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ANNO 1 NUMERO 4 DISTRIBUZIONE GRATUITA ONLINE

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L’e d i t o r i a l e Mario Stazione

Elezioni sì, elezioni no… 2

Ormai ogni anno di questi tempi abbiamo una tornata elettorale; una volta le regionali, l’altra volta le comunali, poi le nazionali, ancora dopo le europee, dunque quelle del circolo della caccia o della pesca, poi quelle dei condomini e invero ormai siamo un Paese sempre in campagna elettorale.

Il bello sta però nel fatto che nonostante questa annosa attività comunque andiamo sempre di più ad indietreggiare con Pil, l’Ocse, la Cultura, la Libertà di stampa e tutte le statistiche che misurano lo stato di salute culturale e mentale (mi consentino) della nostra Comunità. Credo che siamo arrivati alla frutta (forse siamo già fuori la porta – sic!), seriamente credo dunque che dobbiamo assolutamente invertire lo stato dell’arte, prendere finalmente in mano le nostre sorti altrimenti siamo fritti. Eh sì, lo scrivo perché sempre più giovani spopolano i territori di quel vecchio Regno difeso solo dalle sirene, parafrasando il cantautore Eugenio Bennato, denominato per un fatto geografico Meridione d’Italia e sempre più menti eccelse o giovani cervelli ci abbandonano per irrobustire altre Nazioni. Impoverendoci di materiale umano e questo è un dato allarmante, nonché non deve essere assolutamente aggiunto nella terminologia deontologica quotidiana del momento. Il fatto è estremamente preoccupante per il futuro di questo Stato ma altro non si vede nei talkshow politici che far finta di litigare tra essi ed essere divisi su tutto e tutti, solo per il mero poltronire personale e collocarsi individualmente in quei posti d’élite che sono diventati, diciamo così, le Istituzioni. Mi domando e dico: cosa fanno i nostri politicanti per invertire questo stato dell’arte? Cosa hanno pensato costoro, cialtroni, tutti, per salvarci da tale degrado culturale che ci sovrasta? Inoltre vi lascio con questa considerazione: la Cina, finalmente aveva individuato un porto, quale quello di Reggio Calabria o Gioia Tauro, vero centro del Mediterraneo che sarebbe dovuto essere l’epicentro economico di smistamento delle merci da e per l’Europa, denominato “la via della seta”, finalmente occasione di vero sviluppo che sarebbe potuto essere la vera grande opzione infrastrutturale di tutte le terre del Mezzogiorno per farlo finalmente emergere da quel pantano e quindi dargli veramente una vera e propria chance, forse mai più ripresentabile, quale riscatto con conseguente incremento di posti di lavoro per tutto il Sud, né cosa fanno? Ancora una volta lo scartano delittuosamente dall’Agenda del Programma d’Investimenti, nonostante la stessa Comunità Europea si sarebbe fatta carico dell’intero costo e non ci avrebbe fatto spendere manco un euro sovvenzionandolo gratis et amore dei. Allora mi gratto il capo e spremo le meningi per farvi riflettere, ponendomi questa domanda che mi pervade: perché questo “Governo dei Migliori” ha ricalcato le stesse orme del precedente, tal Governo Gentiloni, Renzi, Conte, Conte bis che erano sicuramente monchi e pigri da farci retrocedere sempre più, come i precedenti degli ultimi venticinque anni, in un buio pesto? Per me siamo vittime di poteri sovranazionali che rispondono ad una vera e propria oligarchia.

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SOMMARIO

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4 storia la legge pica 6

Registrazione n 1 - marzo 2021 Tribunale di Nocera Inferiore

Anno 1 - Numero 4 chiuso il 27/03/2022

cultura / territorio lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana

/ superstizione 10 religione il culto popolare delle anime pezzentelle / stragi 12 trinacria il massacro di bronte

Editore Creative Media Srl Direttore Responsabile Mario Stanzione Direttore Editoriale Fernando Luisi (Ferdinando l’Insorgente)

14 ricordi la pietrarsa di mio padre non tutti sanno che... 17 forse a napoli il primo cimitero per i poveri

19 quando padre pio fermò i bombardieri gargano. americani

grande canzone napoletana 20 la chi era la signorinella pallida che

turbava i sogni di don cesare il notaio?

/ personaggi 22 calabria l’artista che diventò cavaliere

Redazione Mimmo Bafurno Cinzia Bisogno Giuseppina Iovane Daniela La Cava Armando Minichini Mino Paolillo Angelica Sarno Edoardo Vitale

IN COPERTINA Lampedusa, La Porta d’Europa, che guarda al mare e accoglie i profughi che arrivano dal mare.

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/ calabria 23 eccellenze il peperoncino calabrese

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24 arte tutte le donne del mondo hanno diritto ad esprimersi

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la foto del mese castel dell’ovo M A G A Z I N E

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STORIA

LA LEGGE PICA

Il primo atto legislativo delle trattative Stato-mafia Ferdinando l’Insorgente

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l 15 agosto 1863 fu varata la legge n. 1409, meglio conosciuta come Legge Pica, dal nome di uno dei firmatari Giuseppe Pica, deputato del neonato Parlamento italiano di origine abruzzese. Il provvedimento legislativo trovò il suo scopo nella repressione del brigantaggio e qualsasi forma di resistenza armata nelle province meridionali. Pur se presentata come misura eccezionale e temporanea di difesa, la legge fu prorogata e rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. La legge Pica fu preceduta da altri provvedimenti dello stato italiano dopo la caduta di Gaeta, quando il generale Cialdini fu mandato nell’ex territorio delle Due Sicilie con poteri eccezionali, rendendosi protagonista di violenze efferate nei confronti degli “affricani” dell’Italia Meridionale e poi sostituito dal generale La Marmora. Nonostante le forze in campo da parte dei piemontesi, l’obiettivo di sottomettere la popolazione non fu centrato e fu così che si diede vita alla legge Pica, nel giorno di Ferragosto del 1863. Tale provvedimento legislativo rappresenta senza dubbio uno dei più vergognosi provvedimenti legislativi dello stato italiano. La legge Pica fu approvata con un percorso parlamentare velocissimo, a causa di una situazione emergenziale presente

Una delle conseguenze della legge Pica, esecuzioni sommarie e stragi di gruppo, senza alcun processo

nelle province napoletane “infette dal brigantaggio”. Iter rapido e decretazione di stato emergenziale trovano già agli albori della malaunità italiana le loro tipiche espressioni di vita parlamentare. Non tratteremo, in questo articolo, dei vari contenuti della legge Pica, del diritto di rappresaglia, del domicilio coatto, della privazione di una difesa da parte degli accusati affidandoli ai militari sabaudi con grado più basso, dell’abolizione dei diritti civili rendendo immpossibile iò vivere quotidiano e di altre nefandezze. Nella prima promulgazione della legge Pica ci fu una particolare caratteristica dell’applicazione territoriale., infatti sebbene la legge, valida solo per il Mezzogiorno, non si applicava in alcune determinate zone, alla provincia di Napoli, a gran parte della Puglia, alla provincia di Reggio Calabria e alla Sicilia. è abbastanza intressante che l’appliazione territoriale della legge Pica non comprendeva

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una legge a... macchia di leopardo

Nell’articolo unico prima del regolamento della legge Pica si legge: “La dichiarazione di che all’art. 1° della Legge suddetta è fatta per le Provincie di Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore II, Basilicata, Benevento, Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore II, Capitanata, Molise, Principato Citeriore, Principato Ulteriore e Terra di Lavoro.”

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zone ove era presente il fenomemo delinquenziale della criminalità organizzata (Mafia, Ndrangheta e Camorra). Quasi a voler ammettere che nelle zone controllate dalle mafie il brigantaggio non prese. E questo ci viene confermato anche in “Banditi e Briganti” di Enzo Ciconte. Quel martoriato territorio dell’ex Regno delle

Due Sicilie aveva due gestori, quello statale e quello delle criminalità organizzate, che alla fine diventa un’unica entità: lo stato-mafia. In conclusione, possiamo affermare che la Legge Pica rappresentò il primo atto legislativo delle trattative stato-mafia. L’Italia non poteva cominciare meglio a quasi due anni e mezzo dalla sua nascita.

