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L ’e ditoriale

Voglio augurarvi, innanzitutto, un sereno Natale e un felice 2023, sperando sia migliore (anche se le previsioni dicono il contrario) degli ultimi tre, trascorsi tra clausure forzate, bombardamenti mediatici sia sul Covid che sulla guerra russo-ucraina. Tutte le testate giornalistiche hanno adottate la stessa linea di informazione, come se ci fosse una regia occulta.

Mario Stazione

Sono passati 38 anni da quel 23 dicembre, erano le 19.08 quando sotto la grande galleria dell’Appennino che collega Firenze a Bologna, una bomba scoppiò nella carrozza numero 9 del Rapido 904 partito da Napoli e diretto a Milano, 16 morti e oltre 260 feriti, affinché nessuno dimentica...

Quella stessa regia che da oltre centosessantanni descrive una parte della penisola italiana come parassita, arretrata e che senza il grande Nord non sopravviverebbe e ci sono riusciti talmente bene che perfino gli abitatnti di questo splendido fazzoletto di terra che si affaccia sul mare “nostrum” ne sono convinti.

Un esempio su tutti, l’alluvione che ha colpito sia le Marche che l’isola d’Ischia, premesso che bisogna avere rispetto davanti alla morte, i due eventi sono stati trattati in maniera diametralmente opposto dai media (si pronuncia media e non midia poiché è una parola latina e non inglese) nazionali. Nelle Marche il fenomeno è attribuibile ai cambiamenti climatici mentre ad Ischia è colpa dell’uomo meridionale che ha costruito abusivamente.

Noi abbiamo posto in evidenzia come l’incuria e la mancanza di manutenzione abbiano generato le due catastrofi con la perdita di vite umane, evitando quella spettacolarizzazione mediatica del dolore di cui si cibano le TV del “nordde” e che fanno ascolto. Per quanto riguarda l’anno appena trascorso sono orgoglioso dei risultati ottenuti sia da Terronitv che da questo Magazine, e il merito è di voi che ci seguite, abbiamo toccati numerosi temi grazie anche ai nostri collaboratori come il mistero dei Bronzi di Riace (erano più di due e sono spariti) oppure la storia di Salvatore Giuliano (sembra che il corpo riesumato poco tempo fa non fosse il suo), del Movimento Siciliano che si sta battendo affinché venga fatta rispettare la Costituzione siciliana, solo per citarne alcuni. Non ci fermeremo, ovviamente, qui, anzi andremo avanti convinti di essere sulla giusta strada, quella di divulgare senza filtri la nostra millenaria e meravigliosa storia e di promuovere le eccellenze che solo una terra meravigliosa come la nostra può offrire. Rinnovo gli auguri a voi e ai vostri cari e... a presto!

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Registrazione n 1 - marzo 2021 Tribunale di nocera Inferiore

Anno 1 - numeRo 11 chIuso Il 20/12/2022

Editore cReATIve medIA sRl

Direttore Responsabile mario stanzione

Direttore Editoriale Fernando luisi (Ferdinando l’Insorgente)

Redazione mimmo Bafurno cinzia Bisogno Giovanni Gallo Giuseppina Iovane daniela l a cava Armando minichini Antonella musitano mino Paolillo Angelica sarno

SOMMARIO MAGAZINE 3
e
vitale IN COPERTINA Gli auguri della redazione per un sereno natale MAGAZINE 4 IN sor GENZE beneventO e l A leggend A delle S t R eghe 6 focus su... c ASI g n A n A: A ll A S c O pe R tA dell A v I ll A ROMA n A 10 p E rso NAGGI edu AR d O S c AR pettA 15 fors E N o N tutt I s ANN o ch E... ben I n O , pAS tOR e SIM b O l O del p R e S epe n A p O letA n O 16 I t INEA r I p OR tA fel I ce, t RA A lbe d’equ I n O z IO e c OR n A A ll A lun A 18 I l pA ss Ato c AN c E ll Ato b AYAR d , l A S tA z IO ne fA ntASMA 20 dolc I NAtA l IZI n O n è n AtA le S e MA nc A n O A tAv O l A 23 l E NE fAN d EZZE d E l r I sor GIMEN to I l l I v OR ne S e le MMI che SI ARRI cchì g RA z I e A g ARI b A ld I 24 l A f E stA d E l sol IN v I ctus l A ve RA S tORIA del n AtA le 26 l A foto d E l ME s E l A v IA de I p R e S ep I
doardo

b ENE v ENTO E l A

l E gg EN dA d E ll E STRE gh E

ferdinando l’Insorgente

benevento è una città legata a popoli e vicende che hanno contrassegnato la sua storia. Ma la città sannita è anche famosa nel mondo per la leggenda delle Streghe.

Tralasciando i riferimenti alle antichità sannitiche e romane per risalire all’origine di questa leggenda, possiamo dire con certezza che essa era già nota nel tredicesimo secolo e si diffuse massimamente in Italia e in Europa nel 1600. Benevento fu riconosciuto come il vero luogo di origine della tradizione, ispirando nei secoli poeti, pittori, compositori e scrittori.

Questa leggenda nacque quando la credenza dell’esistenza delle Streghe si fuse con i racconti dei misteriosi riti orgiastici dei Longobardi, quel popolo che fece di Benevento la capitale del loro grande ducato meridionale. Quel ducato noto pure con il termine di Longobardia Minor, la quale accolse i fratelli longobardi stanziati a nord della penisola che fuggirono dopo la sconfitta con i Franchi. Eravamo nel VII secolo quando i Longobardi si stanziarono nelle nostre terre meridiane. La loro cultura si fuse con quella autoctona nel corso degli anni successivi. Ma all’inizio, quando ancora non avevano accettato la conversione al Cristianesimo praticavano i loro riti religiosi,

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sor GENZE
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praticavano le loro usanze e le loro credenze.

Ed uno di questi riti, dedicato al dio Wothan, il padre degli dèi longobardi, fu senza dubbio la manifestazione che alimentò la leggenda.

I longobardi, poco fuori le mura della città, si riunivano intorno ad un albero di noce dove appendevano la pelle di un caprone e davano vita a riti orgiastici, danze e manifestazioni talmente fuori dal normale che le popolazioni autoctone, testimoni di quelle manifestazioni, restavano atterriti da quelle scene.

Ai loro occhi di cristiani il tutto parve frutto del demonio. Ma i Longobardi si avviavano alla conversione e il duca Romualdo, timoroso di non poter resistere all’assedio bizantino, promise al vescovo Barbato l’abiura alle pratiche idolatre.

Lo stesso vescovo distrusse il noce, ma la leggenda continuò. E ai guerrieri si sostituirono donne sfrenate e malefiche, all’ urlo di guerra si sostituì il frastuono scomposta dell’orgia, alla pelle di caprone si sostituì il banchetto.

A questi riti, nella leggenda ormai formata, partecipava addirittura il principe del male. Questa leggenda continuerà nei secoli successivi, si arricchirà di nuovi episodi e di nuovi protagonisti, consacrando Benevento come la capitale delle streghe.

Una delle opere fondamentali, per conoscere meglio questa leggenda, è il trattato storico del medico beneventano Pietro Piperno sul Noce di Benevento del 1654. Sempre secondo la leggenda questo luogo ove avvenivano i riti era situato tra l’attuale territorio posto tra le province di Benevento ed Avellino e noto come Stretto di Barba.

Benevento non è comunque l’unica città legata a leggende di streghe ma, a differenza di altre città trassero una fame spesso triste, il capoluogo sannita più che di malefici e di relativi mostruosi processi, vanta il primato di una leggenda suggestiva che, lì nata, ha ispirato nei secoli molti artisti.

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focus su...

