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LA GRANDE cANZONE NApOLETANA chI eRA lA SIgnORInellA pAllIdA che tuRbAvA I SOgnI dI dOn ceSARe Il nOtAIO?

LA GRANDE cANZONE NApOLETANA

ChI era la SIGNorINella pallIda Che turBaVa I SoGNI dI doN CeSare Il NotaIo?

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pina Iovane

Il testo della canzone “Signorinella” è stato scritto da Libero Bovio in funzione di una canzone composta da Nicola Valente per l’interpretazione di Pasquariello, cose che non diminuiscono la bellezza della poesia, anche se sacrificata alle esigenze della musica Ma, esattamente, chi è la Signorinella pallida? Chi è lo studente divenuto Notaio? La signorinella è una popolana che abita nei pressi dell’Università dove il giovane Cesare studiava per diventare notaio. Ancora oggi, molti studenti soggiornano stabilmente a Napoli per poter studiare, specialmente chi proviene da piccoli centri ed i mezzi di trasporto non consentivano il rientro frequente alle proprie residenze. All’epoca della Canzone, questi studenti erano di due categorie, i figli del Popolo, che studiavano grazie a Borse di studio o ad elargizioni di Mecenati, ed i figli di benestanti. I primi pensavano a trovare un buon partito, visto che a Napoli era usanza dare le figlie della Borghesia ai futuri Laureati “’e fora” e non a giovani promesse indigene, oltre ad accoglierli, ancora studenti, come “innamorati ufficiali” in famiglia e foraggiarli. Gli altri, invece, pensavano sempre di tornare al loro nido, nel frattempo, faceva loro comodo conoscere una ragazza dei vicoli, corteggiarla per ottenere dei favori gratis, come un pranzetto, una lavata alla biancheria ed altro che si poteva supporre. La ragazza si illudeva, perché anche lei stima “o giovene ‘e fora” e non il coetaneo che conosce, perché “spera” di andar via dai vicoli, mentre difficilmente il ragazzo napoletano uscirà dallo status sociale cui appartiene. Finiti gli studi, regolarmente “o giovene ‘e fora” sparisce, insalutato ospite, e si farà una posizione con un matrimonio con benestante, mentre la ragazza, se non resta nubile “zitella”, sposerà il giovane che aveva messo da parte. Naturalmente a perdere è stato lo studente divenuto, in questa poesia, notaio. Avrà pure potere, soldi, mezzi economici, ma gli manca qualcosa. Quel qualcosa che il quotidiano della vita gli ha portato via, e dal quale non si può fuggire. Allora ripensa al lontano amore, alle rose che non colse, alla Signorinella Pallida. Uno studente di Serino, che, negli anni sessanta, frequentava una matura Signorinella. La storia finì con l’evirazione del malcapitato quando “l’amata” intuì le vere intenzioni del “ragioniere”. La cosa fu riportata dai giornali e divenne oggetto di lazzi e considerazioni “oscene” che chi conosce Napoli può immaginare. Libero Bovio evidentemente conosciuto bene queste persone e le ha ben delineate nella Poesia. L’inizio è immediato, le prime tre strofe esprimono il rimpianto, “il notaio” parla alla Signorinella, le dice che sogna sempre il tempo trascorso a Napoli, 20 anni prima in un clima diverso, mentre al paese nevica, il caminetto si è spento e la sua vita è vuota e monotona. Dice di essere stanco di quella vita, che è come una condanna, inesorabile, mentre suona la campana della chiesetta del Gesù. Forse ricorda la campana della Chiesa del Gesù Vecchio a Napoli, che sentivano allora insieme? Nelle tre strofe seguenti dimentica la neve ed il freddo del presente, pensa al passato che si fa più nitido, ricorda i bei tempi di baldoria, la felicità di due giovani fatte di niente, i Brindisi con i bicchieri colmi d’acqua ad un amore povero e innocente. Di Signorinella ricorda gli occhi, in cui brillava una luce di speranza e del sogno di sfuggire alla vita grama dei vicoli, una carezza rubata, ma non ricorda il nome, ricorda solo il tempo, quel tempo che non si dimentica, che ha un nome lungo e breve: giovinezza! Ricorda però bene che nel giorno dell’addio, con la promessa di ritornare per restare, alla asola del paltò Signorinella gli mise una pansè, dicendogli, commossa, “Non ti scordar di me!”, quasi sicura di non rivederlo più. Sembra rivivere l’addio tra la Signorina Felicita e Guido Gozzano, con la differenza che la Felicita era ricca e promessa “al molto signor notaio”, in ambiente opulento e contadino, mentre la Signorinella era povera e con una segreta speranza di migliorare la sua vita. Nelle altre strofe parla del “suo” presente, parla di sé e pensa che anche Signorinella viva come Lui, di rimpianto e di malinconia.