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cultura / TERRITORIO

Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana Edoardo Vitale

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bbiamo incontrato Adriana Dragoni, autrice del Saggio Lo Spazio a 4 dimensioni nell’arte Napoletana, edito da Pironti, che ci parla della prospettiva Napoletana. In questo numero leggerete solo la prima parte dell’intervista, che proseguirà anche nel prossimo numero. Professoressa lei, nel suo saggio, ha svelato l’esistenza della prospettiva napoletana, una straordinaria scoperta nella storia dell’arte che, forse, non è stata ben compresa. Ci vuol dire come è nata questa sua intuizione? Dall’osservazione. Ho osservato le vedute della Napoli settecentesca. Si diceva che la loro prospettiva era sbagliata. Mi sono chiesta come mai la pittura napoletana, che aveva un’esperienza millenaria, non riusciva a fare un’operazione in fondo facile: applicare la prospettiva. Poi notavo che i cosiddetti errori erano sempre quelli e concludevo che evidentemente non si trattava di errori. Queste vedute seguivano le regole di una diversa prospettiva. Se si va a interrogare un’enciclopedia, alla voce prospettiva, troviamo la definizione di quella toscana, considerata come l’unica esistente. Lei, invece, afferma l’esistenza di una prospettiva diversa: quella napoletana. Per comprendere questa diversità, è quindi opportuno capire prima in che cosa consiste la prospettiva toscana. La prospettiva toscana consiste in uno schema geometrico. Fu inventata dal fiorentino Filippo settembre 2021 Brunelleschi, (1377-1446), pittore, scultore ma

soprattutto architetto (sua è la cupola del Duomo di Firenze, Santa Maria del Fiore) ed è tuttora considerata uno strumento valido per rappresentare il mondo reale. Infatti molti artisti, iniziando da Masaccio (1401-1428), la applicarono, e la applicano ancora, considerandola adatta a rappresentare la realtà. Ma, a temperare questa convinzione, ci furono, già nel Quattrocento, Masolino (1383-1440) e il Beato Angelico (13951475), che, pur seguendo questa prospettiva, inserivano, nello stesso dipinto, immagini sacre che evocavano il mondo ultra terreno; il che, nel Novecento progressista, suscitò la reazione del critico Roberto Longhi (1890-1970), il quale deprecò questo inserimento di elementi estranei alla prospettiva unitaria del dipinto, “alla scatola chiusa del mondo”, a quella che per lui era la realtà. Un atteggiamento prettamente laico, aderente alla temperie del tempo. E anche del nostro tempo. Infatti, ancora oggi, dopo tanti secoli, questo schema geometrico è considerato un ottimo strumento per rappresentare la nostra realtà e, come tale, viene insegnato nelle scuole italiane. Eppure, quando, poco dopo la sua invenzione, Leon Battista Alberti (1404-1472) ne scrisse, la definì “Centralis, intellectualis, artificialis”. Ma perché l’Alberti considerò la prospettiva toscana centrale, intellettuale e artificiale? Perché proietta su un piano, che ha due dimensioni, lo spazio a tre dimensioni, quello teorizzato dal greco Euclide nel III secolo a.C., e un unico punto di vista, quello del pittore. 3Quindi L’ALFIERE il pittore, cioè l’uomo che guarda il mondo, è il

G A Z I Ne E dopo la concezione moderna dello spazio–tempo for-M A(1483/1510), in quelle dei suoi tanti seguaci. Il malizzata da Albert Einstein (1879/1955), e oltretutto Seicento barocco appannò il fascino dell’arte fiorentirisulta retrograda, in quest’epoca di rapide comunicana. Ma il Neoclassicismo lo riabilitò, soprattutto nella


(1469/1492), colui che, promuovendo l’arte e la cultura, Come possiamo aiutare il lettore a immaginare uno prenderà il nome di Magnifico. Perché è anche vero che spazio a quattro dimensioni? Sappiamo dalla scienza che quello che noi vediamo la Firenze del tempo brillò nelle arti e nella cultura. Ancora oggi la visione prospettica fiorentina ha sucsono i raggi di luce che ci vengono rimandati dalle supercesso per la piacevole armonia delle sue fici della materia. Se tu, stando alla punto centrale della visione. misure,di per la sicura misure, per la sicura stabilità che essa soglia questa stanza,stabilità stessi Perciò la prospettiva toscache essasuggerisce, suggerisce, per il sostegno che essa completamente fermo,per se il è definita centralis.giacha na dalla Chiesa cattolica, nulla, nemmeno gra-ha sostegno che un essa chéIntutte le sue lineevisiodi pronello polvere, si effetti è una dalladiChiesa cattofondità, pur essendo paralmuovesse tra te e le ne egocentrica, che lica, giacché tutlele, si raccordano cose, accadrebbe mette la naturainalun te le sue linee punto che geometricache le pareti, il servizio dell’uodi profondità, mente rappresenta pavimento e il mo. Una visione pur siessendo l’infinito ma, simbolisoffitto appicche ha l’Aldilà, fra i suoicamente, il cparallele, i c h e r e b b e r osi potenziali svilupfine della vita del come fette diin raccordano pi l’odierna crisi fedele e la fine della prosciutto un punto sui che vitaecologica. di ogni uomo. occhi. tuoi gSoltanto e o m equando tricaTrionfò proNoi l’arte pensiamo mente rapprespettica qualcosa tra te e che la fiorentina prospetsenta l’infinito nelle pitture romane le pareti della tiva toscana ci dell’urbinate stanzasimbolicasi La Scuola di Atene. ma, mostri la Sanzio realtà. Raffaello muove, oppure Linee prospettiche nell’affresco di Raffaello mente, l’Aldilà,

Ma il suo spazio è artificiale, non realistico, non è più valido, neanche teoricamente, dopo la concezione moderna dello spazio tempo formalizzata da Albert Einstein (1879-1955) e, in quest’epoca di rapide comunicazioni e di voli spaziali, risulta retrogrado. La visione napoletana rifugge dall’astrazione e da ogni schematismo: è irresistibilmente attratta dalla verità concreta e oltretutto risulta retrograda, in quest’epoca di rapide comunicazioni e di voli spaziali. D’altronde possiamo anche dire che la prospettiva toscana, considerando lo spazio fatto di materia, denuncia una sorta di materializzazione della visione del mondo. Proprio così. A Firenze fu inventata una visione materialistica che considerarono realistica. Infatti, con il Quattrocento fiorentino, si entra inun’epoca moderna, in cui la materia ha grande importanza. Forte è il desiderio di beni materiali. A Firenze si afferma la religione del dio danaro e la città è governata da banchieri, che, attraverso le magistrature, la dominano. E, in proposito, non possiamo fare a meno di notare le analogie con la situazione odierna. Tra i banchieri ricordo i Medici, custodi del Tesoro di San Pietro, ovvero dei beni della Santa Sede, e i Pazzi, che furono autori di una congiura contro di loro (1478), in cui fu ucciso Giuliano e ferito il fratello Lorenzo (1469-1492), colui che, promuovendo l’arte e la cultura, prenderà il nome di Magnifico. Perché è anche vero che la Firenze del tempo brillò nelle arti e nella cultura. Ancora oggi la visione prospettica fiorentina ha successo per la piacevole armonia delle sue

il fine della vita del fedele e la fine della vita di ogni uomo. Trionfò l’arte prospettica fiorentina nelle pitture romane dell’urbinate Raffaello Sanzio (14831510), e in quelle dei suoi tanti seguaci. Il Seicento barocco appannò il fascino dell’arte fiorentina. Ma il Neoclassicismo lo riabilitò, soprattutto nella critica artistica, che prese a modello gli scritti del neo-classico Luigi Lanzi (1732-1810), curatore degli Uffizi di Firenze e autore del primo manuale della “Storia dell’arte italiana”. La ringraziamo per questa conversazione che, considerando i vari aspetti e il significato anche sociale della prospettiva, ha aperto la strada alla comprensione di una sua critica e di una sua alternativa. Ma non è forse vero che lo spazio reale ha tre dimensioni? Ne siamo convinti ma non è vero. Ad avere tre dimensioni è la materia, una scatola, un edificio, una cassa, ma non lo spazio. Lo spazio reale di dimensioni ne ha almeno quattro: le tre dimensioni della materia più la dimensione tempo. Lo spazio reale è lo spazio-tempo. Non sololo ha affermato Albert Einstein ma lo spazio-tempo è quello di cui tutti noi abbiamo quotidianamente esperienza nella realtà. Come possiamo aiutare il lettore a immaginare uno spazio a quattro dimensioni? Sappiamo dalla scienza che quello che noi vediamo sono i raggi di luce che ci vengono rimandati dalle superfici della materia. Se tu, stando alla soglia di questa stanza, stessi completamente fermo, se nulla, nemmeno un granello di polvere, si muovesse tra te e le cose, accadrebbe che le pa-

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Gabriele Ricciardelli, Napoli: Porticciolo del Mandracchio