CASI g NANA : alla scoperta della v I ll A ROMANA

Gli splendidi mosaici di un grandioso complesso residenziale romano, tra i più importanti del Meridione e

sconosciuto

chiamata la Piazza Armerina della Calabria, la Villa Romana di Casignana (R.C.), è un grandioso complesso residenziale che, con i suoi splendidi mosaici geometrici e figurati, i suoi apparati decorativi, soprattutto pavimentali in lastre di marmo policromi, i suoi impianti termali e residenziali e di servizio, è considerato uno dei più importanti monumenti romani dell’Italia meridionale è situata in Contrada Palazzi, comune di Casignana, a ridosso della statale 106 e del mar Ionio, in quel tratto di costa alle pendici dell’Aspromonte orientale che, da Riace a Palizzi Marina, è denominata Riviera dei gelsomini, nome legato al fatto che un tempo in questa fascia costiera vi era la coltura intensiva del gelsomino, pianta che, peraltro, cresce in modo spontaneo in tutta la costa.

ai più

L’impianto originario della Villa Romana risale al I secolo d.C. e, nel IV secolo, fu oggetto di una importante ristrutturazione. Con le invasioni barbariche e la caduta dell’impero romano d’occidente la Villa venne progressivamente abbandonata anche se, tracce di frequentazione sono rilevabili fino al VII secolo, quando la popolazione, forse per motivi di sicurezza, cominciò a spostarsi verso l’interno.

La scoperta della Villa risale al 1963 quando gli scavi per la costruzione di un acquedotto portarono casualmente alla luce parte della struttura e dei pavimenti a mosaico.

Negli anni successivi la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria ha avviato l’esplorazione sistemica del sito che continua ancora oggi.

Attorno alla Villa era nata una “statio”, cioè un centro di sosta di una certa importanza per i funzionari della burocrazia imperiale che viaggiavano da Locri Epizefiri (Locri), a Rhegion (Reggio Calabria).

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Il ritrovamento di numerosi frammenti di anfore vinarie fa supporre che la Villa appartenesse a una importante famiglia patrizia legata all’attività vinicola. Questa ipotesi è supportata dal fatto che in questa area ancora oggi viene prodotto un vino tra i più antichi e pregiati del nostro paese: il Greco di Bianco, produzione che però (anche per il nome, siamo nella zona chiamata magna Grecia), si ritiene fosse già praticata dai coloni greci che erano approdati sul territorio prima dell’arrivo dei romani.

L’area archeologica si estende per circa 15 ettari a monte e a mare della statale 106, articolata in ambienti termali, residenziali e di servizio e rappresentano una importante testimonianza della ricchezza stilistica, architettonica e artistica degli edifici nobiliari. I piani pavimentali mosaicati, la maggior parte dei quali, dopo rigorosi lavori de restauro, sono visibili al pubblico per oltre 4700 mq,, rimandano stilisticamente a collegamenti con aree dell’Africa come l’odierna Tunisia e la Tripolitania, rappresentano il più vasto nucleo di mosaici finora noto nella Calabria romana e un unicum nel territorio calabrese. Sono oltre venti gli ambienti con pavimento a mosaico, cinque dei quali figurati.

Sul prospetto nord della Villa insisteva un enorme edificio con ambienti che facevano da supporto alle attività agricole e commerciali dell’insediamento. Un giardino esterno si sviluppa su due lati e porta alle terme.

Un sistema di vasche cisterna molto articolato atto a raccogliere fino a duecento metri cubi di acqua sia piovana, sia proveniente da sorgenti esistenti a monte della Villa alimentavano una fonte(ninfeo) monumentale. Il complesso termale della Villa rispecchia la classica architettura romana dove è presente un ambiente riscaldato (il calidarium) e un ambiente con temperatura più moderata (il tepidarium) che serviva a preparare il fisico all’ambiente più freddo (il frigidario). Tutti gli ambienti sono decorati con mosaici La ricchezza della villa è data anche da un ambiente rettangolare e dall’utilizzo di intarsi marmorei. Anche le pareti erano rivestite con marmo proveniente dalle lontane regioni dell’impero romano: Asia e Africa. Il mosaico del “frigidarium”, Sala delle Nereidi, con grandi tessere bianche e verdi raffigura un paesaggio marino, un  thiasos marino con quattro figure femminili che cavalcano un leone, un toro, un cavallo e una tigre terminanti con una coda di pesce. La sala ha pianta ottagonale e conta quattro lati absidati e due due vasche per le abluzioni nell’ acqua fredda. Il calidarium, con relativo impianto di riscaldamento a ipocausto e tubi fittili sulle pareti, è anch’esso a pianta ottagonale e pavimentazione a mosaico in piccole tessere e doveva essere coperto da una volta.

Il “tepidarium”, ambiente moderatamente riscaldato, ha sala rettangolare pavimentata in lastre di marmo colorato e realizzata con la tecnica “opus sectile”.

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Ad essi è affiancato il “laconicum”,un ambiente un ambiente fortemente riscaldato destinato alle “essudationes”(saune).

Entrambi i settori termali sono caratterizzati dalla presenza di “praefumia”, bocche di forno situale al di sotto dei pavimenti, che garantivano il riscaldamento delle vasche e degli ambienti.

Sul lato opposto della strada, verso il mare, si trova invece la parte residenziale con numerosi ambienti articolati ed un grande cortile. Anche in questa parte della villa si possono ammirare pavimentazioni a mosaico, come nella sala delle quattro stagioni e in quella absidata. Qui troviamo:

• una Sala a base ottagonale,

• la Sala delle quattro stagioni,

• la sala di bacco, che mostra il dio del vino in stato di ebbrezza sorretto da un satiro,

• la Sala di Venere,

• latrine.

Una delle cose più curiose dell’area termale sono i bagni, meglio conosciuti come latrine.

I romani non avevano il senso del pudore ed erano soliti condividere i loro momenti più intimi in questa stanza, che per loro era una specie di salotto pubblico, un luogo per chiacchierare e fare affari.

Qui, come scrisse Orazio, si rimediavano gli inviti a cena,si discuteva di varie questioni, si gettavano le basi per un affare.

Naturalmente era per soli uomini, mentre per le donne non esisteva un equivalente, forse per timore che le donne venissero a conoscenza di troppe notizie?

L’ala residenziale dovette avere aspetti sfarzosi adatti alla dimora di un personaggio importante. Al centro si trova il più grande ambiente della Villa. Un vano a pianta cruciforme pavimentata con mosaico geometrico composito.

Non poteva mancare, all’interno della Villa, la zona della Necropoli dove è stata riportata alla luce, una tomba in mattoni all’interno della quale si trova una sepoltura “a cappuccina”.

Può sembrare riduttivo chiamarla Villa, sia per le dimensioni, sia per la ricchezza dei mosaici, dei simboli, della cultura, dell’architettura che rappresenta, e dovrebbe essere uno dei siti da valorizzare a tutti i livelli, ma, ahimè, a molti è sconosciuto. E lo è anche perché si trova in un territorio dove i treni, quasi non arrivano più,dove nelle vicinanze non c’è un aeroporto, si trova, insomma lungo quella statale 106, definita la strada della morte, che da decenni aspetta di essere ammodernata e messa in sicurezza. Un sistema di comunicazioni più efficiente, diventerebbe volano per il turismo e l’economia di una intera regione che, al di là dei proclami strombazzati in occasione delle competizioni elettorali, muore lentamente di abbandono, anche del suo capitale umano.

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QuAN d O l A C ulT u RA è A l SER v I z IO d E ll A SO l I dARIET à

dolore e Amore, edito dalle Edizioni Manna, rappresenta l’esordio letterario di giuseppina Iovane, una raccolta di riflessioni in versi che hanno come filo conduttore, questi due “sentimenti” presenti nell’essere umano da sempre.

Ad ispirare la maggior parte di queste poesie è stata la prematura scomparsa del figlio Luca, giovane e brillante avvocato, strappato alla vita da una forma grave di Leucemia. Il libro è stato presentato a Salerno (il 20 dicembre), presso il Centro Sociale Pastena, la serata è stata organizzata da Scena Teatro, scuola teatrale diretta dal maestro Antonella De Rosa e di cui l’autrice è assidua e proficua allieva. A presenziare la serata, moderata da pasquale petrosino, l’editore carmine Manna e lo scrittore salernitano Domenico Notari, che ha introdotto il concetto di una elaborazione del lutto del volume la rinascita dell’autrice, lo stesso autore ha sottolineato l’importanza della Poesia al giorno d’oggi.

Alcuni “colleghi teatrali” dell’autrice hanno interpretato alcune poesie, emozionando il folto pubblico presente in sala.

Il libro è in vendita a 10 euro e ha uno scopo benefico, parte del ricavato sarà devoluto al Reparto di Oncologia pediatrica dell’Ospedale Ruggi D’Aragona di salerno.

