TerronitvMagazine10

Page 1

MAGAZINE PUOI ANCORA UDIR IL LORO CANTO ( I sola Li Galli) ANNO1NUMERO10DISTRIBUZIONEGRATUITAONLINE

L ’e ditoriale

Sicuramente ho uno spazio avulso da meccanismi terzi o meschine dietrolo gie; il mio scopo è quello di dare voce alla quotidianità vista da un’ottica fuori dagli schemi e dai dettami attuali. Preciso che, chi mi ha dà questa possibilità è certamente coraggioso, infatti scrivo e racconto senza alcun tipo di filtro o bavaglio ciò che penso e costoro mi sopportano e supportano. Raccolgo e racconto le Vostre istanze, quindi, vi invito da oggi ad inviarmi sul mio profilo facebook (messanger) o su TerroniTv@gmail.com, qualsiasi tema di interesse generale. Così affronteremo insieme e denunceremo le vostre istanza, denunce e fatti rendendoli pubblici in questi miei editoriali. Posto ciò, aspetto le vostre mail, messaggi etc. e ringrazio anticipatamente chi mi scriverà. Fatta questa piccola premessa io vulesse capì...

Questi che ci governano ci sono o ci fanno, veramente credono che abbiamo l’anello al naso? Gli ultimi dati della recessione emanati dall’Istat parlano di un ulteriore impoverimento e vedono in ginocchio il nostro Paese.

Sto giro mi voglio populista…

Innanzitutto voglio ringraziare tutti coloro i quali hanno reso possibile questo numero che rappresenta il giro di boa di questa giovane Testata.

Saluto quindi l’intera redazione: il condirettore, il caporedattore, i giornalisti, i pubblicisti, i grafici, i collaboratori tutti che mi fanno avere la possibilità di sfogarmi senza freni, e mi permettono di usufruire di uno spazio laddove esprimo il mio punto di vista su diverse tematiche in maniera libera; spigolosa, senza freni.

I dati sono assolutamente allarmanti e veritieri, fotografando senza infamia lo stato attuale delle cose: vedasi il caro bollette, l’aumento dei carburanti, i prodotti di prima ne cessità che sono schizzati alle stelle e la recessione incombe inesorabile. Il Popolo (la ‘p’ maiuscola è d’obbligo) accusa il colpo e la colpa è da ricercare assolutamente nei governi precedenti di colore rosso, bianco, giallo-verde e o multicolour.

Vediamo e tocchiamo con mano che la gente non ha realmente più un soldo e assistiamo ad un immobilismo generale che fa assolutamente paura. Sapete come la vedo? lo credo che ormai siamo allo spasmo e non ce la si fa più, si aspetta con ansia una soluzione, un qualcosa che tardi ad arrivare o che sembri essere somministrato col contagocce. Aspettiamo qualcosa e che possa finalmente smuovere la situazione de quo. Confrontandomi a destra e a manca credo che si aspetti e si speri effettivamen te in una liberazione dei tanti. L’attesa è fremente e con chi mi interfaccio mi viene più volte ribadito che a ragion veduta potrebbe finire il tutto se qualcosa questo governo effettivamente faccia, ne ha l’incombenza. Aggiungo un piccolo inciso sul reddito di cittadinanza: non vi è alcun dubbio che questa misura è da rivedere ma sostanzialmente è giusta. Ovvero tan ti sottopagavano i propri dipendenti e questa è assoluta verità, sicuramente bisogna dire che è stato abolito quello schiavismo dovuto a quei “prenditori” (leggasi imprenditori ndr) e soprattutto tanti sono stati mandati al diavolo come quei politicanti di mestiere che volevano accaparrarsi il proprio voto con la solita promessa di denaro della spesa comprata per l’occasione, la bolletta pagata o la casetta di pomodori di turno (chi vi scrive ne ha viste di ogni), per estorcere appunto quel consenso elettorale sulla pelle di quella povera gente che era realmente ridotta alla fame. Che dirvi, speriamo bene e che finalmente si batta nuovamente il chiodo e ne usciamo da questo gravissimo empisse con la speranza che le cose migliorino... stateve bbuono.

MAGAZINE 2
Mario Stazione

Registrazione n 1 - marzo 2021 Tribunale di nocera Inferiore

Anno 1 - numeRo 10 chIuSo Il 20/11/2022

Editore cReATIve medIA SRl

Direttore Responsabile mario Stanzione

Direttore Editoriale Fernando luisi (Ferdinando l’Insorgente)

Redazione mimmo Bafurno cinzia Bisogno Giovanni Gallo Giuseppina Iovane daniela l a cava Armando minichini mino Paolillo Angelica Sarno edoardo vitale

SOMMARIO MAGAZINE 3
IN
L’Isola de li Galli, al largo della costiera amalfitana, questo era il luogo dove dimoravano le sirene. MAGAZINE 4 INSORGENZE I SANNIT I: OR g ANI zz A z ION e, equ I pA gg IAM e NTO e TATTI c A MI l ITAR e 6 fOcUSSU p ISA c AN e p ROI b ITO : pe NSI e RI e pARO le 10 pERSONAGGI SA lv O d’A cqu ISTO 14 ITINERARI l A v IA R eg IA delle c A l A b RI e 16 cUcINAEMODIDIDIRE ‘O b ATTI l O cch IO 17 fORSENONTUTTISANNOchE 1934 l’A u STRIA IN d OSS ò l A d I v ISA del NA p O l I 18 INcONTRID ’ARTE l OR e N z O b ASI le, I l l IN gu A gg IO ARTISTI c O del c O l OR e 22 LENEfANDEZZEDEISAvOIA p ONT el AN d O lf O e c ASA ldu NI , l A “MAR z A b OTTO ” del RISO g IM e NTO 24 cARLOMAGNOELAcALABRIA l A ch ANSON d’AS p R e MONT 26 LAfOTODELMESE l A p ORTA del SO le MAGAZINE PUOI ANCORA UDIR IL LORO CANTO (Isola Li Galli) ANNO1NUMERO10DISTRIBUZIONEGRATUITAONLINE
COPERTINA

I SANNITI organizzazione, equipaggiamento e tattica militare

ferdinando l’Insorgente

ISanniti furono senza dubbio i nemici più ostici di Roma durante le sue campagne di conquista della penisola italica. Si trattava sicuramente di un popolo, quello sannita, estremamente bellico so per natura, abituato a vivere in un territorio impervio e montuoso che aveva influito non poco nel temprare il carattere e lo stile di vita. Non mancano comunque riferimenti storici che hanno dimostrato nei sanniti anche altri aspetti di sicuro più nobi li. Pensare ai sanniti solo come rudi montanari e bellicosi guer rieri è senza dubbio un errore, forse ennesimo esempio della damnatio memoriae. I Sanniti furono capaci di sviluppare una società ed una cultura sicura mente non seconde a nessuno tra i popoli italici e che, in par te, servì anche a Roma e alla sua crescita. I capi militari Sanniti fu rono i veri “federatori” di tutti po poli italici e, in un’ipotesi ucronica, la loro vittoria su Roma, approfit tando dello scacco e dello smacco a Roma nell’episodio delle Forche Cau dine del 321 a.C. o durante la battaglia di Sentino del 295 a. C. o nella battaglia di Porta Collina del 2 novembre dell’82 a. C., avrebbe sicuramente disegnato, geopoliticamente, una penisola italica diversa, con un pri mo modello nella storia di federazione fra stati.

I sanniti furono senza dubbio i più restii alla “ro manizzazione”, restando tali anche dopo molti decenni la loro sconfitta e definitiva integrazio ne del loro territorio nelle province romane. Ma come sempre accade nella storia chi sconfigge un popolo resta conquistato dall’eredità socia le, culturale, militare di quel popolo. E i Sanniti insegnarono molto ai Romani, specialmente in ambito militare. Dopo le dure esperienze con il più tenace dei popoli italici, i Romani ab bandonarono l’organizzazione falangitica, dandosi l’aspetto più flessibile dell’orga nizzazione militare manipola re. L’organizzazione falan gitica prevedeva poche unità molto grandi, mentre quello ma nipolare era carat terizzato da agili gruppi di circa 200 soldati ciascuno. Una coppia di ma nipoli formava la coorte di 400 uomi ni, distribuita sul campo di battaglia su due linee. La prima linea comprendeva il manipo lo di guerrieri armati di gia vellotti, mentre la seconda era rappresentata da sol dati armati di lancia. In caso di necessità il ma nipolo veniva diviso in due centurie. Questo modello militare fu copiato dai Romani proprio nel periodo della prima e del la seconda guerra

INSORGENZE
MAGAZINE 4

sannitica. Secondo le stime più accreditate l’esercito sannita po teva schierare fino ad un mas simo di 60.000/70.000 uomini (fanti), 6000/7000 cavalieri. I Sanniti avevano anche un con tingente militare speciale costitu ito dalla Legio Linteata, un vero e proprio corpo scelto formato da soldati, 16.000 in tutto, contrad distinti da coraggio e da grande capacità militare, provenienti dal le più nobili famiglie del Sannio. La Legio Linteata era suddivisa in 4 coorti da 400 soldati ognuna, schierata sull’ala destra dell’eserci to dei fanti e si distingueva mol to bene per la bellezza della sua armatura. Molto probabilmente i soldati della Legio Linteata indos savano corazze e schinieri come gli opliti greci, vista l’influenza delle città della magna Grecia sul po polo sannita. Il reclutamento nella Legio Linteata avveniva tramite una vera e propria iniziazione. Durante questo rituale il guerrie ro prestava giuramento di fedeltà alla legione stessa, consacrando la propria spada e la propria vita alla battaglia. Il giuramento avveniva per la copertura del recinto (da qui li nome di Linteata) in cui era stata consacrata la nobiltà. Man canza di coraggio e codardia di un soldato della Legio Linteata veni vano puniti in maniera esemplare fino alla morte.