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reti, il pavimento e ilti soffitto appiccicherebbero quando tu stesso muovi, ti si accorgi che esiste uno spazio. Lodispazio che noi consideriamo è costituito dalle come fette prosciutto sui tuoi non occhi. Soltanto cose ma è tra le cose. Lo spazio esiste quando possiamo quando qualcosa tra te e le pareti della stanza si muoverci. Ma che cosa è il movimento se non lo stare muove,prima oppure stesso timovimento muovi, tiimpliacin un quando posto e poi tu in un altro? Il ca esiste il tempo. Cioèspazio. lo spazio reale non esiste senza la corgi che uno dimensione tempo. Lo spazio reale è lo spazio-tempo. Lo spazioLache noi consideriamo non è costituito concezione di uno spazio in movimento, espressa dalle cose ma è tralepittorica cose. Lo spazio esiste quannella prospettiva spazio-temporale napoletana è testimoniata dalle osservazioni dei napolitani: scrittodo possiamo muoverci. Ma che cosa è il moviri, filosofi, matematici, dai loro esperimenti nell’ottica mento se non lo stare prima in un posto e poi in registrati negli Atti della borbonica Accademia delle un altro? Il movimento implica tempo. Cioèfin lo Scienze ecc... e soprattutto dalle il pitture napoletane dalle origini magnogreche (osserva, ad esempio, nel spazio reale non esiste senza la dimensione temMuseo Archeologico Napoletano, il dipinto di due po. Lo spazio reale è lo spazio-tempo. mensole: l’una è guardata da un sotto in su, l’altra da un La concezione disuperiore. uno spazio movimento, punto di vista E osservain il movimento rotadel prospettiva pavimento nel pittorica San Girolamo nello tempostudio di espressatorio nella spazio Antonello da Messina, allievo del napoletanissimo rale napoletana è testimoniata dalle osservazioni Colantuono). dei napolitani: scrittori, filosofi, matematici, dai La concezione spazio-temporale del mondo è come un fil rouge, che scorre in tutta la storia napoletana e loro esperimenti nell’ ottica registrati negli Atti trova la sua più compiuta definizione, nel Settecento, della borbonica Scienze ecc... della città. Sonodelle arrivata alla loro defininelle “vedute”Accademia e soprattutto dalle pitture napoletane fin zione attraverso un’attenta e lunga osservazionedalle e gli esperimenti fatti con l’aiuto di fotografi, origini magno greche (osserva, ad amici esempio, nel costruendo una camera ottica ad hoc e servendomi Museo anche Archeologico dipinto di di una cameraNapoletano, ottica usata da unilvedutista posillipino. l’una è guardata da “un sotto in su”, due mensole: queste vedute erano superiore. sotto gli occhiEdi osserva tanti, che l’altra daCerto un punto di vista non si sono accorti del significato delle loro anomalie il movimento rotatorio del pavimento nel San prospettiche. parecchio, per concludere che nel lavorato GirolamoHonello studio di Antonello da Messina, Settecento un pittore, per ritrarre Napoli, lentamente allievo del napoletanissimo Colantuono. La concammina lungo una strada curva fermandosi a riprencezionedere spazio-temporale mondo è come un tre vedute. Nel suodel atelier riprende su un solo foglio tre vedute, da storia uno specchio curvo in fil rouge, chele scorre in riflesse tutta la napoletana che si sovrappongano l’una sull’altra, formando e trova modo la sua più compiuta definizione, nel Setun’unica veduta d’insieme. tecento, Può nelle della concreto città. Sono arrivata fare“vedute” qualche esempio per comprendere alla loro definizione attraverso un’attenta e lunga osservazione e gli esperimenti fatti con l’aiuto di amici fotografi, costruendo una camera ottica ad hoc e servendomianche di una camera ottica usata da un vedutista posillipino. Certo queste

vedute sotto occhi di tanti, che non si meglio le erano peculiarità dellagli prospettiva napoletana? Prendiamo un pittore come Gabrieledelle Ricciardelli: si sono accorti del significato loro anomalie tratta di un caposcuola, in quanto, nelle sue vedute, la prospettiche. Ho lavorato parecchio, per concluprospettiva napoletana trova la sua compiutezza e riedere nel Settecento pittore, sce ad che esprimere il fascino dellaun città. Sempre, per guar-ritrarre dandole, lolentamente sguardo non si spinge verso l’oltre, verso un strada Napoli, cammina lungo una indefinito infinito. come, generalmente, nelle pitture curva fermandosi a riprendere tre vedute. Nel suo “italiane”. Ma rimane in uno spazio fatto di morbide atelier riprende un solo e,foglio le tree libevedute, ricurve, che è conclusosututt’intorno lentamente ramente, gira. flesse da uno specchio curvo inmodo che si soUno spazio in movimento si avverte anche in alcune vrappongano l’una sull’altra, formando un’unica scene di genere di Gaspare Traversi, per le quali il pitveduta d’insieme. tore ha seguito un procedimento un po’ diverso. In questi dipinti (vedi ilesempio dipinto La concreto lezione di piano Può fareTraversi qualche per comalle pagine 20-21) non ritrae un ampio spazio come prendere meglio le peculiarità della prospettiva nelle vedute, non passeggia lentamente per strade litonapoletana? ranee, ma sta in un salotto e si gira attorno osservando uno a uno i personaggi che compongono la scena. Lui Prendiamo un pittore come Gabriele Ricciardelli: si gira attorno ma possiamo anche dire che lo spazio sigiratratta di un caposcuola, in quanto, nelle sue veintorno a lui, storcendo la prospettiva come si evindute, la prospettiva napoletana trova la sua comce chiaramente dalla gamba dello strumento musicale. Divertenti anomalie gentile piutezza e riesceriguardanella ad esprimere il pianista fascinoche, della cittorcendosi anche lei, guarda di faccia il pittore, il cui tà. Sempre, lo sguardo nongli si spinge impertinente, sguardo fruga guardandole, sotto il mobile e nota, verso l’ o ltre, verso un indefinito infinito. sguardi che si dirigono in direzioni diverse. La carta da come, musica è osservatanelle e dipinta singolarmente come generalmente, pitture “italiane”. Mailrimane piano sul quale poggia in modo anomalo. Tutto rende il in uno spazio fatto di morbide curve, che è consenso della vita nella vivacità della riunione alla quale ciascun tutt’intorno personaggio partecipa individualmente, non cluso e, lentamente e liberamente, adeguandosi passivamente al gruppo (come oggi si anche gira. Uno spazio in movimento si avverte farebbe secondo il modo politicamente corretto). inVoglio alcune sceneanche di genere di Gaspare Traversi, per ricordare Carlo Bonavia, un vedutista tipicamente cui presenza questa città è le quali il napoletano, pittore hala seguito uninprocedimento un testimoniata dal 1751 al 1788. È un coerente esponente po’ diverso. In questi dipinti Traversi non ritrae della scuola vedutistica napoletana, la cui esistenza è un come Ma nelle non stataampio a lungo spazio perfino negata. giravedute, anche nelle suepassegvedute lo spazio che proietta le sue immagini ma in una gia lentamente per strade litoranee, sta in un curva più raccolta, quasi a voler significare una intima salotto e si gira attorno osservandouno a uno i sensibilità quasi ritrosa. Nelle vedute al chiaro di luna personaggi checomposizione compongono scena. la circolarità della viene la ribadita dal cerLui si gira attorno ma possiamo anche dire che lo spazio gira intorno a lui, storcendo la prospettiva come si evince chiaramente dalla gamba dello strumento musicale. Divertenti anomalie riguarda nella gentile pianista che, torcendosi

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anche lei, guarda di faccia il pittore, il cui sguardo fruga sotto il mobile e nota, impertinente, gli sguardi che si dirigono in direzioni diverse. La carta da musica è osservata e dipinta singolarmente come il piano sul quale poggia in modo anomalo. Tutto rende il senso della vita nella vivacità della riunione alla quale ciascun personaggio partecipa individualmente, non adeguandosi passivamente al gruppo (come oggi si farebbe secondo il modo politicamente corretto).Voglio ricordare anche Carlo Bonavia, un vedutista tipicamente napoletano, la cui presenza in questa città è testimoniata dal 1751 al 1788. È un coerente esponente della scuola vedutistica napoletana, la cui esistenza è stata a lungo perfino negata. Ma gira anche nelle sue vedute lo spazio che proietta le sue immagini in una curva più raccolta, quasi a voler significare una intima sensibilità quasi ritrosa. Nelle vedute al chiaro di luna la circolarità della composizione viene ribadita dal cerchio delle nuvole nel cielo. Mentre il girare dello spazio, ovvero il sostare del vedutista in varie stazioni per riprendere il luogo, risalta nella resa delle costruzioni che mostrano contemporaneamente facciate diversamente orientate che non sarebbero potute essere visibili da uno stesso punto di vista. So che lei ha avuto eccellenti maestri, come i professori Valerio Mariani, Raffaello Causa, Roberto Pane e Aldo Masullo, che la stimavano e le hanno dato una buona formazione di base. Ma come ha fatto a scoprire l’esistenza della prospettiva napoletana? Aggiungo che mi sono stati maestri anche mia madre, che amava molto Napoli, e pure mio figlio Elio, quando era bambino. Infatti, per comprendere l’opera d’arte, bisogna dapprima guardarla con gli occhi di un bambino, senza immetterla subito in dotti schemi già costituiti. È quello che ho fatto. Girando per le strade di Napoli con il mio bambino, seguito a volte da qualche suo amichetto, osservammo che, per vedere ciò che vedevamo in una veduta diNapoli del Settecento,

Carlo Bonavita, Veduta di un porto mediterraneo al chiaro di luna bisognava servirsi di più vedute, riprese da diversi punti di vista. Ma, mentre nelle cartografie le varie riprese sono accostate l’una all’altra, in queste vedute venivano sovrapposte l’una sull’altra. Capire questo è stato difficile. E l’aiuto che ho avuto dal mio bambino è stato determinante, perché lui era bravissimo a suggerire i punti di vista. Sua è stata addirittura l’osservazione che questi punti di vista dovevano di necessità trovarsi a livelli diversi. Solo più tardi ho capito che mi trovavo di fronte a una grande scoperta: “la prospettiva di uno spazio a 4 dimensioni”. Il vedutista, camminando, riprende il panorama da diversi punti di vista. Ma il movimento tra due elementi (inquesto caso tra il vedutista e il panorama) è reciproco: possiamo anche dire che il panorama si muove nei confronti del vedutista. È in pendant con lo spazio-tempo teorizzato da Einstein. E proprio il grande scienziato affermava che le origini del suo pensiero sono nella Magna Graecia. Per quale ragione i napoletani avevano una diversa prospettiva? Per la loro storia. Che comincia da quando i greci lasciarono la penisola balcanica e intrapresero le vie del mare. Una parte approdarono in Sicilia, un’altra parte in quella terra che ora si chiama Turchia. Altri ancora sbarcarono a Pithekoussai (=Ischia), dove lasciarono importanti reperti. Perché importanti? Per gli studiosi, soprattutto perché riportano, nell’VIII sec. a.C., il primo esempio di lingua greca, ma per noi soprattutto perché tra questi reperti non vi sono armi e c’è una coppa con un’iscrizione: “questa è la coppa di Nestore buona per bere ma chi beve da questa coppa subito lo coglierà desiderio di Afrodite”.