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E duAR d O SCARPETTA

Angelica Sarno

eduardo Scarpetta nasce a Napoli il 13 marzo 1853 da Domenico, funzionario del Regno Borbonico addetto alla revisione delle opere teatrali, ed Emilia Rendina. è il terzo di quattro figli; dei primi due (Enrico e Giulia) non si hanno notizie concrete, se non il fatto che non vedessero di buon occhio la scelta del fratello Eduardo. L’ultima sorella di Eduardo Scarpetta, Ermenegilda (Gilda), seguì invece la strada del fratello; cominciò infatti a ricoprire piccoli ruoli nelle compagnie dove era scritturato il giovane Eduardo Scarpetta ed in seguito nelle compagnie dirette dal fratello. La passione per lo spettacolo nasce in tenera età, quando si divertiva a far recitare dei pupi di pezza in un teatrino di legno da lui costruito, e spesso coinvolgeva la piccola sorellina Gilda facendola assistere a degli spettacolini da lui messi su. Fu all’età di 9 anni che Eduardo Scarpetta assistette alla prima vera rappresentazione teatrale; il padre, infatti, lo portò al teatro San Carlino dove si stava rappresentando la recita pomeridiana della compagnia di Antonio Petito. Il contatto con Pulcinella (maschera della quale Antonio Petito fu il più grande interprete) non fu dei più felici. Infatti quel naso ricurvo, quelle rughe della fronte e quell’espressione un po’ inquietante della maschera, turbarono non poco il piccolo Eduardo. Ma assistere a quella rappresentazione costituì per lui la scoperta di un mondo nuovo e, accantonati pupi e teatrini di legno, cominciò ad avvertire l’esigenza di rendere più concreta questa sua passione. Cominciava così a nascere in Eduardo Scarpetta “il fuoco sacro” del teatro.

Con la morte del padre il 14 ottobre 1868, la famiglia iniziò ad incontrare grosse difficoltà economiche, aggravate dallo sfratto dalla casa natale di via S. Brigida. Dopo un lungo peregrinare si stabilirono in via della Salute, ma la permanenza in questa casa

durò solo sei mesi poiché la madre fu impressionata dai racconti del vicinato che imputavano alcuni strani avvenimenti alla presenza di un monaciello, cioè di un’anima dannata che vagava per la casa. è proprio a questa vicenda che si ispirò Eduardo De Filippo nella sua commedia Questi fantasmi La famiglia Scarpetta continuò a cambiare casa fino al definitivo approdo al vico Santa Monica n. 7. Fu un’infanzia di stenti e povertà per il piccolo Eduardo che ben presto dovette staccarsi dalla famiglia iniziando la sua carriera d’attore per contribuire al sostentamento della famiglia. All’età di 14 anni fu scritturato dall’impresario salvatore mormone e, dopo qualche giorno, debuttò al teatro San Carlino nella commedia Cuntiente e guaje dove interpretava il ruolo di un fattorino che aveva due o tre battute. Da quel momento si aprì per lui una strada ricca di soddisfazioni; infatti

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Fu il più importante attore e autore del teatro napoletano tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento
Eduardo Scarpetta in abiti da scena.

cominciò a riscuotere le simpatie del pubblico e farsi notare per il suo giovane talento; e, dopo qualche tempo, lo stesso Antonio Petito (che inizialmente si era rifiutato di instradarlo al mestiere di attore) lo scritturò adattando su di lui il personaggio di Felice sciosciammocca che affiancava Pulcinella nelle sue divertenti avventure.

Antonio Petito scrisse infatti per lui alcune farse fra cui le più note sono: Feliciello mariuolo de ‘na pizza e Felice Sciosciammocca creduto guaglione ‘e n’anno. Il nome Sciosciammocca, che letteralmente significa “soffia in bocca”, descriveva perfettamente il tipo di personaggio che, un po’ allocco, un po’ svampito, cercava di districarsi da una serie di equivoci e di guai nei quali veniva immancabilmente a trovarsi, ma fu Eduardo Scarpetta a conferirgli le caratteristiche di personaggio a tutto tondo che negli anni gli tributarono tanto successo.

Don Felice cominciò ad essere conteso da tutti gli impresari di Napoli mietendo un successo dopo l’altro e conquistandosi i favori della critica. All’epoca la paga per un attore era davvero misera, ma, soldo dopo soldo, recita dopo recita, Eduardo Scarpetta riuscì a mettere da parte una somma tale da permettergli il grande passo: mettere su una compagnia tutta sua.

Il giovane Eduardo Scarpetta continuava ad essere scritturato dalle più note compagnie napoletane e non e ad essere enormemente acclamato dal pubblico. Antonio Petito era ormai morto già da qualche anno ed insieme con lui erano terminati i tempi del “tutto esaurito” al San Carlino. Gli incassi erano sempre più miseri e presto si diffuse la voce di una imminente chiusura del teatro. Eduardo Scarpetta aveva ventisette anni circa all’epoca e, stanco del continuo girovagare da una compagnia all’altra, da un teatro all’altro, sentì sempre più forte il bisogno di una stabilità. Decise così di rilevare e rimettere completamente a nuovo il teatro San Carlino ridotto ormai allo sfacelo. Furono non pochi i sacrifici, ma con un prestito di cinquemila lire (circa 20 mila euro di oggi) da parte dell’avvocato Francesco Severo i lavori di restauro, diretti dall’ingegnere Aiello, poterono cominciare. Nel settembre del 1880 Eduardo Scarpetta riapre così lo storico teatro di Piazza Castello completamente rinnovato nell’aspetto e nel repertorio. Anche i gusti del pubblico, infatti, erano nel frattempo cambiati; “la gente voleva ridere”, ma in modo diverso.

Il repertorio della tradizione napoletana era diventato obsoleto e gli intrecci troppo ingenui, legati com’erano a quell’epoca romantica ormai in declino. Eduardo Scarpetta cominciò così a scrivere commedie brillanti ispirandosi ai vaudevilles della belle epoque che in Francia “dettavano moda”.

Le sue non erano semplici traduzioni dal francese al napoletano, ma erano riletture complete che lasciavano intravedere solo l’intreccio dell’originale; i caratteri, le battute, erano completamente reinventate dalla feconda fantasia di quel giovane e nascente talento che aveva capito qual era l’esigenza del pubblico: ridere con intelligenza. Da quel primo debutto al San Carlino iniziò per Eduardo Scarpetta la grande scalata che avrebbe definitivamente suggellato la sua fama.

Per più di cinquant’anni Eduardo Scarpetta calca le scene dei più grandi teatri italiani, inventando un nuovo modo di far ridere. Il successo non l’abbandonò mai e della sua città diventò “il re borghese”, colui che era capace di tutto e da cui c’era da aspettarsi qualsiasi “pazzaria”.

Potere, denaro, fama ed il suo innato ottimismo lo accompagnarono per sempre. E fu proprio grazie alla

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Antonio Petito, mentore di Scarpetta.

Eduardo Scarpetta volle che fosse costruita secondo sue precise disposizioni. Infatti era in una posizione incantevole, sul ciglio della collina del Vomero, con la facciata rivolta verso il mare. Guardandola dal balcone di Palazzo Scarpetta al Rione Amedeo, (oggi via Vittoria Colonna) che era in posizione molto bassa rispetto alla collina, appariva tozza e quadrata e un giorno Scarpetta osservandola adagiata sornionamente sulla collina con le sue quattro torrette sporgenti poste in cima esclamò: “Me pare nu comò sotto e ‘ncoppa!…” Non amò mai di vero cuore questa sua incantevole villa, il cui nome con l’aggiunta della dicitura incisa sul granito del portale Qui rido io ho girato il mondo. Quando fu costruita, il Vomero era davvero quel vommero solitario di cui favoleggiava il poeta: agreste e profumato, silenzioso e tranquillo, tale si mantenne ancora per molti anni, durante i quali la solitudine e il silenzio della zona tanto impressionarono la moglie Rosa che Scarpetta fu costretto nel 1911 a disfarsi della Villa. Il primo piano fu venduto all’oculista Sbordone e il secondo ad un prete, il reverendo Fiorentino, che per poche decine di migliaia di lire ottenne la proprietà delle mura con relativi mobili e suppellettili. In quel periodo Scarpetta era davvero un piccolo re. Cosa mancava a quest’uomo, idolatrato dalle platee, vezzeggiato dai potenti, profuso di ricchezze e di onori? E la Santarella era la sua piccola versailles.

