua amata. Si raggiunge un accor do nel senso che a Pisacane sarà consegnato il pirosca fo Cagliari, a condizione che la società di navigazione non ne risulti compromessa. Si pongono le basi per la commedia che si consumerà a bordo del natante, stuc chevole precedente di quella, analoga, che si replicherà nel maggio 1860 sul Piemonte e sul Lombardo.

“Impadronitisi” del vapore, secondo un copione su cui sorvoliamo per non offendere l’intelligenza dei lettori, i sovversivi saranno raggiunti in alto mare da Rosolino Pilo con una goletta carica di armi; quin di andranno a Ponza dove libereranno i carcerati e li

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porteranno con sé a Sapri per dare inizio alla rivolta. Accade però che la barca di Pilo finisce in una tempe sta e l’equipaggio è costretto a gettare le armi a mare. La partenza è rimandata.

Carlo Pisacane, allora, con audacia (era un condan nato per diserzione) si imbarca su un “postale” di li nea e da Genova raggiunge Napoli, da cui è assente da oltre un decennio. Deve avvisare il comitato parteno peo del rinvio dell’impresa. Incontra Fanelli e gli altri e, dopo un momento di avvilimento, riprende entu siasmo. La spedizione partirà, secondo il calendario della Rubattino, nella nuova data del 25 giugno!

Da Genova, informa Fanelli che “il materiale” è sta to “rimpiazzato”. Gli manda poi una lettera di istru zioni, che però arriverà a Napoli in ritardo. Scrive il suo Testamento politico e lo consegna alla giornalista inglese Jessie White. Il mazziniano Adriano l emmi, denominato il “banchiere del risorgimento”, gli consegna ventiduemila lire. Come riferisce il Galze rano, «mille sterline sono raccolte a Londra da Emily Hawkes, diciassettemila franchi da Mazzini e a Ge nova furono raccolti altri milleduecento franchi da Casimiro De Lieto e da altri.

Di denaro ne verrà consumato molto: quasi in ogni let tera a Fanelli si fa riferimento ad ingenti somme che gli vengono spedite.» La figura di De Lieto è emblematica: apparteneva a una famiglia di commercianti liberali e filofrancesi; fuggito a Londra dopo il fallimento dei moti del 1821, vi rimase oltre dieci anni; nel 1847 fu promotore di una rivolta in Calabria; condannato a morte e poi, su richiesta della moglie (figlia di un ricco commerciante genovese), graziato dal re Ferdinando II. Con l’amnistia concessa dallo stesso “tiranno”, nel gennaio 1848, riacquistò la libertà, mostrando la sua riconoscenza col partecipare attivamente alla sangui nosa giornata del 15 maggio 1848.

Continuò da Reggio a ordire sommosse, finché non decise di emigrare, prima in Toscana, poi a Genova, sempre garantendo la sua partecipazione e il suo so stegno finanziario alla rivoluzione liberale.

La rete, che pullula di ricchissimi notabili, ha deciso che vale la pena di investire un po’ delle sue immense risorse in questa spedizione che, per quanto azzardata, potrà quanto meno costituire una prova generale del prossimo assalto e nel caso di malaugurato fallimento, infoltire il pantheon degli eroi della rivoluzione. Lo spazio di un articolo non consente di ripercorrere nei dettagli la spedizione di Sapri.  Mi limito ai fatti salienti e a qualche considerazione.

Il 25 giugno, al tramonto, l’imbarco di Genova è gre mito Tutti fingono di non conoscersi, ma fino a un certo punto, perché, “sfidando la polizia”, ma non

giunta di chi dipende da loro e non può dire loro di no, mentre i ceti meno abbienti rimangono estranei od ostili ai progetti di rovesciamento dei regimi tradizionali - diventa indispensabile aprire le carceri. Solo così si può portare il gruppo dei rivoltosi a un’entità numerica tale da poter sfidare i difensori dello status quo. Garibaldi fece altrettanto e, anzi, si assicurò l’alleanza dei picciotti in Sicilia e della camorra a Napoli.

intanto, con un’altra care il prete Vincenzo re, così, la morte trovato, si limitano prendere a colpi A Sapri, in un trova solo le vane famiglia Gallotti, Giovanni, e l’adesione Brandi. Liberano preceduti dal Brandi quillizzare la gente, e Paolo alla presenza piazza un proclama, della popolazione, la vita con lui l’esercito alla prima delle province un taverniere, tale luzionari. Viene to alcuni galeotti

La banda prosegue Pisacane va a cercare un altro barone, un terribile episodio: Bucci, prende del Novellino pagandolo differenza e lo sottopone giudica colpevole diatamente eseguita. dele, nel senso che che pagare meno del moralità di molti improvvisati zione dei sodali di mente sproporzionata.

Sta di fatto che i carcerati fatti evadere erano molti di più dei 323 che salirono sul Cagliari. Si può immaginare che cosa possono aver fatto gli altri rimasti a Ponza, prima che le truppe delle Due Sicilie, dopo l’encomiabile viaggio in barca fatto da alcuni volenterosi a Gaeta per avvertire le autorità, ristabilissero l’ordine nell’isola.

Partiti da Ponza all’alba del 28 giugno, i sovversivi arrivano a Sapri nel tardo pomeriggio dello stesso giorno. Durante il viaggio Pisacane avrà avuto il suo daffare a indottrinare rapidamente i detenuti comuni, e a rincuorare tutti con false notizie circa le migliaia di insorgenti che li aspettavano per unirsi a loro (duemila già a Sapri!) e la certa insurrezione di Napoli.

Quando gli invasori sbarcano, dei duemila compagni di sommossa non c’è traccia. Anche perché da mesi lo stato maggiore rivoluzionario del Principato Citra era stato arrestato, compreso Giovanni Matina, l’ideatore del piano d’azione fatto proprio da Pisacane. Il grido lanciato nella notte, “L’Italia agli italiani!” non riceve nessuna risposta. Il Cagliari riparte e viene subito sequestrato dalla marina borbonica, che ovviamente arresta l’equipaggio.

Giunto nella sua terra, Carlo Pisacane, sebbene convinto che la proprietà sia un furto, va innanzitutto a cercare un ricco barone della zona, liberale fra i protagonisti e i finanziatori (con 1000 ducati d’oro) del 1848, Giovanni Gallotti, per ottenere denaro e aiuto. Ma quando bussa alla sua porta, portando con sé una guardia doganale fatta prigioniera, non lo trova, e i familiari gli dicono di non volere essere coinvolti nella sua azione. Nicotera e Falcone,

certo i pericoli dell’impresa, è venuto a salutare i par tenti un tale Giuseppe Mazzini. Enrichetta, da parte sua, doveva rimanere a Genova per essere utile nei moti che vi si prevedevano imminenti. Sorvolo, come preannunciato, sulla messinscena del dirottamento, accompagnato da una “nobile” dichiarazione con cui si scagiona l’equipaggio da ogni colpa. I protagonisti presenti sul vascello sono in tutto 25, di cui sette ge novesi, tre anconetani, un orvietano, ecc. Il piroscafo issa la bandiera rossa, segnale non di ri voluzione, ma di avaria alle macchine; altri - forse incoraggiati dalla poesia di Mercantini - dicono il tri colore, ma sarebbe stato stupido attirare l’attenzione. Poco plausibile - ma in ogni caso altamente significa tivo - quello che dichiara il console inglese a Napoli, ossia che fino a Ponza il piroscafo battè bandiera in glese. Nemmeno stavolta Rosolino Pilo riesce a por targli le armi, ma niente paura: nella stiva del Cagliari - che combinazione! - ce n’è un grosso carico.  Sbarcati a Ponza, i quattro che vanno ad aiutare la nave in avaria, fra cui il Comandante di porto, vengono pre si in ostaggio. Pisacane allora sbarca, assale il posto di guardia e libera i detenuti. Per occupare la torre ove alloggiavano le truppe e le famiglie degli ufficiali, i suoi uomini uccidono un giovane tenente, Cesare Balsamo, che, facendo fino in fondo il suo dovere, si oppone agli invasori con la sciabola sguainata. A noi il compito di trarlo per sempre dall’anonimato in cui la storiografia liberale lo ha relegato, e segnalarlo all’amorevole ricor do della nostra gente. La stragrande maggioranza dei detenuti liberati erano delinquenti comuni.  Ernesto Maria Pisacane, discendente di Carlo e gran de conoscitore delle vicende del suo avo, ha affermato che la liberazione dei detenuti comuni fu un errore. Io

riportata dagli storici A Padula, tanto per luogo, Ferdinando nito di truppe, era e i galantuomini chiusi trare solo un gruppetto Comunque la caserma gono bruciati, le immagini del re distrutte.