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religione / SUPERSTIZIONE

IL CULTO POPOLARE DELLE

ANIME PEZZENTELLE Angelica Sarno

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Napoletani sono un popolo ricco di tradizioni e credenze e alcune di queste possono apparire macabre, e fra queste va ricordata il culto delle Anime Pezzentelle, che incarna il rapporto dei napoletani con la morte. Prima che venisse costruito il Cimitero delle 366 fosse (primo cimitero al mondo per gli indigenti), i poveri venivano seppelliti in fosse comuni. Il culto delle Anime Pezzentelle o Anime del Purgatorio, ha ovuto origine nel 1600, quando la peste decimò di oltre due terzi la popolazione e nacque spontaneamente anche perché dopo il Concilio di Trento, la Chiesa propose la cura delle anime dei defunti come una delle principali pratiche religiose per stabilire, attraverso preghiere e messe in suffra-

gio, un legame liturgico tra vivi e trapassati. Quindi attraverso la preghiera, le anime che soggiornavano nel Purgatorio, espiavano più velocemente i loro peccati e volavano in Paradiso. Dal Canto suo la Chiesa Cattolica identificava in esso un modo per raccogliere offerte ed elargizioni tanto che era diventato obbligo di ogni buon credente preoccuparsi di lasciare un testamento che indicasse la cadenza di messe e preghiere in suffragio del defunto. Inoltre, i vivi, si preoccupavano di favorire l’ascesa delle anime in Paradiso e di assicurare loro il refrigerio dalle fiamme del Purgatorio durante il periodo di tribolazione. come mezzo per espiare i peccati terreni. Ma Napoli, come al solito è un mondo a sé e ciò che può sembrare strano in qualsiasi altro posto nella dimora di Partenope non lo è.

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La relazione diretta con l’anima va oltre, scavalca il limite del tempo della vita e penetra in quello che oltrepassa la vita attraverso rituali dove la pietas popolare mostra tutta le sue più profonde sfaccettature. Oggetto di culto diventano, soprattutto quelle anime anonime, abbandonate e senza nome, quelle i cui corpi, che non avevano beneficiato dei riti di compianto, venivano sepolti nelle fosse comuni. Il rapporto si stabilisce attraverso l’adozione da parte di una famiglia o di un singolo di un teschio, che secondo la tradizione è sede dell’anima, che viene scelto, curato, accudito e ospitato in apposite nicchie. L’anima pezzentella (dal latino petere: cioè chiedere per ottenere), anonima o abbandonata, invoca il refrigerio, l’alleviamento della pena, e colui che l’ha adottata, la persona in vita, a lei chiede grazia e assistenza. Da un tempo senza tempo la pietà popolare si prende cura di crani senza nome identificandoli con le anime del Purgatorio, anime il cui abbandono continuerebbe anche nell’altra vita se non fosse per le cure pietose dei devoti. Questi teschi si trovano nell’ipogeo del Complesso del Purgatorio ad Arco, dove scarabattoli, nicchie, piccoli altarini, raccontano una storia antica, dove si mescolano fede, preghiere e speranze. Lumini, fiori, rosari, piccoli oggetti, messaggi scritti e riposti tra le pieghe dei cuscini dove riposano i teschi,

testimoniano la cura, l’amore e la fiducia riposta in queste anime antiche. L’anima più amata è quella di Lucia. Il teschio col velo da sposa, ornato di una preziosa corona, è custodito accanto ad una coppia di teschi che, nell’immaginario popolare, rappresentano i servitori della giovane, una principessa morta giovanissima subito dopo le nozze. A quest’anima la tradizione popolare ha dedicato un complesso altarino eleggendola protettrice delle spose e mediatrice per preghiere e invocazioni. L’antico culto, sopravvissuto a guerre e carestie, si manifesta nel tempo in tutta la sua intensità, tanto che nel 1969 il Cardinale Ursi lo vieta perché era oramai troppo diffuso il ricorrere a resti anonimi, piuttosto che ai santi. Ancor oggi il rapporto di reciproco ausilio non si interrompe mai né di notte né di giorno: le grate che mettono in comunicazione la strada e l’ipogeo consentono alle voci, ai lamenti, alle preghiere di raggiungere in qualsiasi momento il teschio che gode della protezione, mentre un pensiero, un fiore, un lumino acceso, sostengono nella dura lotta per il Paradiso le anime del Purgatorio generosamente accolte nel vasto Ipogeo della chiesa. Oggi le anime pezzentelle possono essere visitate oltre che nella chiesa Chiesa di Santa Maria del Purgatorio ad Arco anche di Santa Luciella a Spaccanapoli, il Cimitero delle Fontanelle. M A G A Z I N E


TRINACRIA / STRAGI

IL MASSACRO DI BRONTE La sola colpa dei contadini è stata quella di intralciare gli interessi Britannici e sono stati trucidati dal criminale garibaldino BIXIO Mimmo Bafurno

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uando l’11 maggio del 1860 il burattino al soldo degli inglesi, tale Giuseppe Garibaldi sbarcò a Marsala, sapeva benissimo che, per chiudere con successo la sua impresa, gli sarebbe stato assolutamente necessario l’appoggio e la partecipazione attiva dei siciliani oltre che degli inglesi. Infatti due cannoniere battenti bandiera britannica incrociavano nel porto di Marsala e ciò trasse in inganno anche Acton, che scambiò la divisa dei Mille con quella dei soldati inglesi e non fu sparato nessun colpo, altrimenti gli scagnozzi partiti da Quarto avrebbero fatto la fine che fecessero i 300 galeotti insieme a Pisacane. Quindi il nizzardo Garibaldi capì che per ottenere il favore del popolo, egli si doveva proporre come il “liberatore”, ma anche come colui che poteva dare la possibilità di nascere a una nuova società, libera dalla miseria e dalle ingiustizie. Il 2 giugno, aveva emesso un decreto nel quale prometteva soccorso ai bisognosi e la tanto attesa divisione delle terre. Nell’entroterra siciliano si erano, dunque, accese molte speranze di riscatto sociale da parte soprattutto della media borghesia e delle classi povere, in particolar modo a Bronte, sulle pendici dell’Etna, dove la contrapposizione era forte

fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla Ducea di Nelson e gli abitanti del luogo. Su Bronte, dobbiamo dire, per chiarezza, che dal 1400 era proprietà di uno straniero, infatti nel 1494, con bolla pontificia, il territorio fu donato all’Ospedale Maggior di Palermo e nel 1799, Ferdinando IV per ringraziarsi l’ORBO Nelson, colui che impiccò più per invidia che per reale motivi bellici al pennone della nave, l’ammiraglio napoletano Francesco Caracciolo, gli donò Bronte. La popolazione di Bronte, esasperata da quattro secoli di dominazione, il 2 agosto insorse. Fu così che vennero appiccate le fiamme a decine di case, al teatro e all’archivio comunale. Quindi cominciò una caccia all’uomo e ben sedici furono i morti fra nobili, ufficiali e civili, tra cui anche il barone del paese con la moglie e i figlioletti, il notaio e il prete, prima che la rivolta si placasse. Purtroppo questi contadini avevano commesso un gravissimo errore, si erano messi contro la potenza dell’epoca, quella Inghilterra vittoriana e affarista, che come un vampiro succhiava il sangue a tutto il mondo e siccome la spedizione dei Mille fu promossa dalla vecchia Albione (permettetemi il termine fascista), Garibaldi fu costretto dal governo inglese ad intervenire, ma siccome non voleva sporcarsi le mani di sangue, mandò un suo leccaculo tale Bixio Nino da Genova, irrascibile e colleroso come pochi. Ora, se io libero gli italiani da un aggressore, come si favoleggiava e si favoleggia tutt’ora, perché devo ammazzare degli italiani? Eppure ciò avvenne e nessun libro di storia ne parla. Quando Bixio cominciò la propria inchiesta sui fatti accaduti una larga parte dei responsabili era fuggita altrove, mentre alcuni colsero l’occasione per accusare gli avversari politici. Il tribunale di guerra, in un frettoloso processo durato meno di quattro ore, giudicò ben 150 M A G A Z I N E


persone e condannò alla pena capitale l’avvocato Nicolò Lombardo (che, acclamato sindaco dopo l’eccidio, era stato additato come capo della rivolta), insieme con altre quattro persone: Nunzio Longi Longhitano, Nunzio Nunno Spitaleri, Nunzio Samperi e Nunzio Ciraldo Fraiunco, la cui storia merita una menzione speciale. La sentenza venne eseguita mediante fucilazione l’alba successiva: per ammonizione, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti. Ritoniamo sul concetto: un italino ammazza cinque italiani che lui avrebbe chiamato fratelli, perché volevano fasi giustizia contro una tirannia straniera... All’alba del 10 agosto, i condannati vennero portati nella piazzetta antistante il convento di Santo Vito e collocati dinanzi al plotone d’esecuzione. Alla scarica di fucileria morirono tutti ma nessun soldato ebbe la forza di sparare a Nunzio Ciraldo Fraiunco, il povero pazzo del paese, che risultò incolume. Fraiunco che non era capace d’intendere e di volere, malato di demenza (lo “scemo del villaggio” era stato arrestato per aver girato per le strade del paese soffiando in una trombetta di latta e cantilenando “Cappeddi guaddattivi, l’ura du judiziu s’avvicina, populu nun mancari all’appellu”). Il poveretto, nell’illusione che la Madonna Addolorata lo