Parla degli anni e i giorni che scorrono uguali e grigi, con monotonia. Ignora che quella è la vita del Notaio di paese, non certo di chi deve lavorare per vivere. Dice “le foglie più non rinverdiscono, signorinella, che malinconia!”, parla di sé e basta! “Tu innamorata e pallida più non ricami innanzi al tuo telaio”, ed allora come vive? “io qui son diventato il buon don Cesare, porto il mantello a ruota e fo’ il notaio”, questo è sicuro! “Il mio piccino, sfogliando un vecchio libro di latino, ha trovato, indovina, una pansè” e se non l’avesse trovata, non ci sarebbe stato il ricordo....”perchè negli occhi mi spuntò una lacrima? Chissà, chissà perchè!” forse anche il Notaio ha una coscienza! Ha vissuto molti anni a Napoli, Capitale di un Regno perduto, e non ha capito niente del tessuto umano che vive di lavoro dignitoso, anche se di poco reddito! Queste storie erano la normalità nelle città sedi di Università, o Scuole Superiori. Cambia la mentalità e le professioni, ma i personaggi sono perfettamente uguali, sempre. Quanta differenza col buon Don Cesare, con il mantello a ruota, e fa il Notaio! In comune hanno solo il rimpianto per la gioventù, ma lo studente, per ricordare, non ha bisogno di un figlio che scopre una pansè, ricorda e basta, perché il suo amore non aveva avuto alcun interesse materiale. Signorinella pallida, dolce dirimpettaia del quinto piano, non v’è una notte ch’io non sogni Napoli, e son vent’anni che ne sto’ lontano!

Al mio paese nevica, e il campanile della chiesa è bianco, tutta la legna è diventata cenere, io ho sempre freddo e sono triste e stanco!

Lenta e lontana, mentre ti penso suona la campana della piccola chiesetta del Gesù e nevica, vedessi come nevica .... ma tu, dove sei tu?

Bei tempi di baldoria, dolce felicità fatta di niente: Brindisi coi bicchieri colmi d’acqua al nostro amore povero e innocente.

Negli occhi tuoi passavano una speranza, un sogno, una carezza .... avevi un nome che non si dimentica, un nome lungo e breve: giovinezza!

Amore mio! Non ti ricordi che, nel dirmi addio, mi mettesti all’occhiello una pansè e mi dicesti, con la voce tremula: “Non ti scordar di me!”

E gli anni e i giorni passano, uguali e grigi, con monotonia, le nostre foglie più non rinverdiscono, signorinella, che malinconia!

Tu innamorata e pallida più non ricami innanzi al tuo telaio, io qui son diventato il buon don Cesare, porto il mantello a ruota e fo’ il notaio. Il mio piccino, sfogliando un vecchio libro di latino, ha trovato, indovina, una pansè .... perchè negli occhi mi spuntò una lacrima? Chissà, chissà perchè!

Lenta e lontana, mentre ti penso, suona la campana della piccola chiesetta del Gesù .... e nevica, vedessi come nevica .... ma tu .... dove sei tu?

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