Il mattino del 1° Sicilie, al comando sioni agiografiche, i colori per angelicare ri, aggiungendo presunte o raccapriccianti particolari che chi si introduce sciarne il governo non tappeto rosso.

E questo certamente militare era ben consapevole azione di forza. Proprio nemico Oudinot il faziosità ideologica vento di chi, come to a difendere le istituzioni

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ritengo che si colleghi a una strategia comune a tutte le rivoluzioni senza popolo. In mancanza di sostegno popolare - o meglio, avendo tra i propri sostenitori qua si esclusivamente nobili imborghesiti, possidenti, no tabili, con l’aggiunta di chi dipende da loro e non può dire loro di no, mentre i ceti meno abbienti rimangono estranei od ostili ai progetti di rovesciamento dei regi mi tradizionali - diventa indispensabile aprire le car ceri. Solo così si può portare il gruppo dei rivoltosi a un’entità numerica tale da poter sfidare i difensori dello status quo. Garibaldi fece altrettanto e, anzi, si assicurò l’alleanza dei picciotti in Sicilia e della camorra a Napoli. Sta di fatto che i carcerati fatti evadere erano molti di più dei 323 che salirono sul Cagliari. Si può immaginare che cosa possono aver fatto gli altri rimasti a Ponza, pri ma che le truppe delle Due Sicilie, dopo l’encomiabile viaggio in barca fatto da alcuni volenterosi a Gaeta per avvertire le autorità, ristabilissero l’ordine nell’isola. Partiti da Ponza all’alba del 28 giugno, i sovversivi arrivano a Sapri nel tardo pomeriggio dello stesso giorno. Durante il viaggio Pisacane avrà avuto il suo daffare a indottrinare rapidamente i detenuti comuni, e a rincuorare tutti con false notizie circa le migliaia di insorgenti che li aspettavano per unirsi a loro (due mila già a Sapri!) e la certa insurrezione di Napoli. Quando gli invasori sbarcano, dei duemila compagni di sommossa non c’è traccia.

Anche perché da mesi lo stato maggiore rivoluziona rio del Principato Citra era stato arrestato, compreso Giovanni Matina, l’ideatore del piano d’azione fatto proprio da Pisacane. Il grido lanciato nella notte, “L’I talia agli italiani!” non riceve nessuna risposta. Il Ca gliari riparte e viene subito sequestrato dalla marina borbonica, che ovviamente arresta l’equipaggio. Giunto nella sua terra, Carlo Pisacane, sebbene con vinto che la proprietà sia un furto, va innanzitutto a cercare un ricco barone della zona, liberale fra i pro tagonisti e i finanziatori (con 1000 ducati d’oro) del 1848, Giovanni Gallotti, per ottenere denaro e aiuto. Ma quando bussa alla sua porta, portando con sé una guardia doganale fatta prigioniera, non lo trova, e i fa miliari gli dicono di non volere essere coinvolti nella sua azione. nicotera e Falcone, intanto, con un’altra squadra di “patrioti”, vanno a cercare il prete Vincen zo Peluso per ucciderlo e vendicare, così, la morte di Costabile Carducci. Non avendolo trovato, si limitano ad appiccare il fuoco al portone e a prendere a colpi di scure le porte.

A Sapri, in un “immenso deserto di indifferenza”, tro va solo le vane promesse di un altro esponente della famiglia Gallotti, il sacerdote Filomeno, fratello di Giovanni, e l’adesione del loro domestico Mansueto

Brandi. Liberano tre carcerati e si recano a Torraca, preceduti dal Brandi che cerca in ogni modo di tran quillizzare la gente, intenta a festeggiare i Santi Pietro e Paolo alla presenza del vescovo.

Pisacane legge in piazza un proclama, in cui, preso atto della freddezza della popolazione, per convincere la gente a rischiare la vita con lui prospetta un’ine sistente adesione dell’esercito alla sua azione e l’im minente insorgenza prima delle province e poi della capitale. Aderisce solo un taverniere, tale Vincenzo Cioffi, che rifocilla i rivoluzionari. Viene abbattuto il palo del telegrafo, e intanto alcuni galeotti ripren dono a fare il loro mestiere. La banda prosegue per Padula; a Casalbuono Pisacane va a cercare non una famiglia di oppressi, ma un altro barone, De Stefano. A Casalbuono si verifica un terribile episodio: un se guace di Pisacane, Eusebio Bucci, prende del pane dal la commerciante Giulia Novellino pagandolo 16 anzi ché 36 grana. Pisacane dà la differenza e lo sottopone a un “consiglio di guerra”, che lo giudica colpevole e lo condanna alla fucilazione, immediatamente eseguita. Delle due l’una: o il racconto è infedele, nel senso che Bucci fece qualcosa di ben più grave che pagare meno del dovuto, il che conferma la pessima moralità di molti improvvisati sovversivi, oppure la reazione dei sodali di Pisacane fu di una crudeltà assolutamente sproporzionata. Quindi la versione “edificante” ripor tata dagli storici liberali fa acqua da tutte le parti.

A Padula, tanto per cambiare, si rivolgono al barone del luogo, Ferdinando Romano, che li ospita. Il paese, sguarnito di truppe, era deserto: gli uomini al lavoro nei campi e i galantuomini chiusi nelle case. Pisacane riesce a incontrare solo un gruppetto di “galantuomi ni” e qualche prete. Comunque la caserma viene assal tata, carte e registri vengono bruciati, le guardie urbane disarmate, stemmi e immagini del re distrutte.

Il mattino del 1° luglio arrivano i soldati delle Due Sicilie, al comando del colonnello Ghio. Al di là delle versioni agiografiche, che disperatamente cercano di saturare i colori per angelicare i rivoltosi e demoniz zare i difensori, aggiungendo presunte frasi edificanti dei rivoluzionari o raccapriccianti particolari della repressione, sta di fatto che chi si introduce nel terri torio di uno Stato per rovesciarne il governo non può aspettarsi di essere accolto col tappeto rosso.

E questo certamente non si aspettava Pisacane, che da militare era ben consapevole del rischio legato ad ogni azione di forza. Proprio lui che aveva riconosciuto al suo nemico Oudinot il diritto di bombardare Roma!

Solo la faziosità ideologica può negare la legittimità dell’intervento di chi, come il tenente Balsamo a Ponza, è obbligato a difendere le istituzioni per le quali opera.

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Quand’anche ci

volesse

versione, sembrerebbe molto improbabile che le parole di Pisacane, ammesso che siano state pronunciate, avessero indotto tutti i compagni a dare chiari segni di resa. Ed è difficile fermare una folla inferocita ed eccitata nel momento dello scontro.

In verità, se dell’attendibilità di Laveglia si può legittimamente dubitare, altrettanto inaffidabile è la testimonianza del giudice Gaetano Fischetti, il quale avalla la tesi dell’assassinio di persone inoffensive che si erano già arrese: egli, infatti, racconta i fatti in pieno regime sabaudo, e ci sarebbe voluto un coraggio da leone per contraddire la versione data da Nicotera al processo. Invece la santificazione di Pisacane è molto opportuna per un funzionario che ha fatto carriera nel regime borbonico e manifestato compiacimento per l’esito dello scontro di Padula, e ora deve riconquistare la fiducia dei nuovi governanti.

E qui erano in gioco anche l’ordine e l’incolumità pubblica, in quanto coloro che sbarcavano, in armi, erano in gran par te delinquenti comuni, in molti casi desiderosi di tornare a operare nella loro provincia natìa, ed erano spesso conosciu ti dalla gente, che ne aveva giustamente paura. E il fatto che la popolazione, rischiando la vita, aiuti la polizia a debellare una banda armata composta in gran parte da uomini con l’a bito da reclusi, non può che essere lodato da chi non è affetto da cieco pregiudizio. Se vi sono stati episodi di ferocia, sono senz’altro da condannare, ma l’essenza dell’evento è questa. Sulle circostanze in cui Pisacane ha trovato la morte le ver sioni sono molte e l’individuazione di quella vera trascende di molto le finalità di questo articolo.