13 13 Nella foto Nino Bixio (all’anagrafe Gerolamo), il macellaio di Bronte, che ha strade intitolate e divenne addirittura senatore del Regno.

avesse miracolato, si inginocchiò piangendo ai piedi di Bixio invocando la vita MA ricevette una palla di piombo in testa e così morì, colpevole solo di aver suonato una trombetta di latta. Inoltre ricostruzioni storiche hanno rivelato che il ruolo dell’Avvocato Lombardo era del tutto estraneo alla vicenda, e che lui non fosse fuggito per difendere il proprio onore. Quell’onore che quando fu distribuito da Dio, il carnefice genovese Bixio non era in fila. L’epiosdio cadde nel dimenticatoio finché non ne parlò Verga nel racconto Libertà inserito tra le Novelle rusticane, mentre Sciascia, cercò di scagionare per Bixio e i garibaldini, e di accentuazione delle responsabilità dei rivoltosi, infatti l’omissione della presenza storica dell’avvocato Lombardo, e soprattutto la trasformazione letteraria del “pazzo del paese” (tra i condannati a morte di Bixio) in “nano”, per attenuare la gravità della condanna capitale di un innocente per giunta non in pieno possesso delle sue facoltà mentali. I fatti di Bronte sono citati anche da Carlo Levi che ne “Le parole sono pietre” descrive Bronte nel dopoguerra. M A G A Z I N E


RICORDI

LA PIETRARSA DI MIO PADRE Le condizioni lavorative estreme del Real Opificio viste con gli occhi di un bambino di 10 anni. Tratto dal libro Attraverso un lungo Viaggio Armando Minichini

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io padre Vittorio, fu operaio calderaio in qualità di “tracciatore” delle Ferrovie dello Stato, fu assunto a Pietrarsa nel 1948 e ivi rimase fino alla definitiva chiusura dell’officina che avvenne il 15 novembre del 1975. Da piccolino ebbi modo di varcare varie volte il cancello di quella che veniva definita dalle maestranze la “Caienna ferroviaria”, in analogia con il famigerato bagno penale sull’Isola del diavolo nella Guyana francese. Il ricordo che conservo di quelle officine è di sbiaditi, enormi, numerosi capannoni brulicanti di uomini intenti nelle loro tipiche pesanti lavorazioni, immersi in un ambiente decisamente molto rumoroso. Nelle giornate di maltempo si coglieva distintamente il fragore dell’infrangersi delle onde del mare che

senza sosta si abbattevano contro gli sgretolati muri perimetrali della struttura. Dell’inverno rammento il gran freddo umido e il vento marino di libeccio che si insinuava prepotente attraverso finestroni rotti in un ambiente decisamente malsano. Quelle condizioni non riuscirono però a scalfire i cuori, a cancellare i buoni sentimenti di uomini avvezzi al sacrificio e uniti nell’intento di portare gloria alla nazione. Serbo un personale brutto ricordo di quelle officine, di quando all’età di dieci anni per la prima volta mio padre mi portò con sé poiché doveva recarsi in segreteria. Nel procedere per una stradina interna si udivano rumori sempre più forti e per la paura, terrorizzato, mi liberai di forza dalla sua mano e cercai la fuga. Iniziai a scappare tentando di guadagnare l’uscita che non mi riuscì di raggiungere perché prontamente riacciuffato e confortato da alcuni compagni di lavoro del mio babbo che subito dopo, chino su di me, mi esortava a non temere, rassicurandomi che quella

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assordante rumorosità proveniente da quei giganteschi capannoni faceva parte della loro normalità quotidiana. Da ferroviere, insieme a mio padre ormai da qualche anno in pensione, ebbi la possibilità di ritornarci in quell’ambiente piacevolmente trasformato che conservava ancora la sua maestosità ma in una condizione di quiete e lindore. Il mio papà osservando quel reparto montaggio rinato a nuova vita, con una palpabile commozione, mi ricordò il tempo di quando invece quel luogo era stato il palcoscenico di grandi lavorazioni, un ambiente decisamente sudicio, fumoso e senz’altro rumoroso. Durante il corso di una mia recente visita al Museo di Pietrarsa, aggirandomi per quei giganteschi padiglioni, percepivo ovunque la presenza di mio padre che in quell’ambiente spaziò da attore protagonista per ventisette anni insieme ai suoi tanto amati compagni di lavoro. Nell’ammirare quelle magnifiche macchine dalla nera livrea venivo rapito contemporaneamente da una sbornia emozionale, oltre la bellezza e lo splendore che spargevano tutt’intorno, riuscivo a intravedere attraverso il tempo offuscato dal tarlo dell’oblio, la figura di mio padre in tuta da lavoro intento nella propria attività. Dappertutto avvertivo la sua presenza che quasi si palesò, quando in un angolo appartato della enorme sala montaggio, sospesi alla parete, intravidi attrezzi che facevano bella mostra di sé, strumenti di misurazione che non avevo

mai visto prima, ed essendo stato mio padre un tracciatore, di sicuro chissà quante volte li aveva adoperati, su quell’acciaio forse ci saranno ancora impresse le sue impronte. A causa della notevole rumorosità ambientale dovuta alle particolari lavorazioni, alla fine degli anni Sessanta, le maestranze mossero una vertenza legale contro l’Azienda per “ipoacusia da rumore” riuscendo a spuntarla, ottenendo una pensioncina di invalidità. Fin da ragazzo ebbi la possibilità di ascoltare dalla viva voce del mio babbo di come gli addetti alle attività lavorative di Pietrarsa fossero soggetti a un lavoro particolarmente gravoso e oltremodo assordante nel realizzare giunzioni fra lamiere alquanto spesse, avvalendosi di martelli pneumatici, della forgiatura dei metalli e di pesanti mazze azionate dai calderai. In quelle officine di grandi riparazioni la materia veniva trasformata dagli operai che davano forma alle sbuffanti e fiere locomotive a vapore. La meccanica e la carpenteria delle macchine a fuoco erano decisamente piuttosto difficoltose. Quelle officine furono teatro anche di grandi ingegnosità, mio padre mi parlava dell’Ingegnere Milano che negli anni Sessanta brevettò una sua creatura che, sfruttando i campi magnetici, riusciva a misurare la durezza dei materiali

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ferrosi. Apparecchiatura ideanni Cinquanta, i miei geniata e realizzata a Pietrarsa e tori mi conducevano alla feche veniva utilizzata in sede sta della Befana organizzata per le prove sulle foglie a annualmente dal Dopolavoro molle delle balestre. ferroviario di Napoli per la diLa presenza ormai consolistribuzione dei pacchi dono ai data delle locomotive a trafigli dei ferrovieri. Conservo zione elettrica e diesel fu arancora gelosamente una foto tefice spietata dell’estinzione di una di quelle ricorrenze della trazione a vapore. Con nella quale si può notare la il consolidamento dell’eletmia adorata nonna materna, trificazione il numero delle Marianna, che affettuosamenPietrasa, Befana del ferroviere. vaporiere andò a ridursi prote chiamavo mammà, seduta gressivamente da circa 1800 alla mia sinistra, riconoscibile nel 1958 a quasi 500 nel 1973. Pietrarsa nella sua dal suo immancabile, elegante cappellino. lunga vita aveva generato, insieme alle locomoti- Mio padre andò in pensione nel 1976, un anno ve, anche una ragguardevole quantità di “sordi”. dopo che lo storico opificio Borbonico, attualRovistando tra i ricordi più cari di mio padre, mente Museo Nazionale Ferroviario, nato nel un fortunato giorno trovai una poesia annotata 1840, chiuse definitivamente i battenti, accompasu un anonimo foglietto volante, del suo amico e gnando la fine dell’era della trazione a vapore. Nei collega Salvatore: E surde ‘e Pietrarsa, versi scan- ricordi di mio padre restò indelebile quel triste zonati in dialetto napoletano dedicati alla glorio- momento in cui vide l’ultima locomotiva lasciasa officina e al danno fisico subito dagli operai, re le officine prima della loro definitiva chiusura, quasi incomprensibili da leggere e tradurre anche quella 640-088 che ivi ebbe la sua ultima grande per me che sono un napoletano. Mio padre stes- riparazione. so subì una perdita della capacità uditiva ricono- Il mio papà fu destinato a nuovo incarico presso sciuta e pari al 55%. il deposito locomotive di Napoli Smistamento, Pietrarsa è stato uno degli ultimi esempi di attivi- rimanendovi per il suo ultimo anno di lavoro con tà paleoindustriale, certamente il cardine dell’in- tanta nostalgia, avendo lasciato per sempre parte dustria della storia d’Italia, officine di laboriosità del suo cuore nella sua amata Pietrarsa. e soprattutto altare sacrificale degli uomini che vi Molte vaporiere sono ammirate nel Museo di hanno lavorato, quella generazione di ferrovieri Pietrarsa e altre ancora nel loro austero e immuche con il loro sacrificio diedero certamente lu- tato fascino in testa ai treni storici che vengono stro alla nazione. organizzati dalla “Fondazione FS Italiane” il cui Nonostante tutto ho anche qualche nostalgico ri- Direttore Generale è l’Ingegnere Luigi Francesco cordo di quelle officine quando da bambino, negli Cantamessa. E SURDE ‘E PIETRARSA ‘O surdo se capisce, nun ce sente, te’uarda ‘mmocca p’acchiappà ‘e pparole e accussì a Pietrarsa tanta ggente pe’ ‘ntreppetà na cosa ditta a volo te ‘uarda cu ciet’uocchie speretate pè cogliere na vrenzele ‘e parlata. So quase tutte quante ‘nzurdulute ‘sti centenare ‘ggente ‘e st’officina, ‘a mimica però a ognuna ‘aiute e arrangiano accussì c’a pantumina. Parene proprio ognuno tanta turze p’arremmerià ‘na vrezele ‘e trascurze! M A G A Z I N E

Il sordo si capisce, non ci sente, ti guarda in bocca per afferrare le parole e così a Pietrarsa tanta gente, per interpretare una cosa detta al volo, ti guarda con occhi spiritati per cogliere un semplice discorso. Sono quasi tutte insordite queste centinaia di persone di questa officina, la mimica però li aiuta e si arrangiano quindi con la pantomima. Sembrano tanti torsoli per cercare di recuperare un poco di discorso.


forse non tutti sanno che...

