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l’ alTR o RISORGIMENTO

Con enrico fagnano parliamo degli anni dal 1861 al 1914 visto da un’altra ottica e che mai troverete sui libri scolastici

Mimmo bafurno

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Abbiamo incontrato enrico Fagnano, autore del volume La Storia dell’Italia Unità, autoprodotta con Amazon e con lui ripercorriamo (in più puntate) il percorso storico che portò ad una unificazione della penisola, voluta dall’Inghilterra che era la superpotenza dell’epoca.

Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1914, cioè fino allo scoppio della prima guerra mondiale, con la quale si interruppero tutti i flussi migratori europei, furono più di 4 milioni i Meridionali che lasciarono le loro terre. Per dare all’imprenditoria del nord la possibilità di crescere, un popolo intero venne abbandonato a se stesso

Nel Paese nato dall’Unità, quindi, c’erano due macroregioni e una di queste veniva sistematicamente favorita ai danni dell’altra e lo Stato italiano profondeva i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali.”

Nitti in Nord e Sud afferma: “La verità è che l’Italia Meridionale ha dato dal 1860 assai più di ogni parte d’Italia in rapporto alla sua ricchezza; che paga quanto non potrebbe pagare, che lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno.

Tutte le grandi istituzioni dello Stato sono accentrate, per lo meno come l’esercito, nelle zone già più ricche. Per cause molteplici (unione di debiti, vendita di beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che potea essere il nucleo della sua trasformazione economica, è trasmigrata subito al Nord.

Le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori di esso, hanno continuato l’opera di male. Al momento dell’unione l’Italia meridionale avea tutti gli elementi per trasformarsi, possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo.”

Quanto accaduto dopo l’annessione viene efficacemente sintetizzato da Francesco Paolo Rispoli, che nello studio La Provincia e la città di Napoli scrive:

“Il Mezzogiorno non si accorse delle ferite profonde che aveva ricevuto, né il Governo italiano fece per Napoli tutto quello che questo paese meritava; anzi per 40 anni di seguito lo Stato ha speso a Napoli e nel Mezzogiorno molto meno di quello che ne ritrae sotto forme d’imposte, rendendo assai più esiziali le conseguenze del nostro spietato fiscalismo.”

Le cifre che fotografano la situazione sono impietose e non lasciano adito a dubbi. Dal 1862 fino al 1898, come ricorda Nitti in Nord e Sud, lo stato spese per lavori pubblici, escluse le linee ferroviarie (per le quali spese più che per tutte le altre opere insieme), in Piemonte 74 milioni, in Liguria 136, in Lombardia 158, in Veneto 274, in Emilia 187, nelle Marche 34, in Toscana 127, in Umbria 11, nel Lazio 273, in Abruzzo 56, in Molise 39, in Campania 166, nelle Puglie 42, in Basilicata 55, in Calabria 91, in Sicilia 169 e in Sardegna 90. In sintesi complessivamente furono erogati 1982 milioni e 828 ne andarono alle cinque regioni del nord, 536 alle cinque regioni del centro, compresa la Sardegna, e 618 alle sette del sud, compresi Abruzzo, Molise e Sicilia.

Per quanto riguarda il rapporto tra gli importi riscossi e quelli impiegati, nel periodo tra il 1893 e il 1898 risultò che per ogni abitante lo stato nel nord aveva incassato 39 lire e ne aveva investito circa 40, mentre nel sud aveva incassato quasi 24 lire e ne aveva investito circa 15,5. Sempre in ordine al rapporto tra quanto riscosso e quanto impiegato, l’economista lombardo Rodolfo Benini (come riporta

Salvo Di Matteo nel citato Quando il Sud fece l’Italia) accertò che tra il 1886 e il 1889 su 100 lire percepite, al nord ne erano state utilizzate 97 e al sud 67. Alle regioni settentrionali, quindi, non solo finiva la maggior parte degli investimenti pubblici in valore assoluto, ma anche in rapporto ai tributi versati e il paradosso era che il Meridione pagava addirittura più imposte rispetto alla reale ricchezza detenuta, come si rileva sempre dal lavoro di Nitti. Per quanto riguarda la fondiaria, ad esempio, tra il 1894 e il 1898 la media annuale incassata per abitante nel nord era stata di 3,68 lire, quasi pari a quella per abitante nel sud, che era stata di 3,39 lire, nonostante nel primo le terre fossero più produttive, e anche in modo significativo. Questo perché la tassa in sostanza era commisurata all’estensione dei suoli e si calcolava tenendo conto della loro rendita catastale e non del loro rendimento effettivo. Una situazione analoga si riscontrava per l’imposta sui fabbricati, che sempre tra il 1894 e il 1898 era stata pro-capite di 2,89 lire nelle regioni settentrionali e di 2,56 lire in quelle del sud, nonostante le città dell’Alta Italia fossero più ricche e più prospere, e questo sia perché anche tale tributo, come la fondiaria, era legato alla rendita catastale e non al reddito reale degli stabili o al loro valore commerciale, sia perché le case sparse rurali, molto più numerose al nord, ne erano totalmente esentate. Al proposito l’economista piemontese Luigi Einaudi (secondo presidente della nostra Repubblica, il primo eletto) nell’articolo Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche ed iniziative private, pubblicato il 13 novembre 1905 sul Corriere della Sera, affermò: “Forse nella nostra legislazione tributaria non vi è scandalo che sia lontanamente paragonabile all’incidenza effettiva dell’imposta sui fabbricati nell’Italia meridionale.”