Altre versioni circolano dell’uccisione di Pisacane. Come quella del gendarme Gaetano Enter, il quale disse di averlo personalmente colpito a morte in risposta a due

Le raffigurazioni apologetiche della morte di Pisacane lo vedono nell’atto di soccombere, armato, a popolani e gen darmi; eppure si afferma che egli e i suoi fossero, se non di sarmati, già praticamente inermi. Tuttavia non risulta che si fossero arresi, né che avessero deposto le armi. La tesi del suicidio di Pisacane, pure prospettata (anche dall’Enciclope dia Treccani), è oggi minoritaria. E poco si armonizza con la sua indole combattiva che abbiamo imparato a conoscere. La versione del sotto-capo urbano Sabino Laveglia nel suo rapporto sui fatti di Sanza è che i sovversivi avanzavano sparando. La sua testimonianza è poco utile, essendo egli fortemente interessato a sopravvalutare la pericolosità dei propri avversari.

La versione maggiormente celebrativa recita che alle prime fucilate sessanta rivoltosi si danno a fuga precipitosa e sven tolano pezze bianche in segno di resa, mentre Nicotera cerca invano di farli desistere. E che, viceversa, la trentina di uomi ni rimasti con Pisacane avrebbe voluto reagire all’assalto dei paesani e dei gendarmi, ma qui interviene la frase esemplare attribuita a Carlo in punto di morte: «Non si versa mai san gue fraterno!».

Quand’anche ci si volesse attenere a questa versione, sem brerebbe molto improbabile che le parole di Pisacane, am messo che siano state pronunciate, avessero indotto tutti i compagni a dare chiari segni di resa. Ed è difficile fermare una folla inferocita ed eccitata nel momento dello scontro. In verità, se dell’attendibilità di Laveglia si può legittima mente dubitare, altrettanto inaffidabile è la testimonianza del giudice Gaetano Fischetti, il quale avalla la tesi dell’as sassinio di persone inoffensive che si erano già arrese: egli, infatti, racconta i fatti in pieno regime sabaudo, e ci sareb be voluto un coraggio da leone per contraddire la versione data da Nicotera al processo. Invece la santificazione di Pi sacane è molto opportuna per un funzionario che ha fatto carriera nel regime borbonico e manifestato compiacimen to per l’esito dello scontro di Padula, e ora deve riconquista re la fiducia dei nuovi governanti.

Altre versioni circolano dell’uccisione di Pisacane. Come quella del gendarme Gaetano Enter, il quale disse di averlo personalmente colpito a morte in risposta a due colpi di

nente al partito borbonico, e, ovviamente, dei poliziotti, non avrebbe mai preteso né pensato di non trovare opposizione armata. Era un militare serio e non avrebbe accettato versioni dolciastre e strumentali della sua estrema vicenda terrena, che fu sbocco coerente del suo pensiero.

Ma su questo rifletteremo nel prossimo numero. (continua)

fucile sparatigli dal noto rivoluzionario. Un’altra ricostru zione dei fatti è stata tramandata oralmente nella zona, dif ferenziandosene solo nell’individuazione dell’uccisore. In realtà, nessuno sa con precisione come veramente siano andate le cose, almeno nell’ultima ora dell’esistenza terrena di Carlo Pisacane.

Sappiamo che un gruppo di rivoluzionari sbarcati nel terri torio del Regno, commettendo una serie di violenze e ucci dendo un giovane ufficiale, hanno fatto uscire dal carcere di Ponza moltissimi detenuti, in massima parte comuni, e con circa trecento di essi, unitisi al gruppetto dei liberali, si sono portati in armi sulla costa del Principato Citra, col proposito di scatenarvi una rivolta. Sappiamo anche che presso Sanza un gruppo di gendarmi, capitanati da Sabino Laveglia, si op posero allo sbarco come il dovere loro imponeva, ottenen do l’appoggio di parte della popolazione. Sebbene la banda dei rivoltosi si presentasse più debole, non c’è dubbio che lo scontro rappresentasse comunque un rischio per chi aveva scelto di parteciparvi, anche da parte realista. Quindi biso gna avere l’onestà intellettuale di riconoscere che i gendarmi e i popolani ebbero del coraggio. Se poi nell’azione vi furono degli eccessi, vanno certo condannati; come del resto biso gna condannare il massacro di inermi prigionieri borbonici consumato dai liberali repubblicani a Velletri.

Di certo, all’arrivo di Garibaldi in zona, tre anni dopo, Sabi no Laveglia, il fratello Domenico, il farmacista Filippo Gre co Quintana e Giuseppe Citera, furono presi e fucilati da un “liberale”, tale Cristoforo Ferrara di San Biase, frazione di Ceraso. Incredibilmente, nel raccontare l’evento, c’è chi parla di “processo” fatto dallo stesso boia. Il che fa capi re perfettamente quale concetto di giustizia abbiano certi esaltatori del risorgimento.

Io penso che Carlo Pisacane, il quale inneggiava all’uccisio ne immediata, per accoltellamento, di ogni appartenente al partito borbonico, e, ovviamente, dei poliziotti, non avreb be mai preteso né pensato di non trovare opposizione ar mata. Era un militare serio e non avrebbe accettato versioni dolciastre e strumentali della sua estrema vicenda terrena, che fu sbocco coerente del suo pensiero. Ma su questo rifletteremo nel prossimo articolo.

(Continua) MAGAZINE 11
si
attenere a questa

Il teSoro dI San gennaro

Recentemente si è parlato molto del Tesoro della Corona Inglese, soprattutto i media ita liani mettendo in evidenza il valore storico, culturale ed economico. Ma c’è un tesoro che è più vasto di quello della corona britannica e il suo valore farebbe impallidire la compianta Regina Elisabetta. Infatti, non basterebbe tutto l’oro della corona britannica, né gli zeri su un assegno per acquistare i 21mila goielli che compongono il tesoro del Patrono di Napoli. A chi appartiene e quanto vale?

Il tesoro di san Gennaro è di proprietà degli abitanti di napoli, cosa unica al mondo. Non tutti

sanno, infatti, che il vaticano non vanta nessun diritto sull’oro di San Gennaro, nemmeno lo stato italiano può disporre dei gioielli custoditi nella Cappella del Tesoro che si trova Duomo, accumulati nei secolo dalle donazioni dei napoletani, eccellenti e popolani. Il suo valore è inestimabile e è di proprietà degli abitanti di Napoli.

Solo la Mitra del Santo potrebbe valere intorno ai 20 milioni di euro, considerando che ognuno degli smeraldi da 26 carati incastonati hanno un valore commerciale superiore al milione di euro, senza contare le altre quasi 4mila pietre preziose. Non esistono assicurazioni, nemmeno i Lloyd di Londra, che stipulano polizze per esporre contemporaneamente i pezzi più preziosi, troppo costosi da rimborsare in caso di furto.

la mitra di San gennaro. Matteo Treglia, 1713. Una mitra (copricapo vescovile) realizzata nel 1713 dall’orafo Matteo Treglia, in cui sono incastonate in tutto 3964 pietre preziose (3.328 diamanti a rappresentare la durezza della fede,168 rubini a rappresentare il sangue del santo e 198 smeraldi a rappresentare la conoscenza), per un peso complessivo di 18 kg[3]. La mitra è completata da due infule decorate con due incisioni dell’ampolla di san Gennaro.

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Composto di 21 mila pezzi, è il tesoro più prezioso al mondo e supera di gran lunga quello della corona Britannica

Il tesoro di San Gennaro ha ispirato sia la letteratura, che il cinema basti pensare ad una raccolta di racconti di Giuseppe Marotta, L’Oro di Napoli.

L’opera di Marotta verrà portata poi sul grande schermo da Vittorio De Sica, nel 1954. Il film è diviso in 6 episodi.

Nel 1966 esce il film Operazione San gennaro, con la regia di Dino Riso e un cast di prim’ordine tra cui spiccano Totò e Nino Manfredi (nella foto una scena del film).