A NAPOLI Il PRIMO CIMITERO PER I POVERI

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r a il 1762, quando Ferdinando IV incaricò l’architetto Ferdinando Fuga, già progettista del Real Albergo dei Poveri, di costruire un luogo di sepoltura per i poveri, fuori le mura della città. Sorse così sulla collina di Poggio Reale, il cimitero di Santa Maria del Popolo (poichè la proposta fu fatta al Re dall’Ospedale degli Incurabili), conosciuto come il cimitero delle 366 fosse, anticipando di oltre 40 anni l’editto di Saint Claude di Napoleone.

Anzi la leggenda vuole che fu prorpio Gioacchino Murat, a quel tempo Re di Napoli, a ispirare il cognato Buonaparte. Questo cimitero fu il primo esempio cittadino di area specificamente dedicata ai pover ie fu inoltre in assoluto il primo cimitero al mondo ad essere costruito al di fuori delle mura cittadine; in precedenza, era comune, per i ceti popolari l’uso di sotterrare i morti nelle cavità di ospedali, chiese e grotte. L’area cimiteriale delle 366 Fosse è stata chiusa nel 1890, dopo aver accolto più di un milione di corpi. Il cimitero è articolato in forma di quadrato perimetrato da una muratura, che sul lato di ingresso ospita un edificio rettangolare destinato ai servizi. Il cimitero disponeva di 366 fosse, esse erano di forma quadrata e misuravano 4,20 metri per lato ed erano profonde 7 metri, e si accedeva dall’alto mediante un tombino che recava un numero progressivo da 1 a 366 corrispondente alla data del giorno stabilito per l’apertura annuale, scritto con numerazione araba. Il numero 366 corrispondeva alla data del 29 febbraio. L’unicità di questo cimitero consiste nella particolarità del suo impianto, concepito in maniera tale da consentire l’inumazione ordinata dei morti secondo un criterio cronologico. La procedura prevedeva che ogni giorno venisse aperta una fossa diversa, che a sera venisse poi richiusa e sigillata, dopo aver accolti i morti della giornata e ricevuta la benedizione del sacerdote. Inizialmente, le salme venivano semplicemente gettate nelle fosse. Nel 1875 una baronessa inglese, avendo perso la figlia durante un’epidemia di colera, volle contribuire a rendere più compassionevoli le operazioni di sepoltura nel cimitero. Ella donò un argano con cui calare nelle fosse una cassa dotata di un meccanismo di apertura sul fondo, permettendo in questo modo di adagiare le salme nelle fosse. Prima che scadesse l’anno, la tomba veniva aperta e le osse deposte dnell’ossario e la fossa era pronta ad accogliere nuovi cadaveri.

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Ciao sono Lea, non amo definirmi, poiché non voglio collocarmi o avere un unico obiettivo nella Vita! Ma in questo momento sono qui per cercare di aiutarvi, nel miglior modo possibile, nella scelta di alcune figure professionali per il vostro giorno da favola. Voi spose, come consuetudine in uno dei giorni più importanti della vostra vita, vi affiderete ad uno studio Fotografico, scelto in base ad un passaparola di voce pubblica, parenti, amici o semplicemente su un social!

Piacere...

LARA Videomaker 18

Il fotografo, da voi scelto, curerà in ogni minimo dettaglio, l’aspetto principale delle foto e grazie alla sua professionalità ripercorrerete, attraverso quelle immagini, il vostro giorno tanto atteso. È giusto che voi Spose, sappiate che in quel preciso momento, ignare di molte dinamiche, avrete chiuso un pacchetto di foto e video, semplicemente basandovi su un lavoro esclusivamente fotografico. Quest’ultimo, per la realizzazione del vostro video, si avvarrà o del “ragazzo” che lavora per quello studio o di un’equipe esterna che si occuperà del montaggio. Qui entriamo in scena Noi…chiamati semplicemente Videomaker! Noi principalmente “impariamo” a conoscervi! Noi cureremo ogni minimo dettaglio della vostra storia d’Amore, dalla semplice canzone che vi ha fatto innamorare, ai minimi particolari del matrimonio. Grazie all’esperienza che ci contraddistingue, “all’occhio” nascosto ma attento a tutto ciò che vi circonda, saremo sempre un passo avanti… per non perdere nessuna scena importante che suggella quel giorno! Abbiamo come obiettivo di realizzare un video superiore ai classici già visti sul mercato! Gli Sposi avranno un video fresco, nuovo, che racconta ciò che loro provano realmente e non un montaggio privo di richieste soggettive! Per quale motivo dovreste sceglierci? Non abbiamo schemi fissi, ne limiti né imposizioni! Vogliamo rispettare i vostri gusti, le vostre esigenze, raccontare una storia… la vostra STORIA! Quindi è bene scindere le due figure professionali…Noi amiamo definirci Creativi! E proprio come degli Artisti lavoreremo su alti standard qualitativi rispettando le vostre scelte! Noi non saremo i Protagonisti del vostro matrimonio, avrete la sensazione di essere scrutati semplicemente da lontano…saremo lì in un angolo nascosto… Il nostro Motto? #faifintachenoncisono Infatti ci sarete voi per Noi in prima linea…Perché siete voi i Nostri Protagonisti! M A G A Z I N E


GARGANO

QUANDO PADRE PIO FERMò i BOMBARDIERI AMERICANI V

ari piloti dell’aviazione angloamericana di varie nazionalità (inglesi, americani, polacchi, palestinesi) e di diverse religioni (cattolici, ortodossi, musulmani, protestanti, ebrei) che durante la seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre del 1943, si trovavano nella zona di Bari per compiere missioni in territorio italiano furono testimoni di un fatto clamoroso. Ogni volta che nel compimento delle loro mansioni militari si avvicinavano alla zone del Gargano, vicino a San Giovanni Rotondo, vedevano in cielo un frate che proibiva loro di sganciare lì le bombe. Foggia e quasi tutti i centri della Puglia furono più volte bombardati, ma sopra San Giovanni Rotondo non cadde nemmeno una bomba. Testimone diretto di questo evento fu il generale della forza aerea italiana, Bernardo Rosini che, allora, faceva parte del “Comando unità aerea” operante a Bari a fianco delle forze alleate. I piloti degli aerei raccontavano di un frate che appariva in cielo e faceva sì che gli aerei tornassero indietro. Tutti ridevano increduli ascoltando quei racconti. Ma poiché l’episodio si ripeteva, e con piloti sempre diversi, il generale americano, responsabile delle operazioni decise di intervenire di persona. Prese il comando di una squadriglia di bombardieri per andare a distruggere un deposito di materiale bellico tedesco che era stato segnalato proprio a San Giovanni Rotondo. Quando la squadriglia rientrò, il generale americano era sconvolto. Raccontò che, appena giunti nei pressi del bersaglio, lui e i suoi piloti avevano visto ergersi nel cielo la figura di un frate con le mani alzate. Le bombe si erano sganciate da sole, cadendo nei boschi, e gli aerei avevano fatto un’inversione di rotta, senza alcun intervento dei piloti. Qualcuno disse al generale comandante che a San Giovanni Rotondo viveva un frate con le stigmate, da tutti considerato un santo e che forse poteva essere proprio lui il dirottatore. Il generale era incredulo ma disse che, appena gli fosse stato possibile, voleva andare a controllare. Dopo la guerra, il generale, accompagnato da alcuni piloti, si recò nel convento dei Cappuccini. Appena varcata la soglia della sacrestia, Padre Pio gli si fece incontro e, mettendogli una mano sulla spalla, gli disse: “Dunque sei tu quello che voleva farci fuori tutti”. Il generale si inginocchiò davanti a lui. Padre Pio aveva parlato, come al solito, in dialetto beneventano, ma il generale era convinto che il frate avesse parlato in inglese. I due divennero amici. Il generale, che era protestante, si convertì al cattolicesimo”.