Per quanto riguarda, ancora, la tassa sugli affari, tra il 1892 e il 1897 al nord il gettito pro-capite era stato di 6,34 lire, non molto lontano da quello di 5,34 lire rilevato al sud, nonostante nel primo le transazioni fossero almeno il doppio, oltre che di importi maggiori. Erano, però, anche transazioni che per lo più riguardavano il commercio e si effettuavano in maniera informale, spesso addirittura con un semplice scambio di lettere, evitando di passare per le registrazioni ufficiali e sfuggendo così alle imposte. Alcuni anni prima del lavoro di Nitti, pubblicato nel 1900, le anomalie sulla distribuzione del carico tributario erano già state evidenziate dall’economista laziale Maffeo Pantaleoni, che nell’articolo Delle regioni d’Italia in ordine alla loro ricchezza ed al loro carico tributario, apparso nel gennaio 1891 sul Giornale degli economisti, aveva scritto: “Mentre l’alta Italia possiede il 48% di ricchezza, essa non sopporta che meno del 40 per cento del carico tributario; mentre l’Italia media possiede soltanto il 25% di ricchezza, essa paga il 28 e un terzo per cento del carico totale; e mentre l’Italia meridionale possiede solo il 27% della ricchezza nazionale, essa paga il 32 e un quarto per cento del carico tributario.” Questi dati furono ribaditi dallo storico e politico pugliese Gaetano Salvemini nell’articolo Le tre malattie, pubblicato il 25 dicembre 1898 sulla rivista Educazione Politica (poi in Scritti sulla Questione meridionale, Einaudi, 1955), nel quale il battagliero intellettuale aggiunse come commento: “Nel dare il Meridione è all’avanguardia, nel ricevere è alla retroguardia.”

Per quanto riguarda la realizzazione delle ferrovie tra il 1862 e il 1898 furono spesi complessivamente 2.240 milioni, dei quali 1.137 andarono all’Alta Italia, 347 alle regioni centrali, 469 al sud e 287 a Sardegna e Sicilia. A parte lo squilibrio delle cifre destinate alle diverse parti del Paese, bisogna anche dire che il capitale dell’impresa esecutrice dei lavori nel Meridione era interamente settentrionale e settentrionali erano anche i progettisti, i tecnici e addirittura buona parte degli operai (di questo appalto e delle vicende, quasi surreali, che lo hanno riguardato ci occuperemo nel capitolo X). In altre parole, indipendentemente dal luogo nel quale fu impiegato il danaro, il profitto in vario modo prese la strada del nord. Lo stesso meccanismo venne replicato con i lavori per il Risanamento di Napoli, del quale parleremo nel capitolo XI, ma per quanto riguarda le opere pubbliche nell’ex regno borbonico così andavano le cose in tutti i settori. Solo per la costruzione delle strade l’importo investito nel sud fu superiore a quello investito nel resto della nazione. Infatti su complessivi 718 milioni, 175 ne andarono al nord, 101 alle regioni del centro, 280 alle regioni meridionali, 100 alla Sicilia e 62 alla Sardegna. Si tratta, però, di un’anomalia facile da comprendere. Bisognava fare in modo, infatti, che le merci degli imprenditori settentrionali arrivassero velocemente in tutti i principali centri della penisola.