Tre americani decidono di rubare il tesoro di San Gennaro e chiedono la “collaborazione di un guappo (Manfredi) ma dopo la morte di uno

degli Americani, la banda dei napoletani viene coinvolta attivamente nel colpo. Tuttavia prima di intraprendere il colpo, i napoletani chiedono l’autorizzazione a San Gennaro, che viene accordata dal Santo. Dopo varie peripezie, il tesoro viene restituito al Santo e alla città.

Nel 2016, solo per spostare statue, arredi sacri e gioielli a una mostra allestita al Tarì di Marcenise, fu stipulata una polizza record da 60 milioni di euro.

All’inestimabile Tesoro hanno contribuito, con i loro doni, nobili e potenti di tutta Europa, tra cui Maria Teresa d’Austria e la Real Casa di Borbone. Tutti volevano entrare nelle grazie del Santo – per fede o scaramanzia – ogni volta che mettevano piede in città non mancavano di portare un dono sfarzoso alla reliquia del Santo.

Ma c’è un’altra curiosità: nelle pesanti casseforti del Duomo, tra brillanti e zaffiri, ci sono anche doni che non hanno un valore economico elevato, specialmente quelli portati con devozione dai popolani – forse i più fedeli al Santo – raggiunti da una delle tante grazie e miracoli di San Gennaro.

Sulla collana che adorna il busto del Santo, ad esempio, ci sono incastonati due orecchini di perle che appartenevano a una popolana che per grazia ricevuta dal suo protettore, si spogliò dei suoi unici beni preziosi.

Il patto ufficiale tra il Santo e il popolo partenopeo risale al 1527, durante la dominazione spagnola con la città devastata da guerra, pestilenza e terremoti.

La disperazione dei napoletani era tale da spingerli a stringere un vero e proprio patto con il loro amato Patrono: “San Gennaro, salva la nostra città e noi ti costruiremo la chiesa più bella”. E così fu.

Furono eletti dei rappresentanti per ogni quartiere (ai tempi si chiamavano Sedili) di Napoli: cinque nobili e un popolano. Tutti insieme andarono da un

notaio a stipulare il patto con il quale diedero avvio ai lavori per la costruzione della chiesa e fondarono “La Deputazione”, l’organo di governo della Cappella del Tesoro di San Gennaro, che ricette il gravoso compito di custodire le reliquie del Santo e i doni contenuti nella Cappella.

Ancora oggi, i discendenti di quei sei primi eletti proteggono l’Oro del Santo. E fu così che le epidemie cessarono e Napoli torno, piano piano, agli antichi splendori.

Costruito nei secoli a suon di donazioni è composto, come già detto, da oltre 21mila pezzi, tra collane, gioielli ed ex voto.

Spiccano tra questi pezzi, le preziose croci donate al Santo dal Re di Napoli, Carlo di Borbone, e anche Napoleone Bonaparte, che con la Chiesa romana non fu mai in buoni rapporti ha donato dei pezzi (la croce di smeraldida). Tra i suoi donatori illustri troviamo anche Maria Amalia di Sassonia, Maria Carolina d’Asburgo, Francesco I d’Austria, Giuseppe Bonaparte, Maria Cristina di Savoia Vittorio Emanuele II e Umberto I di Savoia, quest’ultimo donò un pezzo per essere scampato all’attentato di Giovanni Passannanti nel 1878 (ne abbiamo parlato nel numero scorso. L’ultimo dono fu un anello dato nel 1929 da Maria José, ultima regina d’Italia. Ma quanto vale il Tesori di San Gennaro? È impossibile fare una stima precisa, tant’è che alcuni dei pezzi più preziosi non possono essere esposti insieme per clausola assicurativa: nessun premio ne coprirebbe il valore in caso di furto. Nel 2010, un team di

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I l te S oro d I S an gennaro al CI nema
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la collana di San gennaro. Michele Dato, 1679. Una collana realizzata tra il 1679 ed il 1929 (circa 250 anni) dall’aggiunta al gioiello originale, realiz zato dall’orafo Michele Dato, di pietre preziose e gioielli fatti dono in questi secoli da sovrani, papi, nobili e gente comune.

gemmologi, riuniti a Roma in occasione della mostra dedicata al Tesoro di San Gennaro, ha stimato il valore della sola Mitra in 7 milioni di euro. La croce di smeraldida 26 carati ciascuno, donata da Napoleone, vale più di 20 milioni di euro.

Il pezzo più prezioso è la Collana del Santo, esposta in processione durante le tre date annuali dei Prodigi: disegnata da Michele Dato nel 1679, nasce dall’unione di 13 maglie d’oro massiccio su cui sono appoggiate croci di smeraldo e zaffiri. Alla creazione, parteciparono i principali maestri orafi partenopei, che si sono susseguiti con aggiunte successive nel corso dei secoli.

Conservato da secoli al Duomo, durante gli eventi bellici della Seconda guerra mondiale, per evitare che cadesse in mano dei nazisti, il Tesoro di San Gennaro fu portato in Vaticano per essere conservato e riportato in Cattedrale nel 1947 per tramite di Giuseppe Navarra, soprannominato “o rre di Poggioreale”, che riuscì a far pervenire i preziosi intatti nelle mani

dell’allora arcivescovo Alessio Ascalesi. Proprio questo episodio sembra abbia ispirato il film di Dino Risi Operazione San Gennaro del 1968, quando dopo un furto, in maniera rocambolesca un guappo, che aveva partecipato al furto con il “permesso del Santo” (e ciò fa capire il particolare legame tra Napoli e San Gennaro), riesce a consegnare il tesoro alla città. Il museo è stato aperto al pubblico nel dicembre 2003 grazie ad un progetto finanziato da aziende private, da fondi europei e dalle istituzioni locali e sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, e su proposta della Deputazione della reale cappella del Tesoro, antica istituzione laica fondata nel 1601. L’area museale è di oltre settecento metri quadrati ed espone le sue opere (che in precedenza non erano mai state offerte alla visione del pubblico); gioielli, statue, busti, tessuti pregiati e dipinti di grande valore.

Oltre ai pezzi citati, fanno parte del tesoro:

• un calice in oro del 1860 donato da Francesco II, che fu l’ultimo dono dei Borbone-Due Sicilie al tesoro del santo.

• una croce episcopale in oro, smeraldi e diamanti donata da Umberto I e Margherita di Savoia come segno di ringraziamento per essersi salvati da un attentato nel 1878.

• una pisside d’oro, corallo e malachite donata da Umberto II di Savoia, ultimo re d’Italia, al suo arrivo in città nel 1931.

Il Re l’aveva appositamente commissionata alla famiglia Ascione di Torre del Greco, detentori del brevetto di fornitori ufficiali della Real Casa di Savoia.

All’interno del museo è custodita una collezione degli argenti (circa 70 pezzi) che, abbracciando un arco di tempo che va dal 1305 all’età contemporanea, si presenta intatta non avendo mai subito manomissioni a causa di furti ed è per la quasi totalità opera di maestri della scuola napoletana.

Il percorso museale prevede anche la visita alle tre sacrestie della Cappella del Tesoro, di recente sottoposte a restauro e contenenti pregevoli dipinti di Luca Giordano, Massimo Stanzione, Giacomo Farelli e Aniello Falcone.

Il Museo del Tesoro di san Gennaro si trova in via duomo, aperto tutti i giorni fino alle 18,30, costo del biglietto 10 euro.

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San gennaro, I MIRAcOLI E... I 52 protettorI dI napolI

Incominciamo col dire che San Gennaro non è l’unico patrono di Napoli, anzi, la città partenopea ha il re cord assoluto di santi protettori nel mondo cattolico: sono addirittura 52. Tra l’altro, san Gennaro non è neppure il patrono “principale”: la titolare del Duomo è infatti Santa Maria Assunta. Poi i Napoletani venerano anche altri Santi, come Santa Patrizia, il cui corpo riposa nella chiesa di san Gregorio Armeno e lo stesso san Gregorio Armeno e Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe il cui corpo riposa nei Quartieri Spagnoli. Ecco cosa c’è da sapere sul patrono di Napoli, tra i personaggi più famosi dell’agiografia cristiana, in occasio ne del giorno dedicato a San Gennaro e alla sua festa a Napoli.