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LA GRANDE CANZONE NAPOLETANA

CHI ERA LA SIGNORINELLA PALLIDA CHE TURBAVA I SOGNI DI DON CESARE il notaio? Pina Iovane

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l testo della canzone “Signorinella” è stato scritto da Libero Bovio in funzione di una canzone composta da Nicola Valente per l’interpretazione di Pasquariello, cose che non diminuiscono la bellezza della poesia, anche se sacrificata alle esigenze della musica Ma, esattamente, chi è la Signorinella pallida? Chi è lo studente divenuto Notaio? La signorinella è una popolana che abita nei pressi dell’Università dove il giovane Cesare studiava per diventare notaio. Ancora oggi, molti studenti soggiornano stabilmente a Napoli per poter studiare, specialmente chi proviene da piccoli centri ed i mezzi di trasporto non consentivano il rientro frequente alle proprie residenze. All’epoca della Canzone, questi studenti erano di due categorie, i figli del Popolo, che studiavano grazie a Borse di studio o ad elargizioni di Mecenati, ed i figli di benestanti. I primi pensavano a trovare un buon partito, visto che a Napoli era usanza dare le figlie della Borghesia ai futuri Laureati “’e fora” e non a giovani promesse indigene, oltre ad accoglierli, ancora studenti, come “innamorati ufficiali” in famiglia e foraggiarli. Gli altri, invece, pensavano sempre di tornare al loro nido, nel frattempo, faceva loro comodo conoscere una ragazza dei vicoli, corteggiarla per ottenere dei favori gratis, come un pranzetto, una lavata alla biancheria ed altro che si poteva supporre. La ragazza si illudeva, perché anche lei stima “o giovene ‘e fora” e non il coetaneo che conosce, perché “spera” di andar via dai vicoli, mentre difficilmente il ragazzo napoletano uscirà dallo status sociale cui appartiene. Finiti gli studi, regolarmente “o giovene ‘e fora” sparisce, insalutato ospite, e si farà una posizione con un matrimonio con benestante, mentre la ragazza, se non resta nubile “zitella”, sposerà il giovane che aveva messo da parte. Naturalmente a perdere è stato lo studente divenuto, in questa poesia, notaio. Avrà pure potere, soldi, mezzi economici, ma gli manca qualcosa. Quel qualcosa che il quotidiano della vita gli ha portato via, e

dal quale non si può fuggire. Allora ripensa al lontano amore, alle rose che non colse, alla Signorinella Pallida. Uno studente di Serino, che, negli anni sessanta, frequentava una matura Signorinella. La storia finì con l’evirazione del malcapitato quando “l’amata” intuì le vere intenzioni del “ragioniere”. La cosa fu riportata dai giornali e divenne oggetto di lazzi e considerazioni “oscene” che chi conosce Napoli può immaginare. Libero Bovio evidentemente conosciuto bene queste persone e le ha ben delineate nella Poesia. L’inizio è immediato, le prime tre strofe esprimono il rimpianto, “il notaio” parla alla Signorinella, le dice che sogna sempre il tempo trascorso a Napoli, 20 anni prima in un clima diverso, mentre al paese nevica, il caminetto si è spento e la sua vita è vuota e monotona. Dice di essere stanco di quella vita, che è come una condanna, inesorabile, mentre suona la campana della chiesetta del Gesù. Forse ricorda la campana della Chiesa del Gesù Vecchio a Napoli, che sentivano allora insieme? Nelle tre strofe seguenti dimentica la neve ed il freddo del presente, pensa al passato che si fa più nitido, ricorda i bei tempi di baldoria, la felicità di due giovani fatte di niente, i Brindisi con i bicchieri colmi d’acqua ad un amore povero e innocente. Di Signorinella ricorda gli occhi, in cui brillava una luce di speranza e del sogno di sfuggire alla vita grama dei vicoli, una carezza rubata, ma non ricorda il nome, ricorda solo il tempo, quel tempo che non si dimentica, che ha un nome lungo e breve: giovinezza! Ricorda però bene che nel giorno dell’addio, con la promessa di ritornare per restare, alla asola del paltò Signorinella gli mise una pansè, dicendogli, commossa, “Non ti scordar di me!”, quasi sicura di non rivederlo più. Sembra rivivere l’addio tra la Signorina Felicita e Guido Gozzano, con la differenza che la Felicita era ricca e promessa “al molto signor notaio”, in ambiente opulento e contadino, mentre la Signorinella era povera e con una segreta speranza di migliorare la sua vita. Nelle altre strofe parla del “suo” presente, parla di sé e pensa che anche Signorinella viva come Lui, di rimpianto e di malinconia.

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IL TESTO Signorinella pallida, dolce dirimpettaia del quinto piano, non v’è una notte ch’io non sogni Napoli, e son vent’anni che ne sto’ lontano! Al mio paese nevica, e il campanile della chiesa è bianco, tutta la legna è diventata cenere, io ho sempre freddo e sono triste e stanco! Lenta e lontana, mentre ti penso suona la campana della piccola chiesetta del Gesù e nevica, vedessi come nevica .... ma tu, dove sei tu? Bei tempi di baldoria, dolce felicità fatta di niente: Brindisi coi bicchieri colmi d’acqua al nostro amore povero e innocente.

Parla degli anni e i giorni che scorrono uguali e grigi, con monotonia. Ignora che quella è la vita del Notaio di paese, non certo di chi deve lavorare per vivere. Dice “le foglie più non rinverdiscono, signorinella, che malinconia!”, parla di sé e basta! “Tu innamorata e pallida più non ricami innanzi al tuo telaio”, ed allora come vive? “io qui son diventato il buon don Cesare, porto il mantello a ruota e fo’ il notaio”, questo è sicuro! “Il mio piccino, sfogliando un vecchio libro di latino, ha trovato, indovina, una pansè” e se non l’avesse trovata, non ci sarebbe stato il ricordo....”perchè negli occhi mi spuntò una lacrima? Chissà, chissà perchè!” forse anche il Notaio ha una coscienza! Ha vissuto molti anni a Napoli, Capitale di un Regno perduto, e non ha capito niente del tessuto umano che vive di lavoro dignitoso, anche se di poco reddito! Queste storie erano la normalità nelle città sedi di Università, o Scuole Superiori. Cambia la mentalità e le professioni, ma i personaggi sono perfettamente uguali, sempre. Quanta differenza col buon Don Cesare, con il mantello a ruota, e fa il Notaio! In comune hanno solo il rimpianto per la gioventù, ma lo studente, per ricordare, non ha bisogno di un figlio che scopre una pansè, ricorda e basta, perché il suo amore non aveva avuto alcun interesse materiale.

Negli occhi tuoi passavano una speranza, un sogno, una carezza .... avevi un nome che non si dimentica, un nome lungo e breve: giovinezza! Amore mio! Non ti ricordi che, nel dirmi addio, mi mettesti all’occhiello una pansè e mi dicesti, con la voce tremula: “Non ti scordar di me!” E gli anni e i giorni passano, uguali e grigi, con monotonia, le nostre foglie più non rinverdiscono, signorinella, che malinconia! Tu innamorata e pallida più non ricami innanzi al tuo telaio, io qui son diventato il buon don Cesare, porto il mantello a ruota e fo’ il notaio. Il mio piccino, sfogliando un vecchio libro di latino, ha trovato, indovina, una pansè .... perchè negli occhi mi spuntò una lacrima? Chissà, chissà perchè! Lenta e lontana, mentre ti penso, suona la campana della piccola chiesetta del Gesù .... e nevica, vedessi come nevica .... ma tu .... dove sei tu?

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CALABRIA / PERSONAGGI

L’artista che diventò cavaliere La Storia del pittore Mattia Preti che divenne Cavaliere di Malta Daniela La Cava

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ra tutti gli ordini cavallereschi tutt’oggi esistenti, il posto d’onore spetta sicuramente ai famosissimi Cavalieri di Malta che fin tempi dalle crociate contendevano con i templari prestigio e ricchezze al di sopra dell’ordinario. Naturalmente non tutti gli ordini sopravvissero, stroncati dalle nebbie del tempo o annientati da re e papi come accadde per i Templari, i più potenti cavalieri mai esistiti e capostipiti degli ordini cavallereschi di monaci guerrieri. Questa sorte non si estese all’ordine degli “Ospitalieri di San Giovanni” i quali, da monaci dediti alle cure dei pellegrini, si evolsero fino a diventare i temibili guerrieri che tutti conosciamo, stanziandosi in isole paradisiache come Cipro, Rodi e infine Malta! Proprio quest’ultimo insediamento, legò il suo nome a quello dell’ordine: una comunità di monaci ospitalieri e guerrieri che aprirono la loro dimora a grandi artisti che ne accrebbero il nome e il prestigio. L’artista più conosciuto che dimorò preso i cavalieri maltesi fu Michelangelo Merisi conosciuto come Caravaggio, ma a causa del suo temperamento irascibile e bellicoso dovette fuggire via dall’isola senza ricevere l’investitura. Sorte diversa ebbe invece un altro grande genio dell’arte seicentesca, dai natali mediterranei insignito della croce maltese, che soggiornò e lavorò tra i membri dell’ordine, così altamente ammirato e amato da essere sepolto in una postazione d’onore nella Chiesa di San Giovanni a Malta. Si tratta del famoso pittore Mattia Preti, ricordato come il Cavalier Calabrese! Nonostante rappresenti uno dei massimi esponenti della pittura secentesca e le sue opere troneggino