Il debito morale

Dopo l’annessione, quindi, cominciò un trasferimento di ricchezza verso il nord, che fu massiccio e riguardò tutti i settori. Il governo piemontese, ora a capo dell’intero Paese, dopo aver incamerato il danaro che era nelle casse del Regno delle Due Sicilie, utilizzato per arginare la propria drammatica situazione finanziaria, recuperò altre risorse dalla vendita dei terreni demaniali e dei beni sottratti alla Chiesa (sia i primi, sia i secondi erano quasi esclusivamente nel sud e fruttarono rispettivamente 300 e 620 milioni), ma anche dalla vendita di beni appartenenti allo stato napoletano, che mai nella sua lunga storia aveva avuto bisogno di cedere un solo immobile pubblico o un’azienda per realizzare un profitto. Perfino i depositi bancari personali di Francesco II e degli altri componenti della famiglia reale furono requisiti, violando insieme il diritto alla proprietà privata e i più elementari principi della giustizia.

Ulteriori vantaggi, poi, furono assicurati all’economia subalpina nel 1866, quando la legge sul corso forzoso garantì alla Banca Nazionale nel Regno d’Italia, il maggiore istituto torinese, un forte incremento della propria liquidità, permettendo il trasferimento a suo favore di argento proveniente dal Banco di Napoli. Quanto detto sinora sarebbe già sufficiente per comprendere i motivi del divario nella crescita delle due parti del Paese dopo l’unificazione.

Si trattava, però, solo dell’inizio. Il Meridione, infatti, dopo aver consentito con le proprie risorse lo sviluppo, e in molti casi addirittura la nascita, delle imprese settentrionali, divenne anche, come abbiamo visto nel capitolo V, il loro grande mercato.

Ogni cosa di cui lo stato aveva bisogno, persino la più insignificante, si faceva venire da aziende piemontesi, o comunque del nord, alle quali erano affidate tutte le forniture nella pubblica amministrazione. Anche le commesse furono per la maggior parte assegnate a industrie dell’Alta Italia, determinando in breve la chiusura di quelle meridionali, come accadde per l’acciaieria di Mongiana e per l’arsenale di Napoli, oppure un loro sostanziale ridimensionamento, come accadde per l’opificio di Pietrarsa e per il cantiere navale di Castellammare.

Non diversamente andarono le cose nel campo dei lavori pubblici, nel finanziamento dei quali, come detto nel capitolo VII, il Settentrione era decisamente privilegiato, mentre al sud restava solo un’oppressione fiscale mai conosciuta prima e addirittura sproporzionata rispetto alla sua reale ricchezza.

A questo punto era già moltissimo quello che i popoli delle Due Sicilie avevano dato, eppure il peggio doveva ancora arrivare. Grazie alla politica finanziaria del Banco di Napoli, infatti, il Mezzogiorno aveva convertito la propria economia e aveva abbandonato la produzione industriale, concentrandosi su quella agricola. In questo modo aveva assorbito l’impatto del nuovo mercato unico nella penisola e allo stesso tempo si era ritagliato un ruolo specifico al suo interno.

Nel 1881, infatti, il suo pil era ancora grosso modo equivalente a quello del nord, mentre il numero dei suoi emigranti era ancora inferiore a quelli del Settentrione. Già prima dell’Unità i Piemontesi, i Liguri, i Lombardi e i Veneti più disagiati, come abbiamo visto nel capitolo III, avevano cominciato ad abbandonare la loro Terra e fino al 1860 si ritiene siano stati tra i 200.000 e i 300.000, anche se non esistono dati ufficiali per l’epoca. In seguito all’annessione cominciarono a lasciare il Paese anche cittadini del regno napoletano, ma per quasi quaranta anni i Settentrionali che espatriavano furono più numerosi e i Meridionali li superarono solo verso la fine dell’Ottocento, dopodiché il loro divenne un vero e proprio esodo biblico.

Questo accadde a causa delle tariffe protezionistiche, come detto nel capitolo VII, deliberate nel 1887, in conseguenza delle quali non vi fu più la concorrenza industriale straniera sul territorio nazionale, ma allo stesso tempo l’agricoltura del sud perse la maggior parte dei mercati esteri. Ridotti a quel punto senza più risorse, a molti cittadini delle regioni danneggiate non rimase altra via che andare a cercare altrove un modo per sopravvivere. In circa venti anni a cominciare dall’ultimo decennio del secolo in più di 4.000.000 partirono (dei quali quasi 1.000.000 dalla Campania e addirittura più di 1.100.000 dalla Sicilia), in particolare verso l’America del Nord, fino a quando nel 1914 lo scoppio del conflitto mondiale non interruppe ogni flusso.

Gli imprenditori terrieri del Mezzogiorno erano danneggiati dalle tariffe protezionistiche, non solo perché i loro prodotti, a causa delle ritorsioni doganali degli altri stati, non potevano essere venduti all’estero, ma anche perché erano costretti ad acquistare i macchinari ai prezzi imposti dalle fabbriche del nord, più alti di quelli che sarebbero stati praticati dalla concorrenza straniera. (Continua)