Il guerriero sannita tipico era un fante armato di lancia o di gia vellotto, equipaggiati in maniera leggera per favorire la mobilità, con scarsa protezione persona le. Questo equipaggiamento si adattava perfettamente al terre no montuoso della loro nazione,

la Nazione Safina. Gli elmi, solitamente di due tipi (il calcidi co-sannita e quello Montefortino) non presentavano la copertu ra nasale e avevano i paraguance. Gli elmi erano decorati con creste e piume variopinte. L’armatura tipica dei Sanniti era rappresentata da quella trilobata, tre dischi di bronzo anteriormente e posteriormente tenuti da fasce di bronzo, semplici o riccamente decorate come nella Legio Linteata. Esisteva no anche armature con placche rettangolari e riproducente, in forma stilizzata, la muscolatura del torace. Chiudevano l’equipaggiamento le larghe cinture in bronzo, caratteristiche dei popoli di origine Osca, vero e proprio segno di appartenenza al genere maschile.

Chissà se la privazione della cintura ai Romani durante l’episodio delle Forche Caudine non avesse proprio il significato di un’umi liazione nei confronti del loro genere maschile! A completamen to il guerriero sannita portava lo schiniere, in perfetto stile greco, sulla gamba del lato portato in avanti. Le parti metalliche delle ar mature dei fanti erano dorate, mentre quelle della Legio Linteata erano argentate e riccamente decorate. Questi ultimi, inoltre, ave vano la tunica bianca con un forte significato religioso, simbolo dell’estrema purezza.

Le tuniche degli altri soldati potevano essere di svariati colori e con disegni geometrici.

Gli scudi erano di due tipi: quello tondo argivo e quello, più usato, trapezoidale. Le armi offensive erano il giavellotto e la lancia. Pochi soldati usavano la spada come la kopis di tipo greco oppure quella dritta di tipo italico.

MAGAZINE 5

PISACANE PROIBITO: PENSIERI E PAROLE

Riflessioni contro corrente in tre puntate su un uomo che contribuì a segnare il destino del Sud (terza parte)

dante colloca all’Inferno (canto III) il grigio stuolo degli ignavi, coloro che vissero “sanza infamia e sanza lodo”, a scontare la loro punizione disdegnati da Dio e dai diavoli. Queste “anime triste” sono mischiate al “cattivo coro” degli angeli neutrali, che di fronte alla scelta fra Bene e Male, si schierarono solo per sé stessi. La loro “cieca vita” è “tanto bassa”, che provano invidia perfino per le altre anime dannate. Ora, l’ignavia è un vizio che certo nessuno può at tribuire a Carlo Pisacane. La sua indole lo spinge in tutt’altra direzione, verso prese di posizione nette e comportamenti risoluti; spinti fino alle estreme con seguenze. Che possono arrivare fino alla morte pro pria o altrui. Infatti, se l’arco della sua esistenza terre na è stato breve, parecchie sono le decisioni radicali che il Nostro ha avuto modo di prendere. Azzardiamo al riguardo qualche pacato ragionamento, per cercare di capirne di più, soprattutto in ordine alle motivazioni profonde delle sue azioni più clamorose. Prendiamo in considerazione l’avventurosa vicenda sentimentale con enrichetta di l orenzo, che segna una svolta fondamentale nella vita di Carlo Pisacane. Il primo giugno 1845 è il giorno fatidico in cui En richetta gli dice “je t’aime” (lettera ai parenti del 28 gennaio 1847). La scelta dei due amanti di vivere pie namente la propria relazione spinge lui a disertare dall’esercito delle Due Sicilie, a violare il giuramento di fedeltà, conseguentemente a rinunciare alla carrie ra militare e quindi a rendersi latitante. Quanto a lei, la scelta la induce ad abbandonare i tre figli, ancora in tenera età, avuti da dionisio l azzari, cugino dell’a mante, con il concreto rischio, poi divenuto realtà, di non poterli più rivedere. Anche se il Nostro in modo molto poco convincente minimizza la tragedia del di stacco di Enrichetta dalla prole: «il dolore di lasciare i figli il tempo lo lenisce» ed «io addolcirò questo dolo re con la mia adorazione».

Comunque, vista la rigidità e l’autoritarismo del ma rito, per quei bambini, secondo Pisacane, ella avrebbe

potuto fare poco (poco? eppure la sola presenza dell’af fetto materno può fare miracoli nella formazione di un figlio!). Al cospetto di Enrichetta, Carlo si sente «l’uo mo a cui la natura ha destinato le sue bellezze». L’A more deve perciò trionfare ad ogni costo.

Del resto, nell’animo degli eletti la Natura scrive «or rore alla schiavitù». Questi concetti destano straripan te ammirazione nei suoi apologeti, sedotti da questa altissima e purissima visione dell’Amore, generato e orientato dalla Natura e indissolubilmente legato alla Libertà, perché per farlo vivere bisogna rompere tutte le catene con cui la società cerca di soffocarlo. Sicuramente questo amore ha ben poco a che vedere con l’amore cristiano, ma comunque è un assoluto da assecondare. Orbene, la sua fede in questo principio ba sta a spiegare le gravissime azioni che carlo Pisacane ha dovuto compiere in funzione delle sue avventure amorose e la sua accettazione delle pesantissime conse guenze che ne sono scaturite? Per cercare una risposta a questo interrogativo vale la pena di riflettere sulla pre cedente peripezia sentimentale del Duchino, cui si è già accennato nella prima parte di questo scritto. A Civitella del Tronto, dove, per contrasti col capitano clemente Fonseca, è stato trasferito nel 1841, poco prima dell’inaugurazione della ferrovia Napoli-Ca serta (alla cui costruzione ha collaborato), si mette a corteggiare una avvenente tavernaia, la giovane Ga etanella michilli, e ottiene il successo sperato, fino a che, la notte del 4 febbraio 1843, il marito Emidio Fiorentini li sorprende; e ferisce la donna. Stranamente, Pisacane non risulta avere riportato le sioni né aver provato a soccorrere la Michilli. Sta di fatto che si fa circa sei mesi di carcere, periodo insoli tamente lungo per un’accusa di adulterio, venendo poi scarcerato «per la rinuncia dell’istanza fatta dall’un co niuge a pro dell’altro», il che «giova al complice». Dopo tre anni quasi esatti dal terribile episodio, l’8 febbraio 1846 la povera Gaetanella muore, «per vizi tubercolari in cui degenerò la infiammazione flemmonosa al pol mone, e per cause estranee alla ferita», come clinica mente accertato e successivamente confermato dalla Facoltà medica dell’Università di Napoli.

fOcUSSU ...
MAGAZINE 6

Anche se il tragico epilogo non si poteva prevedere, era stata di sicu ro una decisione gravida di pesanti conseguenze, quella di corteggiare una donna sposata, in un’epoca che considerava l’adulterio come una notevole infamia, con l’aggravante di essere compiuta da un militare in servizio. Con l’accettazione del rischio di uno scandalo che avrebbe potuto segnare non solo la sua vita, ma soprattutto quella della sua gio vane compagna.

Dietro questo atto grave, indubbia mente c’è di mezzo quella che egli chiama la Natura, ossia una pul sione del tutto fisiologica, che nella maggior parte dei casi trova un fre no nei principi morali che ciascuno riconosce. Del mancato funziona mento di questi freni, non si può, stavolta, individuare la causa nella forza dell’amore, anche perché, per sua stessa ammissione, a quel tempo il suo cuore già portava impresso il nome di Enrichetta. Né si trattava di strappare una donna agli «artigli di un vecchio debosciato», e nemme no di sottrarla all’infelice sorte di dover «imprimere baci … su una fronte calva o canuta e su delle lab bri puzzolenti», in quanto lo scia gurato Emidio era, sì, più grande della sposa, ma aveva comunque quarant’anni.

Se, dunque, nel rapporto con Enri chetta si può legittimamente ipo tizzare che Carlo Pisacane sia stato mosso, insieme, da passione e co sciente obbedienza all’invincibile forza dell’Amore, nel rapporto con Gaetanella sembra che la passione sia stata sufficiente. Se ne deve con cludere che non era necessario, per il Nostro, essere motivato da princi pi elevati (ancorché soggettivi), per lanciarsi in avventure foriere di gra vi pericoli per sé e per gli altri. Ba stava il fuoco della passione. E in lui ne ardeva un altro: il «desiderio… di gloria militare» (vedi lettera cit. del 28 gennaio 1847).