nei più grandi musei del mondo, il suo nome oltre i confini dell’isola, viene spesso oscurato da altri pilastri dell’arte barocca, un’accoglienza diversa da quella che tutt’oggi riceve a Malta. Eppure, oltrepassando le acque che dividono la punta più estrema della Calabria dall’isola di Malta, Mattia Preti rappresenta un’icona che non può essere allontanata dagli ideali cavallereschi dell’ordine né dall’Olimpo dei più grandi artisti conosciuti. Nonostante il talento indiscusso però, non possiamo negare che una parte di fascino che esercita sui suoi ammiratori dipenda dalla bianca croce che con orgoglio risalta dalla tunica vermiglia come il sangue, che l’artista indossava con orgoglio, anche mentre si ritraeva tenendo in mano i simboli delle passioni che lo accompagneranno per tutta la vita: la pittura e la cavalleria. Esperto spadaccino, dall’animo guerriero ha sempre posto la sua spada e i suoi averi al servizio dei più bisognosi, una nobiltà d’animo che ben si addice alla suprema arte che lo ha sempre caratterizzato e di cui rimane memoria. La sua essenza infatti non si è mai oscurata, tradita dalle nuove tendenze che calpestano la grandezza trascorsa, ma si respira ancora, tra le imponenti pareti della grande cattedrale, nel trionfo di dorate atmosfere barocche tra decori, stemmi e simboli che si alternano alle gigantesche figure che immortalano scene bibliche, in uno scenario unico il cui vertice risiede nella magnificenza della volta. Mattia Preti ricevette da papa Urbano VIII l’investitura cavalleresca 20 anni prima di trasferirsi a Malta dove visse intensamente fino alla fine.

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eccellenze / CALABRIA

IL PEPERONCINO CALABRESE

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l PEPERONCINO CALABRESE una spezia utilizzata in molte ricette tradizionali grazie alla sua piccantezza al profumo e dall’aroma inconfondibile. Il suo gusto piccante è entrato a far parte di molte cucine regionali ed è indispensabile per la buona riuscita di un gran numero di piatti. Il primo posto va tuttavia alla Calabria che, nel corso del tempo, ha sviluppato con il peperoncino un legame indissolubile. Il peperoncino proviene dal Nuovo Mondo, dove era coltivato da migliaia di anni e fu Colombo a portare questa pianta in Spagna, dal ritorno del suo primo viaggio in America. Da qui si diffuse rapidamente in tutta Europa e giunse in Italia grazie all’influenza culturale che gli arabi avevano nelle nostre regioni meridionali. Si diffuse prima in Sicilia, per poi diventare comunissima in Calabria, dove vennero apprezzate da subito le sue proprietà antibatterichee la facilità di coltivazione, favorita dalla tipologia di terreno e dal clima mediterraneo. I suoi frutti, inoltre, erano molto semplici da conservare, sia secchi che sott’olio, e rappresentavano quindi una valida ed economica alternativa alle carissime spezie orientali. In Cucina, viene usato come condimento (fresco, sott’olio o essiccato) o come ingrediente per molte ricette: primi piatti, salse, insaccati e, di recente, viene impiegato anche nella preparazione di dolci, liquori e birre. Alcune di queste specialità sono diventate un simbolo del legame di questa terra con il gusto piccante. Prima fra tutte la ’Nduja, il salame spalmabile a base di carne di maiale macinata a cui vengono aggiunte diverse spezie e una buona quantità di peperoncino. Viene solitamente gustata su fette di pane caldo o anche come base di sughi, salse o in abbinamento ai formaggi. La soppressata è altrettanto importante in quanto si tratta di uno dei salumi “nobili” della tradizione e tra i più apprezzati. Viene lavorata con ingredienti di grande pregio, ovvero la migliore carne derivante dalle cosce di suino e poi mescolata ad aromi e spezie. Il peperoncino è essenziale per concedere al salume il suo tipico sapore e colore. Se invece vogliamo preservarne la freschezza e l’aroma durante il corso dell’anno, è possibile conservare i peperoncini sott’olio. Sono molte le proprietà – reali e presunte – attribuite al peperoncino. Tra esse una delle più famose è quella relativa all’aiuto che tale alimento piccante darebbe sotto le lenzuola, tanto che spesso viene chiamato “Viagra dei poveri”. Ma davvero il peperoncino può aiutare e potenziare l’erezione del pene e contrastare quella che una volta veniva chiamata “impotenza”, cioè la disfunzione erettile? La risposta a questa domanda è SI. Il peperoncino, specie di buona qualità ed assunto con moderazione (quantità ridotte e non più di due volte a settimana), può effettivamente agire come blando vasodilatatore naturale e ciò può determinare una effettiva maggiore facilità di raggiungere e mantenere una erezione efficace e per un tempo maggiore. Inoltre il peperoncino ha un effetto infiammante sulla prostata e ciò può tradursi in un rapporto sessuale più ricco di emozioni piacevoli. A questo si aggiunge – come spesso avviene negli integratori stimolanti – una percentuale non indifferente di “effetto placebo” che può solo che aiutare l’uomo a mantenere una potente erezione.

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tutte le donne del mondo hanno diritto ad esprimersI Per la rubrica “Arte” ho avuto il piacere di chiacchierare con Matteo Altieri, imprenditore e artigiano che opera nella zona di Capaccio-Paestum, che ha fatto dell’arte un percorso di vita ricco di esperienze, conoscenze e soddisfazioni professionali. Lo scorso Ottobre, Altieri, con l’Associazione Arti e Mestieri “I Colori Del Sole” di cui è presidente, ha inaugurato la Sala Mostra con la collettiva 10_100_CENTOMILA (Tutte le donne del mondo hanno diritto di Esprimersi). Sita in Via Giosuè Carducci nella carezzevole cornice di Capaccio paese la collettiva ha visto la partecipazione di 10 donne artiste: Paola Paolino, Enza Polito, Nera D’Auto, Cinzia Bisogno, Rosita Percacciuolo, Gilda Pantuliano, Francesca Confessori, Anna Di Maria, Lucia di Salvatore e Viktorya Macrì. Alla presenza del sindaco di Capaccio Paestum, Franco Alfieri, sempre attento a dar voce e spazio ad attività volte alla cultura e alla valorizzazione del territorio, è stato tagliato il nastro inaugurale della Sala Mostre, che ospiterà esposizioni collettive e personali di artisti autoctoni e non. Con un passato di mercante d’arte, gallerista e proprietario di un’azienda di artigianato che si occupa di complementi d’arredo, Altieri nutriva da tempo l’idea di uno spazio espositivo che potesse dar voce all’arte in tutte le sue sfaccettature. Egli vanta, infatti, un’approfondita conoscenza del mondo dell’arte e delle gallerie, in passato è stato presidente di associazioni che si dedicavano esclusivamente alla pittura, alla scultura, alla ceramica, e proprietario di gallerie che esponevano opere d’arte di artisti selezionati, con i quali intraprendeva un percorso di crescita nel tempo, proponendo gli stessi nel mercato e nel sistema arte, e organizzando M A G A Z I N E


esposizioni artistiche per gli stessi, anche di un certo spessore (sua l’organizzazione della collettiva del 1993 “100 artisti per Agropoli”). Da anni manifestava il desiderio di riprendere la sua passione, e di aprire una piccola galleria, attraverso l’associazione che presiede, per mero amore artistico, incentivato anche dalle potenzialità offerte dal centro storico di Capaccio Paese, e di Capaccio Paestum (un territorio ricco di storia e cultura, sede del celebre sito archeologico di Paestum, dal 1998 Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO) e di avviare un progetto educativo e culturale importante teso a incentivare il turismo e a valorizzare maggiormente la zona più antica del comune cilentano. Scopo e finalità dell’associazione è quella di dar spazio agli artisti, affinché attraverso un lavoro di squadra si promuova e divulghi l’arte attraverso le espressioni degli stessi, e senza nessuno scopo di lucro, è lo stesso Altieri che sottolinea l’importanza di un luogo ricreativo aperto tutti, e soprattutto, a titolo gratuito. Un inizio importante rimarcato dalla presenza di sole donne, che ha voluto evidenziare quanto queste si prodighino attraverso l’arte a dar voce alle emozioni e affermare le proprie capacità, dal figurativo all’astratto, anime delicate e forti insieme, che hanno creato l’armonia e il leggero equilibrio a cui solo l’arte riesce a dar corpo. Per promuovere la comunicazione, l’associazione ha già in programma nuove mostre collettive e personali, con la possibilità per gli artisti di esporre le proprie opere anche in permanenza. Attualmente lo spazio riservato alle esposizioni è la sala d’ingresso della struttura ospitante, ma assicura Matteo Altieri, che a breve cominceranno i lavori di ampliamento esterni, con la realizzazione di uno spazio pertinente al locale adibito, che potrà ospitare, maggiormente nei mesi in cui il tempo lo permetterà, appassionati d’arte in tutte le sue forme, pittori, scultori, ceramisti, letterati, scrittori, musicisti, ballerini, attori, con l’intento di creare una comunicazione decisiva e diretta tra gli associati, i simpatizzanti e gli artisti, in un clima da caffè letterario. L’associazione si propone dunque anche come strumento culturale di crescita e opportunità, uno spazio ricreativo teso fondamentalmente all’aggregazione e all’informazione. A questo si aggiunge, un’idea ancora embrionale, di raccogliere in un testo unico, l’eccellenza del parterre artistico del Meridione. Restiamo dunque in attesa delle prossime novità.

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la foto del mese

Castel dell’Ovo 26

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La fortezza che poggia su un uovo

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