Quando il 12 settembre ricorreva il giorno di Santa Maria, onomastico della sua amatissima figlia, Scarpetta invitava scritturati ed amici, artisti e poeti, giornalisti e scrittori. In quelle occasioni egli indiceva un vero e proprio certame di poesie, mettendo in palio ricchi premi per coloro i quali componevano il più bel sonetto in onore della sua adorata figlia. Quelle che si svolgevano alla Villa Santarella erano cene fastosissime di cui si sentiva parlare l’indomani tutta Napoli. Ma dell’ospitalità, della generosità e soprattutto della fantasia di quest’uomo erano testimonianze i cosiddetti “fuochi”. Infatti in queste liete ricorrenze egli era solito organizzare grandi spettacoli di fuochi pirotecnici; così, a mezzanotte la Santarella s’incendiava di meravigliosi colori che gli invitati osservavano sbalorditi dalla Villa e ancora di più dai balconi del Rione Amedeo.

sua placida imperturbabilità che superò gli ostacoli che inevitabilmente incontrò per la sua strada. Sul piano professionale è semplice parlare di Scarpetta mentre sul piano familiare, grazie anche ai tanti gosspi che egli mai smentì, è più difficile. Le sue paternità extra coniugale erano tollerate dal pubblico o ancora erano, in qualche caso, motivo di dileggio più o meno cattivo come quando, rimbeccato al teatro Sannazzaro da uno spettatore che gridò al suo indirizzo: “…scarpè tiene ‘e ccorna!“, egli rispose con tutta calma: “…sì, ma ‘e mmie so’ reali!”, forse in virtù della paternità del suo primogenito.

Infatti, il 16 Marzo 1876 Eduardo Scarpetta sposò Rosa de Filippo, figlia di un modesto commerciante napoletano. Da questo matrimonio, appena tre mesi dopo nasce domenico, che pare sia stato concepito da una relazione precedente che Rosa aveva avuto

con vittorio emanuele II è chiaro che nulla di ufficiale si poteva e si può affermare riguardo a questo episodio, ma la grandissima somiglianza di Domenico con la discendenza Savoia (vedi foto), il tacito divieto a calcare le tavole di un palcoscenico imposto al ragazzo e una sorta di appannaggio mensile assegnato alla famiglia Scarpetta lasciano pochi dubbi sulla vera paternità. Così è vincenzo, ad ereditare la passione o meglio il compito di portare avanti il discorso teatrale del padre, anche perché l’altra figlia, maria, nata da una relazione che Eduardo ebbe con Francesca Giannetti, fu adottata solo in seguito. Domenico, Vincenzo e Maria sono così gli unici a portare il cognome Scarpetta . Ma certamente la paternità più famosa è quella di Titina, eduardo e Peppino de Filippo. I tre presero

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v I ll A SANTARE ll A ... I l S u O RI fug IO, l A S uA RE gg IA

il cognome della madre luisa, nipote di Rosa in quanto figlia di suo fratello Luca. Oltre questi tre De Filippo ve ne erano altri due: un altro eduardo, che in arte si farà chiamare Eduardo Passarelli, e Pasquale, figli di una sorellastra di Rosa, Anna, nata dal secondo matrimonio del padre di Rosa, appunto Pasquale De Filippo. è evidente che esistessero tutti gli elementi giusti per far proliferare chiacchiere e malignità di ogni genere su di una situazione familiare così ingarbugliata, e se all’esterno quel tipo di considerazioni si limitavano ad essere sussurrate o bisbigliate, nell’ambito familiare erano tacitamente accettate.

Non si vuole certamente giudicare il comportamento etico di Eduardo Scarpetta, ma bisogna pur dire che certi fatti che oggi sono all’ordine del giorno grazie all’emancipazione da un conformismo ipocrita, all’epoca si cercava di tenerli chiusi tra le mura del palazzo. E sarebbe riduttivo, se non gratuito, descrivere Eduardo Scarpetta come un uomo dalla sessualità morbosa. Questo purtroppo è avvenuto ed egli è stato più volte descritto come uomo peccaminoso e immorale; ma è disonesto citare (come è avvenuto) episodi che gli unici eventuali testimoni non potevano né smentire né confermare in quanto defunti.

Quel che è certo è che Eduardo Scarpetta non fece mancare nulla di ciò che poteva servire alla crescita e alla educazione di tutta la sua prole; a quanto è dato sapere poi, la stessa donna Rosa nutriva un affetto quasi materno per tutti quei piccoli figliastri e, se non bastasse, si pensi alla stima e all’affetto che Vincenzo aveva nei loro confronti. Una curiosità in ultimo: tutti questi figli, per il fatto di essere illegittimi, non potevano chiamare Eduardo Scarpetta papà, ed allora fu loro detto di chiamarlo “zio”, come testimoniano alcune lettere-poesie che questi scrisse loro.

Non mancarono nemmeno polemiche e “guai” nella vita artistica come le due cause giudiziarie quella per il teatro d’arte che lo vide contrapposto ad autori come Bovio e Murolo, e quella per “Il figlio di Jorio” dove la parte di antagonista la ebbe Gabriele d’Annunzio

Se per la prima si può dire che una soluzione non fu mai trovata – chi o cosa può stabilire se un teatro comico possieda o meno una propria validità drammaturgia – la seconda si risolse per Eduardo Scarpetta in una vittoriasconfitta. La vittoria si consumò in un’aula di tribunale dove Scarpetta fu trascinato dal vate con l’accusa di plagio. Egli infatti aveva preso spunto (chiedendo al D’Annunzio il debito permesso pienamente accordatogli)

dal capolavoro dannunziano La figlia di Jorio per scrivere la parodia Il figlio di Jorio.

La sera del debutto lo spettacolo fu interrotto dagli schiamazzi del pubblico di parte dannunziana e non fu più ripreso; dalla stampa, poi, Eduardo Scarpetta apprese che d’Annunzio gli aveva sporto querela per plagio e contraffazione, sostenuto anche da marco Praga, fondatore della società degli autori (sIAe).

Al processo i periti erano Giorgio Arcoleo e Benedetto Croce. E fu proprio quest’ultimo che perorò la causa (è il caso di dirlo) di Eduardo Scarpetta, facendolo assolvere per non avere commesso il fatto.

Anni dopo maria, la figlia di Eduardo Scarpetta, seppe dal figlio di D’Annunzio, che la vicenda fu incitata e sospinta dal fondatore della Siae nella speranza di ottenere una sentenza di condanna con tutte le conseguenze morali ed economiche. La vittoria oggettiva però non risparmiò a Eduardo Scarpetta una sconfitta intima: egli comprese che dopo cinquant’anni di teatro le esigenze ed i gusti del pubblico erano nuovamente cambiati e che un’epoca era ormai al tramonto. La sentenza di assoluzione disse infatti che si era trattata di una parodia, riuscita male, ma pur sempre parodia. Scrisse un ultimo capolavoro ‘o miedeco d’é pazze, partecipò a qualche altro spettacolo della

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Domenico, il primogenito.

compagnia del figlio Vincenzo, collaborò con Rocco Galdieri alla scrittura delle prime riviste d’avanspettacolo e si spense, all’età di settantadue anni, il 23 novembre del 1925.

Vogliamo chiudere con alcuni aneddoti , tutti con un risvolto quasi comico, sono caratterizzati comunque dalla consapevolezza di essere quel personaggio famoso che era:.

Una volta, tentando di imparare a guidare il suo coupé e, trovandosi imbrigliato nel traffico di altre carrozze e trams a cavalli, redarguito da un vigile che gli gridò: “Impari a guidare!”. Rispose: “e’ chello che sto facendo!”.