Gloria vuol dire “fama grandissima, onore universale”, quindi non è pro priamente un appagamento interiore, ma postula il riconoscimento al trui. Anelito comunque lodevole, quando sia legato a obiettivi edificanti, che vadano a beneficio dell’umanità. Ma qui l’aggettivo “militare” limita bruscamente l’orizzonte nel quale si vuole conseguire imperituro plau so. Si dirà: interpretazione malevola, dovendosi ritenere implicito che la gloria agognata da Carlo Pisacane fosse legata agli ideali di libertà nel segno dei quali si è consegnato alla storia. Tuttavia anche qui c’è qualcosa che non torna. Non c’erano nobili cause che lo potessero spingere - il 21 ottobre 1847, quando la sua venerata Enrichetta era in avanzato stato di gravidanza - ad arruolarsi nella Legione Straniera francese, ovviamente grazie all’“interessamento” della sua potente famiglia. È scontato che in questo modo intendesse procurarsi di che vivere: ragionevole proposito. Anche se lui nelle sue lettere non mette in pri mo piano questo intento, come quando scrive al fratello: «Veniva in Africa per cercare un diversivo nella guerra alla mia passione; al mio arrivo è cominciata la pace e finite tutte le probabilità di avanzamenti». Diversivo alla passione? Quella per Enrichetta, che nel frattempo ap profondiva un’affettuosa amicizia con Enrico Cosenz? Niente di stra no, la letteratura anche cinematografica ha reso un trito luogo comune l’immagine dell’amante deluso fattosi mercenario per dimenticare. Ma considerare l’uccisione di altri esseri umani un diversivo ai propri pro blemi personali è francamente ignobile. Non possiamo fare a meno di ribadire che in Algeria, quando, il 5 dicembre 1847, giusto cinque gior ni dopo la nascita della sua Carolina Henriette Clemence Pisacane, egli si imbarca a Marsiglia come mercenario, non sta andando a difendere la libertà, ma, al contrario, a combattere una sporca guerra coloniale contro chi - come Abd-el-Kader, considerato il padre della patria alge rino - sta difendendo la sua terra da un’invasione straniera. L’uomo di cui i suoi ammiratori lodano l’essere “sempre avanti”, rispetto alla sen sibilità del suo tempo, in questa occasione ci appare clamorosamente allineato alla politica di pura potenza degli stati imperialisti. E capace di un cinismo estremo al cospetto della vita umana, ancor più grave trattandosi di gente che lottava per la propria libertà. In quel 1847, in cui sicuramente attraversava un periodo molto dif ficile sotto diversi aspetti, si colloca anche l’incredibile lettera del 6 dicembre all’ambasciatore napoletano Serracapriola, nella quale sup plica la protezione del diplomatico come Suddito che non è “neanche

MAGAZINE 7

degno d’implorare” “la Sovrana Clemenza”. Tutto si può umanamente comprendere, ma il lamentarsi col fratello (lettera del 23 febbraio 1848) del suo “marti rio” perché in Africa disgraziatamente non può com battere e ottenere avanzamenti di carriera (magari per usarli come nuove credenziali in vista di un non impossibile ulteriore perdono regio) lascia veramente interdetti. Se poi si pensa che appena un anno e mez zo dopo sarà a Velletri a combattere contro le trup pe napoletane, nella cui cavalleria milita il fratello maggiore Filippo, è legittimo affermare che di fronte alle sue passioni ed esigenze pressanti, Carlo Pisaca ne è giunto a smantellare qualsiasi scrupolo, inclusa la conservazione della propria dignità. Il legame con Enrichetta ha sicuramente assecondato la sua sfre natezza. Con orgoglio Carlo proclamava il loro esse re «ambi nemici dell’imitazione, ambi dominati dal desiderio di esser peggio degli altri ma non come gli altri»: excentriques, come lui ama dire, termine che evoca il concetto di perdita del centro, come direbbe hans Sedlmayr.

Qualunque persona equilibrata si vergognerebbe di es sere posseduto dalla brama di distinguersi a tutti i costi. Pisacane, invece, sembra vantarsene. Indice evidente del fatto che egli è molto interessato a dare risalto alla propria immagine. Quando ciò non è possibile conse guendo la “gloria militare” (in mancanza di meglio, an che da mercenario al soldo di una potenza coloniale), il risultato potrà essere ottenuto con la ribellione sistema tica alle regole sociali. Certamente, per il rampollo del duca Gennaro Pisacane di San Giovanni distinguersi

era quasi un imperativo familiare. Ed il posto di stima to tutore dell’etica tradizionale se lo era già accaparra to il fratello maggiore Filippo, anch’egli formatosi alla Nunziatella, ma rispettoso del giuramento. La prospettiva di Carlo, che comporta la composi zione di una propria morale curando di non rical care mai quella vigente, regala l’esaltante ebbrezza di poter trasgredire ogni norma, il che spiegherebbe, ad esempio, l’altrimenti vergognosa lettera a Serra capriola. Con ciò non vogliamo, ovviamente, nega re che egli sia animato da forti convinzioni, che lo spingono a mettere pienamente in gioco la sua stessa vita; piuttosto sottolineare che l’impulso bellicoso preesiste alla scelta dei valori cui immolarsi. Così scrive nell’opuscolo sotto pseudonimo Lettere di un antico ufficiale napoletano ai suoi commilitoni: «non si è mai interamente cancellato dal mio cuore l’amo re al corpo, che per militare è quasi seconda natu ra, e disgraziatamente non solo dirige, ma domina i suoi pensieri e le sue azioni». Ritorna il concetto di “dominio”, che si esercita, prima che sulle azioni, sui pensieri. Pensieri che, peraltro, si erano formati attingendo a fonti selezionate: il fior fiore dei sovver sivi incontrati durante le sue selettive peregrinazioni, lungo la via della rivoluzione, Livorno, Londra, Pari gi, Orano, Londra, Ginevra, Genova. Non è oggetto di questo articolo analizzare e illustrare il pensiero politico di Carlo Pisacane; di certo, in ciò distaccan dosi fortemente da Mazzini, propugnava la priorità della questione sociale su quella politica. Indignato delle condizioni misere dei contadini a fronte degli enormi latifondi in mano ai signorotti locali, affer mava la necessità di sollevare il popolo contro quella “classe” che ne sfruttava il lavoro. Nell’Italia unificata, ad ogni cittadino sarebbe stato assicurato il frutto del suo lavoro e la proprietà privata sarebbe stata abolita. L’azione rivoluzionaria al Sud avrebbe dovuto scon giurare la soluzione moderata e monarchica della questione italiana, obiettivo del Piemonte. Col suo desiderio di coinvolgere il popolo, tuttavia, stride fortemente l’insieme delle sue convinzioni eti che e sociali, spesso agli antipodi di quelle diffuse negli strati più umili della popolazione. A comincia re dal suo ateismo, per giungere al suo irrefrenabile impulso alla trasgressione. Non a caso la figura del Nostro viene preso come autorevole riferimento da gli anarchici. Però è improbabile che a Pisacane sia sfuggito come le comunità popolari siano ordinate secondo regole morali e consuetudinarie stringenti, elaborate in molti secoli di esperienza, e siano vivi ficate da una religiosità profonda. Pensare di susci tarne la ribellione invocando una generica giustizia

MAGAZINE 8

sociale è pura utopia. E come poteva ignorare che il sostegno dei possidenti agrari e degli speculatori ai moti rivoluzionari era finalizzato alla conquista del potere? che dopo sarebbe stato molto difficile, forse impossibile, garantire alla gente del vero popolo un miglioramento delle loro condizioni di vita?

Non meraviglia che il Duchino venisse riconosciuto subito come tale, e il suo rifiuto di ogni autorità in cielo e in terra potesse al più apparire come una bizzarria signorile. Un pensiero che reca impresso il marchio di fabbrica del dorato mondo aristocratico, quando, se dotto dalla spietata aggressività della borghesia, cerca di superarla in estremismo. Ma la gente non ha biso gno di utopie. E promettere grandi cambiamenti sen za riflettere sulle forze a disposizione per conseguirli è qualcosa che assomiglia a un tragico gioco. O inganno. Che Garibaldi, con le sue false promesse, ritentò con qualche successo nel 1860. E l’esito fu, tra l’altro, l’ecci dio di Bronte. Ma il popolo cilentano non ci cascò: «voi ci guardate freddamente, come se la causa non fosse la vostra», lamenta Pisacane nel proclama di Torraca. Ma era difficile credergli, quando tra le file dei rivolu zionari pullulavano i ricchi, a cominciare da alcuni fra i maggiori possidenti della zona, appartenenti quindi al ceto sociale storicamente contrapposto alla povera gente. Il messaggio “la proprietà è un furto” sarebbe suonato molto falso ai conterranei dei baroni “libera li”. Si tratta di contraddizioni che certamente anche un Pier Paolo Pasolini avrebbe potuto rilevare. Ma il Nostro era lanciato verso lo scontro sangui noso. Quasi tutti lo sconsigliarono invano: secondo il barone Mazziotti, l’impresa, per la macroscopica disorganizzazione, fu “una magnanima follia” com messa contro il parere di tutti i liberali che ne erano al corrente. Mazzini, al contrario, nonostante le di vergenze strategiche mai risolte, lo spinge all’azione, ben cosciente che la pressocché certa immolazione dell’amico avrebbe accelerato il crollo del Regno delle Due Sicilie e quindi l’unificazione forzata dell’Italia, anche se sapeva che ciò avrebbe reso per lungo tempo impossibile l’obiettivo dichiarato di Pisacane, ossia l’e mancipazione dei ceti subalterni. Così, paradossalmente, il sacrificio del napoletano contribuì alla nascita di ciò che aborriva, ossia lo sta to borghese italiano sotto guida sabauda, centralista, autoritario e sostanzialmente antipopolare, dove le oligarchie accrescono la loro prepotenza e il popolo, soprattutto quello del Sud, ha sempre meno voce. È la “nuova catastrofe”, che egli aborriva. Tre anni dopo, un altro “democratico”, ben diversamente favorito dalla sorte, avrebbe portato a termine il lavoro a tutto van taggio dei moderati antipopolari: Giuseppe Garibaldi,

il quale verserà poi le prevedibili lacrime di coccodrillo di fronte all’odio di coloro che erano stati da lui sottratti al “giogo di un dispotismo che almeno non li condan nava all’inedia”, per poi essere rigettati “sotto un dispo tismo più schifoso assai, più degradante, e che li spinge a morir di fame”; e imprecherà contro “la disprezzabile genìa che disgraziatamente regge l’Italia”.