1gennaro non è il nome del Santo, bensì il suo cognome, che all’epoca veniva chiamato “gentilizio”. “Gennaro” deriva infatti da “Ianuarius”, un appellativo che veniva dato a coloro che nascevano nel mese di Gennaio. Il nome vero di San Gennaro è probabilmente procolo oppure publio fausto Gennario.

2Il culto di San Gennaro nasce e si diffonde fin dal V secolo d.C., ma la sua santificazione avvenne solo nel 1586, per opera di papa Sisto v. Il culto del santo divenne presto correlato alla protezione della città da eventi disastrosi, come nel caso dei terremoti o delle eruzioni del Vesuvio; San Gennaro offuscò Sant’Agrippino, che fino a quel momento era stato il patrono del capoluogo partenopeo.

3Le ampolle che contengono il sangue di San gennaro sono due: una più grande di forma ellittica ed è piena del sangue del santo per più della metà della sua capienza. La seconda, invece, ha una forma cilindrica ed è molto più piccola, e contiene solo alcune macchie ai lati del recipiente. Delle due, per il miracolo viene utilizzata soltanto la prima.

4Il miracolo di San gennaro avviene tre volte durante l’anno sabato del mese di maggio, il 19 settembre, data del martirio, il 16 dicem bre, in occasione dell’eruzione del vesuvio 1631 e la lava che si fermò dal ricoprire Napoli proprio grazie all’invocazione del Santo.

5Due le volte che San gennaro ha perso il ruolo di patrono di la prima volta nel 1799 per aver fatto il miracolo durante la Rivoluzione tenopea e i napoletani lo sostituirono con Sant’Antonio. La seconda volta Dal 1963 al 1965, durante il concilio vaticano II, la congregazione dei riti scelse di eliminare San Gennaro dal calendario dei santi: la riforma liturgica del 1969 dichiarò insufficienti le testimonianze del fatto che San Genna ro fosse realmente esistito. ciò causò una vera e propria ribellione del popolo napoletano, che costrinse la congregazione a dare culto al santo, ma soltanto nel capoluogo partenopeo: i napoletani la presero bene e reagirono con l’iconica ironia del popolo partenopeo (celebri gli striscioni con scritto “San gennaro futtitenn”).

6San gennaro non è solo il santo patrono di Napoli, ma è per cepito come un membro della famiglia. Uno dei sopranno mi di San Gennaro è “faccia ‘ngialluta”, cioè “faccia gialla”: il nome è dovuto al colore del busto rappresentante il volto del santo e realizzato in oro giallo.

7fin dal 1926, anche nel quartiere italiano della città, Little Italy, di New York si festeggia la festa di San Gennaro. Il 19 settembre rrivano migliaia di italoamericani da tutti gli angoli degli Stati Uniti, per celebrare il rito che dura molti giorni e prevede una processione per le strade del quartiere.

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c URIOSITà....

rICCardo pazzaglIa

Scrittore, autore, paroliere e regista, artista... napoletano

pina Iovane

Alzi la mano chi non ricorda l’episodio del ca valluccio rosso nel film c osì parlò Bellavi sta, dove un signore di mezz’età raccontava agli occasionali avventori l’episodio del tentato furto di cui era stato vittima, quel signore era Riccardo Pazzaglia.

Nato e cresciuto a Napoli nel rione Sanità, si diploma in regia al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, avendo come docenti Vittorio De Sica e Ro berto Rossellini. Da quell’anno, comincia un’intensa attività di documentarista e sceneggiatore (firma fra l’altro il soggetto del film del 1957 l azzarella). Il suo film di esordio, L’onorata società (1960), che è una dissacrazione della mafia.

Da ricordare Farfallon (1974), satira del sistema carcerario, sia repressivo che permissivo, nonché parodia del più noto film Papillon. Negli anni ot tanta è autore di vari libri, come Il brodo primordia le (1985), seguito da La stagione dei bagni (1987) e Partenopeo in esilio (1989).

Dall’opera di satira sociale Separati in casa trae la sceneggiatura del film omonimo, basato sulle vi cissitudini di due coniugi (interpretati da Pazzaglia stesso e da Simona Marchini), costretti a vivere da separati nella stessa abitazione a causa della carenza di alloggi.

È anche autore di alcune canzoni interpretate da domenico Modugno come Sole, sole, sole, Lazzarel la, Io, mammeta e tu, Meraviglioso.

Ha inoltre scritto assieme a Gianni Boncompagni La scala buia, cantata da Mina su musiche di Franco Bracardi.

Narratore di storia, ha descritto le vicende della seconda metà dell’800 nella Trilogia dell’800: ne Il regno dei due cognati racconta il decennio francese a Napoli e il doppio regno di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, in Garibaldi ha dormito qui (vincitore del Premio Cimitile) racconta la fine del Regno delle Due Sicilie fino alla difesa di Gaeta, mentre ne La Repubblica romana ha i giorni contati tratta degli ultimi giorni della Repubblica Romana del 1849.

In teatro, ha partecipato a numerose commedie, tra cui La moglie fatta in casa, scritta in doppi settenari e ispirata a La scuola delle mogli di Molière e Cira no, commedia musicale con musiche di Modugno. nel 1993 partecipa all’incontro che darà origine al Movimento culturale “neoborbonico”, in occasio ne del quale presenta una versione rivista dell’in no delle due sicilie Nel 1968, per Radiodue, creava - con Corrado Mar tucci - il programma Radio Ombra rinnovando il linguaggio radiofonico. Nel 1969, sempre per Ra diodue, con L’altra radio, affianca degli sconosciuti, ma professionisti nei loro campi ad attori della sede Rai di Via Asiago per dar vita a convegni e dibattiti dai toni surreali.

Seguono, per circa vent’anni, per le tre reti Rai, pro grammi di cui è autore e - sempre più spesso - anche conduttore: Il Giocone, Un altro giorno, e tantissimi altri.

Nel 1984 firma come autore, insieme a Renzo Arbo re, il programma Cari amici vicini e lontani, dedicato ai sessant’anni della radio. L’anno seguente è uno dei brillanti protagonisti del celebre programma comico Quelli della notte, ideato e condotto da Arbore nel ruolo di un flosofo. Nel 1988 è autore, con Pier Fran cesco Pingitore, di Cocco, che conduce con Gabriella Carlucci. All’interno di questo show si ritaglia uno spazio satirico - della durata di soli tre minuti - in titolato appunto Tre minuti per me. Dallo stesso anno, e per molte puntate fino al 2002, è ospite del Maurizio Costanzo Show. È morto a Roma, il 4 ottobre 2006, all’età di 80 anni.

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p ERSONAGGI

mIa martInI

Si è svolta sabato 1 ottobre, a Somma vesuviana, l’ottava edizione del Mia Martini Festival. Location dell’evento il teatro Summarte (sold out per l’occasione), ed è stato l’anno del ritorno del pubblico in sala dopo due anni di “emigrazione on-line” causa covid. A presentare la manifestazione, il direttore artistico Ciro Castaldo e Maria Vittoria Palma

Questa edizione ha rafforzato ancora di più Il connubio che lega Mia Martini alla città vesuviana, proprio durante gli anni bui della sua carriera (dovute alle fesserie che qualcuno aveva messo in giro su di lei) l’artista di Bagnara calabra, si esibiva nelle feste di piazza nella zona vesuviana e proprio una di quelle piazze porta il nome di La manifestazione aveva un duplice intento: omaggiare Mimì attraverso la voce di artisti del panorama musicale nazionale e promuovere gli artisti del territorio come Davil A, Marco Mariconda, Lara Molino e i Terrasonora

Inoltre, si è svolto una sorte di gemellaggio, tra Mia Martini e un grande autore della musica italiana, Giancarlo Bigazzi, (uno dei fondatori dei miti ci Squallor, ndr) definito l’artigiano della canzone, autore di oltre mille canzoni, e ha scritto per Mimì glI uOMInI non cambiano

Apriamo una parentesi su Rapsodia, che era in gara all’Euro festi val del 1992 in Svezia e che aveva formalmente vinto l’edizione di quell’anno, ma siccome l’Italia, per motivi economici, non volle orga nizzare l’edizione successiva (che spetta per regolamento al vincitore) la vittoria fu assegnata all’Irlanda. presenti in platea la signora Gianna Albini Bigazzi (vedova del grande Giancarlo) che ha raccontato l’aneddoto secondo cui la ti amo, è stata ispirata da un brano della gatta cenerentola Roberto De Simone. Due artisti napoletani Gianni Fiorillo Nocerino hanno omaggiato la signora Gianna cantando un brano della “ballata” di De Simone.