Durante una passeggiata in carrozzella disse al suo cocchiere, Pasquale, di fermarsi per permettergli di espletare un suo bisogno urgente (soffriva di una reale patologia renale). Il caso volle che fu sorpreso in quel frangente da un vigile urbano che gli elevò una contravvenzione di due lire e cinquanta per oltraggio al pudore. A nulla servì ad Eduardo Scarpetta il giustificarsi dicendo che si era trattata di una necessità “clinica”, la contravvenzione di due lire e cinquanta andava pagata. Eduardo Scarpetta cavò allora dalla tasca una banconota da cinque lire e, non essendo il vigile in grado di dargli il resto, disse al suo cocchiere, Pasquale: “Pascà scendi e fa pure tu!”. Ma l’aneddoto forse più spassoso e che più dà l’idea della sua intolleranza nei confronti dei seccatori, riguarda l’avvocato Ferraioli. Questi aveva l’abitudine di far durare le sue visite il più a lungo possibile. Un pomeriggio, alla vista dell’avvocato, Scarpetta lo fece attendere qualche minuto e si accomodò su di una sedia sfondata, sotto la quale aveva fatto sistemare un vaso da notte, si coprì le gambe con una coperta e fece accomodare l’avvocato. Scarpetta incominciò ad emettere dei “suoni” che divennero così frequenti da costringere l’avvocato, quasi mortificato, a dire: “Commendatò, forse è meglio che passo un’altra volta?” e lui: “Fate come credete, avvocà, io qua sto!“. Ferraioli non si fece più vedere.

• Tutto per mio fratello! (1911), tratto dalla commedia Vi’ che m’ha fatto frateme (1881)

• Miseria e nobiltà, regia di Enrico Guazzoni (1914), tratto dalla commedia omonima (1888)

• La nutrice, regia di Alessandro Boutet (1914), tratto dalla commedia La nutriccia (1882)

• Un antico caffè napoletano, regia di Gino Rossetti (1914), tratto dalla commedia Il non plus ultra della disperazione (1880)

• Tre pecore viziose, regia di Gino Rossetti (1915), tratto dalla commedia omonima (1881)

• Lo scaldaletto, regia di Gino Rossetti (1915), tratto dalla commedia Lo scarfalietto (1881)

• Miseria e nobiltà, regia di Corrado D’Errico (1940), tratto dalla commedia omonima (1888)

• Ti conosco, mascherina!, regia di Eduardo De

Filippo (1943), tratto dalla commedia Il romanzo di un farmacista povero (1882)

• Sette ore di guai, regia di Vittorio Metz e Marcello Marchesi (1951), tratto dalla commedia ‘Na criatura sperduta (1899)

• Agenzia matrimoniale, regia di Giorgio Pàstina (1952), tratto dalla commedia ‘N agenzia ‘e matrimonie (1885)

• Un turco napoletano, regia di Mario Mattoli (1953), tratto dalla commedia ‘Nu turco napulitano (1888)

• Miseria e nobiltà, regia di Mario Mattoli (1954), tratto dalla commedia omonima (1888)

• Il medico dei pazzi, regia di Mario Mattoli (1954), tratto dalla commedia ‘O Miedeco d’e pazze (1908)

dA l TEATRO A l CINEMA
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Benedetto Croce.

b enino, pastore simbolo del presepe napoletano

tra gli innumerevoli personaggi che animano il presepe napoletano, ce ne sono alcuni le cui storie si tramandano in una tradizione davvero molto suggestiva e affascinante.

Il presepe napoletano, più di qualunque altro, è fatto di simboli incarnati da uomini e donne, figure caratteristiche del popolo assunte a personificazione di leggende che spesso trascendono anche la religione, affondando le proprie origini in realtà ancora più antiche. Nel caso di Benino, il pastore addormentato nella grotta al limitare del presepe stesso, il significato religioso si intreccia in modo indissolubile con un senso del magico più antico. La figura di Benino nasce da quanto affermato nelle sacre scritture: “E gli angeli diedero l’annunzio ai pastori dormienti“.

Ma Benino è famoso anche perché si dice che sia colui che sogna il presepe di cui è protagonista. Un’immagine che possiede una valenza filosofica fortissima, oltre che una simbologia profonda. Il sonno non è solo il preludio all’evoluzione dell’anima, ma è atto di creazione esso stesso, una sorta di preparazione dello scenario in cui si manifesterà il miracolo della Natività e con esso la rinascita spirituale del singolo. Un equilibrio fragile e delicatissimo, come è nella natura dei sogni.

Benino dorme, e nel suo sonno si compie ancora una volta il miracolo del Natale. Il suo risveglio rappresenta una nuova fine, un nuovo inizio per tutti.

fors E N o N tutt I s ANN o ch E ...
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PORTA FELICE, TRA ALbE d’EquInOzIO E CORnA ALLA LunA

Una delle antiche vie d’accesso più importanti di Palermo, in un momento dell’anno, diventa un palcoscenico affascinante

Se vi trovate a Palermo il ventuno marzo assisterete fenomeno naturale affascinante ed unico. Il Sole sorge dal mare in un perfetto allineamento con la più antica strada di Palermo, il cassaro. Protagonista di questo spettacolo è Porta Felice

Il fenomeno è davvero suggestivo ed ha un che di magico ed esoterico, in quanto, intorno alle sei del

mattino,  il sole sembra emergere dal mare per poi porsi al centro dei due piloni della porta. E si tratta di un fenomeno che, in questo periodo dell’anno, desta l’interesse di turisti e palermitani appassionati di fotografia, conoscitori dei segreti della luce della città, più di molti ignari passanti. è davvero emozionante ciò che si presenta in quelle ore del mattino nel Cassaro morto; un tratto di strada che, per la mancanza di attività commerciali, sembra riscattarsi da quell’ingenerosa nomea di esser senza vita. Ma qual è la storia di Porta Felice?

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I t INE r A r I

Edificata nel 1582, per volontà dall’allora viceré di Sicilia Marcantonio Colonna di Lanuvio, venne dedicata alla moglie donna Felice orsini. Ma, la cosa strana è che, vicino al pilone di sinistra della porta, fu collocata la fontana della sirena (vedi foto in alto), le cui forme, secondo le malelingue del tempo, ricordavano la bella eufrosina valdaura, baronessa di Miserendino l’amante dello stesso vicerè. La porta di fatto era stata realizzata in seguito al raddrizzamento e al prolungamento fino al mare della più antica strada di Palermo, la strada marmorea.

La porta, durante la festa di Santa Rosalia, veniva trasformata in arco trionfale mediante la collocazione di decorazioni posticce che univano alla sommità i due piloni. Inoltre, per l’aristocrazia di metà Settecento iniziò a rappresentare una sorta di zona franca, il luogo da cui uscire dall’asfittico centro storico, fatto di vicoli e trazzere, per concedersi qualche licenza, o semplicemente un paio d’ore di vero e proprio libertinaggio.

Tant’è che in seguito a ciò ne nacque un detto popolare, che ironizzando sul fatto che la porta oltre a garantire la sicurezza, avrebbe dovuto garantire la morale pubblica, si domandasse “cu’ fussi lu mastru quali fabbricau lu catinazzu di porta Felici?”. Poiché, Porta Felice era l’unica porta civica che dopo il suono delle campane dell’Avemaria rimaneva aperta. Questa consuetudine – unita all’ormai noto tradimento consumato dal committente Marcantonio Colonna – fece sì che la porta a partire dal Settecento venisse denominata allusivamente “i corna a luna”.

Ma il caso volle che questa maligna allusione finisse per mimetizzarsi in un altro celebre evento: la cosiddetta festa dei cornuti. Si badi bene, questa denominazione non aveva nulla di ufficiale né di libertino; anzi, al contrario, era una ricorrenza di carattere religioso che coincideva con la festa dell’Ascensione di Gesù al cielo, che cadeva quasi sempre a maggio, quaranta giorni dopo la Pasqua. In quella circostanza, infatti,  una massa di pastori e storpi, con al seguito i loro rumorosi armenti – da qui appunto i cornuti – partivano dal piano del Palazzo Reale e scendevano a valle, in direzione del mare, per poi immergersi a mezzanotte in punto in acqua.

La processione era legata ad un’antica credenza popolare, secondo la quale, in quel particolarissimo giorno dell’anno, le acque avessero un carattere catartico e salvifico.

Di questa antica processione la pittrice Kiyohara Tama ce ne ha lasciato un’affascinante rappresentazione, in un suo quadro che si trova all’interno del museo Pitrè, dal titolo appunto “l a notte dell’Ascensione”.