La famosa frase di nello Rosselli, secondo cui su Pi sacane, come su pietra gettata nel fondo del torrente dal viandante e scomparsa nel gorgo, si è posato “uno dei piloni granitici dell’edificio italiano”, tradisce la fret ta di arruolarlo tra i padri della patria, lasciando però un grande dubbio su ciò che avrebbe potuto dire anni dopo, se non avesse perduto la vita a Sanza in modo precoce e tragico; sulle emozioni che avrebbero susci tato in lui la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, l’umiliazione sabauda dei garibaldini, la grande insor genza antipiemontese e la conseguente spietata repres sione, la colonizzazione del Sud e l’espansionismo colo niale africano, fino alla trasformazione, qualche anno dopo, del sodale Giovanni Nicotera in feroce repres sore di proteste popolari. Il fatto che Carlo Pisacane si sia immolato impone a tutti rispetto. Ma va detto che i grandi distruttori sono sempre serviti e sempre serviranno alla borghesia per edificare il suo nuovo “ordine”, sempre più invasivo e opprimente. Dato per scontato che egli fosse realmente interessato al bene del popolo, come militare avrebbe dovuto avere più lungimiranza. Ma forse l’origine di questa miopia strategica sta in quella straripante energia interiore che, “disgraziatamente”, “domina pensieri e azioni”. Che i nuovi padroni, ieri come oggi, hanno astuta mente piegato ai loro scopi.

MAGAZINE 9

SA LVO D’ACQUISTO

Angelica Sarno

Siamo nel 1943, l’Italia ha chiesto l’armistizio e la pensiola è in mano agli angloamericani e ai tedeschi, che non essendo più alleati si comportano da Paese invasore e in caso di attentato applicano il rapporto uno a dieci (un morto tedesco, 10 italiani giustiziati) ma a Palidoro, vicino Roma, un vicebrigadiere dei carabiniere, Salvo d’Acquisto, si autoaccusa di un attentato per salvare 23 uomini. Salvo Rosario Antonio d’Acquisto nacque a Napoli, a Villa Alba, un edificio di quattro piani in via San Gennaro nel rione Antignano, primogenito di cinque figli in una famiglia profondamente cristiana: il padre Salvatore era di origini palermitane, mentre la madre, Ines Marignetti, di Napoli. Frequentò le scuole fino al Ginnasio. Nel 1934 lascia gli studi, pur frequentando per un periodo il Conservatorio di “San Pietro a Majella” in via San Pietro a Majella n° 35, cantando da baritono.

Nel giugno del 1939, giovanissimo, si arruolò nei Carabinieri come volontario, frequentando la Scuola allievi carabinieri di Roma, fino al 15 gennaio 1940. Venne inizialmente assegnato alla Compagnia Comando della Legione Carabinieri di Roma dipendente dalla 2ª Divisione Carabinieri “Podgora”. Quindi, dopo il giugno 1940, passò presso il Nucleo Carabinieri Fabbricazioni di Guerra del Sottosegretariato di Stato per le Fabbricazioni di Guerra (FabbriGuerra) in via Sallustiana n° 53. Con l’entrata in guerra dell’Italia si arruolò volontario per la Libia italiana nella Campagna del Nordafrica (1940-1943) del Teatro dell’Africa e del Medio Oriente ed il 28 ottobre 1940 venne mobilitato con la 608ª Sezione Carabinieri (polizia militare).

Dopo alcuni mesi trascorsi al fronte, alla fine di febbraio 1941 rimase ferito a una gamba durante uno scontro a fuoco con le truppe inglesi.

Restò successivamente con il suo Reparto in zona d’operazioni fin quando venne ricoverato all’Ospedale Militare di Bengasi per una forte febbre malarica. Rientrò in Italia per una licenza di 3 mesi e poi fu aggregato dal 13 settembre 1942 alla Scuola Centrale Carabinieri Reali di Firenze, per frequentarvi il corso accelerato per la promozione a vicebrigadiere, che fu conseguito il 15 dicembre 1942.

Fu destinato alla stazione carabinieri di Torrimpietra, all’epoca una borgata rurale a una trentina di chilometri da Roma lungo la via Aurelia, oggi frazione del Comune di Fiumicino.

MAGAZINE 10 pERSONAGGI
Il ritratto del vice brigadiere dei Carabinieri che diede la sua vita per salvare 23 perosne. Per la chiesa potrebbe diventare santo
Se muoio per altri cento, rinasco altre cento volte: dio è con me e io non ho paura”

• Angelo Amadio (18 anni);

• Arnaldo Attili, detto Nando, muratore,;

• Attilio Attili, muratore

• Ennio Baldassarri (13 anni), il più giovane del gruppo, ma fatto scendere dal camion prima di andare al luogo dell’esecuzione;

• Gino Battaglini;

• Vittorio Bernardi, detto “Carnera”, fabbro e muratore, fu obbligato a scavare con le mani la fossa non essendoci pale a sufficienza per tutti;

• Tarquinio Boccaccini (31 anni), figlio del fattore dell’azienda agricola Torrimpietra, fu catturato nel cortile del castello, dove viveva con la famiglia;

• Enrico Brioschi (36 anni), cameriere del Conte Nicolò Carandini;

• Giuseppe Carinci, spazzino, tentò la fuga e fu ucciso prima della cattura;

• Erminio Carlini;

• Domenico Castigliano, ferroviere;

• Rinaldo De Marchi (30 anni), muratore;

Dopo l’8 settembre 1943 un reparto di paracadutisti tedeschi si era accasermato presso alcune vecchie postazioni precedentemente in uso alla Guardia di Finanza nelle vicinanze della località Torre Perla di Palidoro, che rientrava nella giurisdizione territoriale della stazione Carabinieri di Torrimpietra.

Qui, nel tardo pomeriggio del 22 settembre 1943, alcuni di loro, mentre ispezionavano casse di munizioni abbandonate, furono investiti dall’esplosione di una bomba a mano o forse dall’incauto maneggio di ordigni usati per la pesca di frodo, a suo tempo sequestrati dai finanzieri. Due paracadutisti morirono e altri due rimasero feriti.

Il comandante del reparto, un maresciallo, attribuì la responsabilità dell’accaduto ad anonimi attentatori locali e richiese la collaborazione dei Carabinieri della locale stazione, temporaneamente comandata dal vicebrigadiere Salvo D’Acquisto per l’assenza del maresciallo comandante, minacciando una rappresaglia se entro l’alba non fossero stati trovati i colpevoli.

La mattina seguente D’Acquisto, assunte alcune informazioni, provò a ribattere che l’accaduto era da considerarsi un caso fortuito, un incidente privo di

• Giuseppe Felter, muratore;

• Benvenuto Gaiatto (52 anni, di Torrimpietra), padre di quattro figli e il più anziano del gruppo;

• Natale Giannacco, muratore;

• Oreste Mannocci, venditore ambulante di frutta di Santa Marinella;

• Sergio Manzoni, venditore ambulante di frutta di Santa Marinella;

• Vincenzo Meta (27 anni, di Maccarese), muratore scappato dai tedeschi, ancora in uniforme militare;

• Attilio Pitton, muratore, padre di un ragazzo;

• Fortunato Rossin, muratore, fratello di Gedeone, padre di due bimbi;

• Gedeone Rossin, muratore, fratello di Fortunato, scapolo;

• Umberto Trevisiol (35 anni), muratore, padre di due bimbi;

• Michele Vuerich (39 anni), detto “Mastro Michele”, capomastro muratore;

• Ernesto Zuccon, fornaio.

autori, ma i tedeschi insistettero sulla loro versione e confermarono l’intenzione di dare corso ad una rappresaglia ai sensi di un’ordinanza emanata dal feldmaresciallo Albert Kesselring pochi giorni prima (dieci nemici per un tedesco morto).

Il 23 settembre furono dunque eseguiti dei rastrellamenti e catturati 23 uomini e un ragazzino scelti a caso fra gli abitanti della zona, e 22 di loro furono portati sul luogo dell’esecuzione.