Numerosi gli artisti che hanno omaggiato Mimì e Giancarlo Bi gazzi, primo fra tutti, Mimmo Cavallo, cantante che nei primi anni 80 aveva scalato le classifiche con noi siamo meridionali Mamma, e che ha presentato l’inedito “Oh Mimì”. L’artista taran tino era in tour con Mimì in quel maggio del 1994.

Da brividi il duetto di Franco Fasano e Francesco Alotta, proprio l’artista palermitana che aveva partecipato alla scorsa edizione di Tale e Quale su Raiuno e ha ripercorso la carriera artistica di Mimì da piccolo Uomo a Rapsodia.

Ospiti della serata anche il Giardino dei Semplici, che hanno ricevuto insieme agli altri artisti il premio Mia Martini alla car riera.

A dare un respiro nazionale alla manifestazione la preenza di Elena Brunelli, suocera di Andrea Bocelli e ambasciatrice della fon dazione Andre Bocelli, che si occupa di progetti benefici come la co struzione di scuole in territori difficili o colpiti da calamità.

Appuntamento alla nona edizione, ad maiora.

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ognI anno Il due novembre...

l“Festa dei Morti” in Sicilia è una ricorrenza mol to sentita, risalente al X secolo, viene celebrata il 2 novembre per commemorare i defunti. Si nar ra che anticamente nella notte tra l’1 ed il 2 novembre i defunti visitassero i loro cari ancora in vita portando ai bambini dei doni. Oggi questi doni vengono acquistati dai genitori e dai parenti nelle tradizionali “fiere”, che si svolgono in molte parti della Sicilia.

Qui vi si trovano bancarelle di giocattoli e oggetti vari da donare ai bambini, che vengono poi nascosti in casa e trovati da quest’ultimi, al mattino presto, con una sorta di caccia al tesoro (come fosse una festa del la befana anticipata).

Oltre a giocattoli di ogni sorta, esiste l’usanza di rega lare scarpe nuove, dolcetti, come i particolari biscotti tipici di questa festa: i crozzi ‘i mottu (ossa di mor to) o i pupatelli ripieni di mandorle tostate, i taralli ciambelle rivestite di glassa zuccherata, i nucatoli e i Tetù bianchi e marroni, i primi velati di zucchero, i secondi di polvere di cacao.

Frutta secca e cioccolatini, accompagnano “u canni stru”, un cesto ricolmo di primizie di stagione, frutta secca altri dolciumi come la frutta di martorana e i Pupi ri zuccaru statuette di zucchero dipinte, ritra enti figure tradizionali come i Paladini.

Tradizione esclusivamente palermitana, vengono chiamati “pupi a cena” o “pupaccena”, per via di una leggenda che narra di un nobile arabo caduto in mi seria, che li offrì ai suoi ospiti per sopperire alla man canza di cibo prelibato.

In alcune parti della sicilia viene preparata la muf foletta, pagnottella calda appena sfornata “cunzata”, la mattina nel giorno della commemorazione dei de funti, con olio, sale, pepe e origano, filetti di acciuga sott’olio e qualche fettina di formaggio primosale.

La giornata prosegue con la visita al cimitero dove ri posano i defunti più vicini e più cari.

Poiché il tema dominante della festa dei defunti è la loro uscita dai loculi, ad erice, i “defunti” escono dalla Chiesa dei Cappuccini; a cianciana in pro vincia di Agrigento, escono dal Convento di S. An tonino dei Riformati; a Partinico, presso Palermo, indossano un lenzuolo e, a piedi scalzi recando una

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RI c ORRENZE / TRINA c RIA
L’incipit di una delle poesie più note di Totò e della letteratura italiana ci ricorda della festa dei morti, molto sentita

Lungo lo Stivale infatti, esistono modi molto diversi per “festeggiare” questa ricorrenza.nIn alcune zone della Lombardia, la notte tra l’1 e il 2 novembre molte persone mettono in cucina un vaso di acqua fresca per far dissetare i morti. In friuli invece si lascia un lume acceso un secchio d’acqua e un po’ di pane.

In Trentino le campane suonano per richiamare le anime e entro casa viene lasciata una tavola apparecchiata e il focolare accesso per i defunti. Lo stesso capita in piemonte e in val d’Aosta. Sempre per “rifocillare” i defunti, in Liguria vengono preparati i bacilli (fave secche) e i balletti (castagne bollite).

Tanti anni fa, la notte del 1 novembre, i bambini si recavano di casa in casa, come ad halloween , per ricevere il “ben dei morti”, ovvero fave, castagne e fichi secchi. Dopo aver detto le preghiere, i nonni raccontavano loro storie e leggende paurose.

In Umbria si preparano gli stinchetti dei morti, dolci a forma di fave.

In Abruzzo, oltre al tavolo da pranzo apparecchiato, si lasciano ancora oggi tanti lumini accesi alla finestra quante sono le anime care. Ma un tempo era anche tradizione scavare e intagliare le zucche e inserire una candela all’interno e usarle come lanterne, proprio come ad halloween.

A Roma la tradizione voleva che il giorno dei morti si tenesse compagnia ad un defunto consumando un pasto vicino alla sua tomba.

In Sicilia il 2 novembre è una festa con molti riti per i bambini. Se i più piccoli hanno fatto i buoni, riceveranno dai morti i doni che troveranno la mattina sotto il letto: si tratta di giochi ma soprattutto di dolci, come i pupi di zuccaro (le bambole di zucchero).

torcia accesa e recitando litanie, percorrono alcune strade cittadine.

Un tempo si usava anche recitare una filastrocca che diceva:

“Armi santi, armi santi (anime sante) Io sugnu unu e vuatri siti tanti: (io sono uno e Voi siete tante) Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai (mentre sono in questo mondo di guai)

Cosi di morti mittitiminni assai (Regali dei morti mettetemene molti)

Anche nel catanese, e per la precisione ad Acireale, durante la ricorrenza dei morti si usa che girino per la città indossando un lenzuolo funebre, e rubando i doni ai venditori per poi darli ai bambini. Ricordare i propri defunti significa andare al cimite ro, porre sulle tombe fiori freschi e dir loro qualche

Si preparano anche gli scardellini, dolci fatti di zucchero e mandorle (o nocciole) a forma di ossa dei morti e si mangia la frutta martorana, fatta di pasta di mandorle colorata. I risultati sono davvero incredibili e le vetrine delle pasticcerie uno spettacolo da vedere.

nel ReStO del MOndO

In America centrale e Latina nel giorno dei morti, El Día de Muertos, oltre alla consueta visita dei cimiteri, si addobbano le tombe con fiori, e vi si depositano giocattoli (nel caso in cui il defunto sia un bambino) o alcolici.

Il día de Muertos messicano è diventato patrimonio dell’umanità il 7 novembre 2003. Il film d’animazione Disney “coco”, ad esempio, si svolge proprio durante questa festa!

In alcune abitazioni è ancora consuetudine preparare l’altare dei morti davvero suggestivi e colorati. L’altare è arricchito con immagini del defunto, una croce, un arco e incenso.

I festeggiamenti durano molti giorni e si rifanno alle tradizioni precolombiane, con musica, bevande e cibi tradizionali dai colori vivi. per le strade si possono ammirare rappresentazioni caricaturali della morte.

preghiera “Pi rifriscarici l’arma” si usa dire in sici liano (Rinfrescarci l’anima) e raccomandarla alla cle menza di Dio.

L’origine di questa usanza è certamente incerta, pro babilmente il suo significato va ricercato nei culti pagani delle popolazioni che ci hanno preceduto e al banchetto funebre di cui si ha ancora un ricordo. Infatti in Sicilia, principalmente nei paesi, dopo la morte di un proprio caro e dopo la tumulazione è usanza che i vicini di casa offrano il pranzo ai pa renti che hanno vegliato tutta la notte, il cosiddetto ” consulu “.