Oggi Porta Felice, più che per questa particolare festa, viene ricordata come il luogo dell’apoteosi della santa Patrona di Palermo. è qui che il quattordici luglio di ogni anno – da tempo ormai ben oltre la mezzanotte – il carro trionfale di Santa Rosalia giunge in prossimità del mare.

Ed è sempre qui che superati i due piloni viene accolta da assordanti e scintillanti giochi d’artificio. Oggi come tre secoli fa, quando il viaggiatore scozzese Patrick Brydone la considerava la più bella d’Europa.

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I l pA ss Ato c AN c E ll Ato

bAYARd, la stazione fANTASMA

La prima stazione realizzata in Italia a seguito della costruzione della linea ferroviaria Napoli Portici nel 1839, oggi è un rudere

tutti sanno che la prima linea ferroviaria italiana fu realizzata nel Regno delle Due Sicilie per collegare Napoli a Portici. L’inaugurazione avvenne il 3 ottobre 1839 alla presenza del re Ferdinando II che aveva voluto la ferrovia. La distanza fu coperta in circa 10 minuti e fu subito grande festa per questa “innovazione” voluta dal sovrano che non c’era in nessuna altra città e stato italiano.

Il Re concesse due mesi di esercizio in prova e ben 130.000 napoletani effettuarono questo eccezionale “viaggio” tra Napoli e Portici

Il treno arrivava al Granatello di Portici, dove c’era la stazione di arrivo che fu costruita tra la Reggia e la Villa D’Elboeuf che erano allora unite perché la villa D’Elboeuf era stata acquistata dai Borbone nel 1742 ed era stata unita alla Reggia da un grande parco che rappresentava lo sbocco a mare della Residenza reale Oggi quasi nessuno sa da dove sia partito il primo treno e dove si trova la stazione denominata Bayard.

La stazione era nell’attuale corso Garibaldi (all’epoca si chiamava via dei fossi) affianco alla stazione terminale della Circumvesuviana: oggi è un rudere in stato di completo abbandono e nello stesso spazio ci sono i locali dalla sede della 2 Municipalità. La “Bayard” era, dunque, il capolinea della e fu immortalata in tutto il

suo splendore dall’artista Salvatore Fergola, pittore di corte, celebrò l’avvenimento nel 1840 con un quadro conservato al Museo di San Martino a Napoli (vedi foto in basso).

Per trent’anni la Bayard svolse il suo lavoro in modo egregio fino al 1866 quando fu costruita la nuova stazione di Napoli Centrale e la stazione Bayard non fu più un capolinea passeggeri ma fu declassata a impianto di servizio. Purtroppo l’antica stazione fu gravemente danneggiata in alcune parti dai bombardamenti del 1943, in particolare dall’esplosione della nave Caterina Costa. Fu poi riutilizzata dal Dopolavoro Ferroviario che vi realizzò il Teatro Italia. Dopo il terremoto del 1980 fu abbandonata e alcune parti pericolanti furono demolite.

Oggi è solo un rudere abbandonato su Corso Garibaldi pieno di vegetazione selvatica, posto tra la Circumvesuviana e la sede della 2 Municipalità del Comune di Napoli che ha riutilizzato una piccola parte della vecchia Stazione

In qualsiasi posto al mondo un luogo del genere sarebbe un affollato museo. A Napoli, purtroppo, è in stato di abbandono. Sarebbe bello il restauro e valorizzazione di quest’opera che è parte della grande storia della città, e non solo, e che si trova a pochi passi dai resti delle mura Aragonesi e da Piazza Mercato, cuore storico della città dove fu decapitato Corradino di Svevia, dove ci fu la rivolta di Masaniello e dove si

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svolsero molte vicende della rivoluzione napoletana del 1799.

La colpa di questa incuria è da ricercare esclusivamente nella non consapevolezza della propria grandezza storica, anche merito di una certa stampa filo nordista.

I non consapevoli, invece, non sanno neanche dove si trovi, e quando passano davanti la stazione della Circumvesuviana al Corso Garibaldi non immaginano cosa ci sia nei pressi e cosa sia accaduto in quel posto quel 3 Ottobre del 1839.

Infatti il primo treno e la linea ferrata furono costruiti in Italia eccezione fatta per la locomotiva (costruita in Inghilterra), e con manodopera e industria italiana grazie a Ferdinando II, uno dei sovrani più illuminati e più calunniati dalla storia.

Immaginate cosa dovrebbe pensare chi ha avuto la (s) fortuna di seguire il Telegiornale di Rai 1 (pagato coi soldi pubblici) quando a prosposito dell’inagurazione del nuovo hub di Roma Tiburtiba e dedicato a Cavour, il giornalista affermò testualmente che “la stazione è intitolata al Conte Camillo Benso di Cavour, il primo che pensò alle strade ferrate”.

Nulla di più falso, perchè la prima ferrovia piemontese, la Torino-Moncalieri, fu inaugurata nel 1848. Vi circolavano decine di locomotive napoletane che il Piemonte aveva acquistato da Pietrarsa, il cui reparto di produzione locomotive a vapore fu inaugurato nel 1845. Gli acquisti cessarono solo con la fondazione dell’Ansaldo, che poi avrebbe beneficiato, dopo il 1861, delle commesse della stessa Pietrarsa mandata a chiusura e relegata prima a officina di riparazione e poi a museo.

Se è vero che nel 1861 le Due Sicilie contavano circa 130 km di strade ferrate mentre il Piemonte ben 850 circa, è anche vero che altri 130 erano in costruzione o in preparazione al Sud in modalità “sostenibile”, cioè lentamente e senza pesare troppo sulle finanze statali, contando anche sulle sviluppatissime vie del mare che da sempre servivano il trasporto delle merci

delle Due Sicilie, mentre Cavour e Vittorio Emanuele II, che non disponevano di trasporti marittimi, si erano indebitati a tal punto per costruire rotaie che neanche i ducati delle Due Sicilie (quando depredarono il Banco di Napoli) furono sufficienti a ripianare il debito pubblico poi trasformato in “nazionale”.

La stessa Napoli-Portici-Nocera fu costruita a spese dell’ingegnere francese Armando Bayard de la Vingtrie in cambio della gestione della linea per 80 anni, una sorta di “project financing” d’avanguardia. Il ruolo di primo grande modernizzatore italiano non spetta a cavour bensì, di diritto e di fatto, a Ferdinando II.

Dopo il 1861, il piano di sviluppo ferroviario borbonico fu cancellato e fra i primi provvedimenti del parlamento sabaudo ci fu la sospensione dei lavori della ferrovia Tirreno-Adriatica tra Napoli e Brindisi, iniziata nel 1855. Eppure, le gallerie e i ponti erano già stati realizzati, ma a nulla valsero le proteste degli ingegneri convenzionati.

Le ferrovie meridionali furono poi cedute dal governo di Torino alla compagnia finanziaria privata torinese di Pietro Bastogi, che le subappaltò vantaggiosamente e clandestinamente, sostituendosi al governo nell’approvare un contratto con destinatari diversi da quelli indicati dal ministero, per una speculazione sulla costruzione della rete ferroviaria al Sud che coinvolse diversi governi del Regno d’Italia.

Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord, con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Nel 1864, una commissione d’inchiesta indagò sulle grosse speculazioni attorno alla costruzione e all’esercizio delle reti ferroviarie meridionali. I giudici denunciarono la sparizione di importanti documenti comprovanti la colpevolezza degli imputati, e sparirono anche i progetti di collegamento orizzontale tra Tirreno e Adriatico notizia dell’ultima ora sembra che la stazione Bayard possa essere inseriti nei “luoghi del cuore” promosso dal Fai.

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La stazione “Bayard” come era (a sinistra) e in una ripresa col drone (a destra).

N ON è NATA l E SE MANCANO A TAvO l A

cinzia bisogno

non è Natale se a tavola non compaiono i dolci tipici del periodo, quelli della tradizione, le cui ricette si tramandano da secoli, ve ne presentiamo tre (quelli più gettonati in Campania).

glI StRuffOlI

Il dolce è composto da numerosissime palline di pasta (realizzata con farina, uova, strutto, zucchero, un pizzico di sale e liquore all’anice) di non più di 1 cm di diametro, fritte nell’olio o nello strutto e (dopo averle lasciate a raffreddare) avvolte in miele caldo e disposte in un piatto da portata dando loro, in genere, una forma a ciambella; si decora, infine, la composizione con pezzetti di cedro e altra frutta candita, pezzetti di zucchero e confettini colorati (chiamati diavulilli in napoletano, diavoletti in italiano, oppure “minulicchi”).