Lo stesso D’Acquisto fu forzatamente prelevato dalla caserma da parte di una squadra armata e fu condotto nella piazza principale di Palidoro, dove erano stati radunati gli ostaggi.

Fu tenuto un sommario “interrogatorio” nel corso del quale tutti gli ostaggi si dichiararono ovviamente innocenti. Nella piazza venne anche condotto un altro abitante ritenuto un carabiniere, Angelo Amadio, che sarà l’ultimo testimone del sacrificio del brigadiere.

Nuovamente richiesto di indicare i nomi dei responsabili, D’Acquisto ribadì che non ve ne potevano essere visto che l’esplosione era stata accidentale e che gli ostaggi e gli altri abitanti della zona erano dunque tutti quanti innocenti.

MAGAZINE
VITA... 11
ECCO CHI DEVE A LUI LA

Durante l’interrogatorio dei rastrellati D’Acquisto fu tenuto separato nella piazza, sotto stretta sorveglianza da parte dei soldati tedeschi e, “quantunque malmenato e a volta anche bastonato dai suoi guardiani, serbò un contegno calmo e dignitoso”, come ebbe a riferire in seguito Wanda Baglioni, una testimone oculare. Gli ostaggi e D’Acquisto vennero quindi trasferiti fuori dal paese. Agli ostaggi furono fornite delle vanghe e furono costretti a scavare una grande fossa comune nelle vicinanze della Torre di Palidoro, davanti al mare, per la ormai prossima loro fucilazione. Le operazioni di scavo si protrassero per alcune ore; quando furono concluse fu chiaro che i tedeschi avrebbero davvero messo in atto la loro minaccia. D’Acquisto a questo punto si addossò la responsabbilità dell’attentato e i 23 prigionieri furno rilasciati, corsero via e non si voltarono indietro, solo chi fu rilasciato per ultimo, Angelo Amadio perché dimostrò di essere un operaio delle ferrovie e non un carabiniere, sentì gli spari e un “Viva l’Italia” pronunciato dal vice brigadiere prima di cadere sotto i colpi dell’artiglieria tedesca.

Il corpo rimase sepolto lì per una decina di giorni, poi due donne della zona lo disotterrarono e gli dettero degna sepoltura presso il Cimitero di Palidoro.

Nel giugno 1947, nonostante la contrarietà dei 22 scampati alla strage e della popolazione di Palidoro, la madre ottenne di far traslare le spoglie di Salvo D’Acquisto nella sua città natale.

Il feretro, giunto a Napoli, fu esposto in una camera ardente presso la Caserma del Comando Legione Carabinieri Campania per poi essere tumulato il presso il Sacrario Militare di Posillipo.

Il 22 ottobre 1986 le spoglie furono nuovamente traslate nella prima cappella sulla sinistra della Basilica

di Santa Chiara di Napoli, dopo essere state onorate in una camera ardente allestita presso la Caserma del Comando Gruppo Carabinieri di Napoli.

Nel 1983 fu annunciato da S.e. mons. Gaetano Bonicelli l’apertura presso l’Ordinariato militare di una causa di canonizzazione e conseguentemente al sottufficiale attualmente è assegnato dalla Chiesa il titolo di Servo di Dio. L’apertura del processo canonico di beatificazione di Salvo D’Acquisto avvenne il 4 novembre 1983 e si concluse il 25 novembre 1991 con la conseguente trasmissione degli atti alla Congregazione delle Cause dei Santi.

Il 15 ottobre 1987 padre Gaudenzio dell’Aja fu nominato dal cardinale Corrado Ursi, arcivescovo di Napoli, delegato arcivescovile del Tribunale Ecclesiastico per la ricognizione canonica dei resti mortali di Salvo D’Acquisto, che fu effettuata il 18 ottobre 1987.

Alla stessa congregazione venne consegnato nel 1996 un supplemento di inchiesta voluto dal nuovo postulatore. Il postulatore iniziale però aveva incominciato la causa di beatificazione per ottenere il riconoscimento dell’”eroismo delle virtù”, mentre il postulatore successivo richiese il riconoscimento dell’”eroica testimonianza della carità”, definizione applicabile per i martiri.

Nel 2007 però un voto a maggioranza espresso in un convegno della Congregazione delle Cause dei Santi ha portato a una sospensione del riconoscimento di martire.

La figura del militare fu comunque ricordata dal papa Giovanni Paolo II, che in un discorso ai Carabinieri del 26 febbraio 2001 ebbe a dire: “La storia dell’Arma dei Carabinieri dimostra che si può raggiungere la vetta della santità nell’adempimento fedele e generoso dei doveri del proprio stato. Penso, qui, al vostro collega, il vice-brigadiere Salvo D’Acquisto, medaglia

la tomba del “Servo di dio” Salvo d’Acquisto, Basilica di Santa Chiara, Napoli
MAGAZINE 12
Alcuni delle 22 persone, salvate dal carabiniere.

Il gesto di D’Acquisto ha ispirato diverse opere i:

• un omonimo film del 1974 diretto da Romolo Guerrieri con Massimo Ranieri nelle vesti del protagonista (impressionante la somiglianza);

• un’opera lirica musicata dal compositore Antonio fortunatocon l’alto patronato della Presidenza della Repubblica Italiana;

• la miniserie televisiva trasmessa in prima visione TV su Rai 1 il 21 e il 22 settembre 2003 con protagonista giuseppe fiorello;

• lo spettacolo teatrale “Salvo d’Acquisto: un eroe semplice” di Emanuele Merlino (andato in scena anche a Tenerife e in Slovenia);

• lo spettacolo teatrale “la foto del carabiniere”, scritto nel 2013 da Claudio Boccaccini, figlio di Tarquinio, uno dei 22 ostaggi salvati da Salvo D’Acquisto. Con lo stesso titolo il testo è stato pubblicato da La Mongolfiera Editrice.

d’oro al valore militare, del quale è in corso la causa di beatificazione”.

Al vice brigadiere Salvo D’Acquisto, oltre alla Medaglia d’Oro al valore militare con la seguente motivazione: «esempio luminoso d’altruismo, spinto fino alla suprema rinuncia della vita, sul luogo stesso del supplizio, dove, per barbara rappresaglia, era stato condotto dalle orde naziste insieme con 22 ostaggi civili del territorio della sua stazione, pure essi innocenti, non esitava a dichiararsi unico responsabile di un presunto attentato contro le forze armate tedesche. Affrontava così — da solo — impavido la morte, imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell’Arma.»

A lui sono state dedicate via e piazza in tutta Italia, caserme dei carabinieri, e numerose scuole, affinché il suo fulgido gesto sia da esempio per le prossime generazioni. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando già D’Acquisto aveva fama di eroe, la sua famiglia versava in condizioni economiche ai limiti dell’indigenza. Così la filantropa napoletana Gioconda Trimarchi in Curci prese a cuore la situazione, spingendo sulle proprie conoscenze politiche, affinché si potesse arrivare a un vitalizio, che potesse essere non solo un aiuto materiale ma anche un concreto riconoscimento d’onore.

Deputati di ambedue gli schieramenti, PCI e DC, accolsero l’invito e, sia nella II Legislatura (1953-1958) sia nella III Legislatura (1958-1963), furono presentate ben 4 Proposte di Legge, che si concretizzarono, come “dovere civile ed umano” e come “dimostrazione della solidarietà e della riconoscenza del nostro Popolo”, nella Legge n° 553 del 21 luglio 1959 “Pensione straordinaria ai genitori della medaglia d’oro Salvo d’Acquisto”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n° 185 del 3 agosto 1959.

Monumento dedicato a Salvo d’Acquisto in piazza carità a Napoli.

Nonostante le belle parole D’Acquisto, e il riconoscimento a livello civile, il Servo di Dio Salvo D’Acquisto ancora non è Beato, mentre altri lo sono... ma che uno sia credente o meno, se vi trovate a visitare la Basilica di Santa Chiara, appena entrati, sulla sinistra, troverete la sua tomba, fermatevi un minuto, in silenzio e onoratelo.

MAGAZINE 13
A ISPIRATO CINEMA E TEATRO...
H

ITINERARI

LA viA regiA deLLe cALAbrie

L’Itinerario Borbonico del ‘800, percorso del Grand Tour, dismesso nel 1962 per far posto alla “moderna” Autostrada

pina Iovane

prima del suo completamento, la Salerno Reg gio-calabria è stata definita in tanti modi, a volte per indicare un qualcosa mai completa to, infatti, una volta parafando l’ottimismo del poeta Tonino Guerra, (protagonista di uno spot pubblici tario che aveva come tormentone “Come si fa a non essere ottimisti), il comico Fabio de luigi ebbe a dire: Nell’ottocento andavamo a cavallo, ora abbiamo la Salerno Reggio Calabria, come facciamo a non esse re ottimisti.

In realtà, il comico romagnolo, a sua insaputa, aveva detto una sacrosanta verità. Infatti la Salerno-Reg gio c alabria esisteva già nell’800, ed era la grande strada costruita dai Borbone, per collegare l’intera fascia tirrenica del Regno di Napoli, quello che nel 1816 sarebbe diventato la parte peninsulare del Re gno delle Due Sicilie.