Dopotutto tutt’oggi nei nostri cimiteri non è raro ve dere “tavolate” apparecchiate proprio sulle lapidi dei defunti e mangiate e… ma questo è un altro discorso. Cibo tipico per tale ricorrenza è la “Vastedda” condita con olio, con ricotta o con salsiccia, semplice profu mata e buona!

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I n I tal I a e nel re S to del mondo

la pre FIC a la donna che Piange i tuoi morti

cinzia bisogno

In questi tempi di crisi, avere un lavoro è una fortu na, ma se siete disoccupate potete sempre aspirare a diventare Prefica, una donna che dietro paga mento piange alle esequie.

Sin dagli inizi del 1800, in molte paesi del Salento, era possibile incontrare, durante lo svolgimento dei riti funerari, coloro che la tradizione popolare chiamava “rèpute” o, termine più appropriato, “chiangimorti” e grazie ai versi composti dal poeta Angelo Lippo, pos siamo risalire al loro autentico ritratto.

“...Scarmigliata, sdentata, svuotata nelle occhiaie, ti ho vista gironzolare per le strade ancora in cerca di qual cuno da piangere, qualcuno che rivalutasse le tue la crime...Ti ho raggiunta per carpire le ultime, e spero le più ardenti per il tuo addio, gocce salate dei tuoi occhi, occhi di fondali bui, occhi di vegetazioni arboree, occhi per la mia umanità...”.

Le “prefiche”, come vengono definite in italiano, era no delle donne che, vestite con abiti scuri e coperte in viso con un velo nero, si recavano presso la dimo ra in cui giaceva il defunto e, stringendosi intorno al feretro, avevano il triste compito di compiangerlo e di decantarne le virtù. Allo stesso modo, nella cultu ra romana, con la parola prefica, si indicava la figura femminile che partecipava ai cortei funebri ufficiali o a quelli dei membri di famiglie gentilizie, per cantare le lodi dell’estinto, alle quali si alternavano pianti, gri da e gesti di disperazione. Tale uso, venne tramandato in diversi paesi, quali la Grecia, la Romania, l’Albania e l’Irlanda, e in alcune regioni italiane, giungendo in Terra d’Otranto.

Molti studiosi si interessarono a questo argomento. Il dottor Salomone Marino, per citarne uno, interprete delle usanze popolari siciliane, costatò che, nel Me dioevo, le “rèpute” ottennero dalla Chiesa un manda to ufficiale che “legalizzava” il loro operato, ricono sciuto attraverso il pagamento del lavoro svolto.

A Castrignano dei Greci, fino a qualche anno fa, era ancora in vita una di queste donne, anche se, da di verso tempo, prima che passasse a miglior vita, non veniva più chiamata a svolgere la sua mansione, per ché tali usi si erano persi fra le pieghe del tempo. Il suo nome era Concetta. Divenuta una dolce e nota vecchietta, concesse un’intervista alla RAI, il cui staff giunse nella cittadina per filmare una cerimonia fu neraria, organizzata appositamente per l’occasione. Anche se, di fatto, il morto non c’era, la scena fu così drammatica, e la “chiangimorti” talmente convincen te, che i presenti si commossero, facendosi scappare qualche lacrima. “Noi prefiche”, dichiarò Concetta, “non piangevamo mai, facevamo piangere le altre donne, quelle della famiglia del morto. Conoscevamo le strofe a memoria e poi inventavamo secondo i casi”. Era consuetudine, infatti, recitare delle cantilene, tramandate oralmente, con voce triste e sommessa, accompagnandole con lunghi lamenti e singhiozzi e, molto spesso, con un gesto del fazzoletto.

“Te dhu vinne stu iéntu réfulu, ca quistu vinne de la marìna, e vinne a casa mia, e ne spezzàu la meju cima” (Da dove è venuto questo vento vorticoso, questo è venuto dal mare, è venuto a casa mia, ed ha spezzato il migliore ramo).

Queste filastrocche, una volta molto diffuse nel Salen to, sono cadute, quasi completamente, nel dimentica toio. Ciò, si è verificato in seguito all’abbandono, da

MESTIERI S c OM pARSI
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parte dei contadini, delle campagne e all’incremento dell’alfabetizza zione, fattori che modificarono la vita e le abitudini di tutto il popolo. Le ultime “rèpute” salentine di cui si hanno notizie, Assunta e Cesa ria, vennero segnalate a Martano da Luigi Chiriatti, profondo cono scitore delle costumanze di questa terra. Egli, come l’équipe televisiva menzionata prima, chiese il permesso di registrare i loro canti fuo ri dal contesto abituale, ma non gli venne accordato, perché queste donne erano convinte che cantare le filastrocche senza il morto por tasse sfortuna.

“Compito delle prefiche”, scrisse il Chiriatti, “era quello di toccare le corde dell’anima”. E per raggiungere il più alto grado di drammati cità e, di conseguenza, creare una situazione verosimile, venivano educate sin dalla tenera età ad esternare la propria afflizione verso i tramonti della vita.

Nel 1860, il glottologo Giuseppe Morosi, pubblicò una raccolta di ne nie greco-salentine, opera prima nel suo genere, tralasciando, però, le versioni in dialetto. Ma, non bisogna dimenticare che, negli antichi villaggi di Terra d’Otranto, vi era una moltitudine di individui che non conoscevano la parlata greca e questo costringeva le prefiche ad esprimersi anche nella lingua dialettale romanza.

La veglia funebre era caratterizzata dalla rappresentazione, se così si poteva definire, straziante delle donne prezzolate, che si logoravano in lamenti lancinanti e, spesse volte, esagerati, ed emettevano assor danti grida che, quasi sempre, superavano quelle dei parenti stessi, realmente turbati per la morte del loro caro.

Non si poteva rimanere impassibili di fronte a tanto sgomento e a tanto dolore, sia che esso fosse stato sincero oppure simulato, reale o illusorio. All’arrivo del sacerdote, che entrava in casa per benedire il defunto e per condurlo nel luogo del seppellimento, il rito raggiun geva l’apice dell’esasperazione.

Mi sovviene lo spettacolo pirotecnico che conclude le feste patrona li. Inizialmente vengono sparati tre fuochi artificiali che invitano la gente a fermarsi e a guardare. Poi, si susseguono le evoluzioni fra il luccichio degli astri celesti. E, in ultimo, si scatena il finimondo. Un fuoco dopo l’altro.

E incalzano gli scoppi, i rumori assor danti, tanto che non ci si può trattenere dal chiudersi le orecchie, nella speranza di attenuare quel fracasso e trovare un po’ di sollievo. E poi, il silenzio...

Allo stesso modo, dopo che il pastore prelevava l’estinto e lo allontanava dal luogo in cui era sempre vissuto, circon dato dall’amore dei suoi familiari, so praggiungeva il silenzio. Tutti tacevano e tornavano nelle loro case. Così, anche le prefiche si allontanavano da quell’in cubo, e riprendevano la vita di sempre, fatta di umili profumi.

Nell’era moderna, un simile atteggia mento, potrebbe sembrare alquanto macabro e ingiusto, ma nella società arcaica era una consuetudine molto ap prezzata e sentita.

Oggi, i funerali sono soltanto una tri ste realtà che, prima o dopo, interessa tutti, ma, un tempo, costituivano una fase importante della vita di ciascun in dividuo. Erano momenti forti, carichi di alti significati, che lasciavano tracce indelebili nel cuore di coloro che, sin ceramente, li vivevano.

Negli anni in cui i sentimenti erano più veri e il dolore necessario, forse, an che un poveraccio, figlio di nessuno, al quale l’esistenza non aveva dato niente di concreto e concretamente nessuno che piangesse per la sua scomparsa, poteva passare a miglior vita accompa gnato dalle lacrime di una donna che, anche se sola, poteva cambiare l’ordine delle cose.

Una donna dal cui volto trapelava l’at taccamento alle proprie radici, alle pro prie tradizioni. Una donna i cui occhi, compassionevoli e colmi di coraggio, raccontavano storie differenti. “Occhi di fondali bui, occhi di vegetazioni ar boree, occhi per la mia umanità”...