Il nome dello “struffolo”, ossia della singola pallina che compone il dolce, deriverebbe dal greco, precisamente dalla parola στρόγγυλος (stróngylos, pron. “strongoulos” o “stroggulos”) che significa “di forma tondeggiante”

Sembra che gli struffoli non siano stati inventati a Napoli, ma che vi siano giunti durante l’antichità attraverso i greci, già ai tempi della Magna Grecia Altri attribuiscomo agli struffoli una paternità spagnola. Esiste infatti, nella

cucina andalusa, un dolce estremamente simile agli struffoli, il piñonate, che differisce dal dolce napoletano solo per la forma delle palline di pasta, che sono più allungate. La parentela tra struffoli e piñonate potrebbe risalire al lunghissimo periodo di vicereame spagnolo a Napoli.

l A RIceTTA

1. Iniziate setacciando la farina sulla spianatoia allargatela in modo da formare la classica fontana e aggiungete il sale. Unite poi lo zucchero e il bicarbonato Tagliate il burro a cubetti e sistematelo al centro

2. Iniziate ad impastare con le mani il burro con lo zucchero , poi aggiungete al centro le uova una alla volta e continuando ad impastare aggiungete anche i tuorli .

3. Versate ora il liquore all’anice, la scorza di limone e quella d’arancia, entrambe grattugiate. Iniziate a lavorare l’impasto con le mani o con l’aiuto di un tarocco per ottenere un impasto liscio e omogeneo.

4. Avvolgete l’impasto con la pellicola per non farlo seccare. Lasciate riposare per 30 minuti a temperatura ambiente.

5. Prelevate una parte di impasto tenendo l’altra sempre ben coperta. Formate dei filoncini spessi 1 cm e ricavate dei piccoli tocchetti larghi circa 1/1,5 cm

6. Man mano trasferiteli su un vassoio rivestito con un canovaccio pulito, distanziandoli tra loro. Proseguite in questo modo fino a terminare l’impasto, distanziando bene i tocchetti.

7. Passate alla frittura: versate l’olio in una pentola capiente e scaldatelo fino a raggiungere una temperatura di 150160°.

dolc I NAtA l IZI
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8. Immergete pochi pezzi per volta, aiutandovi con una schiumarola e smuoveteli un po’ durante la cottura, in questo modo risulteranno tondi. Quando saranno ben dorati scolateli; ci vorranno circa 3-4 minuti.

9. Trasferite, poi su un vassoio con carta da cucina per togliere l’olio in eccesso e proseguite in questo modo per la cottura di tutti gli altri struffoli. Ora passate alla guarnitura. Prendete l’arancia candita e tagliatela a cubetti. A parte in un tegame versate il miele e lo zucchero .

9. Scaldate a fuoco dolce mescolando di tanto in tanto. Non appena inizierà a bollire spegnete il fuoco.

10. Lasciate intiepidire e aggiungete la scorza di limone e quella d’arancia, entrambe grattugiate. Unite l’arancia candita a cubetti e mescolate ancora.

11. Lasciate intiepidire per 5-6 minuti, quindi versate gli struffoli all’interno .

11. Amalgamate bene con un mestolo di legno sino a che gli struffoli non saranno ben ricoperti e si saranno raffreddati.

12. Trasferite in un piatto da portata, decorate con gli zuccherini colorati, scorza di arancia candita e ciliegie candite. Gli struffoli sono pronti!

ROCCOC ò

La ricetta più antica di questo caratteristico dolce che allieta le tavole napoletane a natale sembra risalire al 1300, dove la dedizione delle suore del Real Convento della Maddalena sfornano i primi esemplari. Il termine Roccocò deriva dal francese Rocaille, dovuta alla forma tondeggiante, è un dolce che viene cotto a forno ed ha una consistena molto solida e croccante, se molto duro vuol dire che ci sono stati dei problemi nella realizzazione.

Ingredienti (18 circa con questa dose)

• 500 g farina

• 400 g zucchero

• 300 g mandorle (100 da tritare e 200 tostate da utilizzare intere)

• 6-7 g pisto 35-40 chiodi di garofano + 1/2 cucchiaino di cannella + 1/2 cucchiaino noce moscata, anice stellato (facoltativo)

• 1/2 cucchiaino di bicarbonato di ammonio

• scorze di agrumi grattugiate (1 limone + 1 arancio + 1 mandarino) o candite se preferite

• 150 ml acqua tiepida oppure (75 ml acqua + 75 succo di arancia)

• 1 tuorlo d’uovo sbattuto con un cucchiaio di latte per spennellare

1. Disporre la farina a fontana e aggiungere al centro tutti gli ingredienti tranne le mandorle intere. Impastare ed amalgamare bene.

2. Aggiungere le mandorle intere e impastare un po’ a mano, cercando di distribuire bene le mandorle nell’impasto.

3. Formare bastoncini dello spessore di un dito e metterli in teglia sulla carta forno, creando delle ciambelline. Poi schiacciarle leggermente e spennellarle con il tuorlo sbattuto con il latte.

4. Infornare in forno caldo a 200 °C per 10 min e 180° per altri 10 minuti.

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MOStAccIuOlI

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Altri dolci protagonisti delle tavole napoletane nel periodo natalizio sono i mostaccioli. Dalla forma romboidale ricoperti di glassa a cioccolato, hanno rispetto ai roccocò una pasta più morbida, risultando quindi gradevoli anche dai bimbi.

Il Termine Mostacciolo deriva dalle ricette contadine di un tempo in cui si prevedeva l’utilizzo del mosto nell’impasto.

Ci sono tante altre varianti di Mostacciolo con utilizzo di glasse differenti.

Ingredienti:

• 1 kg di farina

• 1 kg di zucchero

• 400 gr di noci tostate e tritate

• 1limone e arancia grattugiati

• 1/2 cucchiaio cannella

• presina di sale

• 500 gr di cioccolato fondente

• 180 ml acqua

• 2 gr di ammoniaca per dolci

Preparazione:

1. La preparazione è semplicissima, basterà setacciare la farina e aggiungere poi tutti gli ingredienti tranne il cioccolato.

2. Quando gli ingredienti saranno tutti ben mescolati aggiungere acqua calda e impastare bene e così facendo otterrete una pasta morbida che lavorerete bene affinchè sia omogenea (la pasta verrà bene in 5 minuti).

3. A questo punto basterà stendere la pasta con un’ altezza di 1-1,5 cm e tagliarla formando dei piccoli rombi (come in foto) e infornateli a 180° per 20 minuti circa (anche meno basterà vedere a occhio quando la superficie sarà di un colore dorato).

4. Ora non rimane che sciogliere il cioccolato a bagnomaria e, con un pennello distribuite il cioccolato sulla parte posteriore dei biscotti.

5. Quando si sarà solidificato riprendere i biscotti e apoggiateli sopra una griglia dalla parte ancora da glassare con il cioccolato (va bene la griglia del forno) e immergete la parte da glassare nel cioccolato (si mettono poi sulla griglia in modo tale che il cioccolato in eccesso possa essere eliminato in questo modo)

Cosa bere vicino?

Beh. restiamo nella tradizione Natalizia, un rosolio agli agrumi (Lime, mandarino, arance, limoni) oppure un passito campano.

Ovviamente esistono molti altri dolci natalizie, è la fortuna di chi vive nella zona più bella del mondo.

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to Il lIvORNESE lEMMI ChE SI ARRICChì gRAzIE A gARIbAldI

notevoli profitti per aver aiutato “mezza recchia”?

la favoletta che mille scalcagnati vestiti di rosso partirono da Quarto, un paesino vicino Genova per andare a liberare l’Italia, con a capo “mezza recchia” Garibaldi (gli fu tagliata in Sud America, ed è la pena che spetta ai ladri di cavalli) non regge più, perfino un pinguino al Polo Sud vi riderebbe in faccia se gli raccontate questa storiellina, gli unici a crederci sono gli italioti.