Il percorso richiamava parte della via Popilia, di co struzione Romana, che dopo 550 km collegava Ca pua con Reggio di Calabria.

Fu fatta costruire nel 1778 da Ferdinando IV (poi Ferdinando I delle due Sicilie) e venne battezzata come Strada Regia delle c alabrie era la più lun ga e importante via di comunicazione terrestre del Regno di Napoli. Sfruttò, come già detto, per buona parte sul tracciato della più antica “Capua-Regium” di origine romana con cui condivide la storia di una costruzione complessa e dispendiosa.

Infatti in epoca romana, da Roma si poteva raggiun gere gran parte dell’intero, attraverso vie consiliari. Da Roma si raggiungeva Brindisi con la via Appia (la regina viarum), arrivati a Capua, si lasciava la via Appia e si raggiungeva la punta merdionale della penisola italiana con la via Popilia.

Una strada percorsa per secoli da eserciti, funzionari di stato, staffette postali. Prima ancora la percorse Carlo V d’Asburgo, nel suo viaggio trionfale di rien tro dalla celebre crociata in territorio africano. Poi Giuseppe Bonaparte, Gioacchino Murat, il Cardina le Ruffo alla testa delle truppe Sanfediste e tantissimi

altri e dai numerosi aristocratici che nel Settecento si recavano in visita nei luoghi del “Grand Tour”. È proprio questa la via percorsa dall’esercito tede sco in ritirata durante la Seconda Guerra mondiale, inseguito dalle truppe alleate. E’ la stessa via per corsa prima da Pisacane e poi da Garibaldi durante l’epopea risorgimentale. L’arteria lungo la quale si muovevano le truppe piemontesi per attuare l’aspra repressione del brigantaggio. Questa strada, insieme ai borghi che sorgono lun go il suo cammino, è stata letteralmente attraversa ta dalla storia, fino a quando, nel 1962, non venne completamente tagliata fuori a seguito della realiz zazione della prima autostrada meridionale: la A3 Salerno-Reggio Calabria. Di colpo vennero isolati tutti i borghi sedi delle antiche stazioni di posta, restando incastonati in un meraviglioso paesaggio, aspro e incontaminato. “Lungo la Via Regia delle Calabrie sono ancora visi bili le antiche osterie, i ponti romani, tracciati della Consolare risalente a 2100 anni fa! La strada costeg gia geositi e attraversa borghi da tutelare. Considera to il crescente interesse che oggi riscuote il viaggiare “a piedi”, i dati statistici relativi al Cammino di San tiago, alla Via Francigena ed al Cammino di Assisi, ad esempio, sebbene risentano di una forte attrattiva “spirituale”, indicano un’affluenza di persone in tran sito che è triplicata negli ultimi 5anni, la via Regia delle c alabrie che era già percorsa dai viaggiatori del Gran Tour potrebbe contribuire alla ripartenza dell’Italia!”, diventando volano per il turismo.

MAGAZINE 14

Lungo questa importante arteria ci sono numerose taverne ma anche tanti uffici postali di allora e ri percorrendola, si effettuerà un viaggio a ritroso nel tempo e nella storia.

Ad esempio la Taverna cioffi divenuta famosa per aver dato rifugio per una notte a c arlo Pisacane, il 29 Giugno del 1857 e tre anni più tardi, il 4 settem bre 1860, per aver ospitato Giuseppe Garibaldi, che tra quelle mura radunò il suo Stato Maggiore, prendendo importanti decisioni per il prosieguo della spedizione. Anni prima (nel 1799) fu percorsa dal Cardinale Ruffo di Calabria che alla testa delle truppe Sanfediste arrivò fino a Napoli, sconfiggendo le truppe rivoluzionarie filo francesi.

Ed ancora la Taverna delle Armi coperta parzial mente dalla boscaglia, conosciuta come la Taverna di c astelluccio, viene documentata per la prima volta nel 1749.

C’è anche da vedere lungo il cammino, la Fontana della Regina, piccola e pittoresca costruzione in stile barocco con relativa lapide ed iscrizione lati na, fatta realizzare da Ferdinando IV di Borbone nel 1793, durante uno dei suoi viaggi in Sicilia, per ri cordare e celebrare la sorgente che con le sue acque placò la sete della real consorte.

Ma abbiamo anche antichi ponti non solo romani ma settecenteschi come ad esempio, al chilometro 45 del la Via Regia delle Calabrie c’è il ponte settecentesco

sul torrente S. onofrio, che presenta ancora la struttura arcuata in pietra di matrice, tipica del 700. Ad Auletta sul Tanagro troviamo la Taverna del marchese perché al tempo proprietà del marche se Scanderberg, con annessa stazione di posta di Auletta. Questa taverna la doppia funzione sia di locanda che di stazione di posta fino al 1832, anno in cui un regio decreto di Ferdinando II di Borbone istituì una nuova officina di posta, oltre il ponte di Auletta, che potesse servire anche per la corrispon denza in arrivo ed in partenza per la Basilicata. L’edificio sede della nuova stazione di posta sarà quel lo dell’osteria del Pertuscio ed aveva pianta qua drangolare, con il lato sulla strada che presentava due ampi portoni d’entrata. Al piano terra erano le stalle ed al centro del cortile interno era collocata una ci sterna per attingere acqua potabile e per abbevera re gli animali. Al piano superiore erano presenti sei stanze con finestra che servivano come dormitorio per i viaggiatori, mentre una stanza più grande con al centro un camino veniva utilizzata per pranzare. L’e dificio si completava con un sottotetto dotato di altre tre stanze.

La stazione di posta, ricordata anche con il nome di “Taverna c aggiano” dal nome dei primi proprieta ri, era dotata di dieci cavalli e due postiglioni e rima se in funzione fino alla fine del 1800. Molti di questi ci sono ancora mentre altri sono andati persi”.

MAGAZINE 15

‘O BATTILOCCHIO

Alzi mano chi non ha mai visto la commedia di Scarpetta, Miseria e Nobiltà, portata sul gran de schermo anche da Totò. Ebbene in una del le scene finali, al “cuoco arricchito” Gaetano gli viene dato del Battilocchio

Questo termine deriva dal vocabolo francese battant l’oeil usato per indicare una cuffietta femminile che ricadeva sugli occhi. Metaforicamente lo stesso ter mine è stato poi usato a napoli per indicare una

persona che sembra essere sempre frastornata e stordita. Così come chi indossa la cuffietta non vede bene per l’indumento che annebbia la vista, così chi è definito “battilocchio” sembra essere confuso come se non vedesse, è considerato di scarsa intelligenza ed è spesso additato come “scemo del villaggio”. Ma dato che la fantasia napoletana non ha confini, ha conferito un ulteriore significato a questo termine. ‘O battilocchio indica, infatti, nel capoluogo campano la pizza fritta. Non quella imbottita, ma quella fatta da un impasto semplice fritto nell’olio bollente e subito servito avvolto in carta stagnola o in carta oleata.

MAGAZINE 16
Armando
cUcINAEMODIDIDIRE
Il termine deriva dal francese ma per i fantasiosi napoletani indica sia la pizza fritta, sia una persona stralunata e stupida

MONDIALI 1934 L’AUSTRIA INDOSSòLADIvISADEL NAPOLI

Siamo nel 1934, l’Italia fascista, ospita la seconda edizione dei Campionati del Mondo di Calcio (all’epoca si chiama Coppa Jules Rimet). A Napoli va di scena la finale per il terzo posto tra la Germania e la fortissima Austria, eliminata in semifinale dall’Italia di Pozzo.

Entrambe le compagini si presentarono allo stadio Ascarelli di Napoli con le maglie bianche. L’empasse fu risolto dalla capacità dei napoletanoi di risolvere i problemi e si scelse, quindi, di far indossare alla Nazionale austriaca la maglia del Napoli. I tedeschi si aggiudicarono il terzo posto vincendo per 3-2.

MAGAZINE 17 fOTOSTORIcA

LOREN z O BASILE il linguaggio artistico del colore

cinzia bisogno

uomo semplice, innamorato dell’arte, della cultura e della poesia (sua anche la pubbli cazione del testo “Piume di carta”, una rac colta delle sue poesie più belle) impegnato anche nel volontariato sociale. Non ha certezze ma tante do mande, spesso naviga nel buio alla ricerca della luce. L’unico punto fermo è Dio.

Conosciamolo meglio. Ho proposto a Lorenzo una serie di domande, di curiosità, per andare a fondo in quello che è il suo sentire di artista, domande sempli ci, uno sguardo intimo e personale, che raccontano l’uomo artista dei nostri tempi, in una società moder na come specchio della stessa, attraverso il suo pro cesso di evoluzione e di analisi introspettiva. l a tua arte. c osa rappresenta per te l’arte? L’arte è tutto, è una delle ragioni della mia vita. È come l’aria che respiro o l’acqua che bevo, non potrei farne a meno, è linfa vitale.