Oggi è una tradizione che ci sembra ri dicola e anacronistica, infatti spesso la figura della prefica, viene identificata come donna piagnona.

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FeneStrelle il Campo di ConCentramento DEI SavoIa

Questa storia non la troverete in nessun libro scolastico

dal 1861 – primo anno dell’unità d’Italia – in poi migliaia e migliaia di ex soldati del di sciolto esercito borbonico, di soldati papalini pri gionieri, di contadini meridionali che i piemon tesi definivano briganti, di prigionieri politici e renitenti di leva, di ex garibaldini dell’impresa di Aspromonte – tra cui alcune centinaia di sicilia ni – furono deportati nei lager del Centro Nord Italia e, precisamente: a San Maurizio Canavese, Alessandria, Milano, Genova, Bergamo, Bologna, Ascoli Piceno, Livorno, Ancona, Rimini, Fano e nelle isole dell’arcipelago toscano e della Sarde gna. In questo universo carcerario del nuovo Stato italiano il lager più importante e più tristemente famoso e temuto fu appunto quello di Fenestrelle, nell’alta Savoia.

Fenestrelle, un’antica e inaccessibile fortezza sabauda a circa 150 chilometri da Torino, po sta a più di 2 mila metri d’altezza a protezione del confine sabaudo-piemontese (come potete vedere sopra nella foto), fu dunque, a partire dal 1861, il lager di casa Savoia, la Siberia ita liana, o la Auschuwitz nazista, in cui non ci si fece scrupolo di deportare, senza soluzione di continuità, appunto ex soldati del disciolto esercito del Regno delle Due Sicilie, papalini, pseudo briganti, prigionieri comuni e politici, donne e uomini di ogni provenienza in una promiscuità degna di peggior causa. Un giornale piemontese dell’epoca l’Armonia , descrive quei personaggi: “La maggior parte dei poveri reclusi sono ignudi, cenciosi, pieni di pidocchi e senza pagliericci. Quel poco di pane nerissimo che si dà per cibo, per una pic

cola scusa si leva e, se qualcuno parla, è legato per mani e per piedi per più giorni. Vari infelici sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato dal sangue e molti altri non si trovano più né vivi, né morti. è una barbarie signori”.

Un’altra testimonianza dello stesso tenore è quella del pastore valdese Georges Appia che, nell’ottobre del 1860, e siamo solo all’ini zio delle deportazioni, in visita al forte che già rigurgita di prigionieri meridionali, così ebbe a descriverli:

Laceri, ignudi e poco nutriti appoggiati a ri dosso dei muraglioni nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricor dando forse con nostalgia il caldo dei loro climi mediterranei”.

MAGAZINE 22 LE NE fANDEZZE DEI SAv OIA

L’aspettativa di vita, per questi reclusi (alcuni senza aver commesso crimine), era fatalmente ridotta al minimo. Furono migliaia i prigionieri e i deportati che entrarono a Fenestrelle e pochi quelli che ne uscirono vivi per gli stenti, la fame e le temperature rigide alle quali non erano abi tuati e alle quali crudelmente (gli infissi nelle fi nestre delle celle deliberatamente erano stati tol ti e vi erano solamente grate) furono sottoposti. In questa disperata situazione e al limite di ogni umana sopportazione vi fu, il 22 agosto del 1861, un tentativo di rivolta, che scoperto in tempo e ferocemente represso portò all’ina sprimento delle pene, per cui da quel momen to la maggior parte dei deportati protagoni sti della rivolta fu costretta a portare ai piedi ceppi e catene appesantiti da palle di 16 chili! Pochissimi in quelle condizioni riuscirono a

sopravvivere e a chi non riusciva a farcela era riservato un particolare trattamento privo di ogni umana pietà.

I cadaveri di questi sventurati, anziché essere seppelliti, venivano sciolti nella calce viva, in una grande vasca posta nel retro della chie sa che sorgeva all’ingresso della fortezza che è ancora oggi visibile.

Nessun libro di storia parla di Fenestrelle, nes sun giorno viene dedicato alla commemora zione per queste persone morte solo perché non volevano essere governate da una casa reale tiranna e despota e che aveva depredato i territori e chiuse per anni le scuole. La cosa che fa più male, comunque, è che a criminali di guerra come Enrico Cialdini e Nino Bixio, come se a Gerusalemme ci fosse una piazza in titolata ad Himmler o Hitler.

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la moda I n FI amme diVieti Suntuari e Peccati di vANITà

Il vertiginoso aumento della ricchezza diffusa che, nel passato recente, ha investito gran parte della popolazione, ha rimosso ogni limite all’ac quisto di beni di lusso se non la disponibilità eco nomica della stessa. Questa libertà però, non è sempre esistita!

Nel Medioevo infatti l’utilizzo delle proprie ri sorse non veniva supervisionato solo dai pater familias ma anche dalle due autorità al vertice del potere: Lo Stato e la Chiesa!

Per lunghi secoli, Stato e Chiesa hanno imposto limitazioni e proibizioni allo sfarzo e l’opulenza, arrivando ad applicare tasse e divieti, dette leggi suntuarie, nonché la messa al rogo di capi e og getti di lusso. Tutto ha inizio… nell’antica Roma!

In seguito alla difficile campagna bellica contro Cartagine, venne imposta l’applicazione di una legge speciale per limitare le spese, questa nuova normativa colpiva soprattutto la sfera femminile, perché vietava alle matrone l’acquisto e l’esibizio ne di indumenti e gioielli lussuosi.

La Lex Oppia venne emanata dai Romani per li mitare le spese superflue e cercare di rimediare al collasso economico subentrato durante la secon da guerra Punica.

Caduta nell’oblio vent’anni dopo, grazie alla cla morosa protesta delle donne nel foro, che oggi definiremo la prima ribellione femminista, que sta legge suntuaria riapparirà prepotentemente durante tutto il Medioevo.

Questa volta però la condizione sociale presen tava questa forma di divieto sotto una luce diffe rente, poiché il fine non era favorire lo sviluppo dell’economia, ma disciplinare il lusso e lo sfarzo anche a discapito dell’operato dei mestieri, unica fonte di reddito di tanti artigiani.

In realtà dietro le accuse statali tramavano i no bili che mal sopportavano la condizione sempre

più agiata della borghesia e si rivolgevano alle au torità per denunciare queste opulente esibizioni che dovevano essere riservate solo a loro.

Nonostante le continue accuse su ori e gioielli sotto forma di bottoni, lunghi strascichi, bordure, ricami, pellicce e copricapi dai costi impronun ciabili, l’astuzia femminile e l’abilità dei maestri

IL
LUSSO c OME p E cc ATO
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la Chiesa attribuiva ai beni di lusso!

Considerati oggetti del peccato, i predicatori non smettevano di richiamare, come giudici infernali, chiunque sfoggiasse frivolezze di ogni tipologia.

Nessuno era esente da queste prediche, né audaci rampolli che si pavoneggiavano nei loro costosi e aderenti abiti alla moda, né giovani spose che si mostravano nel loro abito più bello, in quanto le loro prediche pungenti erano rivolte ad ogni categoria sociale.

Queste denunce sul presunto malcostume che di lagava tra i cristiani, allontanandoli sempre più da Dio, dovevano essere estirpate… purificati at traverso la viva fiamma della redenzione!

In che modo?

le della città, alimentati da pagine di libri ritenuti inutili da un’ideologia fuori da ogni logica uma na, insieme a testi pagani, ironici o dai contenuti peccaminosi che con la loro lettura trascinavano gli uomini nella perdizione.

Questo immane scempio, si estendeva anche a dipinti, specchi, pellicce, abiti, mantelli, coprica pi e quanto di più bello e raffinato si possa im maginare, perduti per sempre, sotto lo sguardo compiaciuto di famosi predicatori come San Ber nardino da Siena e il più conosciuto Gerolamo Savonarola.

A nulla servirono le ricche proposte di facoltosi mercanti che si offrivano di acquistare a costi ele vati tutte quelle meraviglie destinate a diventare

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l’isola delle sirene

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L’isola de Li Galli, appartenuta anche al ballerino russo Nurayev è considerata l’isola dove dimoravano le sirene MAGAZINE 27
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