Oltre all’aiuto dell’Inghilterra che scortò le due navi pirate e che permisero lo sbarco a Marsala, “Mezza Recchia” fu anche aiutato da un banchiere italiano, anzi livornese che risponde al nome di Adriano lemmi. Adriano Lemmi fu un fedele mazziniano, e fu coinvolto nel fallito tentativo mazziniano a Milano del 6 febbraio 1853 e, per sottrarsi alle conseguenze, scappò in Svizzera, e successivamente a Costantinopoli, rimanendo sempre in contatto con Mazzini.

Nel 1857 Lemmi finanziò la spedizione di Carlo Pisacane. Nel 1860 insieme al banchiere e cognato Pietro Augusto Adami, anch’egli di Livorno, fondò la ditta Adami e Lemmi cui Garibaldi a napoli accordò la concessione della rete ferroviaria nel mezzogiorno ed anche del monopolio dei tabacchi.

La domanda sorge spontanea: ma se non avessero aiutato economicamente “Mezza Recchia” come potevano essere accordate a loro tali concessioni? Le quali furono,dopo molti contrasti, confermate anche dal Regno d’Italia.

Poco tempo dopo il governo sabaudo neocostituito, revocata la convenzione, trasferiva l’atto concessorio alla Società Vittorio Emanuele (a capitale prevalentemente francese); ma i successivi avvenimenti videro poi l’intrecciarsi di iniziative di banchieri francesi ed infine di una società creata dal conte Bastogi (di questo personaggiuccio ne parleremo nei prossimi numeri) che aveva fondato la Società Italiana per le strade ferrate meridionali.

Adami e Lemmi furono cassieri del mazziniano Partito d’Azione cui Garibaldi aveva aperto le porte del Sud. Una Commissione Parlamentare d’inchiesta, promossa nel 1892 dai deputati Imbriani e da Achille Plebano, accusò Lemmi di aver concluso illegalmente un contratto a lui intestato, a danno dell’erario statale. Francesco Crispi rigettò l’inchiesta e vietò l’esposizione dei documenti, mentre gli atti parlamentari erano ormai stati divulgati dalla stampa cattolica e non. Lo scandalo dei tabacchi e il processo di Marsiglia lesero gravemente l’immagine pubblica e la credibilità morale del corpo massonico italiano, inducendo Lemmi ad attivarsi in un programma di discorsi e comizi in tutta Italia per recuperare il terreno perduto nelle masse. Lemmi, in quanto massone fu dunque salvato dal “fratello” Francesco Crispi. Durante la sua carriera massonica Lemmi riuscì a riunificare, sotto il labaro del Grande Oriente d’Italia, tutte le obbedienze massoniche italiane che, per varie vicissitudini, erano rimaste sino ad allora autonome.

Il gran maestro inoltre riassestò le finanze del G.O.I. Intuì l’importanza di avere a propria disposizione una loggia “coperta”, nella quale far confluire i massoni più influenti della finanza e dell’editoria.

La linea d’azione di Lemmi, molto attento alla conquista del potere, è stata più volte accostata alla “filosofia” che un secolo più tardi ha ispirato Licio Gelli. Fortemente laicista e anticattolico, di Lemmi resta famosa la dichiarazione: “La scomparsa del potere temporale dei papi è il più memorabile avvenimento del mondo”. La permanenza di Lemmi ai vertici della massoneria coincide con la guida del governo italiano di Francesco Crispi.

Lemmi e Crispi furono legati da stretta amicizia e comunanza nelle scelte politiche domestiche ed internazionali. All’interno della massoneria, dopo il 1896, anno della caduta dell’amico Crispi, gli restò unicamente la carica di sovrano gran commendatore del rito scozzese, che conservò fino alla morte, avvenuta nel 1906.

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Chi è il banchiere italiano, anzi livornese, che ebbe

l A f E stA d E l sol IN v I ctus

l A v ERA STORIA d E l NATA l E

daniela la cava

ecco aprirsi le porte dell’inverno con il suo freddo manto innevato, guardiano del gelo e del silenzio che assopisce piante e animali, vegliando sul loro solitario letargo. La nuova stagione inaugura l’evento più atteso dell’anno da popoli di molti paesi: la festività del natale!

Si tende a credere che questa festa fu istituita dal Cristianesimo per celebrare la nascita di Gesù ma, nelle culture antiche, il 25 dicembre

ha rappresentato la data simbolo del passaggio tra la stagione autunnale e quella invernale, giornata in cui si celebrava il solstizio d’inverno!

In questa data avvolta da un’aura di sacralità, intrisa di simbolismo e di speranza, coincideva la nascita di più divinità come Gesù di Nazareth. Ma… accadde davvero?

Secondo le antiche scritture “Alcuni pastori vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge”, questo verso dell’evangelista Luca, ci consente di collocare la data della nascita

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di Gesù non alla stagione invernale, bensì a quella primaverile, poiché le greggi venivano portate al pascolo nelle stagioni più calde e non in quelle più fredde!

In realtà si trattò dell’ennesimo espediente per favorire il passaggio dalla religione pagana a quella cristiana, un sincretismo che racchiude elementi dei culti più diffusi in un’unica religione: il cristianesimo.

Infatti non può considerarsi una casualità la condivisione di caratteristiche che accomunano la figura del Messia di Nazareth, con quella di Mitra, dio di origini persiane importato nelle terre del mediterraneo grazie alle campagne belliche in oriente.

Secondo il credo mitriadico, il più diffuso dopo quello cristiano, il dio sarebbe venuto alla luce la notte più lunga dell’anno, generato dal grembo di una vergine, dentro una grotta. Il mito identifica la divinità nascente con il sole che genera la vita, rappresentandolo con il capo cinto da una corona di raggi di sole, nell’atto di uccidere un toro bianco, simbolo del della creazione e della natura che si rinnova, dalla cui ferita nasceranno tutte le erbe benefiche come la vite e il grano.

La morte del toro rappresenterà la nascita delle creature viventi che Mitra continuerà a proteggere anche dopo la sua ascesa al cielo.

Questa divinità antichissima, che incarna l’ideale del dio guerriero vincitore delle tenebre e creatore del genere umano, fu particolarmente venerata dai soldati romani, e solenni erano le celebrazioni in suo onore: queste furono identificate con la festa del sole nascente: il sol Invictus, il sole invincibile, in cui si celebrava la nascita del sole bambino che da quel giorno, fino al solstizio d’estate, avrebbe raggiunto l’apice della luminosità.

Ma la festa del sole che rinasce, prima latente, preparando le piante alla germogliatura, poi sempre più potente, non si è fermata al medioevo soffocata dal nuovo credo religioso, respira ancora tra le tradizioni importate dai celti in cui il 25 dicembre, giorno in cui si festeggiava il solstizio d’inverno, tra gli abeti, le ghirlande, i ceppi di abete o il ramo di vischio, incarnazione del mito di Yule, la festività celtica. Ma cosa rappresentano questi elementi che ancora oggi decorano le nostre case durante le festività natalizie? L’abete è un albero sempreverde che simbolicamente rappresenta la vita che trionfa, la ghirlanda è simbolo della ciclicità della vita che si rinnova, il ceppo di Yule è un ciocco di quercia o frassino, raccolto e arso mentre la famiglia era raccolta intorno al camino per scacciare via gli spiriti malvagi nascosti dalle tenebre. Il vischio è una pianta sacra onnipresente nei riti celtici a cui venivano attribuite proprietà magiche.

Durante la festa di Yule il ramo di vischio era un segno beneagurante che omaggiava il fanciullo divino incarnazione della luce o del sole bambino che nascendo trionfava sulle tenebre rinnovando il ciclo della vita. Un’altra tradizione di origine celtica narra dell’eterna sfida tra il giovane re quercia, simbolo dell’estate e il vecchio re agrifoglio simbolo dell’inverno. Durante i due solstizi i re si sfidano nell’eterna lotta tra la luce e l’oscurità. Durante il solstizio d’inverno re quercia trionferà consentendo la rinascita e la luce, al contrario, durante il solstizio d’estate sarà il vecchio re Agrifoglio a vincere sulla luce. La festa del Natale è la festa della rinascita, della vita che si rinnova rappresentata con un bambino che porta la vita e la luce nel cuore e nella Madre terra.

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