INcONTRID ’ARTE
MAGAZINE 18

lorenzo basile, pittore e poe ta, nasce a Sarno, in provincia di Salerno, località dove tuttora vive e opera. Fin da bambino è attratto dalle arti figurative, ma, pur avendo inclinazione per la letteratura, l’arte e la poesia, viene indirizzato dai genitori agli studi tecnici. Dopo aver conseguito il diplo ma di maturità, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, che, però, abbandona precocemen te per seguire la sua vocazione artistica. Per circa tre anni frequenta la scuola di pittura del maestro salernitano prof. Giuseppe Barbarulo, dove ap prende i canoni dell’arte figurativa, il rigore formale e l’equilibrio cromatico. Per diversi anni continua ad esercitarsi nel disegno dal vero e nella copia di opere dei grandi maestri, (Cezanne, Silsy, Corot, Van Gogh, Modigliani, ecc.), pratica che gli consen

una sola parola per definire la tua arte.

La mia arte è catartica, nel senso che attraverso l’ar te risorge ogni giorno la parte più’ dolente della mia anima.

chi o cosa ti ha ispirato o iniziato alla carriera artistica?

Iniziato all’arte grazie a un vecchio pittore che ave va uno studio nei pressi della mia abitazione. Da bambino molto curioso, quale ero, fui affascinato da quell’uomo intento al cavalletto con tanti colori sparsi sulla tavolozza. Ogni giorno passavo dal suo studio e sbirciavo qualcosa, chiesi pure a mia madre di anda re a prendere lezioni, ma le difficoltà economiche del tempo, con mia grande delusione, me lo impedirono. Solo in seguito, stimolato e indirizzato anche dagli insegnanti delle elementari e delle medie per le mie capacità artistiche che si rivelarono precocemente col disegno eccellente per la mia età, mi convinsi a segui re la mia velleità artistica. durante la creazione delle tue opere, qual è il tuo sentire, quale il messaggio che vuoi comunicare, quali le aspettative?

Nessuna aspettativa in particolare, la mia “vita pittori ca” ha attraversato diversi cicli, dal figurativo al surreale, dall’espressionismo all’impressionismo, per poi appro dare all’astrattismo e all’informale. Sono quindi diverse le opere che hanno segnato il mio percorso artistico. Ne cito qualcuna: “Gioia di vivere”, “Il musicista”, “Via Rampe Terravecchia” e il ciclo delle nature morte.

te di affinare la tecnica pittori ca. Dopo il periodo figurativo, Basile inizia a sperimentare nuovi linguaggi espressivi, che risentono dell’influsso dell’e spressionismo, dell’astrattismo e dell’informale.

Negli anni successivi la ri cerca del «valore formale» si incanala in un linguaggio pit torico d’effetto, fatto di campi ture cromatiche vigorose, che invadono lo spazio della tela. Ha partecipato a centinaia di Mostre collettive in Italia e all’estero (U.S.A., Francia, Brasile, Inghil terra, Portogallo, Marocco, Senegal, Emirati Arabi, Uruguay) e a concorsi dove ha ricevuto prestigiosi premi. Ha organizzato Personali di Pittura in Italia e all’Estero raccogliendo consensi di pubblico e cri tica. Alcune sue opere sono entrate a far parte di collezioni di musei, enti pubblici e privati.

Il mio linguaggio artistico nasce dal colore, con il quale “gioco” a creare diverse modulazioni cromati che mediante increspature, velature, sgocciolamenti, sovrapposizioni. Mi interessano due aspetti della co municazione artistica: la ricerca dell’equilibro croma tico e della luce e le pulsioni che dall’inconscio si di rigono con gesti e segni sulla tela. In effetti se dovessi definire le opere del mio ultimo ciclo, direi che sono essenzialmente gestuali. Il mio gesto non è mera “ca sualità”, esiste sempre un nesso tra la mente che me morizza le visioni e la mano che le realizza. c osa ti aspetti dall’arte dall’arte in generale? Non mi aspetto di essere compreso, apprezzato o elogiato. La pittura appaga la mia autostima abbon dantemente. Spero solo di suscitare nell’osservatore domande, piacere o disgusto, oppure anche una sem plice emozione estetica. c on chi trascorreresti un’intera giornata con un artista del passato e perché? Sceglierei sicuramente Van Gogh perché è l’artista a cui ho “guardato” di più. Mi ha interessato non solo la sua “percezione del colore”, ma soprattutto il sentire profondo e la sua visione “moderna” dell’arte, che ha indubbiamente “rotto” gli argini del suo tempo. c’è un fil rouge che accomuna, che lega in qualche modo tutte le tue opere?

Si, è il tentativo di uscire dall’isolamento esistenziale, o per dirla in parole più semplici esorcizzare il pensie ro della morte. L’arte è la più grande bugia dell’uomo.

MAGAZINE 19
PER SAPERNE UN PO ’ DI PI ù...

Quanti sacrifici compie un artista al giorno d’oggi?

Secondo te il gioco vale la candela?

Un artista che vive di arte oggi fa tantissimi sacrifici. Le difficoltà economiche pesano sulle dinamiche psi cologiche dell’uomo. Comunque “il gioco vale sem pre la candela”.

l’artista di oggi vive il mondo dell’arte come pro tagonista e spettatore, nel senso che è abbastanza complesso muoversi tra artisti nel mondo dell’arte. Qual è il tuo pensiero in merito?

È difficile navigare nel mercato dell’arte, sempre più dominato da interessi fortissimi. È molto difficile muoversi in questo universo, soprattutto nelle rela zioni con le gallerie d’arte, che investono poco sugli artisti emergenti. Spesso l’artista diventa uno spetta tore di se stesso.

Ti rende felice essere artista?

Si, mi rende felicissimo. Ho viaggiato poco nella mia vita per diverse cause. Attraverso l’arte viaggio ogni giorno nel mondo fisico, in quello spirituale e nei “cu nicoli” più profondi della mia anima.

Premetto che conosco Lorenzo ormai da molti anni,

stimo Lorenzo uomo per la sua innata sensibilità che è capace di trasmettersi nel suo animo di artista, ne ho sempre ammirato la natura dolente e malinconica, dolce e forte al contempo, nel colore come sintomo della sua massima capacità espressiva. Ogni volta che ho osservato i suoi dipinti ho avvertito l’inequivoca bile necessità di slegare la volontà propria dall’indi vidualità, dalla ragione comune, una sorta di smarri mento momentaneo, per elevarsi alla libertà della sua natura, quella natura avulsa dal principio di oggetti e soggetti, di pensieri abituali, o ancor peggio di luo ghi consueti, quella natura che si libera da angosce e dolori per mezzo di cromie, campiture, gesti e se gni inconfondibili. I suoi “effetti pittorici” annientano nell’osservatore forme, dimensioni, canoni ordinari per restituire una visione d’insieme scevra da forma lità e ricca di personale interpretazione. Alberto Sughi sosteneva che la pittura mostra, non argomenta; e che il lavoro del pittore non finisce col suo quadro: bensì finisce negli occhi di chi lo guar da, ecco, credo che sia esattamente questa l’arte di l orenzo Basile

MAGAZINE 20

LEINchIESTEDI SALVATORE GIULIANO

Nel centenario della nascita di Salvatore Giuliano , un ritratto su uno dei personaggi più controversi della seconda metà del ’900, tra mito e leggenda, storia e realtà .

Davvero le cose andarono come riportano i documenti ufficiali? Il ruolo degli Stati Uniti. L’indipendentismo siciliano. Cosa accadde a Portella della Ginestra, quel primo maggio?

STAY T uned

MAGAZINE 21

PONTELANDOLfO E CASALDUNI

LA “MARzABOTTO” DEL RISORGIMENTO

Cittadini inermi trucidati e donne violentate dai bersaglieri su ordine del criminale savoiardo Cialdini

Sono trascorsi centosessantuno anni, eppure la (pseuda) vera storia del Risorgimento nel Sud Italia deve restare ancora oggi nascosta. Dopo oltre un secolo la strage di Pontelandolfo e casal duni del 14 agosto del 1861, non trova posto nei li bri di storia ita(g)liani. Come per l’Impresa dei Mille e per altre “imprese romanzate” del Risorgimento nel Sud, si va avanti con le bugie. Eppure è ormai provato che, nel Sud, i generali di casa Savoia – enrico cialdini in testa – si comportarono peggio dei nazisti a marzabotto.

Dunque, all’alba del14 agosto del 1861, pochi giorni dopo l’Unità d’Italia, va in scena una strage ai danni degli abitanti di due paesi in provincia di Benevento, Pontelandolfo e ca salduni: una strage che mai mente criminale avrebbe potuto concepire. I protagonisti di questa bruttissima pagina della storia italiana sono i “libe ratori” italo-piemontesi, con in testa il ge nerale enrico cialdini. Ciladini invia in questi due paesini del Beneventano 500 bersaglieri al comando di negri con l’ordine di massacrare tutti gli abitanti ritenuti complici dei bri ganti, e per vendetta radere al suolo i due paesi. Una domanda sorge spontanea? Cosa vuol dire rite nere complici?

La mattina del 14 agosto i soldati raggiungono i due paesi. Casalduni viene trovata quasi deserta: gran parte degli abitanti, intuendo quello che stava per succedere, si è data alla fuga. Completamente diver so lo scenario a Pontelandolfo, dove gli abitanti ven gono sorpresi nel sonno.

I militari piemontesi assaltano le chiese e le case: saccheggi, torture, stupri: quella mattina succede di tutto. Le cronache dell’epoca raccontano che i militari danno fuoco alle abitazioni lasciando dentro gli abitanti.

Si racconta anche che i bersaglieri attendevano l’uscita dei civili dalle proprie abitazioni in fiamme per spa rargli addosso.

Chi riesce salvarsi dalle fiamme e dal tiro a bersaglio viene catturato e poi fucilato. Per le donne trattamento a parte: cattura, strupri, se vizie e uccisione per quelle che si opponevano. enrico cialdini è il mandante del massacro di Pontelandolfo e casalduni. In virtù dei più ampi e criminali poteri che arbitrariamente si attribuiva, in dispregio delle leggi e delle più elementari norme umanitarie, fa fucilare sul posto, senza processo, in tere famiglie, mette a ferro e fuoco interi paesi e vil laggi del Mezzogiorno d’Italia e fa arrestare e depor tare tutti coloro che danno solidarietà e un minimo di sussistenza ai cosiddetti briganti. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini soli to raccomandare di “non usare misericordia ad

MAGAZINE 22 LENEfANDEZZEDEISAvOIA

alcuno, uccidere senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani” Ed è esattamente quello che avviene, ad opera di questo criminale, a Pontelandolfo e Casalduni. E dire che a questo esecrabile personaggio nel nostro Paese sono dedica te numerose vie e piazze che sarebbe ora di cancellare!

Naturalmente la stampa di regime non die de molto spazio all’avvenimento, addirittu ra il Popolo d’Italia, il giornale fondato da quel mentecatto di Mazzini, parlò di una sola vittima.

Nel 1920 Antonio Gramsci, su “Ordine Nuovo”, a proposito di questi genocidi e di queste vere e proprie pulizie etniche per petrate dei “civilizzatori e liberatori” ita lo-piemontesi a danno delle popolazioni meridionali così scrive:

“Lo Stato italiano si è caratterizzato come una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Ma per restare nello specifico degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, ecco quan to riporta dettagliatamente e testualmente nel suo diario c arlo margolfo, uno dei 500 Bersaglieri entrati, all’alba di quel maledetto 14 agosto in paese a compiere la strage: “Al mattino del mercoledì, giorno 14, rice viamo l’ordine superiore di entrare nel Co mune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il solda to saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, di circa 4500 abitanti. Quale desolazione non si poteva stare d’in torno per il gran calore e quale rumore fa cevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case”.

Questa la raccapricciante testimonianza del bersagliere Margolfo che è attivo prota gonista di tale eccidio.

L’ordine è perentorio: radere al suolo i due paesi, non fare rima nere in piedi una sola pietra. Come già ricordato, vengono prese d’assalto le chiese e le case e, al grido di “piastra, piastra”, vengono saccheggiate per poi essere incediate. Il “diritto di rappresaglia” consente a queste belve di uccidere, in un orgia di sangue, anche vecchi e bam bini e stuprare le donne senza prima avere loro strappato gli orecchini. c oncettina Biondi, una ragazzina appena sedicen ne, viene violentata malgrado l’ordine fosse quello di rispar miare almeno i bambini.

La storia ufficiale ha nascosto quasi tutto. Ancora oggi non si conosce nemmeno il numero esatto delle vittime.

Ecco i genocidi e le pulizie etniche che venivano perpetra te agli albori dell’Unità d’Italia dai liberatori piemontesi nei confronti delle popolazioni meridionali.

Si può senz’altro dire che la ferocia, per “diritto di rappresa glia” dimostrata in quel maledetto 14 agosto del 1861 dagli italo piemontesi nei confronti degli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni fu senza dubbio superiore a quella dimostrata, sempre per “diritto di rappresaglia”, dai nazisti esattamente 83 anni dopo nell’agosto del 1944 a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, dove gli abitanti furono anch’essi fucilati senza saccheggi e stupri e le case dei due paesi non furono bruciate, al contrario di quelle di Pontelandolfo e Caslduni di cui i pie montesi ne lasciarono intatte solamente tre. Eppure i nostri libri di storia e le enciclopedie non fanno altro che ricordare opportunamente perché non se ne perda la me moria le vittime dei nazisti dell’agosto del 1944. Ma è anche giusto ritrovare la memoria di quegli eccidi e di quelle puli zie etniche di cui furono vittime le popolazioni meridionali ad opera di altri italiani che si spacciarono per “liberatori e civi lizzatori”. Assassini le cui gesta criminali vengono ancora oggi puntual mente ignorate dalla storiografia ufficiale e scolastica. In conclusione, vorrei scomodare l eonardo Sciascia che so leva affermava: “Questo è un Paese senza memoria e io non voglio dimenticare”.

MAGAZINE 23

cARLOMAGNOELAcALABRIA

LA CHANSON D’ASPREMONT

L’investitura cavalleresca di Orlando in Aspromonte

daniela la cava

Tra i più famosi poemi epico cavallereschi co nosciuti, un posto d’onore è ricoperto da “La Chanson de Roland”, celebre opera medievale che narra le vicende dell’eroe Rolando o Orlando, ni pote prediletto di Carlo Magno e valoroso com battente L’epoca carolingia però, non rifulge solo tra le pagine di questa famosa raccolta di canti, né si confina nei territori compresi tra la Francia e la Britannia che tanto hanno ispirato racconti epici e cavallereschi.

Esiste un volume, inspiegabilmente meno co nosciuto, che racconta della discesa di Carlo Magno in Calabria e dell’investitura cavallere sca del giovane nipote Rolando: “La Chanson d’Aspremont”!

La narrazione si svolge nel territorio calabre se compreso tra i monti dell’Aspromonte, “Quel grande dito puntato contro il cielo” come lo definì

lo scrittore calabrese Corrado Alvaro, e le città dello Stretto.

In questo scenario naturale, si intrecciano le vi cende belliche dell’esercito franco, guidato da Carlo Magno, a cui faranno seguito alleati prove nienti da varie regioni d’Europa, tutti in marcia contro gli invasori saraceni.

Se La Chanson de Roland ci presenta un cava liere armato di spada e dell’olifante, il corno che soffierà allo stremo delle forze prima di abban donarsi al sonno eterno, La Chanson d’Aspre mont ci mostra un Rolando ancora fanciullo, che brama di diventare cavaliere e combattere al fianco dello zio Carlo; desiderio che si concre tizzerà grazie al suo coraggio, scappando dalla torre in cui il Re lo aveva confinato per tenerlo lontano dalla guerra finché non avesse raggiun to l’età giusta per combattere.

Fortunatamente Rolando riesce a fuggire e arri vare sull’Aspromonte in tempo per salvare il re suo zio, uccidendo il feroce nemico: un atto eroi co che verrà premiato con l’investitura!

MAGAZINE 24

La tradizione medievale in fatti, prevedeva che il vin citore spogliasse di armi e destriero il guerriero scon fitto, come fossero trofei di guerra, e sarà così anche per Rolandino: la vittoria ottenuta gli permetterà di ricevere l’olifante e la spada Durlindana appartenuti al saraceno sconfitto.

La novità introdotta nella narrazione del duello risie de nel modo in cui il ragaz zo dimostra il proprio va lore salvando il re: non con l’uso di una spada, perché Rolando non è ancora un cavaliere e non può bran dirla, ma grazie ad un’arma improvvisata. A differenza degli altri combattenti mu niti di spada infatti, Rolan dino si batte con un basto ne di legno sotto gli sguardi ammirati dei guerrieri al seguito di Carlo, i quali vedono in quel ragazzo il suo degno successore.

Un esplicito richiamo all’episodio biblico del la lotta tra il pastorello Davide e il gigante Go lia, che riporta le gesta di un ragazzo, munito di sassi e fionda anziché di elmo e spada, trionfare sui soldati. Rolando, come Davide, sconfigge il terribile gigante armato solo di fede e del pro prio coraggio. Composto nel sec. XII al tempo della dominazione normanna quando la città di

Reggio portava il nome di Risa, il poema riconduce all’eterna lotta tra pregiudizi e identità cultura le che sfocerà in un sanguinario sterminio, motivato unicamen te dalla volontà di sottomette re l’esercito rivale alla propria fede.

Attraverso il racconto delle gesta dei cavalieri, i poemi epici diventano uno stru mento nelle mani della chiesa per rivendicare la supremazia del cristia nesimo sulle altre reli gioni, in particolare sui seguaci di Maometto eti chettati come infedeli e miscredenti.

E un momento crucia le per la letteratura epica perché letterati e trovatori si ritrovano a sintetizzare il pensiero di culture diverse fuse tra loro. L’insediamento dei normanni nel Sud Ita lia infatti non ha imposto la lingua e la cultura dei nuo vi dominatori, ma ha fuso le loro tradizioni con le culture autoctone, spogliandosi sempre più della purezza ideologica caratteristica della civiltà nordica.

Gli dei che affiancavano celti e norreni scompar vero improvvisamente, a favore di angeli inviati dal Dio dei cristiani che vegliavano su chi aveva scelto di ricevere il battesimo e invocava il loro aiuto.

MAGAZINE 25

La porta del Sole

l A f OTO del M e S e MAGAZINE 26

Palermo, Porta Felice dove si può assistere al meraviglioso spettacolo d ell’equinozio di primavera

MAGAZINE 27

MAGAZINE

Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.